Fandom: RP: Musica
Personaggi: ,
Shot appartenente alla serie Eine Kugel Reicht, scritta con Tabata.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Fler/Chakuza.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Lemon, Slash.
- "L’aria è tesa, in casa di Chakuza."
Note: Questa storia è stata scritta tipo in una notte il 6 ottobre scorso @___@ Questo dimostra che:
a) c’è qualcosa che non va in me;
b) il Flerkuza mi owna da moltissimo tempo; <- capite il dramma che dovevo vivere in silenzio?
c) c’è davvero qualcosa di grosso che non va in me u_u
E questo è il proverbiale quanto. Nel senso che non ci sono delle motivazioni reali dietro questa storia, a parte il fatto che ne fangirlo indecentemente i protagonisti e che volevo una scusa per parlare della schiena del Chaku, che è un’attrazione turistica al pari del pancino del Bu e degli occhi di Fler.
Il titolo! è rubato ad una canzone (bellissima, io la amo) dell’ultimo album del Bu. Anche se in realtà non sta nell’ultimo album vero e proprio, sta nella limited edition. Ma insomma, tant’è. È meraviglia.
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ES GIBT KEIN WIR

L’aria è tesa, in casa di Chakuza. È così più o meno sempre. Il problema – enorme – di quest’uomo è che Bill non si fa più vivo – lo so perché ci sono andato io, da lui. Ormai è anche una mia responsabilità, non può pensare di sparire e che a me la cosa non importi – ma dentro questa casa il suo profumo è ancora fortissimo, perfino attaccato ai cuscini del divano, perciò non me ne stupisco. Non stupirmene, però, non mi impedisce di percepire la tensione allargarsi attorno a lui come una macchia d’olio. E finisce per sporcare anche me, è naturale.
D’altronde, con la vita che ho fatto sia prima che dopo la fama, ho imparato in fretta l’importanza delle sensazioni. Come della paura, per esempio. Riconoscere la paura nell’avversario che ti fronteggia è fondamentale, perché spesso è la paura che ti fa estrarre l’arma e ti convince ad usarla.
Al momento, Chakuza non ha paura. È frustrato, però. E forse sarebbe meglio se fosse solo spaventato. Anche con una pistola in mano. Saprei gestirmelo, saprei calmarlo – è un talento che impari per strada, minaccia dopo minaccia; impari a renderle tutte inoffensive. Anis me l’ha insegnato puntandomi contro il coltello per ogni cosa, durante i primi tempi della nostra conoscenza. Io dicevo una qualche cazzata o facevo qualche casino con un fornitore o con un cliente, lui puntava il coltello e diceva “Dammi un motivo per non farlo”. La lama contro la mia pelle era ghiacciata ed io tremavo, ma lui mi guardava con quegli occhi così seri da non lasciare dubbio che l’avrebbe fatto davvero, se non mi fossi inventato immediatamente qualcosa, perciò lo facevo. Inventavo. Toglievo i freni alla lingua e parlavo parlavo parlavo. Alla fine, la cosa giusta la dicevo. Lui metteva via il coltello con un mezzo sorriso compiaciuto e mi diceva che ne avevo di strada da fare prima di diventare davvero Frank White. Ed io riprendevo puntualmente a respirare.
Togliere i freni. È una cosa che Bushido ha insegnato a tutti noi.
I limiti non esistono davvero, a meno di volerli vedere per forza.
È per questo che Bill Kaulitz ha continuato a frequentare questa casa – almeno prima di decidere, per motivi di cui non mi parla ma che io so lo stesso, che non fosse più il caso – è per questo che Chakuza si sta mettendo contro la propria stessa etichetta per permettere a Bill di farlo – con scarsi risultati, visto che appunto Bill non vuole più – ed è anche per questo che io sono qui adesso, che meno di due settimane fa mi sono fatto scopare su un fottuto tappeto che adesso per qualche motivo – che immagino benissimo – non c’è più ed è anche per questo che Chakuza trema d’ansia su questo divano, al mio fianco, ed io non mi muovo e non faccio niente che non sia fissare un punto a caso davanti a me e mordermi una guancia.
Abbiamo perso il senso del limite.
Anis ce l’ha tolto quando ha deciso di spingere il limite stesso oltre il possibile, ficcando Bill Kaulitz in una crew, ed è morto portandoselo via, quel fottuto limite del cazzo.
Siamo rimasti senza. È palese che non sappiamo dove andare a sbattere la testa. È palese che stiamo in mezzo ad un casino e non riusciamo a tirarcene fuori. Anche se, cazzo, vogliamo.
- Ti va un’altra birra?
Chakuza non vuole che vada via. Probabilmente perché non vuole ritrovarsi domattina con i mobili divelti e l’appartamento che sembra un campo di battaglia. Ognuno ha il suo modo di esorcizzare la rabbia, io la butto nelle canzoni e smerdo la gente, Chakuza distrugge casa.
Scrollo le spalle. Non è né un sì né un no, lascio che Chakuza interpreti come gli pare e, come immaginavo, interpreta per un cenno positivo. Ecco qua, tutto chiaro, non vuole che vada via perché ci tiene ad avere ancora un tetto sopra la testa, punkt.
Lo vedo che s’infila in cucina e ne viene fuori con altre due birre. Le birre sono la salvezza di Chakuza. Saranno anche il motivo per cui io palesemente non riuscirò mai a smettere di bere, ma fondamentalmente sono la salvezza di Chakuza. Quando è in crisi e non sa cosa dirti e neanche cosa fare con te, ma l’importante è che tu resti lì dove sei e non ti muova, così lui non deve fronteggiare situazioni inaspettate, eccolo che tira fuori la birra.
Prendo la Beck’s fra le mani e mi lascio congelare un po’ i polpastrelli.
Sono nervoso come di fronte a un giudice. Ho voglia di menare le mani per il puro gusto di lasciare scivolare via l’ansia coi cazzotti e pure con un po’ di sangue, se è il caso. Non so se Chakuza stia pensando la stessa cosa. Ho un po’ paura del nostro modo di lasciare scivolare via l’ansia.
- Stanotte resti qui? – chiede poco più tardi, casualmente, mandando giù l’ultimo sorso di birra.
Io ci metto effettivamente un po’ a capire che intende “come le altre volte, prima”. Cioè vuole che mi alzi dal divano, mi trasferisca sulla poltrona e mi avvolga come uno straccio vecchio, così lui può tirarmi addosso una coperta ed illudersi di stare facendo qualcosa di buono tenendomi qui invece che mandandomi allo sbaraglio a sbronzarmi nel primo pub disponibile oltre l’angolo.
Il primo pensiero, quando mi ha chiesto se sarei rimasto, non è stato un bel pensiero.
Non è stato un pensiero corretto.
Non avrei dovuto pensarlo.
Faccio per scuotere il capo. Chakuza mi guarda strano.
- Vado a casa? – non so perché esca come una domanda.
Ma che cazzo sto facendo?
- Non resti?
Ma chi gli ha insegnato a rispondere alle domande con altre domande?
…Anis.
Ma che cazzo di disastro è questo? Cazzo.
- Resto, ok. – sbotto, cercando di sembrare tranquillo e rilassato. Era più facile quando arrivavo qui sbronzo, intendo, non dovevamo discutere. Io arrivavo, mi buttavo sulla prima superficie disponibile, mi lagnavo un po’, poi crollavo addormentato. Al resto pensava Chakuza, io poi mi risvegliavo l’indomani mattina e a quel punto il mio compito era combattere contro il mal di testa e rendermi utile in qualche modo tipo preparando la colazione o qualche altra cazzata simile. Così eravamo pari, buttavamo lì un paio di battute del cazzo, decidevamo cosa mangiare per cena e poi ognuno per i fatti propri.
Era semplice, lineare, preciso.
Certe volte la lucidità mentale ti porta solo complicazioni, è assurdo.
Lo leggo negli occhi di Chakuza, in questo momento. Lo vedo che se lo sta chiedendo anche lui. Come ci siamo arrivati, a questo punto? Com’è che adesso non è più normale dormire sulla poltrona? Com’è che c’è da chiedere se devo restare, se voglio andarmene, se questo, se quest’altro, cosa voglio fare di me stesso e di lui e di questo noi assurdo che non ha nessun motivo di esistere ma esiste lo stesso ed io posso pure smettere di guardarlo per tutto il giorno, ma quando torno qui, di sera, torna fuori, e di prepotenza.
Tutto negli occhi verdissimi di Chakuza che sono freddi come pezzi di vetro e trasparenti allo stesso modo.
Mi avvicino senza un perché e mi aspetto che sia lui a fare qualcosa. Deve essere lui, a fare questo benedetto maledetto qualcosa, perché io non saprei da che parte cominciare. Stasera è diverso. Non è come l’altra volta. Non è come le altre volte in mezzo. Stasera ci stiamo guardando negli occhi e ci stiamo dicendo la verità, in qualche modo. È una verità un po’ storta e un po’ sporca, ma io non mi tiro indietro.
Io sono qui, Chakuza.
E ci sei anche tu.
Ci baciamo. Ci baciamo sempre, quando lo facciamo, e le bocche il suo cazzo e il mio culo sono le uniche fottute cose che si toccano. È una cosa straniante, perché mi sarò fatto centinaia di scopate nella mia vita ed in tutte, tutte, perfino con la figa più di legno, perfino con la più cozza, i corpi erano avvinghiati così stretti che sembravano uno. Quando scopi non cerchi solo l’orgasmo, tu vuoi tenere qualcosa fra le mani. Vuoi tenerlo stretto e sentire che c’è e che per quella mezz’ora, se sei bravo, sarà tuo.
Fra me e Chakuza non è così. Ci baciamo perché la sensazione del bacio – umido e caldo e lento oppure ruvido e veloce, quasi prepotente, dipende dalla serata e dalla quantità d’alcool – è piacevole, ma non ci tocchiamo quasi mai, se non il minimo indispensabile.
Che poi è il motivo che mi porta a chiedermi perché scopiamo, se il punto non è tenere qualcosa.
Non so se sono io a muovermi indietro perché Chakuza avanza, o se è lui ad avanzare perché io mi sto allontanando verso la camera da letto. Entrambe le possibilità mi terrorizzano, perché c’è una fame nelle nostre bocche che non si sazia mai. È una cosa senza fine. Che certe volte mi sento i suoi denti addosso e mi chiedo se dieci cento o mille volte gli basterebbero. O se basterebbero a me. Se mi basterebbe sentirlo in quel modo altre dieci cento o mille volte, per saziarmene e non desiderarlo più. Dentro di me. In quel punto preciso che mi fotte il cervello.
Quando sbatto con le gambe contro lo scheletro in legno, le ginocchia si piegano un po’ per stanchezza e un po’ per confusione e un po’ anche perché voglio lasciarmi cadere da qualche parte, perché questo so farlo bene. Tanto poi ci pensa Chaku. Mi tira su, e la poltrona, e la coperta, e la colazione domani.
Che casino. Vaffanculo, che casino.
Cado indietro, non sbatto da nessuna parte. Il letto è disfatto e mi accolgono le coperte ancora arruffate da ieri. C’è qualcosa di sbagliato in tutto questo, ma non m’interessa più.
Mi disturba che Chakuza mi cada fra le gambe, però. Mi disturba perché non è quello che succede di solito. Io mi volto, di solito. Io non guardo – almeno questo, Dio, non guardo, di solito.
Voglio dire “no”. Mi rendo conto di quanto sia assurdo, perché non sto pensando “no”. Però voglio dirlo lo stesso, anche solo per… non lo so, salvare le apparenze? Con Chakuza? Non lo so. Non dovrei essere qui adesso. Non dovrei essere così. Chakuza mi bacia ancora ed io sto zitto. Cristo, mi piace baciare. Mi piace un casino baciare.
Quando i pantaloni e i boxer scompaiono, le nostre gambe si scontrano e Chakuza si irrigidisce. Lo sente anche lui che c’è qualcosa che non va, di solito il contatto è molto minore. Non ci sono gambe che intralciano. Non c’è niente di troppo duro da dover guardare per forza – perché è lì davanti, ed è colpa tua che non mi hai fatto girare. Come se a me facesse piacere prendere atto del fatto che mi piace, vaffanculo, mi piace proprio così.
Allargo le gambe e mi sento una troia. Ma non lo faccio perché voglio lasciargli via libera – almeno, non del tutto – lo faccio perché le gambe che si incastrano mi fanno impressione e pure un po’ schifo, se devo dire la verità. Non ci sono abituato.
Chakuza non parla. Mi guarda. Si tiene sul materasso coi gomiti.
Io lo guardo di rimando perché non posso dargli anche la mia vergogna.
Lo sento che fa per premersi contro di me – sempre occhi negli occhi, vorrei che abbassasse il fottuto sguardo ma non glielo chiederò mai – ma poi esita, penso che la prima esperienza senza preservativo gli sia abbondantemente bastata, tant’è che da allora abbiamo seguito i consigli del dottorino e siamo sempre stati ligi al dovere – che schifo, merda, che schifo – ed infatti lo vedo che si allunga, raggiunge il cassetto del comodino, neanche mi sfiora – è bravissimo – recupera il preservativo – lo voglio dentro – lo indossa – subito, cazzo – sta lì ad un centimetro e non si sbriga – muoviti muoviti muoviti – e poi si decide, tutto dentro in un solo colpo, vorrei urlare e non lo faccio perché l’unico limite che mi impongo è quello di non mostrare dolore, mai. Se devo, sanguinerò, parlerà il sangue per me; ma io non urlo.
Spinge forte e veloce, vuole concluderla in fretta, vuole sempre concluderla in fretta perché i momenti che precedono quello in cui entra dentro di me sono colmi di aspettativa e di desiderio. Me lo immagino che si chiede “stavolta sarà diverso? Magari mi farà meno schifo, mi sentirò meno in colpa, in fondo a questo corpo qualcosa la trovo?”. Ed invece è sempre uguale. È sempre lo stesso schifo. Perciò entra e ce ne rendiamo conto entrambi. La consapevolezza arriva a me col dolore ed a lui col fastidio e il disgusto. Ci muoviamo per inerzia. Ci muoviamo perché almeno a cercare e trovare l’orgasmo hai l’impressione di averci guadagnato qualcosa.
Ed il succo della questione è solo questo. Il succo della questione è che lui spinge con una violenza tale che io mi allontano. Non perché lo voglio, ma perché proprio mi getta indietro. E non ho abbastanza forze – Cristo, fa male – per tenermi incollato a lui.
Perciò solleva una mano e mi afferra per un fianco. Mi tocca ancora. Il fianco brucia dove lo tocca lui. Stringe e fa male. Fa più male di tutto il resto. Fa male perché dietro ai suoi occhi non c’è niente e nemmeno dietro a miei. E dieci cento mille volte non cambierebbero questa realtà.
Abbiamo fame di cose che non possiamo avere.
Abbiamo fame di cose che non siamo noi.
Tutto questo non serve a niente.
Quando lui mi viene dentro, quando io vengo fra di noi, non succede niente. Perché tutto questo non è stato niente.
Le lenzuola, comunque, sono calde. Ed io sono mezzo nudo. Mezzo nudo, Cristo. Mi sono fatto scopare come una donna. Come una fottuta femmina. E Chakuza mi ha guardato dritto negli occhi per tutto il tempo. Cosa volesse trovarci in fondo, non lo so. So che quello che ho visto io non m’è piaciuto. So che mi sento una merda. So che in genere mi alzo, mi abbottono i pantaloni e vado ad accucciarmi su quella poltrona, e lì resto fino all’indomani mattina, ma adesso non ho pantaloni da abbottonare, perché Chakuza me li ha tolti e li ha lanciati chissà dove assieme ai boxer, ed io non posso andare in giro mezzo nudo per la stanza a cercarli tentoni nel buio.
Resto immobile sul letto. Chakuza riprende fiato accanto a me.
- Allora, resti? – chiede alla fine, passandosi una mano sugli occhi e sistemando la coperta con pochi gesti essenziali, di modo che ci copra entrambi – e ne abbiamo bisogno davvero.
Cerco di respirare ad un ritmo umano. Cerco di rispondere. Un “sì” secco e sicuro, così che non veda che sono turbato. Viene fuori un “mh” poco convinto, ma Chakuza lo prende comunque per un assenso ed annuisce, senza aggiungere niente. Sfila la canottiera e la getta di lato. Si volta e so che non dormirà. Non dormirò neanche io. È la prima volta che non dormo.
Mi rigiro su un fianco. La schiena di Chakuza si muove lentamente verso l’alto, poi verso il basso, e da capo. Il tatuaggio che la ricopre praticamente per intero è maestoso. Non ho la minima idea di cosa voglia dire, ma dev’essere stato doloroso farlo. Il cerchio e lo strano simbolo all’interno si allargano e si rimpiccioliscono mentre lui respira. Il movimento ed il suono sono quasi ipnotici.
Fisserò questa schiena per tutta la notte.
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