Genere: Romantico/Drammatico/Triste
Pairing: Sana/Akito, Fuka/Akito, Sana/Naozumi.
Rating: NC-17
AVVISI: Het, Lime.
- Un uomo ed una donna. Nonostante tutto, un amore. Capire che ritrovarsi non è sinonimo di voler tornare insieme.
Commento dell'autrice: Una specie di parto è_é” Ci ho messo circa un mese a scriverla, certi pomeriggi l’ispirazione era tale che veramente afferravo il quadernetto e mi mettevo a scrivere, quasi senza un senso, “il senso glielo do poi, quando trascrivo al pc”, mi dicevo XD Nonostante la tristezza (sì, lo so, è una storia triste per gli Akito/Sana devoted ._. Immaginate me che l’ho scritta ;_______;) mi è piaciuto molto lavorarci. Anche perché era un progetto che mi portavo dietro da… circa un anno O.o, ma che non mi ero mai sentita matura abbastanza per portare a termine. Sono contenta di aver aspettato è_é
Pairing: Sana/Akito, Fuka/Akito, Sana/Naozumi.
Rating: NC-17
AVVISI: Het, Lime.
- Un uomo ed una donna. Nonostante tutto, un amore. Capire che ritrovarsi non è sinonimo di voler tornare insieme.
Commento dell'autrice: Una specie di parto è_é” Ci ho messo circa un mese a scriverla, certi pomeriggi l’ispirazione era tale che veramente afferravo il quadernetto e mi mettevo a scrivere, quasi senza un senso, “il senso glielo do poi, quando trascrivo al pc”, mi dicevo XD Nonostante la tristezza (sì, lo so, è una storia triste per gli Akito/Sana devoted ._. Immaginate me che l’ho scritta ;_______;) mi è piaciuto molto lavorarci. Anche perché era un progetto che mi portavo dietro da… circa un anno O.o, ma che non mi ero mai sentita matura abbastanza per portare a termine. Sono contenta di aver aspettato è_é
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Many Ways
La cosa che più la colpì, appena scesa dal treno, mentre si reggeva il cappello sulla testa per evitare che le venisse strappato via dal vento, fu il biancore assurdo di quella Fuka che, stretta nell’abito corto di lana nera, a collo alto, agitava un braccio per attirare la sua attenzione. Abbagliata da quella visione, rimase immobile, con lo sguardo fintamente perso nel vuoto, e si riscosse solo quando venne accidentalmente colpita da Naozumi che, stancamente, trascinava le valigie giù per gli scalini del vagone.
- Ah, guarda! Matsui è lì che ci aspetta! – disse l’uomo accennando con il mento alla figura lontana.
- Già. – annuì lei, - Ti serve aiuto con le valigie? – chiese, mascherando l’inquietudine con un sorriso.
- Ma scherzi? Vai a salutarla, da quanto tempo non vi vedete?
“Otto anni”, pensò Sana mentre il sorriso le si smorzava sul volto e, quasi inconsciamente, cominciava a camminare.
Venne raggiunta a metà strada, ed immediatamente stretta in un abbraccio tenerissimo ed impaziente, cui rispose con commozione.
- Ben arrivata, Sana… Kamura, anche a te, benvenuto!
Fuka si separò da lei e subito la afferrò per una mano, conducendola verso una macchina poco distante.
Sana non chiese nulla, ma lei rispose lo stesso.
- Akito è rimasto a casa con Yoshi-chan, ci aspetta lì. – disse, non senza imbarazzo.
Sana annuì, digerendo l’informazione, ma Fuka non la guardava e non poté vederla.
Lievemente sballottata sul suo sedile, mentre la macchina procedeva incespicando in ogni buca sul suo cammino, si chiese, come sempre in questi casi, che cosa ci facesse lì e come diavolo le fosse saltato in mente di andarci.
Magari solo per voglia di vedere Fuka, dopo tanto tempo. Oppure per rivederli insieme, e farsi definitivamente passare quegli strascichi di sentimento da “tempo che fu” che ogni tanto la assalivano di sorpresa quando Naozumi non era con lei. Forse soltanto perché era incinta e non voleva lasciare nulla di intentato. E cosa questo significasse davvero non lo sapeva neanche lei.
Akito era un po’ più magro, rispetto ad otto anni prima. Non aveva più lo stesso aspetto da “padre di famiglia”, ben pasciuto, ed i capelli erano allungati. Somigliava tanto al diciassettenne della sua prima volta…
Sana scacciò i pensieri dalla testa, sbattendo le palpebre, e sorrise.
- Ciao, Akito! – disse agitando una mano con un gesto infantile. La reazione dell’uomo fu calma.
- Ciao. – disse sollevando anche lui una mano, ma senza muoverla.
- Bè? Tutto qui? Non ci vediamo da otto anni ed è tutto quello che mi dici? – sbottò lei incrociando le braccia.
- Ciao signorina egoista, va meglio?
Sia a Naozumi che a Fuka si gelò il sangue nelle vene; perché quell’espressione d’astio? Cosa era successo? Cosa voleva dire? Erano tutti terrorizzati, ma Sana no, perché a lei era riuscito di rivedere, negli occhi del trentasettenne che la prendeva in giro, quelli del diciannovenne che per poco non le chiedeva di sposarlo, e scoppiò a ridere. Un riso un po’ amaro, ma sempre suo, sempre di Sana, che contagiò tutti.
Attirato dal fragore delle risate, un biondino dal viso pulito e molto innocente fece capolino dallo stipite della porta, senza permettersi di oltrepassare la soglia.
- Tesoro! – disse Fuka accorgendosi di lui, - Vieni, vieni! Tu non te li ricordi, ma questi sono zia Sana e zio Nao! Vieni qui a salutarli!
Nel sentirsi presentata come zia, Sana dimenticò i ricordi dei diciannove e tornò repentinamente ai trentatrè. Si sentì vecchia – vecchia? Sì, vecchia - piena di rimpianti, e si odiò. Poi si ricompose, tornò sé stessa e smise di ridere osservando il bambino entrare a piccoli passi timorosi.
- Ciao… - disse Yoshi con le braccia incrociate dietro la schiena.
Sana sfoggiò il migliore dei suoi sorrisi, per il piccolo replicante di Akito. Dieci anni. Poteva rivedere il decenne che la strozzava nei magazzini della scuola, e che le dava un bacio al sapore di limone sulla torre di Tokyo.
- Come va?
Si voltò sorridendo, lievemente turbata – ma sapeva nasconderlo bene.
- Tutto a posto.
- E’ cresciuto Yoshi, vero?
- Eh, sì… l’ultima volta aveva due anni… s’è fatto molto alto…
- …e molto simile ad Hayama…
Sana ridacchiò, scoccandogli una gomitata.
- Non ha lo stesso sguardo.
- E meno male!
Lei rise di cuore, guardandolo intensamente.
Naozumi cominciò a leggere.
“Sono scossa. Sono terrorizzata all’idea di dover restare qui per un’intera settimana, però non voglio andarmene. L’ho visto. Lo capisci che l’ho visto?! Basta, per stasera andiamo a dormire e se ne riparli domattina, forse.”
- Hai sonno? Vuoi andare a letto? – le chiese.
Sana rispose con un sorriso.
Intanto, l’amore non vince tutto. Soccombe al tempo, ed alle mille piccole rogne quotidiane. Ma soprattutto, soccombe alle necessità dell’ego. Sia lei che Akito erano due personalità bisognose di qualcuno che potesse passare il maggior tempo possibile con loro, qualcuno che focalizzasse su di loro le attenzioni di una vita. Continuamente.
Era semplicemente impossibile concedersi vicendevolmente tutto questo. Akito non poteva sempre seguire Sana, e Sana non poteva sempre restare ferma accanto ad Akito. Ed alla fine, per egocentriche ma ineluttabili cause, il loro rapporto s’era sciolto. E per un periodo entrambi non avevano avuto bisogno d’altri che di loro stessi. Poi, tra noia e solitudine, avevano scelto il ripiego, ed avevano scoperto che, alla fine, non era poi così male. Anzi, tutt’altro.
Talmente “altro” che Akito stava con Fuka da undici anni, ed avevano perfino un figlio – il replicante di lui – e lei e Naozumi stavano insieme da quasi dieci anni.
E lei era incinta.
E lui ancora non ne sapeva niente.
Il che complicava le cose in maniera assurda.
Si rigirò fra le coperte, piantando lo sguardo sul viso calmo di Naozumi.
- Non dormi ancora? – chiese con un sorriso lieve.
- Neanche tu, no?
Gli si strinse contro, pressandogli una mano sul petto.
Solitamente, la sola sua vicinanza era in grado di ripulirle la mente, e renderla chiarissima, bianchissima. Spazzare via i frammenti di ricordi con una facilitò esaltante, che t’incoraggiava all’abbandono. E lei si abbandonava, oh, sì.
Però quella volta non riuscì a calmarla. Quella volta, Akito non era a Kyoto, lontano chilometri e chilometri, era lì, a pochi metri, oltre il muro, e la sola presenza di Naozumi non era abbastanza. Aveva bisogno di qualcos’altro.
E lui lo capì, benedetto lui, come sempre, e come sempre l’assecondò, senza dimenticare di assecondare anche sé stesso.
- Papà, chi sono quei signori?
Akito socchiuse gli occhi su un sole estivo da pubblicità, e si ritrovò davanti gli occhioni spalancati di suo figlio.
- Che…? – chiese confuso, già dimentico della domanda.
- Chi sono quei signori, papà?
- …te l’ha detto la mamma ieri… sono gli zii…
- Io ci ho pensato, - disse il bambino annuendo con convinzione, - ma non me li ricordo. Invece zia Aya e zio Tsuyo me li ricordo!
“Certo”, pensò l’uomo, “loro non li vedi da appena un mese, questi due invece praticamente non li hai visti mai…”.
- Non ti preoccupare. – rispose con un sospiro, - Adesso li conoscerai meglio.
Il bambino annuì ancora e scese dal letto, zampettando fuori dalla stanza. Convinto che fossero ancora le sette circa del mattino, sperò che il moccioso non avesse svegliato Fuka, ed allungò a sinistra un braccio silenzioso, alla ricerca della donna. Il braccio contro le lenzuola produsse un leggero fruscio, ma non toccò nient’altro che cotone. La desolazione del posto al suo fianco gli venne confermata da prova visiva pochi secondi dopo, quando si voltò a guardare.
La sveglia segnò in quell’istante le nove e mezzo.
Akito si sollevò stancamente, massaggiando le spalle intorpidite e sbadigliando vistosamente.
- Ben svegliato! – disse Fuka con una risata cristallina, portando in mano una pila di lenzuola immacolate.
- Credevo fosse più presto. – si giustificò lui, atono, senza cambiare espressione. Fuka c’era ormai abituata, sapeva che le sue “scuse” erano sempre sincere.
Maliziosa, gli si avvicinò, sedendosi al suo fianco sul materasso.
Akito venne investito da una ventata del suo odore, che lo mandò in Paradiso.
- Come va? – gli chiese socchiudendo gli occhi.
“Fa la civetta. Vuole parlarmi di Sana”, indovinò lui.
- Bene.
- Ah-ha. Non ti ha fatto effetto?
- Certo. Non la vedevo da otto anni.
- E vederla con Kamura?
- Se ben ricordi, - disse lui sospirando, - stavano insieme anche prima che noi ci trasferissimo qui.
- Sì, ma adesso c’è l’aggravante del tempo passato… e poi s’è fatta bella…
- E’ sempre stata bella. – rispose Akito scrollando le spalle.
- Ah, sì? – disse Fuka imbronciandosi e stringendosi nelle spalle. Lui si sporse in avanti, ad un centimetro dal suo viso.
- Cosa stai cercando di farmi dire, Matsui?
Avendolo così vicino, a lei mancarono le parole. Le si annullarono, e si annullarono anche i pensieri, i respiri. E perfino il broncio.
Sorrise, baciandolo.
- Vieni di là? O aspetti il pranzo? – gli chiese ridacchiando.
Bè, prima o poi avrebbe dovuto comunque ritrovarsela di fronte.
- Hayama s’è deciso? – chiese Naozumi ironico sorseggiando il caffellatte.
- Sì, sì… - rispose Fuka continuando a ritirare biancheria pulita dal balcone. Sana si alzò in piedi, presagendo l’imminente arrivo di Akito e ben decisa a posticipare l’incontro il più a lungo possibile.
- Ti aiuto! – disse ad alta voce, raggiungendo l’amica.
Quando le fu accanto, la guardò attentamente.
Fuka era una donna splendida. Era formosa, non aveva certo il fisico di una modella, ma era bellissima. Non aveva neanche una ruga d’espressione. I capelli, un tempo lunghi alle spalle, adesso erano portati corti a baschetto appena sotto le orecchie, un’acconciatura che le assottigliava il viso e la ringiovaniva di dieci anni.
“Quasi trentacinque, un figlio e non sentirli…” pensò esagerando, ma senza farci caso, e sorrise amaramente. Nel sorridere, sentì chiara formarsi la rughetta all’angolo sinistro della bocca, con la quale fino al giorno prima aveva convissuto serenamente, e che invece in quel momento tornò a farsi fastidiosa come quando l’aveva scoperta qualche anno prima.
Invidiò la sua migliore amica. Per com’era e per cos’aveva. E non se ne sentì mai in colpa.
- Certo, io e te stiamo passando davvero poco tempo insieme.
- Sei arrivata appena ieri, - commentò lui senza guardarla, - cosa ti aspettavi?
Lei scrollò le spalle.
- Non lo so. Tu sei contento di rivedermi?
Akito si guardò intorno. Verificò che nella stanza, che dava sul balcone in cui in quel momento si trovavano, non ci fosse nessuno, e tirò fuori un pacchetto di sigarette.
- Vuoi? – chiese porgendoglielo.
- Non fumo. – disse lei con un sorrisino, scuotendo il capo. Lui scrollò le spalle.
- Ti dispiace?
- Fai.
Accese una sigaretta e ne aspirò una boccata, appoggiandosi alla ringhiera con i gomiti.
- Non mi hai risposto…
- Qual era la domanda?
Sana sorrise amara, e la ripeté.
- Ti ho chiesto se sei contendo di rivedermi.
- In un certo senso.
- Che razza di risposta è, me lo spieghi?
- Tu sei contenta di rivedermi?
- …non mi è dispiaciuto.
- Non copiarmi le battute, Kurata.
Sana ridacchiò, dandogli un colpetto sulla spalla.
Era la prima volta che lo toccava da quando era arrivata. Un colpetto, un tocco lievissimo, non si poteva neanche dire l’avesse sentito, perché l’aveva sfiorato con le nocche, che hanno poca sensibilità rispetto ai polpastrelli. Si pentì di non averlo accarezzato.
- Comunque vedo che qua con Fuka-chan stai bene.
- E’ così.
- E te la cavi, con Yoshi-chan?
La guardò curioso.
- Che intendi?
Lei rise.
- Quando ti ho visto l’ultima volta eri molto impacciato, sembrava che stessi facendo un lavoro non tuo.
Akito tirò un’altra boccata, ed annuì.
- Bè, ci si abitua a tutto.
- E’ vero.
“E così la discussione può dichiararsi chiusa.”, pensò Akito, ed avrebbe voluto prendersi a testate da solo.
Nauseato dal fumo – strano – gettò la sigaretta e la spense sotto una scarpa, buttandola poi giù dal balcone dopo essersi assicurato non passasse nessuno.
- Non dovresti farlo… - commentò lei.
- Cosa, fumare? – chiese lui, già sul piede di guerra.
Lei scosse il capo.
- Gettarla di sotto. Bè, vado a… vedere cosa sta facendo Nao… - disse voltandosi di spalle per rientrare.
La mano di Akito si mosse senza che lui avesse bisogno di ordinarglielo. Scattò in avanti, fendendo l’aria dietro di lei ed afferrandola per il polso, una stretta decisa ed impetuosa, dolorosa.
- Ahi! – si lamentò senza voltarsi.
- Domani potremmo andare a fare una passeggiata, io e te. – le propose, con voce quasi tremante, - Per… parlare meglio.
- Sì, credo di sì… - rispose lei frettolosamente, senza pensare, liberandosi dalla stretta e scomparendo dietro le tende.
Akito sospirò. Si sentì esausto. Ebbe bisogno di vedere Fuka.
Naozumi spalancò gli occhi, guardandola.
- Bè? Che è successo?
Lei cercò di mostrarsi convincentemente stupita.
- Quando?
- Ah, non prendermi in giro, dai! – disse lui ridendo, per nulla risentito.
Scrollò le spalle.
- Non capisco di cosa tu stia parlando. – disse abbassando uno sguardo cupo.
Lui le si avvicinò, sollevandole il mento con due dita.
- Non dirmi che mi ritieni così stupido da venire fino a qui senza preventivare gli effetti devastanti che la visione di quell’uomo ha su di te…
Lei tremò impercettibilmente, nel sentirgli usare quel tono calmo, di assoluta certezza, di assoluta rassegnazione.
- Che vuol dire…? – chiese, ben intenzionata a non dire nulla.
- Vuol dire che va bene. Insomma, è normale. L’hai amato… vi siete amati per così tanto tempo… dai, non mi fare dire chiaramente queste cose, intendo, lo so. Anche Matsui lo sa, credo. Perciò non preoccuparti.
Non riusciva a capire se quelle parole rappresentavano un permesso o un velato rimprovero.
Irritata, si separò da lui.
Dov’era scritto che dovesse per forza succedere qualcosa fra lei ed Akito? Chi l’aveva stabilito? E poi, bella fiducia le dimostrava il suo uomo, il padre di suo figlio – sebbene ancora non lo sapesse – e con che belle parole la accoglieva mentre lei era così… così…
Così sconvolta. E spaventata. E bisognosa, anche se non sapeva di cosa.
Ma perché, poi? Perché dover stare così?
Non sarebbe mai dovuta venire. Non avrebbe dovuto alzare la cornetta per chiamare Fuka per semplice curiosità di sapere come stesse, come stessero tutti loro, non avrebbe dovuto prendere troppo seriamente quella frase buttata lì per caso, “che ne dici di venire un po’ qui? C’è un tempo splendido!”, non avrebbe dovuto proporlo a Nao, e comunque avrebbe dovuto dirgli “no, lasciamo perdere”, anche se lui era ben deciso a venire.
Sapeva che sarebbe stato un disastro, eppure non aveva fatto niente per fermare il processo.
- Avanti, adesso non fare così. Dimentica quello che ho detto. Tu agisci solo come credi sia giusto.
Sana annuì, stranamente sollevata.
- Tanto… poi la settimana finisce…
Lei sollevò lo sguardo, senza cogliere il senso della frase.
- Eh?
- Intendo… la settimana finisce e poi torniamo a casa. E basta Hayama.
Sana lo guardò e pianse.
- Che…? Non volevo…!
Si coprì gli occhi con le mani.
- Lo so. Scusa…
Capì in quel momento che, quando Naozumi aveva insistito per partire, non era stato per rivedere i vecchi amici o il vecchio rivale, non era stato per farla contenta, e neanche per il semplice piacere di un viaggio, ma solo per liberarsi, una volta per tutte, di quel vecchio fantasma, il fantasma di Akito; concedergli – o concedere a lei – qualcosa, e poi liberarsene definitivamente.
Perché erano cresciuti, loro, ma Naozumi aveva ancora la stessa paura folle di Akito. Di Akito e lei.
“Poi torniamo a casa e basta Akito”, ripeté a sé stessa abbracciando il suo uomo.
- Esci, Akito?
Lui annuì. Lei non poteva vederlo, perché era di spalle. Lui se ne accorse.
- Sì. – disse ad alta voce.
- Dove vai? – chiese lei sorridendo, mentre si voltava a guardarlo.
- A fare quattro passi.
- Con Sana?
- No.
Era vero. Con lei sarebbe uscito solo l’indomani.
Dopo aver salutato sua moglie, uscì di corsa, con l’intenzione di riflettere, e per prima cosa si pentì di averlo fatto: il caldo e l’umidità erano insostenibili, e gli appiccicavano addosso la maglietta. Nessuna riflessione poteva valere una tortura simile.
Ed a parte tutto questo, aveva davvero poco su cui riflettere. Si rendeva conto che avrebbe dovuto pensare a Sana, a cosa dirle, a come gestire la situazione. Ma quel tocco – i due tocchi – sul balcone l’aveva completamente, completamente destabilizzato.
Prima che lei arrivasse s’era detto “ok, facciamo i duri”. Perché non voleva essere vulnerabile, non voleva darle lo spazio per scombinare tutto. Ed invece s’era accorto che lei non aveva bisogno di spazio, s’insinuava anche dove non c’erano fessure, attraversava i muri, gli si attaccava addosso, come una malattia.
Era Sana-dipendente?
Strano, in quegli otto anni avrebbe potuto dire di non averne quasi neanche sentito la mancanza. È assurdo che possa succedere così. Un giorno a malapena ricordi un viso, il giorno dopo per caso lo rivedi e non solo capisci che in realtà ricordavi, ma che faceva male, ed era per questo che lo ignoravi disperatamente.
Disperato? Poteva descriversi così? Non s’era mai sentito disperato, da quando non l’aveva più vista. Era tantissimo… tantissimo tempo che non si sentiva disperato. Ed anche in quel momento, non era affatto sicuro di esserlo.
- Papà! Papà!
Nel sentire la voce di Yoshi si voltò di scatto, pensando che potesse essere uscito da solo. Fortunatamente accanto a lui c’era Fuka, lo teneva saldamente per mano. Il piccolo saltellava ogni due passi, agitando una manina con fare eccitato.
Akito si fermò, le mani in tasca, le gambe leggermente divaricate, aspettando che i due lo raggiungessero.
Fuka ebbe una tremenda sensazione di deja-vu, ma non disse nulla.
- Che c’è?
- Papà, mi sono ricordato di zia Sana-chan! Mamma mi ha fatto vedere le foto!
L’uomo guardò sua moglie, che gli sorrise lievemente, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- Guarda, guarda! – continuò Yoshi agitando un pezzo di carta rigido – la fotografia, - E’ lei che mi tiene in braccio, vero?
Akito si chinò, arrivando all’altezza del bambino, e puntò saccentemente l’indice verso l’alto.
- Se hai visto la foto non vuol dire che l’hai ricordata, ma solo che adesso sai che vi siete incontrati prima.
- Ma io me la ricordo, papà!
“Ah, sì? Anche tu?”, pensò Akito socchiudendo gli occhi mentre si risollevava.
- Fa caldo, vero?
- Mh.
- Si, rimpiange quasi il condizionatore che c’è in casa…
- Vuoi tornare?
- No!
- Mh.
Aveva immaginato qualcosa di diverso, quando lui le aveva proposto di fare una passeggiata. Un qualcosa di non molto ben delineato, nella sua mente, ma che era comunque diverso dal semplice camminare per strada fianco a fianco.
Avesse avuto almeno qualcosa a cui aggrapparsi… a Tokyo, per esempio, le sarebbe bastato guardare un angolino di strada per dirgli “ehi, ti ricordi?...” e cominciare a parlare. In quella città invece era estranea, e non c’era nulla, neanche nei suoi occhi, che ricordasse l’antico periodo in cui erano stati insieme.
“Forse è meglio così”, si disse, “Forse è meglio non rivangare i fatti chiusi”. Pensò a Naozumi, anche a Fuka, ma soprattutto a Naozumi, e si sentì terribilmente in colpa.
- C’è qualcosa che vorresti vedere? – sentì Akito chiederle. Siccome non aveva idea di cosa dire rispose che andava bene camminare così.
La strada era deserta. Immaginò che ad agosto la maggior parte delle persone dovessero trasferirsi in una località balneare, quindi non le sembrò tanto strano. Strano era, invece, il ritmico camminarsi accanto, lo sfiorarsi leggero delle loro dita quando le braccia ondeggiavano – erano così vicini – immersi in quel silenzio vuoto e caldo, da inferno.
“Avanti, Sana, non sarebbe molto più semplice allungare una mano e fare quello che vuoi?”
Maledetto lui, ed anche lei.
Maledetta quella schifosa città ed il momento in cui c’era venuto.
Maledetto il momento in cui s’erano lasciati.
Nervosa ed agitata, continuò a camminargli accanto.
“Sta succedendo, Akito. E’ già successo. Rassegnati.”
Realizzò solo dopo qualche secondo di averle stretto involontariamente una mano. E prima di lasciarla, la guardò negli occhi. E se non ci avesse trovato stupore e quasi terrore, non l’avrebbe lasciata affatto.
- Non volevo. – disse, evitando il suo sguardo. Poi riprese a camminare.
Sana non si mosse. Lui si voltò indietro a guardarla.
- Ho già chiesto scusa. – disse nervosamente, con fare sbrigativo. Lei sollevò lo sguardo, e sembrava persa, assente.
- Sana…? – le si avvicinò, e nel tempo in cui lui mosse due passi lei abbassò il capo e si mise a piangere.
- Mi hai chiamata per nome… - piagnucolò mentre Akito, preoccupato, le metteva una mano sulla spalla e la scuoteva leggermente.
- Non è la prima volta, mi pare.
- E’ la prima, invece… da quando sono qui…
Per qualche secondo, l’uomo non capì, o non seppe cosa dire.
- Perché piangi? – le chiese alla fine, sospirando.
- Non lo so. – ammise lei imbarazzata, - Forse è nostalgia…
“Lo spero”, si disse lui per farsi coraggio – invece non lo sperava affatto – e le diede due pacche sulla spalla, per consolarla.
- Akito…
- Mh.
- Vieni più vicino…?
L’allarme rosso nel suo cervello squillò, squillò fortissimo. E lui lo ignorò, perché così voleva.
Le si avvicinò, e lei gli si appoggiò addosso. I suoi capelli gli ricaddero su una spalla, e poi giù lungo il petto. Un profumo inebriante, sconvolgentemente dolce, lo accerchiò e lo tramortì, costringendolo a chiudere gli occhi.
- Ti dispiace se stiamo un po’ così…?
Raccolse le forze.
- Siamo tornati adolescenti…?
Sana ridacchiò, afferrandogli un lembo della maglia con una mano.
- E’ un po’ imbarazzante – gli disse, - qui, in mezzo alla strada.
“Mi sta chiedendo di portarla in un posto dove non sarà imbarazzante.
E dove perderò la testa.”
Non è una diciassettenne, non puoi portarla nel parco e pomiciare. Non si fa così. Non puoi portarla in un love hotel, chissà dove sta un love hotel?, e poi dovresti tornare a casa e prendere la macchina, perderesti l’attimo. Per ovvi motivi, non puoi portartela a casa.
Akito deglutì e la spinse leggermente. Sana riprese a camminare, e lui continuò a tenerle una mano sulla schiena, come a manovrare il timone per darle la direzione. La fece fermare di fronte ad una stradina laterale abbastanza buia. La guardò.
“O qui o niente”, lesse Sana in quegli occhi, e si infilò per prima nel vicolo, tirandolo per una mano.
Non aveva bisogno di tenere gli occhi aperti, comunque non avrebbe visto nulla, perciò li chiuse e si lasciò andare contro il muro. Lui le si avvicinò veloce, circondandole la vita con le braccia e gettandosi avido sul suo collo; istintivamente, Sana tirò su il mento per lasciargli spazio, e sollevò anche le braccia, appoggiandogliele sulle spalle.
- Ah… Akito… - mormorò flebilmente, senza invitarlo ad andare avanti. Ma neanche respingerlo. Lui lo prese come un incoraggiamento.
Le fece scivolare una mano fra i capelli sciolti – ah, sensazione… come aveva potuto credere di averla dimenticata…? – mentre con la lingua le stuzzicava il lobo di un orecchio, e poi scendeva giù, lungo il collo.
- Akito! – lo chiamò più forte, e stavolta era tutta voglia, tutta impazienza.
Affondò il viso nella scollatura della sua maglietta, ma da lì non riuscì ad arrivare a niente, ed allora l’afferrò da sotto e la sollevò, fin sopra al petto.
Per un attimo rimase abbagliato e non seppe che fare. Ebbe perfino il tempo di chiedersi “cosa sto facendo?”. Ma poi lei lo chiamò di nuovo, e lui non perse neanche un secondo a tornarle addosso, strapparle quasi via il reggiseno, baciarla ovunque, farle scivolare una mano giù, lungo il ventre, il bacino, sotto la gonna, oltre gli slip.
- Akito! – quasi gridò lei, e lui le mise una mano sulla bocca, si liberò di ogni ostacolo e da un secondo all’altro le era già dentro.
E se, fino al giorno prima, gli avessero detto che avrebbe ancora potuto provare una tale estatica sensazione di appartenenza a qualcosa che non era più lui solo, ma un’unione più grande, più grande del matrimonio, o del tempo passato insieme, non ci avrebbe creduto.
Sana gli si aggrappò stretta alle spalle, e leccò la mano che ancora le teneva chiusa la bocca. Lui non la spostò e, chiudendo gli occhi, le si gettò sul collo, muovendosi aritmicamente, avanti e indietro. Lei, obbligata al silenzio, poteva esprimersi solo con mugolii soffocati, che lo eccitavano incredibilmente, e si muoveva seguendo il ritmo che lui le imponeva, reggendosi su una sola gamba mentre lui, reggendola per la coscia, teneva sollevata l’altra. Sostenendosi con più decisione alle sue spalle, si tirò su anche la gamba su cui si puntellava, incrociandole entrambe dietro la schiena di lui, che le liberò la bocca e, con tutte e due le mani libere, le si avvicinò ancora, spingendo più veloce, di più, come lei gli sussurrava nell’orecchio graffiandogli la pelle. La sentì gemere più forte, e lanciare un gridolino, in seguito al quale gli si accasciò ansante fra le braccia. Due spinte dopo era venuto anche lui.
Non sapeva bene cosa avrebbe dovuto dirgli. Non sapeva neanche se qualcosa da dire effettivamente ci fosse, lungo la strada che li riportava a casa.
“E’ stato fantastico. E chi se ne frega se farlo in un vicolo, a quest’età, di nascosto, è volgare e squallido, oltre che scomodo, è stato fantastico e sono venuta come non mi capitava da troppo tempo.”, questo pensava, ma credeva fermamente che dirglielo sarebbe stato un errore immenso, che avrebbe generato solo una quantità infinita di disgrazie.
- Mi dispiace.
Sollevò lo sguardo, in cerca dei suoi occhi, ma lui era voltato e non li trovò.
- Per cosa? – chiese con un sorriso lieve.
Lui scrollò le spalle.
- Suppongo dovrei dire “per quello che ho fatto”… - la guardò, - in realtà mi dispiace solo per il posto.
Lei lo guardò per qualche secondo, e poi scoppiò a ridere. Sollevata.
- Anche a quarant’anni… non cambi mai!
- Prima di tutto non ho quarant’anni…! Modera i termini, Kurata!
“…e secondo poi, non è che io non sia cambiato. È che quando sono con te mi ricordo com’ero prima”.
- Scuse accettate.
Si rese conto di non poter fare a meno di essere felice, e d’improvviso anche la questione di come avrebbe fatto a spiegarlo a Naozumi si fece irrilevante.
- Ah! Sei qui?
Fuka sorrise dolcemente, avvicinandosi ai fornelli per preparare un po’ di te. Naozumi rimase in silenzio. Lei seguì il suo esempio mentre armeggiava con acqua e bollitore.
- Matsui… sei diventata molto più silenziosa rispetto a com’eri un tempo.
Lei ridacchiò, socchiudendo gli occhi.
- Dici? Comunque mi fa uno strano effetto sentire ancora qualcuno chiamarmi così…
- Ah, già… ormai dovrei chiamarti Hayama, ma mi farebbe un’impressione…!
Stavolta Fuka rise apertamente.
- Mi rendo conto. Potresti chiamarmi semplicemente col mio nome, no? Ormai…
- Già.
Tornarono in silenzio. Fuka tolse il bollitore dal fuoco e versò l’acqua in due tazze, immergendovi poi le bustine di te.
- Grazie. – disse Naozumi prendendo la tazza che lei gli porgeva.
Sorseggiarono un po’ la bevanda bollente.
- Fuka, sei preoccupata?
Non aveva bisogno di specificare riguardo cosa.
- Mi sembra ovvio. – disse lei sorridendo, gli occhi chiusi, mentre allontanava da sé la tazza.
- Ovvio, ma non così evidente.
- Mi sono preparata molto a questo momento.
- E se dovessero farlo?
La mora lo guardò sorridendo, come a chiedergli perché si illudesse, come mai non ne fosse ancora certo, che cosa gli mancasse ancora per ammettere, almeno con sé stesso, che chissà dove, in quello stesso momento, Sana ed Akito stavano già facendo l’amore.
- Non è alla semplice “possibilità” che mi sono preparata io.
Naozumi annuì lentamente, finendo il suo te.
- Lo perdonerai?
Fuka rise. Fuka rideva spesso.
- Il problema non si è neanche mai posto! – disse guardandolo, - Perché, seriamente, tu ti sei chiesto “potrò mai perdonarla”?
Naozumi si strinse nelle spalle. Non se l’era proprio chiesto esplicitamente, ma…
…il pensiero di Sana ed Akito insieme lo disturbava.
- Ma mi spieghi come fai a prenderla così tranquillamente?
- Ti ho detto che non sono tranquilla. Sono rassegnata, è diverso.
- E dunque lo perdonerai. Scommetto che neanche gli dirai niente quando tornerà.
- Naozumi. – concluse lei con tono infastidito, - Dovresti smetterla di pensarci. Una settimana, ok? Fine. So che lo sai. La rabbia e l’orgoglio sono inutili.
Naozumi pensò che Fuka era cambiata davvero. E tanto. Però pensò anche che forse, nella loro posizione, il cambiamento era naturale, anzi, necessario. Cercò di mettersi il cuore in pace.
Nonostante i buoni propositi, trovò piuttosto difficile comportarsi normalmente di fronte a lui, quando lo rivide. Se avesse deciso di fare l’impassibile o l’offesa sarebbe stato più facile, perché avrebbe potuto permettersi di fuggire il suo sguardo, di sbuffargli contro senza dover necessariamente motivare, di incrociare le braccia e lasciare la stanza. Sarebbe stato semplice, perché lui, Akito, avrebbe compreso al volo il motivo di quel furore, e non le avrebbe chiesto niente, rimanendo giustamente il colpevole attesa che le passasse.
Ma così era dura. Non era fingere di non sapere, sarebbe stato poco credibile, era sapere e sopportare. Baciarlo per salutarlo. Baciarlo per salutarlo, soprattutto, ma anche altro, anche doverlo guardare sfilarsi la maglietta e vedere quello che c’era sotto, vedere i graffi e capirne il motivo, mentre lui semplicemente le diceva “è tutta sudata, potresti lavarla?”.
Sospirò, spingendo l’indumento sul fondo della bacinella ed osservando le bollicine risalire in superficie e trasformarsi in schiuma.
Insomma, era umana anche lei. Sono tutti bravi a parlare, in teoria. Ed infatti si sentiva un po’ in colpa per aver trattato Naozumi come se lei fosse in qualche modo superiore. Le dispiaceva anche per averlo rimproverato bruscamente, alla fine, ma non aveva altra scelta. Una sola rimostranza da parte sua avrebbe potuto portare ad una rottura con Sana, e con lei libera allora forse Akito…
- Non era necessario che lo facessi subito. – le disse suo marito appoggiandosi con la fronte sulla sua spalla.
“Cerchi di farti perdonare?”, avrebbe voluto chiedergli. Ovviamente rimase zitta.
Sfiancato, si lasciò andare sul letto, ansimando.
Bè, sì… era stato stancante. Due volte, con due donne diverse, a distanza così ravvicinata. Segnò sul promemoria di non farlo più (sebbene non vedesse alcun motivo per cui dovesse poter accadere ancora) e chiuse gli occhi, ascoltando Fuka che, dopo aver domato il proprio respiro, si rialzava e si rivestiva, in un calmo frusciare di lenzuola e cotone.
- Io vado a preparare la cena… - disse lei stancamente mentre calzava le pantofole, - tu… vorrai riposare, credo…
Ecco, sì, si sentiva in colpa, e lei lo intuiva sicuramente, quando mai lei non intuiva qualcosa?, dunque perché punzecchiarlo in quella maniera?
Riaprì gli occhi e si mise seduto, e le rivolse uno sguardo, che lei resse fiera per qualche secondo, prima di sorridere con imbarazzo.
- Sì, lo so, Akito. scusa…
“Per carità, non scusarti!”, avrebbe voluto – e dovuto – dirle.
- Comunque tu rimani pure a letto per un po’. Ti chiamo io quando è pronto.
Annuì, distendendosi nuovamente, le braccia incrociate dietro la testa.
Amare Fuka? Perché chiederselo adesso? Non aveva sempre evitato la domanda per paura della risposta? In quei lunghissimi undici anni, non si era forse sempre detto “non è importante, l’importante è sentirsi sereni, essere felici”? E non si era sempre sentito esattamente così, con la sua Fuka tutta comprensione ed acqua di rose?
Non era mai stato necessario chiedersi se l’amasse. Ma… una volta rivista Sana… una volta toccata, accarezzata, stretta, baciata Sana… d’improvviso tornava a chiederselo, ed a chiedersi se… una farsa del genere fosse sostenibile.
Una farsa, eh? Fuka l’avrebbe sbranato vivo, se gli avesse sentito dire una cosa del genere. “Una farsa il mio amore per te?”, l’avrebbe rimproverato, “Una farsa la nostra vita insieme, nostro figlio?”. Yoshi. Con Yoshi era stato tutto molto strano. Aveva cominciato a sentirsi padre improvvisamente, senza un perché. Un giorno ti chiedi chi sia il piccolo estraneo nella culla, il giorno dopo ti dici “eh, bè, ma è Yoshi”, e trovi tutto talmente naturale che a che serve chiedersi ancora qualcosa?
Mh, era questo il dannato punto. Forse avrebbe fatto molti errori in meno se solamente si fosse fermato a riflettere prima di agire.
Per esempio… bè, per esempio, era stato lui a capitolare per primo. Dopo la separazione con Sana aveva resistito tre mesi. Tre mesi appena. E dopo aveva sentito il bisogno di qualcuno che si potesse occupare di lui per il tempo più lungo possibile. Fuka era lì, ed semplicemente molto meglio di quanto non potesse mai sperare di ottenere. Era sua senza neanche bisogno di chiedere.
Ricordava ancora il momento in cui l’aveva spogliata per la prima volta come uno degli attimi di più profonda liberazione e spensieratezza di tutta la sua vita.
Vide tanta luce sul suo viso, nei suoi occhi e nel suo sorriso, che per un secondo – ma solo per un secondo – si sentì a sua volta molto felice. E detestò invece il momento in cui, dopo averlo visto, lei tornò ad essere la solita Sana i cui sguardi incerti imploranti perdono volevano dire “sto bene, ma è chiaro che mi sto accontentando, scusa”. Comunque, si sforzò di sorriderle sinceramente. Ci riuscì. D’altronde, l’aveva fatto spesso in passato, doveva soltanto recuperare l’abitudine.
Fin da quando, tanti e tanti anni prima, la sua Sana gli si era presentata davanti, non in lacrime ma quasi. “Era da tempo che non ci vedevamo”, le aveva detto lui facendola accomodare, “almeno quattro mesi.”, “Già”, aveva annuito lei, le mani incrociate strette in grembo. Lui aveva aspettato un po’ prima di chiedere altro, ed alla fine s’era convinto solo perché averla lì davanti e non chiederle niente sarebbe stato troppo stupido. “Ti sei ripresa?”. Aveva saputo da Sagami – cui chiedeva continuamente informazioni a riguardo – che giusto quattro mesi prima lei ed Hayama avevano rotto, e che recentemente lui aveva ripreso a frequentare Matsui. Sagami aveva usato parole terribili, forse esagerate ma sicuramente preoccupanti, non per la loro forza, ma per il concetto in sé. “E’ stata ad un passo dal morire di disperazione.”, aveva detto Sagami, ecco perché quel giorno l’aveva chiamata insistendo per vederla al più presto.
Sana non aveva risposto alla domanda, aveva sorriso e poi gli aveva chiesto “E tu, invece, come stai?”. Invece di parlare, lui l’aveva baciata, e già un secondo dopo se n’era pentito. “Sono stato inopportuno”, s’era detto, “lei sicuramente non aveva alcuna voglia di un’effusione simile”. Ed invece lei aveva dato vita a quel sorriso, il sorriso rassegnato di chi fa il conto delle proprie possibilità e sceglie la meno brutta; un sorriso tutto suo, dedicato solo a Naozumi Kamura, e benché non fosse più profondo e valido di un “in fondo, mi piaci anche tu”, lui lo prese come la più grande possibilità della sua vita, e non la lasciò più.
Nao era veramente quanto di meglio nella vita potesse capitarle. Poteva sempre starle accanto, di più, i produttori pagavano per averli accanto, non accettavano proposte dagli sceneggiatori, se gli attori consigliati dal casting non erano loro due. In patria erano più famosi delle coppie hollywoodiane, più di quanto non lo fossero stati ai loro tempi Cruise e la Kidman. Erano belli, erano bravi, erano uniti ed affiatati. E grazie a questo, lei non correva il rischio di passare neanche un secondo lontano da lui, non correva il minimo rischio di essere trascurata.
La causa scatenante della sua separazione da Akito era stata quella, il motivo era il – troppo – tempo passata da sola. Lui coi suoi impegni non poteva tralasciare il lavoro all’università, lei non poteva certo rifiutare gli ingaggi. Non certo per rimanere a casa… in attesa del suo ritorno.
Ci aveva provato, ok?, a fare la brava. Ad aspettare, nei giorni di pausa dalle riprese, che Akito rincasasse ogni giorno sempre più stanco ed assente, senza la forza di farle una carezza, talmente affamato da riuscire a modulare solo le sillabe “ci” e “bo”, e sempre pronto a lamentarsi del fatto lei non sapesse cucinare “cose normali” e dovessero giornalmente ordinare la cena in un locale che facesse recapiti a domicilio.
“Non esiste”, si diceva, “non esiste un rapporto simile. Dov’è l’intimità, dov’è la convivenza?”. E poi, un giorno, mentre aspettava, aveva concluso, “Io l’amo, ma non posso aspettarmi solo questo dalla mia vita sentimentale”.
Dopo aver saputo di Akito e Fuka insieme, quasi s’era sentita sollevata. Distrutta e devastata, sì, ma talmente leggera. Forse per un incredibile senso di vuotezza che la coglieva spesso. “Bene, odialo adesso”, provava a ripetersi. Non c’era riuscita. Non ne aveva sentito davvero il bisogno. Eppure, bisogno di qualcosa doveva essere quel macigno sullo stomaco che, fra le altre cose, gli toglieva l’appetito.
Nao. Nao era stato soffice e caldo, l’aveva stretta dolcemente. Era stato tenero e suo fin dal principio, ed era dovunque lei lo volesse. Era perfetto. E lei s’era sentita felice di poterlo accogliere, di passare anni ed anni con lui. Era perfino felice di potergli dare questo figlio. Anche se non ci stava pensando troppo.
Però… però Akito. Strano. Non avrebbe saputo elencare un solo motivo per cui potesse desiderare davvero tornare a stargli accanto, anche solo come prima. Bè, forse riflettendo con meno codardia almeno uno, ma uno importante, l’avrebbe trovato, ma il punto era proprio che questo coraggio non ce l’aveva.
Non poteva ammettere di amarlo neanche con sé stessa.
Perciò, guardò Naozumi, non si scusò ad alta voce, ma lo fece con gli occhi, con l’espressione e col bacio che poco dopo gli diede.
Quel silenzio assoluto era irreale ma comodo. È riposante non essere costretti a parlare di futilità quando invece non vorresti fare altro che urlare rabbiosamente contro il tuo prossimo.
Non che fossero realmente arrabbiati… più che altro nervosi per tanti, tanti motivi di cui era meglio non parlare. Non se ne parla mai quando il rischio di perdere tutto è così alto ed il gioco non vale affatto la candela.
…perché, non la vale, vero?
- Sono stanca.
- …? Eh?
- Dico… - si affrettò a precisare lei, per evitare che lui fraintendesse, - è faticoso avere ospiti. Potresti anche aiutare, quantomeno ad aprire quel cavolo di divano letto rigido come un pezzo di legno…
- …è fatto di legno…
- Sciocchezze, le congiunture sono di metallo e dovrebbero essere bene oliate, ma non è questo il punto, ti costerebbe troppa fatica, solo ogni tanto, chiudere quel dannatissimo coso, visto che poi, comunque, io devo aprirlo ogni sera?
- Ma perché non lo lasci aperto?
- Non abbiamo un salotto tanto grande da poter essere vivibile con un letto aperto ventiquattro ore al giorno, te lo ricordi, sì?
Non era un litigio, non era nemmeno una discussione. Era uno scambio di battute, era la sua Fuka che parlava a macchinetta. Si dice “normali scene di vita coniugale”.
- Mamma…
Yoshi s’intrufolò nella stanza senza chiedere permesso, saltando sul lettone e guardando sua madre con occhi imploranti.
- Mamma, mamma, guarda! – disse mostrando a Fuka una rivista aperta su una pagina chiassosa e colorata. La pubblicità di un Luna Park. Akito sentì “crack” da qualche parte nel petto, leggendone il nome. Pregò che suo figlio non chiedesse quello che invece, lo sapeva fin troppo bene, stava per chiedergli, e finse il più profondo disinteresse.
- Mamma, ci voglio andare!
- Ma che leggi queste riviste a quest’ora…? Dovresti già stare dormendo!
- Mamy, per favore!
Fuka sbuffò.
- Ne parleremo domani, Yoshi-chan…
Vedendo che il piano occhi dolci&piagnucolosi su sua madre non aveva effetto, il piccolo si voltò verso suo padre, adottando la stessa tattica.
- Papà… papà, ti prego!
Akito accettò. Forse perché cedette allo sguardo tenero di suo figlio, per dimostrare di essere un buon padre. Oppure per dimostrare a sé stesso di poter riuscire a non scoppiare a piangere rimettendo piede al Dreamland.
- …e Kamura dov’è?
- L-Lui è già… in bagno… ma tu…?
Che scena surreale. Lui che irrompe in salotto, alle sette e mezzo del mattino – ha promesso a Yoshi di andare al Luna Park di buon’ora, quindi si è dovuto svegliare presto – e la trova ancora a letto, seduta, che stringe al seno il lenzuolo per coprirsi, visto che indossa solo una sottoveste di raso bianco.
I capelli, resi luminosi dalla luce del sole che filtrava dal singolo spiraglio fra le due tende, ricadevano morbidi, in boccoli naturali, fino al seno, conducendovi lo sguardo.
Akito deglutì entrando.
- Ieri ho detto a Fuka che oggi avrei chiuso io quest’affare. Lei lo trova faticoso.
Sana annuì lentamente, ancora stordita dall’invasione.
- Sì, ok, ma… potresti aspettare che… non so, che mi alzi e mi vesta?
Akito scosse la testa.
- Ho promesso a Yoshi che oggi l’avrei portato nella regione T…. Sai, al Luna Park. Al Dreamland.
La vide irrigidirsi tutta e poi sorridere nervosamente.
- No… scherzi?
Lui negò di nuovo. Lei ridacchiò sommessamente.
- Allora, in questo caso… - disse alzandosi in piedi e rimanendo accanto al letto, al quale Akito si avvicinò, con l’iniziale sincera e decisa intenzione di chiuderlo. Provò a spingere – solitamente era così che si chiudeva, automaticamente, - ma in effetti incontrò qualche difficoltà. Le giunture erano parecchio dure.
- E’ rigido?
Si bloccò, e la guardò dal basso verso l’alto. Si chiese se realizzasse appieno il significato di ciò che gli aveva detto – anche se si vergognava molto, perché si sentiva come un ragazzino che si aggrappa ai doppi sensi.
Sana realizzò ed arrossì.
- Intendevo… io intendevo… il letto.
Per la cronaca, era “rigido” sì. Tanto da fare male. Da quando l’aveva vista, appena entrato nella stanza. Forse da prima, dal solo pensiero di rivederla. Non lo ricordava, e non era importante.
Si raddrizzò, avvicinandosi a lei. Sollevò le mani, che percorsero l’arco della vita ed indugiarono sui fianchi.
- No… no. Naozumi potrebbe tornare, si sta solo facendo la doccia, tornerà in un secondo…
Lui non rispose. Si separò da lei. Raggiunse la porta. La chiuse a chiave. Le si riavvicinò.
Cavolo, Naozumi, dico, ma scherzi? Stringi i denti e staccati da quella porta, visto che non hai avuto il coraggio di farti vedere da loro non ha senso continuare a stare qui. E poi guardati, sei ridicolo col solo asciugamano a fasciarti i fianchi, ma cosa speravi di fare? Tornare nella stanza e darle il tuo “buongiorno speciale”? Non per ora, non per oggi e non per i restanti tre giorni in quest’inferno, lo sai, che lei sarà sua fino a quando non sarete sul treno verso Tokyo, e sai anche che non hai altra scelta che accettarlo e chiudere gli occhi.
Per carità, non origliare, non origliare, che pietà, ma chi te lo fa fare? Sei sconvolgente, sei disgustoso.
E dunque, visto che devi ascoltare, quantomeno ascolta bene. Senti, come geme? Ti sembra che gema così quando fa l’amore con te? Non geme affatto così, ecco la riposta, è perché Akito la tocca, è perché Akito la bacia, è perché Akito se la scopa, lo senti?, non riesce a trattenere le urla. Immaginatela, nuda, sudata, con espressione persa, si passa la lingua sulle labbra, ogni tanto si lascia andare ad un mezzo sorriso, ha gli occhi chiusi, oh, come gli scivola fra le braccia, puoi vederla, con gli occhi della mente, perché con te lo fa spesso, ma con lui di più, e…
…oh, Naozumi, ma che schifo, non sei un ragazzino che immagina la ragazza che ama in pose da coniglietta Playboy, sei un uomo che ascolta la sua donna fare sesso con un altro, dunque ricomponiti, fai sparire quell’erezione fuori luogo, Cristo che disgusto, torna in te, dico, scherzi?!, stringi i denti e vai via.
Il primo pensiero lucido, nel vederlo lì, disfatto, per terra, fu un categorico ed ostinato rifiuto dell’evidenza dei fatti, un secco “NO” nel cervello.
No. Non può aver sentito, non può aver capito, non può sapere.
Kamura sapeva. O almeno, probabilmente sapeva già da prima, ma… bè, chissà perché, quando sai di essere stato colto il flagrante è più difficile. È più doloroso. Non è più tacita conoscenza, è rumoroso sdegno. È rumoroso anche il silenzio, non era forse come un grido quell’espressione smarrita e spenta? Non era un grido terribile? Ad Akito rimbombarono le orecchie.
Sana uscì in quell’istante. Capì tutto in un colpo d’occhio, e crollò in ginocchio, piangendo accanto a quell’impressionante Naozumi silenzioso. Dopo qualche secondo in cui si sentirono solo i singhiozzi della donna, fu Naozumi stesso a parlare.
- Basta, Sana, smetti di piangere, per piacere.
Sana capì – “non ho alcun diritto a queste lacrime” – e tornò silenziosa, guardando fisso per terra.
- Io… voglio fare finta di non aver visto e sentito niente. Posso…? Per questi tre giorni, posso…?
Stringiamo i denti. Facciamolo tutti. Saremo noi stessi solo per altri tre giorni, e poi torneremo “normali”.
“Dunque… voi fate come se foste a casa vostra… Kyoto è una bella città.”, aveva detto Fuka mentre ancorava Yoshi al sedile posteriore con la cintura di sicurezza.
Una parola; dopo la scenata assurda di quella mattina, che fare? Prendersi per mano ed andare in gita turistica “oh, Nao, voglio visitare i templi!”? Per favore. Va bene l’ipocrisia, ma…
- Che vuoi fare oggi? – le chiese Naozumi ingoiando l’ultimo boccone di cornetto.
- Mh?
Lei sollevò il capo, senza afferrare.
- Dico… vuoi fare una passeggiata? Uscire un po’?
Sana si strinse nelle spalle.
- Non so… tu…?
- Io voglio uscire. Ti dispiace se andiamo un po’ in giro?
Scosse il capo, condiscendente.
Aveva ragione anche lui, in fondo. Se serve a farci uscire di casa, a farci stare meno peggio, va bene anche un po’ d’ipocrisia.
- E’… successo qualcosa, stamattina?
- Mh?
- Intendo… ho sentito… un po’ di confusione…
Akito gettò uno sguardo a Yoshi dallo specchietto retrovisore. Dormiva profondamente, il capo reclinato sulla spalla ed una gocciolina di saliva pensante da un angolo della bocca.
- Sì. Kamura s’è sentito male.
Fuka fece tanto d’occhi, voltandosi a guardarlo.
- Che…? E che ha avuto?
Akito fece spallucce.
- Gli è passato subito, ma Sana s’è spaventata.
Il nome gli era sfuggito di bocca senza neanche che neanche se ne accorgesse. Ci pensò solo dopo, quando vide l’espressione di Fuka di sfuggita, poco prima che chinasse il viso.
- Da quando vi siete lasciati… anche quando parlavi di lei… l’avevi sempre chiamata Kurata.
Lui stette per qualche secondo senza sapere cosa dire.
Alla fine, scusarsi gli sembrò il minimo.
Suo padre gli camminava avanti, era grande. La schiena di papà, così ampia e forte, l’aveva sempre attratto. Ricordava di quando in seconda elementare avevano fatto disegnare a tutti un’immagine della famiglia. Lui si era disegnato al centro del foglio, perché la mamma gli ripeteva spesso che lui era proprio al centro dei pensieri di lei e papà. Poi aveva disegnato mamma, sorridente e luminosa, perché lei era sempre così. Aveva il viso bianco, pulito e profumato, e l’abbracciava spesso, dunque l’aveva disegnata vicinissima a sé stesso. Ed infine aveva disegnato papà. Non l’aveva messo in un punto corretto, se ne rendeva conto, non era neanche un corpo, piuttosto una figura grande, indefinita, che dominava come un’ombra l’intera scena. Di spalle. Grandi, grandi spalle. Non poteva immaginare niente di più paterno.
Inspiegabilmente, la maestra s’era molto allarmata. Aveva chiamato la mamma e le aveva parlato a lungo, e la mamma aveva ascoltato in silenzio tutto il tempo, annuendo di tanto in tanto, l’espressione triste e quasi… mortificata.
Non aveva colto molto del discorso della maestra, ma due parole sì. Una la conosceva da tanto, “papà”, l’aveva sempre saputa. L’altra la conosceva da poco, ed era “assenza”. Mamma gliel’aveva spiegata qualche tempo prima, e non ricordava riguardo a cosa. Non ricordava quasi neanche di conoscerla, ma nel sentirla gli era subito tornata in mente, perché aveva un significato spaventoso. Assenza è quando una cosa non c’è. Assenza… di papà?
Non era così. Proprio no.
In macchina, sulla strada verso casa, mamma era tornata sull’argomento.
- Yoshi, - gli aveva chiesto, - Ogni tanto papà ti sembra molto lontano? Ti sembra che se ne vada spesso?
Lui aveva scosso la testa.
- Ed allora perché l’hai disegnato di spalle?
Mamma aveva una voce dolce e paziente. Quando la maestra gli aveva chiesto spiegazioni, invece, era nervosa e sembrava avere una gran fretta. A mamma sentì di poter provare a spiegare.
- Non è che io vedo solo la sua schiena, mamma.
La mamma aveva annuito, rimanendo in ascolto.
- Tu la guardi la schiena di papà?
- Che vuoi dire?
- Quando prende le cose sugli scaffali in alto… quando prende le borse…
- Mh… e allora?
- La schiena di papà è grande e forte, ed a me piace tanto. La voglio pure io così, da grande. L’ho disegnata perché è la cosa che mi piace di più.
- E perché… non hai disegnato la sua faccia, come con me?
Allora la sua testa si era riempita di pensieri cupi. Il viso di papà, i suoi occhi…
- Perché papà ogni tanto quando mi guarda fa gli occhi tristi…
- Yoshi, ti piacciono le montagne russe?
“Mi piacerebbe di più che tu mi portassi a cavalluccio”, pensò Yoshi, e subito se ne vergognò, perché non gli sembrava affatto una pensiero degno di un bambino di dieci anni. A cavalluccio vai a tre, quattro, massimo cinque anni, non a dieci. A dieci anni sei già troppo grande per un’idiozia del genere.
- Che? – gli chiese suo padre con poca delicatezza, scrutandolo con diffidenza.
- Mi piacciono le montagne russe! – rispose con un sorriso, senza lasciar passare troppo tempo.
Akito lo guardò. Guardò suo figlio fingere di non avere nulla quando era invece palese stesse rimuginando chissà che cosa in quel cervellino, e si sentì molto triste. Una sensazione molto simile a quella che ogni tanto provava quando, ad esempio, gli capitava di guardare Fuka e vederla così inesauribilmente felice mentre ancora lui, da qualche parte nello stomaco, sentiva una fitta gridare “rimpianto!”. Però era molto più triste, perché erano due cose diverse. Con Yoshi non era l’impossibilità di adeguarsi appieno ad uno stato d’animo nonostante lo considerasse giusto, era il tristissimo rimorso nel dover sentire dentro “come pensi sarebbe stato se questo bambino non fosse esistito?” ogni volta che guardava suo figlio.
Suo figlio. E lui avrebbe dovuto già sapere quanto potesse essere terribile e doloroso per un figlio anche il solo intuire un pensiero simile nel proprio padre.
Che comunque… era strano, perché il suo non era mai un desiderio di ritorno al passato, un desiderio di “non avere Yoshi” perché con lui era tutto molto più difficile e molto più importante, ma piuttosto… il pensiero di Sana. Che dovunque si girasse era sempre là. Il tentativo folle di trovare un motivo, una scappatoia grazie alla quale loro “sarebbero rimasti insieme, se non che…”.
“Sì, certo. Se Yoshi non ci fosse stato, se io avessi potuto in qualche modo dichiararmi slegato da Fuka, saremmo sicuramente tornati insieme, dopo un po’.”
Così era molto più facile pensarci. Così poteva pensare a Sana senza distruggersi di sensi di colpa. Poteva crogiolarsi nella certezza che “l’amava, sì, ma Yoshi…”.
Che poi, amore.
Se avesse dovuto aggettivare l’amore, se avesse dovuto dire che l’amore è serenità, appagamento sessuale, condivisione giornaliera di gioie e dolori, allora amava senz’altro la sua Fuka.
Era quando pensava all’amore irrazionale, quello senza aggettivi, che Sana gli si attaccava alla mente e non l’abbandonava più.
Si complimentò con se stesso: giocando con Yoshi e prendendolo sulle spalle per aiutarlo a raggiungere la palla che s’era incastrata tra i rami bassi di un albero, era riuscito a rasserenarlo un po’, qualsiasi fosse il pensiero cupo in cui si stava rigirando prima. Sembrava che suo figlio si fosse divertito, che fosse felice. E poi, lui stesso era riuscito perfino a non deprimersi troppo ogni volta che, per accompagnare il bambino, doveva salire su una giostra sulla quale era già salito con Sana più di… vent’anni prima. L’aveva sconvolto ricordare tutto così bene, ma non si era mostrato triste neanche per un secondo, e di questo andava molto fiero.
Guardò suo figlio dormire profondamente, un’espressione esausta ma soddisfatta, sul sedile posteriore, e mise in moto. Vide che anche Fuka gettava uno sguardo al bambino, e subito si sentì assalire da un impulso assurdo: stringere la mano a sua moglie e sorriderle. Si disse, “Davvero, ho tutti i motivi per essere felice, ed anche in tutti questi anni, io felice lo sono stato, ed allora…?”.
- Bè, parla, dai.
La guardò con occhi curiosi, incerto sul da farsi.
Fuka prese un’enorme boccata d’aria e poi chiarì le sue intenzioni.
- Lo so che è una situazione brutta. Io so tutto, Akito. Ma tutto tutto. Quello che non so lo immagino, dunque non farti… problemi, se vuoi sfogarti.
Lui continuò a guidare, tenendo lo sguardo fisso sulla strada.
- Scusa. – disse alla fine.
- Che c’entra?! – sbuffò Fuka incrociando le braccia, - Non volevo suggerirti che fosse il caso di scusarti, te l’avrei detto chiaramente, se fosse stato così.
- Lo so.
- Ecco. Ed allora perché di sei scusato? Guarda che io volevo sentire tutt’altro tipo di cose.
- Sì, ma quello è l’unica cosa che voglio dirti adesso.
Fuka ridacchiò, abbassando lo sguardo.
- Sai? Sinceramente parlando, questo tuo senso di colpa mi consola, un po’.
- Che vuol dire?
- Cioè… - guardò fuori dal finestrino, inspiegabilmente agitata, - Se… pur amando lei… ami anche me al punto da sentirti in colpa, io mi sento felice. Anche se forse sto semplificando la situazione…
Akito ebbe voglia di fermarsi di colpo, scendere, afferrare Fuka per le spalle, scuoterla e baciarla. Non lo fece.
- Ma che cosa dici?
- Era chiaro, dai…
- Tu lo sai cosa provo per te.
Fuka annuì.
- Non… parlare come se fossi rassegnata al secondo posto per via di… Kurata. Non sei mai stata al secondo posto, da quando ci siamo sposati.
Fuka annuì ancora.
Forse si sentiva seconda solo in quel momento, solo in quella settimana. Se Akito le assicurava che dopo sarebbe immancabilmente tornata prima, allora poteva fidarsi.
- Oh! Com’era il Dreamland?
Sana sembrava allegra.
- Bello! – rispose sorridendo, - Yoshi-chan s’è divertito veramente tantissimo!
- Eh, sì… immagino…
Se ci pensava bene, si accorgeva che era la prima volta che stavano loro due da sole, sa quando lei e Naozumi erano arrivati. Trovò in qualche modo sgradevole quella considerazione. Che bisogno aveva di annotare mentalmente il tempo passato con Sana, le parole dette? Non aveva senso. Cioè, sì, poteva essere doloroso scoprire che non era più naturale passare del tempo insieme senza parlare di futilità, ma non puoi annullare gli effetti del tempo e degli eventi, no?
- Ti aiuto a preparare la cena? Facciamo qualcosa di speciale, sarete affamati, voi.
Annuì sorridendo lievemente, e tirando fuori dal frigo una confezione di funghi.
- Taglia questi a fettine sottili, grazie.
- Ti avverto che se non è cucina francese io…
Rise.
- Dai, devi solo tagliarli a fettine!
Sana annuì, prendendo un coltello dal cassetto e cominciando a lavare i funghi.
- Ti vedo allegra! – commentò Fuka, tanto per parlare.
“Sì, è perché fino ad ora non ho visto Akito”, pensò Sana, e rabbrividì.
- Ho fatto una lunga passeggiata con Nao. Ritrovarmi in mezzo alla gente è stato bello.
- Assalita dai fans?
Sana rise.
- Sì, ma è stato piacevole.
Era vero, comunque. Da quando era arrivata in quella città aveva visto solo Akito – il piacere ed il dolore che riusciva a procurarle – Naozumi – il modo in cui comunque lo faceva soffrire – e Fuka – la gelosia che provava nei suoi confronti – ed uscire da quella casa, stare per strada, sentirsi chiamata da sconosciuti talmente contenti di vederla, sì, le aveva fatto bene. Perfino stare tanto vicina a Naozumi le era sembrato meno pesante, ed aveva adorato poter camminare con lui stringendogli una mano, così, in tranquillità. E dunque sì, era felice.
- Ne sono contenta.
E poi il silenzio. Un silenzio di una leggerezza impalpabile veramente meravigliosa, del quale tutte e due furono grate.
“Sì”, si disse Fuka, “alla fine, c’è poco da prenderla male. E’ così che funziona quando, pur volendosi bene, un bene antico che non sai motivare, per qualche ragione ci si separa per tanto tempo. Non c’è da arrabbiarsi, c’è solo da stringere i denti.”
In tutta onestà, non poteva dire di provare ancora dell’affetto per quella donna. Non avrebbe potuto negare con risolutezza di odiarla, e neanche affermare il contrario, però. Ma, forse per abitudine a non averla, non faceva altro che desiderarla il più lontano possibile da casa sua.
Sana agitò una mano verso di lui.
- Ciao… - gli disse flebilmente, stringendosi nelle spalle e diventando improvvisamente minuscola.
- Ehi. – le si avvicinò, sedendosi sul divano.
- Disturbo? – chiese Naozumi senza preoccuparsi più di tanto di nascondere l’astio nella voce, entrando lievemente in salotto.
Era la prima “rivincita” che si prendeva “su di loro” in assoluto. Sana sorrise e scosse il capo, senza commentare. Perfino Akito rimase in silenzio, senza guardare l’altro uomo ma salutandolo con un cenno della mano.
Naozumi raggiunse il divano e si sedette alla destra di Sana. Akito era ancora ben saldato alla sua sinistra, le mani sulle ginocchia.
“Eccomi qui,” pensò Sana, e le venne quasi da ridere. Poi pensò con disappunto che, almeno, lei e Fuka non avevano mai voluto mettere Akito in mezzo a loro su un divano, come nella pin-up di uno shoujo manga. Perché, dunque, loro due invece potevano permettersi di tenerla in quella situazione? “Forse che gli uomini fanno lavorare il cervello secondo gli schemi degli shoujo?”, pensò, ed una risata quasi le sfuggì dalla bocca, ma solo quasi, perché il realtà era una scena di una tristezza ed uno squallore infiniti.
E mentre stava lì chiedendosi se sarebbe stato più saggio avvicinarsi definitivamente a Naozumi, magari appoggiarsi a lui e dare ad Akito un segnale chiarissimo, o semplicemente alzarsi dal divano e dissociarsi da quella situazione assurda, lui la toccò. Akito sollevò una mano e, di nascosto, le posò due dita sull’interno del gomito. Neanche fece pressione più di tanto, la sfiorò solamente e poi lasciò lì la mano, come se quello fosse il suo posto naturale.
A Sana non servì altro. “Sono sua”, ammise con terrore, “Sono tutta sua”. E poi, quasi tremando, sentendosi ghiacciare le ossa e la fronte mentre tutto ciò che di lei rimaneva caldo era il punto su cui sostavano le dita di Akito, si disse “devo scappare da qui. Devo andarmene subito”.
Quella notte ne parlò a Naozumi. Non disse tutto, ovviamente, e d’altronde non ce n’era neanche bisogno, gli disse solo che voleva andare, e lui in qualche modo, nel suo solito modo, dovette capire, perché la strinse forte, non la baciò, non l’accarezzò, non le disse niente, la strinse e basta, e quella stretta poteva dire una sola cosa, era inequivocabile, “Ti amo e ti voglio con me e basta”, e Sana pianse un po’, ma non erano lacrime di rimpianto e neanche di nostalgia, e nemmeno di tristezza perché Akito non l’avrebbe più rivisto. Forse erano semplicemente lacrime di commozione, ma lei volle credere fossero d’amore.
L’indomani mattina Sana ed Akito si svegliarono molto tardi, nel silenzio più assoluto, e quando si ritrovarono nella stessa stanza, e si guardarono negli occhi, si videro di fronte ad una sconvolgente evidenza dei fatti.
Erano soli. Improvvisamente e senza un apparente motivo.
Si guardarono a lungo cercando di capire come e perché, ed alla fine, tacitamente, decisero di cercare qualche indizio in giro per la casa.
Trovarono un biglietto in cucina, sul frigorifero. Non diceva niente di speciale, non spiegava nulla, nulla più di quanto non avessero già capito da soli, “Siamo usciti, torniamo a pranzo”. Cosa significasse, per Sana era abbastanza chiaro, non c’era bisogno di rifletterci né di sconvolgersi più di tanto. Nelle ore di dormiveglia che avevano preceduto il sonno s’era ritrovata spesso a pensare che, forse, Naozumi per lei l’avrebbe fatto davvero.
Akito, invece, sembrava cadere dalle nuvole, e la guardava come se volesse riuscire a trovare un senso a tutto nella sua espressione.
- Bè? – le chiese infine, lievemente allarmato da quel prolungato silenzio.
Lei si strinse nelle spalle ed uscì dalla cucina, sorridendo tristemente. Lui le corse dietro, afferrandola poco delicatamente per un braccio.
- Che mi stai nascondendo?
- Ma nulla, nulla…
- Dimmelo subito, sai?
L’ordine non la infastidì quanto avrebbe dovuto. Piuttosto, nel millesimo di secondo in cui si voltò verso di lui, ebbe modo di pentirsi mille volte per aver chiesto a Naozumi di andare via prima. E se ne pentì per vari motivi. Primo fra tutti che non lo voleva veramente. Già, in un mondo perfetto in cui fosse stata libera di scegliere del proprio destino senza per ciò distruggere la felicità altrui, avrebbe sicuramente deciso di appiccicarsi, senza mezzi termini, ad Akito Hayama, e possibilmente diventare parte di lui, una sua appendice, un’appendice con cui poter fare l’amore, però, e sarebbe stato perfetto. Secondo poi, aveva una paura immensa che la consapevolezza di doverlo lasciare di lì a poche ore amplificasse le sue sensazioni tanto da stordirla o confonderla.
D’altronde, stava già succedendo. Lui la teneva ferma per un braccio, probabilmente la guardava dritta negli occhi, lei non poteva saperlo, perché faceva fuggire lo sguardo altrove, e già lo sentiva riempirsi di lacrime di un’agitazione prematura ed assolutamente ingiustificata.
- Dimmelo. – ripeté lui, e Sana sentì la sua voce tremare.
- Vado via.
Lui sembrò rilassarsi, tanto che allentò la presa sul braccio e fece scivolare la mano lungo l’arto, verso il basso. Evidentemente non aveva colto.
- Vado via oggi. – precisò, - Questo pomeriggio.
Le dita si richiusero attorno al polso, con uno scatto doloroso.
- Ahi. – disse Sana atona. Cominciò a piangere, ma non sentiva davvero male. Ed anche l’avesse sentito, il motivo delle lacrime non sarebbe stato quello.
- Perché? – chiese lui quasi subito, senza lasciarla, ignorando il suo lamento.
- Immaginalo. – disse lei abbassando lo sguardo.
“Mi ama ancora”, rimbombò nella testa di Akito. “E la amo anche io”. Le sue dita glielo confermarono, smettendo di stringere e cominciando ad avvolgere. I muscoli del braccio fecero loro eco, attirandola più vicino, e poi fu come se tutto il suo corpo non volesse fare altro che gridare amore per quella donna, e lei si ritrovò cinta dalle sue braccia, talmente vicina a lui da potersi illudere di affondare nel suo petto.
Chiuse gli occhi, stringendolo a sua volta dietro la schiena, aggrappandosi con le dita e con le unghie alla sua maglietta bianca.
- Non ti sembra strano non doversi dire niente, a questo punto? – gli chiese con una risatina imbarazzata.
Lui scosse il capo, e nel muoversi col mento le sfiorò la fronte. Un contatto più dolce era assolutamente inimmaginabile.
- Però dovremmo parlare dei perché. Perché questo sentimento, perché lasciare le cose come stanno. – sospirò, - Perché partire.
- Perché sì. – disse lui, e lei pensò che è così che si fa con i bambini, si da un imperativo categorico assoluto senza fornire motivazioni di sorta, perché quando sei troppo piccolo non puoi capire che se ti arrampichi su un tavolo e ti butti di sotto puoi anche morire, ed è per questo che mamma e papà ti afferrano per il polso, ti scuotono un po’ e ti dicono che non si fa “perché no”.
“E’ uguale, Akito, non siamo cresciuti mai”.
Ed allora non aveva senso disquisire sui loro sentimenti, lei doveva andare via, perché sì, e non dovevano parlare di quello che provavano per Fuka e Naozumi, lui doveva lasciarla andare, perché sì, non avevano neppure bisogno di parlare di Yoshi e del futuro bambino di Sana, non dovevano vedersi mai più, perché sì.
- Allora adesso non dovresti abbracciarmi più.
- Questo è diverso.
- E cos’è? Una commemorazione?
- …può darsi. – concluse lui facendo spallucce.
Si separò da lei, conducendola sul divano per una mano. Quando si furono seduti lì, l’abbraccio ancora, lasciandole accomodare il capo sul suo petto, godendo della lieve pressione della sua testa sui suoi respiri.
- A cosa serve stare seduti così? – chiese lei con voce tremante.
- A ricordarlo sempre. – rispose Akito facendole scivolare una mano lungo il braccio, in una lenta carezza.
Lei rabbrividì per tutta la durata per contatto. Le venne la pelle d’oca ovunque. Non si mosse quando la sollevò, né quando lui chinò il capo per raggiungere le sue labbra.
- No… - mormorò, ma già pensava “magari uno solo”.
Mentre lo baciava, sentì un sapore orrendo. D’altronde, nessuno dei due s’era ancora lavato i denti.
- Ugh… disgustoso… - commentò Akito separandosi da lei, ed un secondo dopo la stava baciando di nuovo.
“Un altro ancora, magari… l’ultimo e basta”.
Quando lui scese sotto la camicia da notte, sfiorandole le gambe, Sana pensò che, comunque fosse, quei giorni erano stati belli. Non felici, non spensierati, non riposanti, piuttosto tristi, pesanti, assolutamente irripetibili, belli. Intensi. Ed intensa doveva essere anche quella mezz’ora di sesso, intensa doveva essere anche la successiva ora e mezza in attesa del ritiro di quei due, intenso doveva essere il loro addio.
“Rendiamo giustizia a questo amore, Akito”, pensò salendogli a cavalcioni ed accogliendolo dentro di lei con un gemito.
Lui chiuse gli occhi, abbandonandosi sulla spalliera del divano.
- Muoviti… - sussurrò, e lei si mosse, verso l’alto, in avanti, verso il basso, indietro, scendendo giù fino al massimo, risalendo su fino al limite, lenta, già sudata, appoggiandosi indietro alle ginocchia di lui, sporgendo il seno verso il suo viso. Akito dischiuse gli occhi, vide l’offerta, vi si gettò addosso, avido, avvolgendo un capezzolo con le labbra e l’altro con le dita, non resistendo all’impulso e cominciando a sua volta a muoversi con vigore, gustando il suo sapore e quell’adorabile lentezza, come stessero giocando ad allontanare il più possibile la fine di quel rapporto.
“Vorrei tirarla fino a stasera”, si ritrovò a pensare, e quasi rise di se stesso, ma che voleva fare?, eppure sarebbe stato stupendo, lì su quel divano per cinque o sei ore, sempre lo stesso movimento, non riusciva neanche a contemplare l’eventualità della stanchezza, figurarsi la noia, erano lui e Sana in venti minuti infiniti.
Liberò il seno e si sollevò, in cerca delle sue labbra, ma più lui si sollevava più lei veniva spinta verso l’alto, e si allontanava.
- Sana… - la chiamò, e lei aprì gli occhi e si accorse del suo desiderio, si chinò e gli circondò il collo con le braccia, e poi dischiuse le labbra, ed Akito la baciò e sentì di nuovo quel saporaccio da notte, “Siamo umani, infondo”, si disse, “non durerà per sempre, l’eco delle sensazioni, per quanto vivido, prima o poi svanirà, e noi sapremo che abbiamo fatto l’amore e che è stato bello, ma ci saremo già lavati milioni di volte e su di noi, di tutto questo, non sarà rimasta più alcuna traccia, ma adesso è fantastico lo stesso”.
Venendo si abbracciarono forte, fortissimo, “Magari così ci fondiamo”, pensò Sana infantilmente, ma non accadde nulla ed allora, dopo un po’, si separarono.
Camminavano piano, guardando fisso per terra, silenziosi, senza sfiorarsi nemmeno e tenendo sempre costante la distanza fra di loro. Fuka sbirciò nella sua direzione solo dopo quasi un’ora. Lo vide tranquillo, insomma, almeno impassibile. Lei, invece, era sicura di essere furiosa, e sapeva bene che era esattamente ciò che la sua espressione mostrava.
- Non capisco. – sbottò d’improvviso.
- Che cosa? – chiese lui con un sospiro, senza guardarla.
- Perché hai voluto lasciarli soli. Insomma, poche ore ed andate via.
- Appunto.
- Mi sembra che siano stati dati loro già abbastanza contentini, anche escludendo questo.
- Non è una questione così semplice.
L’uomo si guardò intorno, fissando lo sguardo su una macchia verde pochi metri avanti a loro.
- Cos’è quello?
- Un parco. – rispose Fuka trattenendo l’astio.
- Ci sono le panchine per sedersi?
- Se è per questo, volendo c’è anche un bar.
Naozumi annuì e ricominciò a camminare. Lei lo seguì oltre il cancello. Era un grande giardino, quello, un giardino all’inglese. Aiuole con piante di ogni tipo, dalle più classiche alle più esotiche, intervallate da lindi vialetti lastricati, e panchine il legno e ferro battuto su ogni lato della via, la quale poi sfociava in un’ampia piazza occupata quasi per metà da un’immensa fontana con statue, papere, pesci rossi ed acqua torbida, e per un altro buon quarto da un edificio basso e di un orrido gialliccio sbiadito – il bar – e dai tavolini che lo circondavano.
I due presero posto, ed ordinarono un caffè ed una granita al limone. Ovviamente fu Fuka a prendere il caffè, per Naozumi era una bevanda troppo forte. Erano lontani i tempi in cui Sana lo prendeva in giro perché non riusciva a masticare una semplicissima chewing-gum alla menta, ma lui, tutto sommato, era cambiato poco. Troppo poco.
Fuka riuscì a tacere solo per poco.
- Allora?
- Allora cosa?
- Se la questione non è semplice, com’è?
- …complicata…?
- …hai per caso intenzione di morire…?
Naozumi rise e poi la guardò fissa negli occhi.
- Fuka, tu non ti senti in colpa?
- Ah, no! In colpa no! – disse infastidita ed adirata, sbattendo la tazza sul suo piattino e facendo schizzare sul tavolo qualche goccia di caffè, - In colpa no. Tutto quello che è successo da quando si sono lasciati, ed anche quello che è successo in questi giorni, è una loro responsabilità, e noi siamo stati fin troppo accondiscendenti, per come la vedo io.
Lui scrollò le spalle.
- Beata te che la pensi così.
- Perché, tu invece mi vorresti dire che ti senti in qualche modo colpevole di qualcosa?
Naozumi annuì.
- Assurdo. – commentò acida Fuka incrociando le braccia ed accavallando le gambe.
- Sarà. Però tu lo sai, Fuka, che si amano.
Il volto dai lineamenti tesi della donna tremò, e lei deviò lo sguardo sugli zampilli della fontana poco distante.
- Lui rimarrà con me. – affermò con decisione, la voce ridotta ad un sibilo.
- Sì, lo so, - annuì Naozumi, - anche lei rimarrà con me. Ma noi vivremo sempre col pensiero che ce li siamo tenuti stretti a discapito del loro amore.
- Ricordati che se tornassero insieme lo farebbero a discapito del nostro. – disse con gli occhi che si riempivano di lacrime.
- Sì, ma non lo faranno. Il che fa di noi gli unici colpevoli.
- Smettila! – quasi urlò, con voce stridula, - Che diavolo di discorsi mi fai, perché mi dici queste cose? Non ci avrei pensato, mi sarei obbligata a non pensarci, se tu non me l’avessi detto così!
- Lo so. Scusa. È che… - tirò fuori un fazzolettino di carta dalla tasca, porgendoglielo, - portare questo peso tutto da solo non mi va. Almeno, così potremo farci una chiamata ogni tanto, sfogandoci perché ci riteniamo inadeguati, infelici, eccetera eccetera.
Fuka singhiozzò, e poi scosse la testa.
- Non credo che succederà. Sai, da sempre, il più importante dei miei obbiettivi è stato “stare con Akito”. Non potrei pentirmi di nulla fatto per stare con lui.
Sul momento, ascoltando le parole di Fuka, a Naozumi venne da pensare “troppo egoista”. Poi, però, si corresse. “No, io troppo martire”.
- Naozumi, io lo amo. – disse la donna stringendo le mani in grembo.
- Lo so già. Perché lo ripeti?
Lei sorrise con imbarazzo.
- Ogni tanto fa bene ribadire il concetto.
Quando suonarono alla porta, Akito non perse un secondo prima di alzarsi dal divano per andare ad aprire.
- Aspetta, aspetta! – mormorò confusamente Sana sollevandosi di scatto e tirandolo per la maglia.
“E’ l’ultima volta che lo tocco. Non lo farò più”, si disse, e già le veniva di nuovo da piangere.
Lui le prese la mano, dolcemente, provando a scostarla. Lei non si mosse, e strinse più forte.
- Dimmelo. Solo una volta. Dai.
Akito la guardò in silenzio per qualche secondo. Poi diede uno strattone improvviso alla mano – non forte, non violento, solo improvviso – e la mano si staccò.
- No. – disse piano.
Lasciò andare il polso e le strinse teneramente due dita.
- Non ti ci aggrappare più, Sana.
Akito aiutò Naozumi a caricare le valigie nella macchina, e poi lo salutò con una stretta di mano.
- Ci accompagni tu, Fuka? – chiese Sana titubante.
- Sì, - rispose lei sorridendo, - Akito rimane a casa con Yoshi-chan.
Lui le passò davanti proprio in quel momento. Lo salutò senza avvicinarsi, con un sorriso ed un cenno della mano. Lui fece la stessa cosa, sorriso compreso. Flebilissimo, ma compreso. Salutò da lontano anche il biondino che, imbarazzato, faceva capolino dalla porta d’ingresso, e sorrise pensando che si sarebbe fatto un bel ragazzo.
Il viaggio in macchina su molto breve. Alla stazione, Sana abbracciò forte la sua amica e, seppure a stento, riuscì a resistere all’impulso di chiederle scusa, perché, si disse, alla fin fine quando un argomento è già chiuso è meglio tacere.
Naozumi salutò Fuka con una pacca sulla spalla. Poi, lui e Sana salirono sul treno.
- Come stai? – gli chiese quando il treno fu fuori dalla città.
Lui non sentì il bisogno di mentire.
- Mi sento sollevato. – disse sorridendo. Sana ricambiò, poi tirò un respiro profondo.
- Naozumi, ti devo dire una cosa.
Continuò a sorriderle, annuendo.
- Sono incinta.
Si sentì scoppiare il cuore. “E’ suo. E’ di Akito”. Ne ebbe la certezza assoluta, non poteva essere diversamente.
Stavolta non si sentiva in grado di agire da Naozumi. Si alzò in piedi e, senza dire una parola, recuperò la valigia dallo scomparto sopra i sedili e si diresse verso l’uscita della cabina. Era troppo, era semplicemente troppo, quello.
- Dove vai? – chiese Sana allarmata, seguendolo.
- Via, non so dove! Tu vai dove vuoi, basta!
Lei intuì. Si forzò a non piangere.
- E’ tuo, Naozumi.
Il cuore gli scoppiò di nuovo.
- …che?
- Ero già incinta prima di venire a Kyoto.
- …non mi avevi… detto niente… - considerazione scontata, ma cos’altro avrebbe potuto dire?
- Scusa. Non mi sentivo ancora sicura e… scusa.
Lasciò andare la valigia per terra e le si avvicinò.
- Sei sicura, adesso?
Lei annuì.
- Non mi stai mentendo, vero?
Negò.
Naozumi recuperò il bagaglio e lo ripose al suo posto. Si sedette. Sana lo imitò quasi subito.
- Scusa.
- Basta scuse. Saremo genitori?
- Sì.
- Per sempre?
- Che vuol dire?
- Staremo insieme per sempre, Sana?
- Sì.
Le storie d’amore possono andare in molti modi. A volte ami per sempre una persona anche quando non ci vivi insieme, altre volte non riesci mai ad amare la persona con cui stai; possono esistere storie infinite e cortissime; i tempi si dilatano quando si è vicini, oppure diventano troppo brevi; e poi ci sono tutte le infinite vie di mezzo; ed a volte finisce bene, o male.
Le storie d’amore – e gli impieghi precari – sono le più instabili delle attività, perché i fattori che ne determinano l’esistenza e la rottura sono sempre nuovi, sempre inediti, anche quando già vissuti, e non finiscono mai, non c’è un punto della storia in cui ti fermi e dici “ok, non c’è una possibilità che sia una che ci si lasci”.
E comunque le si vive, e non ci si chiede mai se valga veramente la pena, se non sia meglio saltarle e passare direttamente ad altro. Solo, devi tenere presente che in ogni momento potrebbe presentartisi il dovere di una scelta. Una scelta immediata, che devi essere pronto a fare immediatamente, e della quale dovrai sempre subire le conseguenze.
Così pensava Akito senza un’ombra di rimpianto sul viso, mentre rubava l’ultima polpetta dal piatto di sua moglie e, fra le grida infuriate di quest’ultima, si preparava a seguire suo figlio in salotto, davanti alla tv, per guardare quel programma demenziale ma divertente che davano al sabato sera sul quinto canale, e che a tutti e due piaceva tanto.