Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: AU, Violence, Angst, Death, Gen.
- "'Sveglia,' ordina il ragazzo, è lo stesso di ieri, 'Fai un bel sorriso,' continua con piglio divertito, un attimo prima di scattargli una foto."
Note: La follia di questa fic. *piange* Dunque, sostanzialmente io le voglio benissimo perché amo tutte le AU che riesco a buttar giù in meno di dieci pagine, ma è palese che essa avrebbe richiesto da me uno sforzo di parecchio superiore, perché qui come minimo c'era da parlarne per 20k... XD Va be', non è detto che non lo si riesca a fare, fra uno spin-off e l'altro, in futuro u.u Nel mentre beccatevi questa cosa incompiuta che non si può nascondere neanche dietro alla giustificazione dello slash, perché è pure gen. Non ho parole. *sospira*
Comunque, il perché di questa trama è tutto da ricercarsi nell'atteggiamento da bulletto di Mario che vive la sua vita principalmente per istigare violenza nel prossimo suo XD Seriamente, tu non puoi realizzare un rigore e poi "esultare" giungendo le braccia sul petto e fissando il portiere battuto con aria di sfida. C'è della perversione in te. Vuoi le botte. Io te la faccio pagare così. *ride*
Scritta per il terzo numero di Squee ♥
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THIS FORTRESS IN MY HEART COMES CRASHING DOWN

Riesce a guardarsi intorno solo quando gli sfilano la benda dagli occhi. Fa fatica ad abituarsi al biancore abbagliante della luce al neon che invade la stanza, e strizza le palpebre con forza, fino a farsi pulsare di dolore le tempie, per cercare di proteggersi dal bruciore fastidioso che gli punge il cervello ogni volta che prova a dare una sbirciata a ciò che lo circonda.
- Datti una mossa. – gli dice qualcuno. Davide non ne riconosce la voce, è sicuro, anzi, di non averla mai sentita prima. Un accento simile lo ricorderebbe.
Prova a parlare, ma il fazzoletto che gli hanno infilato in bocca gli impedisce di farlo, specie visto che la sua lingua è impegnata a cercare di spingere la palla di tessuto bagnato il più lontano possibile dalla sua gola.
Da piccolo gli capitava spesso di sognare di morire soffocato. Puntualmente si sentiva come crescere in gola questa massa morbida e ingombrante che gli impediva di respirare normalmente, ed ogni notte si alzava e correva in camera di papà e gli chiedeva se poteva lasciarlo dormire con lui, e in genere questo bastava per smettere di sognare cose simili.
Quando si è sentito scivolare in bocca il fazzoletto, prima – non saprebbe neanche dire quanto tempo fa, è stato riverso sul fondo del camion per delle ore, prima che si decidessero a trasferirlo qua dentro – è stato come rivivere quei sogni da capo. Erano anni che il pensiero neanche lo sfiorava. Se mai uscirà vivo da questa situazione di merda, manderà a questi stronzi che l’hanno rapito le parcelle di tutte le sedute di psicanalisi che gli serviranno per rimandare tutta questa merda giù per lo sciacquone attraverso il quale era riuscito faticosamente a liberarsene durante i primi anni di pubertà.
- Ti sei ripreso? – chiede la stessa voce di prima. Davide si azzarda a schiudere appena le palpebre, ma vede solo ombre. Quantomeno, stavolta, quando chiude gli occhi, non lo fa con forza. Le sue sopracciglia sono rilassate, sta cominciando ad abituarsi alla luce. Sta cominciando ad andare meglio. Sì, può andare meglio. Può gestire questa situazione. Non è niente di così drammatico, può immaginare perché questi stronzi l’abbiano rapito, ma quando capiranno che non hanno proprio un bel niente da guadagnare lo lasceranno sicuramente andare. A meno che non vogliano combinare un casino ancora più grosso - in quel caso, non c’è molto che Davide possa fare. Non è neanche sicuro che gli dispiacerebbe.
- Cazzo, ma quanto sei una fighetta? – sbuffa il ragazzo, e Davide lo sente prima tirargli un mezzo schiaffo su una guancia, come a cercare di svegliarlo, e poi sente lo strappo. Netto, istantaneo, fa appena in tempo ad accorgersene, ma nel momento in cui il nastro adesivo si stacca con violenza dalla pelle delle sue guance e da quella più sottile e fragile delle sue labbra, la prima cosa che fa è urlare. Poi, piegarsi in avanti e sputare in terra il bolo di tessuto impregnato di saliva.
Gli va di traverso il respiro, tossisce convulsamente per un po’, improvvisamente gli viene voglia di vomitare ma tutto quello che riesce a buttare fuori è solo altra saliva, più densa del normale, ma niente di realmente preoccupante. Deve calmarsi, ha il cuore che batte così forte che gli fa male il petto.
- Ma chi cazzo sei?! – strilla, sollevando repentinamente il volto per guardare in faccia il proprio rapitore. È un ragazzo come lui, non deve essere neanche di molto più grande, al massimo ventitré, ventiquattro anni. Non di più. E’ di colore, però, il che produce un contrasto piuttosto divertente col suo accento marcatissimo. Se Davide avesse una qualche voglia di ridere, probabilmente lo farebbe.
- Sta’ calmo. – dice il ragazzo, accucciandosi al suo fianco. Davide lo osserva molleggiare sui talloni e poi scruta la sua espressione, e tutto quello che vorrebbe fare è prenderlo a schiaffi. Il ragazzo lo guarda come non valesse niente. E’ l’occhiata più irritante che gli abbiano mai rivolto nella sua intera esistenza, lo stronzo è stato furbo a fargli legare i polsi dietro la schiena, o sarebbe già a terra col naso spaccato. Tutti lo sottovalutano, su quel piano, è per questo che finiscono sempre per circondarlo nel cortile sul retro, a scuola. E tornare a casa con un occhio nero in più. – Sei Davide, no?
- Già lo sai, no? – gli fa il verso lui, soffiando minaccioso. Le labbra piene del ragazzo si piegano ad un angolo, arricciandosi in un sorriso strafottente.
- Ti ho fatto una domanda. – gli fa notare.
- La mia era una risposta, stronzo. – ribatte Davide. Il ragazzo si concede una mezza risata sbuffata, ed annuisce, sollevandosi lentamente in piedi. Davide lo segue con gli occhi, quasi ringhiando. Si raddrizza, appende le mani ai fianchi magri ma muscolosi e poi, del tutto all’improvviso, gli tira un calcio nelle costole.
Davide si piega su un fianco e grida. Sbatte il mento contro il pavimento, ma il dolore nuovo non serve a cancellare quello vecchio, che pulsa terribilmente, costringendolo a rannicchiarsi in posizione fetale, sperando quantomeno di riuscire a proteggersi a sufficienza nel caso il tipo decida che merita altre botte.
Non le merita, pare. Il ragazzo si accuccia nuovamente accanto a lui, lo afferra per i capelli più lunghi sulla nuca e lo rimette a sedere di peso, tirando abbastanza da costringerlo a piegare indietro il capo.
- Stammi bene a sentire, - lo avverte, - contro di te come persona non ho nulla. Voglio solo i soldi che vali. È una cosa semplicissima, e se farai la tua parte e starai buono non avremo alcun problema, tornerai a casa tutto intero in meno di una settimana. Hai capito? Fammi segno di sì con la testa.
- Vattela a prendere nel culo. – risponde Davide, ringhiando di gola. Il ragazzo stringe la presa sui suoi capelli e poi lo scaraventa nuovamente contro il pavimento. Stavolta, a sbattere contro le piastrelle gelide non è il mento, ma il naso. Stavolta, fa male abbastanza. Davide non riesce a controllarsi a sufficiente da impedire a due grosse lacrime di formarglisi agli angoli degli occhi e scivolare lungo le sue guance, fino a schiantarsi contro il pavimento. Il ragazzo, in piedi accanto a lui, ride, ironico e cattivo.
- Fai lo spaccone e poi piangi. Che fighetta sei. Sei una truffa. – commenta divertito.
- Vaffanculo... - mugola Davide, cercando di raggomitolarsi di nuovo su se stesso. Gli arriva un altro calcio dritto nello stomaco e lui urla ancora, piangendo più forte.
- Senti, fai un po’ il cazzo che vuoi. – conclude il ragazzo, facendo spallucce ed allontanandosi a grandi passi, - Per quello che mi frega, se anche ti sparo in faccia e poi ti scarico in un fosso, non è un gran problema. Finché tuo padre paga.
- Non vi darà un soldo. – rantola Davide, scuotendo mestamente il capo e stringendo le ginocchia al petto tanto da potercisi nascondere dietro, - Tanto vale farmi fuori adesso.
Il ragazzo neanche gli risponde. Uscendo dal magazzino, spegne la luce, e si chiude la porta alle spalle.
*
Davide si sveglia perché gli tirano una secchiata d’acqua in pieno volto. Nel sentirsi investito dal getto, nel provare per pochi terrificanti istanti la paura di annegare anche se in un primo momento non saprebbe neanche dire dove si trova, spalanca gli occhi e prova a tirarsi su dal pavimento. I polsi legati dietro la schiena non gli permettono di farlo, comunque, e quando cade sbatte di nuovo il mento per terra. Il brivido di dolore che gli si propaga lungo tutto il corpo attraverso la spina dorsale è quasi devastante, lo costringe a tremare fin nelle viscere.
- Sveglia. – ordina il ragazzo, è lo stesso di ieri, - Fai un bel sorriso. – continua con piglio divertito, un attimo prima di scattargli una foto. Davide strizza forte gli occhi a causa dell’effetto combinato della luce al neon e di quella intensa e violenta del flash, e dopo prova a calmarsi. Inspira ed espira e torna a guardarsi intorno e si riscopre molto più spaventato di quanto non fosse prima. Peraltro, il pensiero di non riuscire a capire a quanto tempo fa risalga prima lo spaventa ancora di più. Non saprebbe identificare neanche da quanti giorni è stato rapito. È quasi certo che non sia passata più di una settimana, ma ha i sensi talmente sballati che potrebbero essere stati in realtà anche solo un paio di giorni.
- Da quanto tempo sono qui…? – domanda in un piagnucolio sommesso, cercando di puntellarsi al suolo con i fianchi e le spalle per tirarsi su. Il pavimento è duro e freddo, le sue ossa appuntite premono contro le piastrelle riempiendogli la carne di punture dolorosissime.
- Da quanto tempo sono qui? – gli fa il verso il ragazzo, osservando soddisfatto la foto scattata sul display della fotocamera digitale, - Ma lo senti come ti lagni? Io non ho parole. Sembravi così promettente.
- Vaffanculo. – mugola lui, riuscendo finalmente a raggiungere la parete e utilizzandola per mettersi a sedere, scivolandovi contro con la schiena. Quando ci riesce, ha il fiatone, e può fare il conto di tutte le parti del corpo che gli fanno male. Non ne manca una, all’appello.
- Oh, ma non sai dire altro, cazzo. – commenta il suo gentile ospite, visibilmente deluso dal suo comportamento, - E dire che ti ho osservato tanto, negli ultimi giorni. Sembravi così cazzuto. Immagino che tutti siamo cazzuti finché non finiamo in un casino da pisciarsi nelle mutande, mh? – ridacchia compiaciuto. Davide cerca di sciogliere le spalle doloranti per la posizione in cui sono costrette ormai da ore, e lo guarda con rabbia.
- Dimmi chi cazzo sei. – ordina. Il ragazzo si china di fronte a lui, guardandolo dritto negli occhi.
- Mi chiamo Mario. – risponde, - Piacere di conoscerti. – aggiunge con un sorrisino.
- Non posso dire lo stesso. – ribatte lui, con una smorfia schifata, - Ma non ti ho chiesto come ti chiami. Ti ho chiesto chi sei. È molto diverso.
- Oh. Oh! – realizza il ragazzo, sorridendo più sinceramente mentre un barlume di consapevolezza gli attraversa gli occhi, - Capisco, non un nome, ma una qualifica. Ha senso. – annuisce partecipe. – D’accordo. Ormai l’avrai capito, comunque. Sono uno che vuole i soldi di tuo padre e che ha pensato che tu potessi essere la via più breve per raggiungerli.
- Sei solo? – domanda ancora Davide, incapace di trattenere un sorriso amaro, - Oltre che stupido, intendo. Non ti sei informato bene, sui rapporti fra me e mio padre.
Mario ride, scuotendo il capo e sedendosi accanto a lui.
- Non sono solo, no. – risponde, - E non sono nemmeno stupido. Lo so che fra voi due non corre esattamente buon sangue, altrimenti non saresti qui in Inghilterra, dopotutto.
- Fra me e mio padre non corre nemmeno lo stesso sangue. – gli fa notare Davide, allontanandosi impercettibilmente, - Sono adottato. Quindi fai i tuoi calcoli. Non sono suo figlio naturale, e da più di due anni non ci siamo scambiati neanche una telefonata. Se speri di ottenere qualcosa da lui tramite me, anche sapendo tutto questo, allora non sei solo stupido, sei proprio un idiota.
L’espressione di Mario si fa cupa in pochi secondi. Davide può vedere le sue dita tremare e può immaginare perfettamente cos’è che Mario vorrebbe fargli adesso. È lo stesso effetto che ha su tutti. Chissà perché, quando lo vedono le persone in genere non si immaginano che sia la rottura di coglioni che poi effettivamente è. Per questo motivo, finiscono quasi tutti per trovarlo incredibilmente irritante. Davide non può dire di non trovare il fenomeno perfino divertente, in qualche perverso modo.
- Ora, - sbuffa Mario, ritrovando la calma, - non costringermi a prenderti di nuovo a calci. Voglio essere un ospite premuroso e attento, ma se tu me le tiri via dalle mani, le botte, io non posso certo tirarmi indietro, no? – domanda retorico. – In ogni caso, non mi dici nulla di nuovo. Sapevo già tutte queste cose, e so altrettanto bene che resti suo figlio nonostante tutto. Un figlio è sempre un figlio, Davide. Il fatto che tu abbia un padre naturale e poi anche uno adottivo vuol dire soltanto che, al posto di una sola persona che darebbe tutto per tenerti in vita, ne hai due. Credimi, lo so bene, - aggiunge con un ghigno amaro, - li avevo anch’io.
- Ah, sì? – domanda lui, per niente impressionato, - E cosa ne hai fatto?
- Sono morti. – risponde Mario, seccamente. Il suo sorriso adesso ha perfino un’inflessione più dolce, quasi nostalgica.
- Mi dispiace. – butta lì Davide, più per cortesia che per altro, appoggiando la testa alla parete e lanciandogli uno sguardo stremato. Mario continua a sorridergli. È così evidente, dalla luce dei suoi occhi, che non gli importa niente di lui, che Davide per un secondo riesce perfino a sentirsi a proprio agio. Quello è uno sguardo che conosce bene, è lo stesso che molte volte gli ha lanciato suo padre prima che lui decidesse di interrompere ogni rapporto.
- Risparmiatelo. – dice il ragazzo, scrollando le spalle. Si alza in piedi. – Ti porto qualcosa da mangiare. – conclude, voltandogli le spalle. Torna pochi minuti dopo, reggendo un panino fra le mani. Si accuccia davanti a Davide, glielo tiene sollevato davanti alla bocca, e lui aggrotta le sopracciglia.
- Slegami. – dice, - Lasciamelo mangiare da solo.
Mario sorride cattivo.
- Non mi sembra il caso di darmi così velatamente del coglione. – gli fa notare.
- Non lo sto facendo. – ribatte Davide in un ringhio sommesso, - Ti sto solo chiedendo—
- L’impossibile. – conclude per lui Mario, sorridendo serafico. Davide sospira, abbassa lo sguardo e si rassegna a mangiare direttamente dalle sue mani.
*
Il rapporto fra lui e suo padre ha cominciato a deteriorarsi quando Davide ha capito che niente di quello che José Mourinho aveva sarebbe mai stato suo. Non era una questione di mancanza di legami di sangue, non c’entrava niente la famiglia d’appartenenza, l’adozione o altri discorsi sciocchi e futili. Era una questione di capacità, niente di più. Suo padre non lo riteneva in grado di gestire nessuna delle aziende di famiglia, non gli avrebbe intestato niente neanche se fosse stato costretto a farlo.
Quando, a pochi anni dalla pensione, aveva preferito prendersi in casa quel galletto arrivista di Guardiola per istruirlo a seguire le sue orme, piuttosto che fare la stessa cosa con Davide e senza nemmeno dovergli pagare uno stipendio in più, Davide aveva deciso di lasciarselo alle spalle. Aveva preso l’aereo per Newcastle senza mai guardarsi indietro, lasciandosi cullare solo brevemente dai ricordi più lontani, quelli infantili, quelli degli incubi e degli abbracci consolatori in piena notte, cose che si erano estinte naturalmente col passare del tempo.
A Newcastle ha deciso di ricominciare da capo, e non gli importava della fatica che avrebbe fatto pur di riuscirci. Qualsiasi cosa sarebbe stata meglio che continuare a vivere giorno dopo giorno con la consapevolezza pesantissima di vivere nell’ombra di un padre che a stento lo considerava affidabile abbastanza da mandarlo a fare la spesa.
La spesa, sì. Aveva dovuto imparare a badare a se stesso per quello ed anche per tutto il resto. Ha cominciato a lavorare per pagarsi gli studi all’università, ha cominciato ad organizzarsi la vita in funzione di una serie molto precisa di obblighi da adempiere, sveglia colazione doccia lezioni lavoro bollette spesa casa coma profondo fino all’indomani mattina e poi da capo, una roba completamente diversa da quella a cui era abituato, un’esistenza pigra, priva di regolarità, dove svegliarsi ogni giorno era un obbligo noioso più che una pressante necessità. Dove fare due cose identiche in due giorni diversi, ripetere ciclicamente le stesse abitudini sembrava assurdo anche solo a pensarlo.
Non avrebbe mai immaginato di poter trovare tanto conforto nella normalità. Nella fatica. Nella stanchezza assoluta che gli invadeva il corpo appena riusciva a lasciarsi andare sul materasso in camera propria dopo un’altra giornata di sfiancante routine.
Ora apre gli occhi, all’alba di quello che gli sembra il millesimo giorno di prigionia da quando l’hanno trasferito in quel magazzino, e desidera quella normalità così grigia con lo stesso fuoco carico di passione con cui la desiderava quando era ancora soltanto un miraggio e non aveva neanche avuto modo di provarla. Trova il pensiero confortante, e allo stesso tempo lo devasta sapere che adesso è così lontana. Che forse non la riavrà mai più. Che forse non gli capiterà mai più di doversi lamentare con la signora Fletcher, la padrona di casa, per lo scaldabagno che non va. E che forse non gli capiterà più di assistere alle lezioni di Economia Aziendale del professor Preston desiderando intensamente di possedere un traduttore simultaneo perché nonostante i due anni di permanenza in Inghilterra non è ancora riuscito ad afferrare completamente l’accento di quell’uomo. E che forse non gli capiterà più neanche di litigare con Robert, il suo datore di lavoro al ristorante, perché lo mette sempre a pulire la cella frigorifera solo perché è l’unico in tutta la cucina che abbia troppa paura di perdere il lavoro per rispondergli di farla pulire a qualcun altro.
Forse non gli capiterà più niente di tutto questo, ma nonostante ciò se solo pensa che per tirarsi fuori da questa situazione adesso gli sarebbe bastato essere più accomodante con suo padre quando ancora avrebbe potuto, be’, non rimpiange niente. Non rimpiange di essere scappato, non rimpiange di aver tagliato ogni rapporto con lui, non rimpiange di aver perso tutto. Non lo rimpiange neanche se la paura se lo mangia vivo ogni volta che si apre la porta e Mario entra nell’enorme stanza dalla quale non lo spostano mai, portando con sé la fotocamera digitale con cui gli scatta una fotografia al giorno.
- Fammi un bel sorriso. – lo invita anche oggi, accucciandosi davanti a lui e puntandogli contro l’obiettivo. Davide distoglie lo sguardo. Mario scatta lo stesso. – Mi hai dato una bella panoramica del livido sullo zigomo e di quello sull’occhio destro. Tuo padre sarà contento. – commenta divertito.
- Scommetto che mio padre a stento guarda la mail. – scrolla le spalle lui, e poi si volta nuovamente a guardare Mario. – Scommetto che non ha risposto a nessuno dei vostri patetici messaggi. – aggiunge con un ghigno fra il frustrato e il rassegnato.
Il bagliore furioso che coglie negli occhi di Mario un attimo prima che il ragazzo si alzi e lo abbandoni lì sul pavimento piegato in due da un calcio per l’ennesima volta, gli conferma che ha ragione. E nonostante il dolore, o forse proprio perché le fitte allo stomaco fanno comunque meno male delle stilettate che gli squarciano in due il petto, Davide si concede un sorriso soddisfatto.
*
Mario passa a trovarlo ogni giorno. Ogni tanto due volte al giorno, più spesso una sola. Prima gli scatta una foto, poi gli porta da mangiare, da un paio di giorni gli concede anche di mangiare con le sue stesse mani. Entra nel magazzino, appoggia il panino avvolto nella pellicola trasparente per terra e poi gli si inginocchia alle spalle, sciogliendo il nodo che tiene la corda stretta attorno ai suoi polsi.
Poi si siede lì accanto, e lo osserva.
- Ancora niente? – gli chiede Davide a metà del proprio panino odierno. Gli si sta chiudendo lo stomaco, giorno dopo giorno. Un’altra cosa che non avrebbe mai creduto possibile – smettere di avere fame e sete in una situazione come questa. I primi giorni sì, quelli sono stati strazianti, alle volte stava disteso in terra a fissare il soffitto scuro sognando un bicchiere d’acqua per delle ore, ma forse col passare del tempo il suo corpo s’è abituato, o forse non gliene frega più abbastanza, e adesso non succede più.
- Perché me lo chiedi? – ritorce Mario, squadrandolo attentamente, - Se anche avesse risposto, io non te lo direi. Non avrebbe senso dirtelo. È l’incertezza che ti rende succube. Riuscirò a cavarmela? Tornerò a casa vivo? Queste domande sono il punto, no? Non avrebbe senso darti le risposte.
Davide piega le labbra in una smorfia infastidita, avvolgendo ciò che resta del proprio panino nella plastica e lasciandolo rotolare sul pavimento fino a Mario, che lo prende fra le dita, lo svolge e resta seduto lì davanti a finirlo.
- Hai fame? – gli domanda. Mario scrolla le spalle.
- È per non lasciare tracce. E perché è un peccato sprecarlo. E anche perché ho fame, sì. – conclude con una mezza risata, e le labbra di Davide si piegano in un sorriso talmente fuori uso da tirare quasi dolorosamente. Potrebbe anche essere colpa dei ceffoni che Mario gli rifila ogni volta che lui lo manda a fanculo o si rifiuta di fare qualcosa, naturalmente, ma per qualche motivo Davide è sicuro che, più delle botte, il problema sia proprio che non si ricorda più come si fa a sorridere sinceramente. Ecco perché fa tanta fatica, ecco perché fa male. Perché ritrovare un’abitudine è molto più difficile che perderla. La gente perde un sacco di cose con una semplicità imbarazzante, gli basta smettere di guardarle, anche solo per un attimo. È così che s’è perso anche lui, d’altronde.
- Mario… - lo chiama, quasi dolcemente. Mario gli solleva gli occhi addosso e smette di mangiare il panino. Davide lo sente tendersi tutto in uno spasmo nervoso, e non riesce a fare altro che sorridere ancora. – Mio padre non risponderà mai. – continua lui, stringendosi nelle spalle, - Lascia perdere.
Mario sospira. Avvolge il panino, si solleva sulle ginocchia e si avvicina, sollevandogli il mento con due dita e lasciandogli un paio di schiaffetti sulle guance pallide. Sono talmente deboli che Davide ha quasi l’impressione che il suo unico scopo sia quello di ridare un po’ di colore alla sua pelle. È quasi premuroso.
- Tu non hai capito un cazzo. – gli soffia addosso. Davide aggrotta le sopracciglia, e poi distoglie lo sguardo.
*
Si è appena assopito quando Mario irrompe all’interno del magazzino e accende la luce, svegliandolo con grandi urla.
- In piedi! – strilla, afferrandolo per le spalle, - In piedi, cazzo! Dobbiamo spostarti!
- Cosa…? – balbetta lui, che è stanco, no, esausto, no, stremato, non ha più un briciolo d’energia in corpo, e vorrebbe solo restare disteso sul pavimento con gli occhi chiusi, immobile e congelato, finché non si sarà consumato del tutto. – Lasciami stare…
- Alzati! – strilla ancora Mario, scrollandolo forte, - Cazzo, non costringermi a pestarti, Davide, non costringermi neanche a prenderti in braccio, datti una fottuta mossa!
- Ma cosa vuoi?! – strilla alla fine, rassegnandosi ad aprire gli occhi e guardandolo con rabbia. Gli occhi di Mario sono pieni di terrore. Davide spalanca i suoi sentendo quella stessa paura allargarsi dentro al suo petto e al suo stomaco come una macchia d’olio.
- Ha mandato qualcuno. – balbetta Mario, obbligandolo a voltarsi per sciogliergli i polsi, in modo da non doverlo trascinare. Davide scuote il capo, confuso. Prima ancora che per questioni di convenienza, lo lascia fare perché non capisce cosa stia facendo.
- Chi? – domanda, senza sapere neanche lui se stia chiedendo chi abbia mandato qualcuno, o chi sia il qualcuno che è stato mandato da chiunque abbia deciso di mandarlo.
Mario decide di rispondere ad entrambe le domande.
- Tuo padre. – dice, - Ha risposto fin dall’inizio, ma non ha accettato nessuna delle nostre condizioni. Ha concluso la sua ultima mail minacciando di mandarci lo zingaro se non ti avessimo liberato immediatamente e senza riscatto, ma non gli abbiamo creduto, come cazzo potevamo credergli, d’altronde? Cazzo, nessuno può permettersi lo zingaro, e di quelli che possono permetterselo ne sono rimasti pochi che lui non abbia già fatto fuori per un motivo o per l’altro, e ora— ora dobbiamo spostarti. – conclude annuendo, - Oppure—
Il colpo esplode da qualche parte alla loro sinistra. C’è un flash improvviso, poi lo sparo, il rumore assordante che fa, e poi Davide chiude gli occhi e sente il viso bagnato da gocce che sa per certo non essere lacrime, e quando torna a schiudere le palpebre Mario è morto, è riverso in terra, c’è un buco gigantesco che gli copre metà della faccia e c’è sangue ovunque. Davide si tocca le guance. C’è sangue ovunque. Davide si tocca i vestiti. C’è sangue ovunque.
C’è un uomo, anche. Alto, slanciato, i lineamenti più sgraziati che abbia mai visto. Il naso, grosso e appuntito, gli dà un’aria così cattiva che Davide si ritrae istintivamente. Indossa un giubbotto di pelle nera, e quando si avvicina e si china sul corpo di Mario per verificare che sia morto davvero Davide nota che ricamati sulla schiena ci sono dei disegni. Enormi, particolareggiati, come certi tatuaggi. Si lascia rapire dalle linee precise e complesse, si concentra su quelle per non guardare il sangue che si allarga sotto il corpo di Mario in una chiazza sempre più larga, come non dovesse finire più.
- Sei ferito? – gli domanda l’uomo, risollevandosi in piedi e guardandolo gelido dall’alto in basso. Davide scuote il capo, le labbra dischiuse, il fiato che fatica a passare dalla gola.
- Chi sei? – domanda in un pigolio sconcertato. L’uomo sorride, ghigna, Davide riesce a malapena a guardarlo senza scoppiare in lacrime, da quanto la sua vicinanza lo terrorizza. Ha sparato a un ragazzino a sangue freddo. A sangue freddo, Cristo.
- Il tuo gentile ospite ti stava giusto parlando di me. – risponde quello. Ha un accento duro e stranissimo. Forse viene dal Nord Europa. Davide non potrebbe esserne certo. Se dovesse giudicare la sua nazionalità solo dal suo aspetto, direbbe che è serbo, o comunque esteuropeo. Gli vengono i brividi a pensarci. Da lì vengono sempre i peggiori.
- Sei lo zingaro? – domanda. L’uomo annuisce. – Mio padre ti ha assunto?
- Per riportarti a casa. Non voleva pagare il riscatto.
Davide annuisce, inumidendosi le labbra secche.
- Quanto hanno chiesto?
- Due milioni di euro.
- Tu quanti ne hai chiesti?
L’uomo sorride.
- Tre.
Davide stringe i pugni lungo i fianchi in uno spasmo rabbioso. Il sangue di Mario si è fermato. Un attimo prima di sporcargli le scarpe.
È così tipico di suo padre.
- Non voglio tornare da lui. – dice a mezza voce, scuotendo il capo. L’uomo sembra soppesare le sue parole in silenzio per qualche secondo, e poi lo afferra per un braccio, trascinandolo con sé senza troppi complimenti.
- I miei ordini sono di riportarti a casa sano e salvo. – spiega spiccio, - Quindi non rompere i coglioni e vieni con me.
- Perché l’hai ucciso?! – strilla Davide, provando ad opporre resistenza e rassegnandosi a seguirlo quando si rende conto che se anche puntasse i piedi per tutto il resto della sua vita, come d’altronde ha fatto fino ad ora, non riuscirebbe in alcun modo a sfuggire a quello che gli aspetta. Qualsiasi cosa sia. – Avresti potuto ferirlo e basta, sparargli ad un ginocchio, fargli saltare una mano, una cosa qualsiasi!
L’uomo si ferma all’improvviso. Così violentemente che Davide gli sbatte addosso, e la solidità del suo corpo riesce solo a terrorizzarlo ancora di più.
- Gli ordini erano di non lasciarsi alle spalle testimoni. – dice pratico, guardandolo dritto negli occhi. – Io eseguo e non discuto, ragazzino. Sarà meglio che anche tu impari a fare la stessa cosa.
Davide si morde l’interno di una guancia con forza, fino a tagliarsi. Sente il sapore metallico del sangue sulla lingua, e c’è sangue ovunque anche ora che non riesce più a vederlo.
Dovrà parlare con suo padre. Molto a lungo.
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