Genere: Drammatico, Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Death, Language.
- Durante un incidente d'auto, Tom Kaulitz muore. Ed a Bill, di lui, non resta niente, tranne l'ultima litigata che hanno fatto prima che lui uscisse. Non resta niente... o forse no?
Note: Questa storia è in realtà frutto di una cospirazione è_é L’ultimo concorso di Criticoni si è svolto assegnando dei temi a cui ispirarsi per scrivere tramite sorteggio. Chiaramente, a me è toccato prendere ispirazione da Love Is Dead (che sarebbe la versione anglofona della – a mio parere molto migliore – Totgeliebt che dà il titolo alla fanfiction). Assieme a Love Is Dead avevo da ispirarmi a tutta un’altra serie di cose. Happy Ending di Mika (che si adattava al punto che l’ho pure citata in calce alla storia, toh!), un’immagine con un fuoco, un’altra rappresentante il DNA… e poi una serie di cose che non sono proprio riuscita ad inserire, come una citazione di Woody Allen, un’altra di Nietzsche ed Unwritten di Natasha Bedingfield. Comunque ho fatto del mio meglio >.<
Scrivere una deathfic è stato per me motivo di grande sconvolgimento umano ç_ç Spero solo non faccia troppo schifo. È la prima e sicuramente l’ultima che scriverò sui gemelli. Una basta e avanza. Poi ne ho in mente una mollamy, ma è meno deprimente, prometto è.é” Anche se Nai non condivide questo parere. Comunque, spero che abbiate gradito la lettura ^^
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TOTGELIEBT

This is the way you left me
I’m not pretending
No hope, no love, no glory
No happy handing
This is the way that we love
Like it’s forever
Then live the rest of our lives
But not together

Noi due, Tomi, ci siamo amati a morte, anche se a morire sei stato solo tu. E non è stata colpa mia.
Ci siamo amati a morte, ma tu non sei morto d’amore. Il che vuol dire che non è stata nemmeno colpa tua.
Eppure, io qualcuno dovrò incolparlo. Quando muore una così importante parte di te, hai proprio bisogno di scaricare un po’ di risentimento gratuito su qualcuno. Anche una persona a caso. Basta trovare uno straccio di motivo. Pure fittizio, pretestuoso… purché conservi quel minimo di consistenza che lo renda giustificato.
Ma in Dio non credo. Non posso prendermela con lui.
E tu eri solo, in macchina. Solo e spaventosamente ubriaco.
E non posso prendermela con l’alcool, perché poi senza di lui comincerei a sentirmi perso. Mi hai detto spesso che rasentavo l’alcolismo patologico. Be’, è vero. Ed ho come l’impressione che, da qui in poi, potrò solo peggiorare. Però è curioso che a morire ubriaco sia stato tu, mentre di fronte a me si prospetta probabilmente una lunga, lunghissima ed intollerabile vita.
Monca. Ma vita.
Io non ti ho nemmeno visto morire, Tomi. Io non c’ero. Io ero in camera, al calduccio, in albergo, protetto da tutto. Pure incazzato con te, perché merda, mi avevi lasciato solo. Col mio stupido mal di gola e le mie stupide lamentele e le mie stupide frustrazioni e le mie stupide paranoie. Quella notte, ho cercato nello specchio la tua immagine, non la mia, e non sono riuscito a visualizzarla. Il perché l’ho scoperto solo la mattina successiva, quando David mi ha detto cos’era successo.
David l’ha visto. Lui sì. Oh, no, non il momento in cui sei andato via… però quello immediatamente successivo. Mi ha raccontato com’era
il posto, quando è arrivato. Mi ha detto del fuoco.
Sai che mi sono messo ad urlare? Perché ho pensato che dovesse essere stata una morte orribile. Perché tu, con l’alcool, perdevi la testa abbastanza da incasinarti l’esistenza, ma non da anestetizzarti del tutto rispetto agli stimoli sensoriali che la vita ti imponeva. Perché tu, la vita, volevi proprio viverla. Senza pensieri. Era a questo che ti serviva sfondarti di superalcolici.
Perciò ho pensato che l’alcool dovesse essere stato sufficiente da costringerti a sbandare, ma non altrettanto da lasciarti morire senza soffrire. Ed ho pensato alle tue urla di dolore, all’abitacolo in fiamme, alle lamiere incandescenti e contorte che ti si chiudevano addosso come una gabbia, e mi è sembrato di sentire sulla pelle la stessa sofferenza che avevi provato tu.
Ed era
atroce. Per questo ho urlato.
Ho pianto, invece, perché ti amavo. E mi saresti mancato. Non nel senso comune col quale si intende l’assenza delle persone. Non quella degli arrivederci. Neanche quella degli addii.
Quella delle amputazioni, quella sì.
Delle privazioni ingiuste e dolorose.
Dei vuoti dove prima c’erano pieni e dei pieni che tali non sarebbero stati mai più.
Io ti amavo, Tomi, ma, anche in questo caso, non nel senso comune col quale si intende l’amore. La gente, quando ama, desidera e bacia e tocca. L’amore si
fa, non si pensa e basta. Però, io non desideravo te e tu non desideravi me. Niente baci. Niente sesso. Neanche una fisicità tanto imponente o onnipresente. Una carezza ogni tanto. Un abbraccio per festeggiare. Un saluto prima di un’uscita. Una stretta di mano prima di un’esibizione. E niente di più.
Noi non abbiamo mai fatto l’amore. Non l’abbiamo neanche mai voluto. Ma ci amavamo lo stesso.
D’altronde, in genere, non si ama mai davvero a morte. Ci si ferma sempre un attimo prima. Sul ciglio.
Io, però, non intendo farlo. Perché ti amo tutto. Perché ti amo sempre. Anche adesso, ti amo troppo. Siamo un unico pezzo. Lo stesso sangue. Lo stesso DNA. Più metaforicamente, la stessa pelle, le stesse ossa, gli stessi muscoli. La stessa anima. Se solo ci credessi. E vorrei davvero.
Noi ci siamo amati a morte. Non siamo morti d’amore.
È stato l’amore a morire per noi.

*
La mattina del primo giorno senza Tom fu apatica.
Bill rimase a letto. D’altronde, il materasso era incredibilmente accogliente. Aveva preso la sua forma ed anche il suo calore. Gli si era adattato addosso come uno splendido vestito. E le lenzuola avevano fatto lo stesso, come ricchi drappeggi. Strinse le dita attorno al tessuto per saggiarne la consistenza. Era morbido e liscio. Emanava un profumo dolcissimo. Purissimo. Di pulito intonso.
Doveva essere lo stesso profumo del lenzuolo che avevano messo addosso a Tom, quando l’avevano tirato fuori dalla carcassa dell’auto. Doveva esserlo, prima di impregnarsi delle tracce insopportabili della sua pelle carbonizzata e del suo sangue rappreso.
Lui quell’odore non l’aveva sentito. Non sarebbe mai riuscito a farsene una ragione: dopo tante promesse, non erano davvero morti insieme. Non c’era stato nessun coreografico salto. Nessun ultimo abbraccio. Solo una litigata afona ed uno schianto furioso.
David entrò in camera dopo aver bussato per almeno dieci minuti. Già al secondo, Bill avrebbe voluto urlargli di lasciarlo in pace, ma dalla gola non usciva proprio niente. Gli sforzi ai quali l’aveva sottoposta durante la notte – fra strilli, grida, lamenti e pianti – dovevano averla messa definitivamente fuori gioco.
Poco male. Non aveva più intenzione di cantare, in ogni caso.
- Come stai? – chiese il manager, con aria preoccupata, chinandosi su di lui per misurargli la febbre con una mano sulla fronte. Bill non rispose. – Qui ci vuole un termometro… - aggiunse l’uomo, prima di allontanarsi verso il comò, aprirne un cassetto e tirarne fuori una scatolina in plastica trasparente. – Ecco. – disse, sollevandogli di peso un braccio per infilare il termometro sotto l’ascella, - Vediamo.
Incandescente. Quella macchina doveva essere stata incandescente.
David estrasse il termometro e constatò la temperatura, commentandola con una smorfia preoccupata ed una decisa scossa del capo.
- Ora ti porto qualcosa. – notificò, allontanandosi verso la porta. Si fermò sul ciglio, senza neanche voltarsi a guardarlo. – Senti, Bill, tu non devi fare niente, ok? Tua madre e Gordon sono già in treno, saranno qui nel pomeriggio. Tuo padre invece era in viaggio, quindi non arriverà prima di sera. Si occuperanno di tutto loro. Appena Simone arriva, te la mando qui…
Bill scosse decisamente il capo, affondando il volto nel cuscino.
- …non vuoi vedere tua madre, Bill?
Lui ebbe un momento d’esitazione. Strinse ancora le dita attorno al lenzuolo e si morse un labbro.
Poi scosse nuovamente il capo, più fermamente.
- …d’accordo. – sospirò David, aprendo la porta, - Adesso torno con la medicina. Cerca di non addormentarti.
Certo. Come fosse una possibilità contemplabile.
*
Il secondo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom tornò.
Stava lì, seduto sulla propria bara, e guardava il legno come potesse scrutare attraverso la superficie e fissare il proprio cadavere al di sotto.
Simone era stata efficientissima: aveva preteso di essere lei a prendere contatti con l’agenzia funebre, nonché di organizzare il funerale. E questo nonostante David fosse stato più che sollecito nell’insistere sulla possibilità di lasciar fare tutto a lui.
Era un comportamento assolutamente prevedibile, da parte di sua madre. Bill la conosceva alla perfezione. Stare seduta in un angolo a rimuginare nel proprio dolore, semplicemente non sarebbe stato da lei. Avrebbe cominciato a sentirsi inutile, a pensare e ripensare a quanto fosse stato lontano il suo bambino da lei, nel momento in cui moriva, e probabilmente non sarebbe più riuscita ad uscirne. Mettendosi in movimento esorcizzava il senso di colpa e quello di inadeguatezza. Si sentiva dinamica, sentiva di stare facendo qualcosa di buono per il suo piccolo.
Gordon, distrutto – Tom era sempre stato il suo preferito, in fondo – doveva essere rimasto a guardarla con aria attonita per tutto il tempo, ci avrebbe scommesso.
E quanto a suo padre… be’, suonava un po’ triste – un po’ tanto – da ammettere, ma non lo conosceva abbastanza per avanzare ipotesi sulle sue reazioni.
Lui, comunque, non aveva voluto vedere nessuno. Sua madre doveva esserselo aspettato, tant’è che, dopo un vago tentativo di farsi aprire la porta della camera, aveva lasciato perdere per concentrarsi su attività più utili.
Non era stata organizzata nessuna veglia funebre. Andreas, d’altronde, sarebbe arrivato solo l’indomani. Ed, oltre a lui, non c’era nessun altro che avesse il diritto d’essere ammesso a qualcosa di simile.
Restare tutti in piedi attorno ad una bara chiusa, in conclusione, non era sembrato a nessuno particolarmente indicato.
Bill, però, non aveva resistito. Perciò, durante la notte, mentre tutti dormivano – o almeno provavano a farlo – s’era alzato, era uscito dalla propria camera ed era andato in salotto.
E Tom era lì.
Se Bill avesse avuto ancora anche un solo fiato di voce, l’avrebbe esaurito in quel momento. Perché si sarebbe messo a strillare fino a sputare i polmoni. Fortunatamente, la sua voce era già scomparsa due giorni prima, perciò all’interno dell’appartamento silenzioso non si mosse niente. Neanche una molecola d’aria.
Bill rimase immobile sulla porta, a fissare la figura evanescente appollaiata sulla bara. Tom sembrava intento a rimirare le venature del legno, come fossero la cosa più affascinante del mondo.
E invece la cosa più affascinante del mondo era lui.
Era traslucido. Luminoso. Bianchissimo. Sembrava morbido e caldo come un abbraccio, anche da quella distanza. Ed era anche bellissimo. Come sempre.
- Tomi… - lo chiamò, ma la sua non era una voce, era un rantolo disperato. Cacofonico e intollerabile.
Non voglio più dire neanche una parola.
Il fantasma si voltò a guardarlo, lievemente stupito. I suoi occhi erano grandi e candidi, del tutto diversi da quelli che erano stati gli occhi di Tom, eppure, in qualche modo, incredibilmente simili.
- Mi vedi…? – chiese incerto. Poi scattò in piedi, saltando giù dalla bara e facendosi strada a grandi passi verso di lui, come animato da una fretta sovrannaturale, - Tu mi vedi? Bill, mi vedi sul serio?! – insistette, sollevando le mani a cingergli le spalle.
Bill rabbrividì.
- Ti vedo… - sussurrò pianissimo, sforzandosi sinceramente di infrangere il voto appena formulato, - e ti sento anche… oddio, posso toccarti… - singhiozzò, sollevando a propria volta le mani e posandogliele sul petto.
Tom esalò un sospiro sollevato e sorrise, sporgendosi verso di lui ed abbracciandolo teneramente.
Ed era proprio come Bill l’aveva immaginato. Morbido e caldo.
- Sono in giro da quando è successo… - raccontò quasi trasognato Tom, senza separarsi da lui, - Ho provato a parlare con tutti, ma nessuno mi sentiva… e non avevo idea di dove fossi tu…
- Non volevo… - sussurrò Bill, ma poi scosse il capo, - Lascia perdere. – lo esortò, forzando un sorriso, - …non so che dirti. – aggiunse poi, ridacchiando lievemente.
La risatina di Tom gli fece eco, mentre le sue mani gli risalivano lungo le spalle e si posavano, calde e morbide com’erano, sulle sue guance.
- Neanche io so esattamente cosa dire. – borbottò imbarazzato, - Ma io sono giustificato, sono il morto!
- Affatto! – bofonchiò Bill, aggrottando le sopracciglia, - Dovresti avere un sacco di cose da dire, proprio tu che sei il-… - si interruppe, deglutendo faticosamente.
- …il morto, Billi. – sorrise mestamente Tom, - Il morto. – ripeté ancora.
- Sì. – annuì il moro, sbrigativo, abbassando lo sguardo, - Appunto. Tom, com’è successo? – si ritrovò a chiedere, con un’urgenza inaspettata.
Suo fratello non si mostrò stupito da quella domanda.
- Sono andato a sbattere. – rispose seccamente, - Ho perso il controllo. Non sono neanche stato particolarmente sfigato, voglio dire, non è che ci fosse un albero e, guarda un po’, patapum. – ironizzò, e Bill si lasciò andare ad una risata spezzata, mordicchiandosi un labbro per frenare il singhiozzo dirompente che, partendo dal centro del petto, sembrava intenzionato a devastare ogni singola molecola del suo corpo. – Comunque gli alberi erano tutta una serie. – precisò Tom, scrollando le spalle, - Non potevo proprio evitarli.
- Quella stupida macchina… - mormorò Bill, abbassando ulteriormente gli occhi.
- Non parlare così dell’Escalade! – mugugnò Tom, offeso, - Mi piangeva il cuore al solo pensiero di quel gioiellino agonizzante fra le fiamme!
Bill scosse il capo, simulando una smorfia di disapprovazione.
- Tom… - chiese poi, incapace di frenarsi, - Com’è…
- …morire?
Annuì. Non era curiosità scientifica, affatto. Voleva soltanto sapere come s’era sentito Tom. Cos’aveva provato. Voleva provare a replicarlo nella propria mente, ad immaginare di essere stato lui a provarlo. Voleva solo cercare di stargli vicino, in qualche modo.
- Strano. – rispose il biondo, pensoso, - Sentivo come se mi stessi staccando dal mio stesso corpo. E, per un certo periodo, ho sentito freddissimo, e mi sembrava di essere nudo. Stavo accucciato lontano dall’incendio, vicino ad un cespuglio, e sentivo il vento ghiacciato della sera sulla pelle, l’odore acre della plastica bruciata a pungermi il naso, la terra umida sotto i piedi, le foglie che mi pizzicavano le guance e il collo… - scrollò le spalle, appollaiandosi nuovamente sulla bara con un saltello, - E poi è tornato tutto normale. Mi sentivo di nuovo vestito e tranquillo e ho cominciato a camminare. Ho camminato per un sacco di tempo, ho visto sorgere il sole e tutto il resto. Poi ho pensato a casa e mi sono ritrovato sulla bara.
Bill spalancò gli occhi.
- Hai viaggiato attraverso lo spazio? – chiese, incredulo.
- Eh. – sbottò Tom, - In fondo, sono un fantasma. Probabilmente sono in grado di fare un sacco di cose affatto normali.
- Quindi – cercò di sorridere ancora il moro, - non è cambiato niente, rispetto a prima.
- Ehi! – sbraitò il rasta, afferrandogli il naso con due dita e prendendo a tirarlo debolmente qua e là, - Un po’ di rispetto per il tuo fratello maggiore appena deceduto! – lo rimproverò.
Bill si liberò dalla stretta con uno scatto isterico, stringendosi nelle spalle.
- Potresti, per favore, smettere di parlarne con tanta leggerezza? – chiese, con tono quasi implorante.
Tom sorrise teneramente e si appoggiò alla bara con entrambe le mani.
- A che pro? – chiese retorico.
Bill non rispose. Si limitò ad arrampicarsi silenziosamente sulla bara accanto al fratello, raccogliendo le ginocchia al petto e lasciandosi abbracciare piano da Tom, al suo fianco.
- Tomi? – chiese infine, nascondendo il volto fra le ginocchia, - Perché sei un fantasma?
Tom rise lievemente, chinandosi su di lui e lasciandogli un lieve bacio sulla tempia.
- Pensavi che avrei mai potuto lasciarti così?
*
Il terzo giorno senza Tom cominciò con Tom fra le lenzuola.
Bill si rigirò sul materasso con un sorriso lievissimo a increspare le labbra, dischiuse le palpebre e trovò il fantasma di suo fratello disteso al proprio fianco. Lui lo guardava e sorrideva, ed aveva inarcato le sopracciglia nel classico modo che usava per avvertirlo che stava per cominciare a prenderlo in giro fino allo sfinimento.
- Sai che quando dormi sei proprio-
- Non una parola! – biascicò imbarazzato, dandogli una manata sul naso, - Sei proprio maleducato. Non solo ti infili nel mio letto, ma passi anche la notte a spiarmi!
Tom si girò su un fianco, appoggiando mollemente il capo contro una mano.
- Carino. – concluse, - Volevo dire carino.
Bill arrossì ed abbassò lo sguardo, cercando di sorridere.
- Potrei anche abituarmi ai complimenti, eh. Stai attento.
- Oh, andiamo! – sbuffò Tom, rotolando fra le lenzuola, - Tu sei complimenti-dipendente! Sei praticamente psicotico, in questo senso! Non prendermi per il culo. Guarda che l’aldilà davvero non esiste, non ho nessun San Pietro cui tessere le tue lodi perché ti ammetta fra i cherubini.
- Scusa, ma tu che ne sai che l’aldilà non esiste? – borbottò lui, petulante, - Non ci sei ancora stato!
- Bill, non starai mica decidendo di diventare religioso proprio adesso, eh? – sbottò lui, acido, - Guarda che potrei prenderla come un’offesa personale!
- Non lo so… - mugugnò Bill, pensoso, - In fondo, la tua presenza qui dimostra che l’anima esiste davvero, no? E quindi, magari un Paradiso c’è. Farei meglio a prepararmi per l’eventualità, nel caso avessi ereditato anche parte dei geni che fanno di te un idiota e decidessi di porre fine alla mia vita nel fiore degli anni. Tu che dici?
- Dico in primo luogo che sei un coglione. – sibilò Tom, squadrandolo con manifesto fastidio, - In secondo luogo che non sono un idiota e non ho deciso di porre fine e bla bla. In terzo luogo che sei un coglione.
- L’hai già detto.
- In quarto luogo che sei doppiamente coglione. Ed infine che, a mio parere, se il Paradiso esiste per come lo intendo io, non ho bisogno di alcuna preparazione che non sia una scorta infinita di preservativi. Secondo te gli angeli femmina si possono ingravidare? – s’informò curioso.
- La tua ignoranza è abissale. – sospirò Bill, abbandonando il capo contro il cuscino, - Gli angeli sono asessuati. – s’interruppe e sorrise brevemente, stringendosi nelle spalle, - È per questo che le ragazzine danno dell’angelo a me.
- Cosa che dimostra la loro ignoranza abissale, - ghignò Tom, - perché tu sei tutto meno che angelico.
- Sai, Tom? Sei talmente stronzo che credo che gli angeli non te la darebbero nemmeno se potessero scopare sul serio.
- Piccolo ingrato impertinente! – lo rimproverò il biondo, salendogli a cavalcioni e cominciando sistematicamente a tentare di assassinarlo mediante il solletico. Bill rise e si contorse fra le braccia del proprio fratello, cercando di liberarsi dalla sua stretta. Quando ci riuscì, entrambi si lasciarono cadere spossati sul letto, ridendo ancora come due bambini.
Fu allora che qualcuno bussò alla porta.
- Bill? – chiese una voce preoccupata e familiare.
Tom si drizzò a sedere, fissando l’uscio con aria incerta.
- È Andi… - bisbigliò, mordicchiandosi un labbro. Il piercing sbatteva contro gli incisivi, ma non produceva alcun suono. Bill rabbrividì. – Dovresti farlo entrare… - suggerì quindi, voltandosi a guardarlo tristemente.
Bill scosse il capo, sistemandosi meglio fra le lenzuola.
- Non mi va di vedere nessuno. – si giustificò, nascondendosi dietro al cuscino.
Tom si distese al suo fianco e semplicemente lo guardò, imitando la sua posa intimorita.
- Tomi. – lo richiamò alla fine Bill, sollevando una mano a cingere il tessuto etereo della maglietta bianchissima che il fratello indossava, - Voglio abituarmi davvero. Voglio che tu resti qui per sempre.
Tom si limitò a sorridere.
*
Il quarto giorno senza Tom, Bill si svegliò perché il suo stomaco brontolava.
Tom, sempre disteso al suo fianco, aprì gli occhi nello stesso momento, lo fissò con aria sconvolta e poi scoppiò a ridere.
Bill lo schiaffeggiò senza pietà.
- Bello stronzo sei! – si lamentò, massaggiandosi il palmo della mano, dolorante, - Non so neanche da quant’è che non mangio…
- Un sacco di tempo. – rispose al suo posto Tom, saltando giù dal letto e prendendo a rimirarsi nello specchio. – Dio, guarda che figata, riesco a vederti attraverso il mio corpo!
Bill sorrise lievemente e poi lanciò uno sguardo alla finestra. Oltre le tende sottilissime, le serrande alzate lasciavano intravedere il cielo scurissimo della notte. La sera prima era rimasto a chiacchierare con suo fratello di futilità immani fino ad orari improponibili… era normale che poi avesse usato l’intero giorno successivo per riposarsi.
- Ma tu dormi, Tomi? – chiese soprappensiero, alzandosi a propria volta.
- No. – rispose lui disinvoltamente, - Ma non sono nemmeno stanco. Ti accompagno in cucina?
Bill annuì ed entrambi si diressero verso la porta. Il moro la dischiuse leggermente, sbirciando all’esterno. Il corridoio era buio, e così sembrava anche il resto dell’appartamento.
- Questo mi ricorda quando ero io a sgattaiolare in cucina nottetempo per procurarti schifezze da ingurgitare di nascosto da mamma. – ridacchio Tom, sospingendo delicatamente il fratello fuori dalla stanza.
- Guarda che l’ho fatto anch’io per te. – borbottò Bill, offeso, dirigendosi a grandi passi verso la cucina, - Quando eri ammalato.
- Concorderai che le volte in cui sei stato malato tu superano di gran lunga in numero quelle in cui sono stato ammalato io, spero! – lo riprese suo fratello, allibito, seguendolo.
Bill agitò una mano disinteressata e si fiondò in cucina, attaccando immediatamente il frigorifero, non appena mise piede nella stanza, senza neanche accendere la luce. Si raggomitolò di fronte allo sportello aperto ed utilizzò le proprie ginocchia come ripiano, sul quale preparò un sandwich al salmone. Poi lo divise in due, ficcò la propria metà in bocca, si alzò in piedi e richiuse il frigorifero, voltandosi verso Tom ed offrendogli l’altra metà.
- Buoi? – biascicò, mentre un pezzetto di salmone sfuggiva alle sue labbra e cominciava a pendere da un angolo verso il mento.
Tom fece una smorfia.
- Non so se posso mangiare, e comunque non ho fame. Ma Dio! – esalò sconvolto, - Salmone?! Sono le tre del mattino!
Bill scrollò le spalle e prese possesso di una sedia.
- Ho fame! – motivò tranquillo.
- Ti verrà un blocco intestinale fulminante e ci lascerai le penne.
Bill lo fulminò con un’occhiataccia irritata, inghiottendo l’ultimo boccone.
- Ne parli ancora in maniera fin troppo disinvolta, per i miei gusti. – si lamentò.
- Be’, qualcuno dovrà pur farlo. – sorrise Tom, sedendosi di fronte a lui, - Tu non riesci neanche a dire che sono morto.
- Non è una colpa. – cercò di difendersi lui, aggrottando le sopracciglia, - Non parlare come se non riuscissi ad accettare… quello che ti è successo. Sono perfettamente consapevole, e lucido, Tom. È solo che non voglio… non me la sento di… - si mordicchiò un labbro, mentre lo sguardo vagava incerto sulle pareti scure della stanza, - …ma io non ho problemi! – argomentò poi, agitato, - Sono triste, ma mi pare anche del tutto normale! A parte questo, io-
- A parte questo, Bill, - sospirò Tom, intrecciando le dita di fronte a sé come faceva spesso da vivo, - io sono ancora qui. E questo non puoi ignorarlo.
Bill deglutì.
- Questo non dipende da me. – rispose gelido.
- Ah, no?
- No. – ribatté. – E mi sono stufato di questa conversazione. Me ne torno in camera, e tu sei esplicitamente invitato a non seguirmi. – concluse. Dopodiché, si alzò da tavola e si diresse frettolosamente verso il corridoio.
- Bill. – lo chiamò piano Tom, prima che riuscisse ad uscire dalla cucina. Lui non poté fare a meno di voltarsi.
- Cosa? – gli chiese, acido.
Tom sorrise e gli porse l’altra metà del sandwich.
- Stai dimenticando questo.
*
Il quinto giorno senza Tom, Bill aprì gli occhi e si rese conto che effettivamente Tom non c’era.
Meccanicamente, strinse le dita attorno al tessuto leggero delle lenzuola e digrignò i denti. Fissò il soffitto con aria persa per molti secondi, prima di saltare letteralmente giù dal materasso e cominciare a vagare come un’anima in pena avanti e indietro lungo la stanza.
Sapeva che Tom era ancora in quella casa. Riusciva quasi a sentirne la voce.
Al di là della porta, in effetti, mille voci s’accavallavano l’una sull’altra. David stava riferendo a Simone le ultime notizie dall’esterno: il funerale andava rimandato ancora. Nel sentire quella parola, Bill non poté fare a meno di chiedersi per quanti giorni quei rinvii dovevano essersi prolungati, perché la risposta di sua madre – una secchissima ed asciutta bestemmia a mezza voce – indicava un nervosismo esasperato che proprio non le apparteneva, e doveva essere stato motivato da qualcosa di incredibilmente grave. David continuò a parlare: l’appartamento era completamente circondato; giornalisti, fan, guardie del corpo, semplici curiosi, non si poteva nemmeno affacciare il naso senza che qualcuno te lo afferrasse e lo usasse per tirarti fuori a forza.
Bill sentì Andreas prorompere in un velenosissimo “E che cazzo”, e poi lo sentì lamentarsi di quanto nessuno là fuori conoscesse la parola rispetto.
- Dovremmo comunque trovare un modo per tirarlo fuori di qui… - continuò il ragazzo, riferendosi evidentemente alla bara, - Non so quanto sia saggio tenerlo in questa casa.
Simone non disse una parola.
- È una situazione del tutto anomala. – sospirò David, confuso, - Sinceramente, non ho la più pallida idea di cosa fare. E Bill si ostina a non uscire…
- Piantatela, tutti e due. – disse a quel punto sua madre, gelida. – Farci prendere dal panico non risolverà un accidenti. – rimase in silenzio per qualche secondo, riflettendo. – La bara rimane. – concluse quindi, - David, cerca di parlare con qualcuno, nel frattempo. Contatta la polizia, i servizi segreti, l’antisommossa, insomma, fai in modo che quell’assembramento di persone là fuori sparisca.
Bill sorrise lievemente. Sua madre era comunque rimasta un toro.
Si appoggiò di spalle alla porta, ritornando a fissare il soffitto e respirando lentamente, come a volersi tranquillizzare.
In realtà non si sentiva agitato. La baraonda dell’esterno non lo turbava minimamente, e l’ansia che coglieva tutti i suoi coinquilini neanche lo toccava.
Però gli mancava Tom. Gli mancava incredibilmente.
Aprì le mani e sfiorò il legno liscio della porta, prima di richiudere i pugni, lasciando che le unghia strisciassero rumorosamente contro la superficie.
- Cucciolo… - bisbigliò la voce di sua madre, dall’altro lato della barriera, - Sto pensando a tutto io. A Tom non mancherà nulla. E neanche a te. Perciò… vedi di essere forte anche tu. – concluse dolcemente, prima di allontanarsi silenziosa lungo il corridoio.
Bill sentì gli occhi pieni di lacrime. Per nessun motivo apparente. E per tutti i motivi del mondo.
Si staccò dalla porta e si lasciò scomparire nuovamente fra le lenzuola.
Il fantasma di Tom non aveva odore. E perciò non aveva lasciato nessuna traccia di sé, né sul cotone, né sul suo corpo, né sul cuscino. Bill si ostinò a premere il naso contro la stoffa, inspirando profondamente, mentre lasciava che fosse lei ad assorbire le sue lacrime, fino a quando non crollò addormentato.
*
Si svegliò a notte fonda. Era appena cominciato il sesto giorno senza Tom.
Non gli servì nemmeno aprire gli occhi, per sentire la presenza del fantasma di suo fratello al proprio fianco.
- Sei un bastardo. – sibilò, ostinandosi a non guardarlo, - Mi hai lasciato solo.
Tom ridacchiò lievemente.
- Sapevi che ero ancora qui.
- Non è vero! – negò Bill, strizzando gli occhi, - Credevo fossi andato via!
Suo fratello gli lasciò scorrere una mano sulla fronte, e poi lungo la guancia, in una carezza lenta e dolcissima. Bill aprì gli occhi.
- Stai mentendo. – sussurrò piano Tom, - Sapevi che ero ancora qui. – ripeté con maggiore decisione, ma senza perdere il sorriso.
- …Tom, perché non sei andato via? – mugolò Bill, inarcando le sopracciglia e voltandosi verso di lui, in cerca di un abbraccio.
- Questo dovresti dirmelo tu! – ridacchiò il biondo, accontentandolo, - Non credo di avere alcuna autorità, in quel senso. Altrimenti, suppongo, sarei sparito ieri, dato che volevo veramente farlo.
Bill sorrise lievemente, stringendosi contro di lui.
- Adesso sei tu che stai mentendo.
Tom ghignò e gli fece una pernacchia.
- Resta il fatto che se non vado via è perché sei tu che non lo vuoi. – ribatté, stringendosi nelle spalle.
Bill abbassò lo sguardo.
- Allora… - mormorò cupamente, - non te ne andrai mai.
- Bill…
- Davvero. – rimarcò, sollevando finalmente gli occhi su di lui. Brillavano di decisione, ed anche di una certa quantità di rabbia. – Non voglio che tu vada via.
Tom sospirò.
- Ma non eri tu quello perfettamente consapevole e lucido e che aveva accettato tutto con estrema naturalezza? – lo rimproverò pacatamente, pizzicandogli una guancia, - Non eri solo un po’ triste?
- Sono mortalmente triste, Tomi. – bisbigliò Bill, liberandosi dalla sua stretta, - Deve esserci un modo per tenerti qui per sempre. Se ti ordino di non andartene, tu non te ne andrai, vero?
- Siamo arrivati agli ordini, adesso? – scoccò Tom, infastidito.
Bill arretrò di qualche centimetro, incerto.
- Io non voglio ordinartelo… non voglio perderti e basta.
- Bill, adesso basta. Questa cosa sta diventando ridicola. Io sono morto.
- Non-
- Sì che lo dico, Bill. – riprese Tom, con più decisione, - Non puoi continuare a nasconderti dietro un dito!
- Sono solo parole… - mormorò il moro, scuotendo il capo, - Per me, non hanno nessun significato…
- Sono parole, ma descrivono uno stato di fatti. – disse suo fratello, cupo. Poi si alzò in piedi, tenendolo stretto per una mano. – Vieni. – ordinò.
- No! – resistette Bill, tirandolo verso il basso, - Dove mi vuoi portare?
- Vieni. – ripeté seccamente Tom, strattonandolo in piedi e trascinandolo verso l’uscita della camera, del tutto indifferente alle sue ritrosie.
- No! Tom, no! Non voglio venire!
Ma le sue proteste caddero nel vuoto. Tom si fermò solo davanti alla propria bara, lo afferrò per la nuca e lo costrinse a guardarla.
- Il mio cadavere sta qua dentro. – disse gelido.
- No! – rispose Bill, coprendosi gli occhi.
Tom lo afferrò con la mano libera per entrambi i polsi, liberandogli il viso.
- Non costringermi a fartelo vedere, Bill. – proseguì, sempre più freddo.
- No! No! Lasciami in pace! No! – continuò a lamentarsi suo fratello, strizzando gli occhi e scuotendo il capo.
- Invece sì. – continuò Tom, - Sono qui dentro. Morto stecchito. Se solo mi vedessi, non mi riconosceresti neanche. Sono carbonizzato. Non ho più capelli. Non ho più ciglia. Le mie mani si sono sciolte per metà. Ho brandelli di vestiti cicatrizzati addosso dal fuoco. I denti scoperti e il naso quasi interamente scomparso. Devo continuare?
- No… - mugolò Bill che, senza più forze nelle gambe, si lasciò andare verso il pavimento.
Suo fratello lo tenne in piedi senza pietà.
- Devi essere forte, Bill. Per la nostra famiglia, per Andreas, per la band.
Della voce di Bill non era rimasto che un brusio di sottofondo. Gli occhi socchiusi, brucianti di pianto, le ciglia colme di lacrime intrappolate e le guance già inondate da quelle cadute, continuava a scuotere il capo e mormorare parole incomprensibili.
- Devi farcela anche senza di me. – continuò Tom, stringendolo teneramente a sé. – Devi farcela per forza, Bill, perché io non ce la faccio a sopportare questo senso di colpa. Non posso pensare che stai così a causa mia, Bill, non lo reggo. Ti prego.
Qualcosa di freddo scivolò lungo la guancia di Tom e scese, scese lungo il suo viso, si gettò a peso morto nel vuoto e piombò sul dorso della mano di Bill. Quella lacrima era talmente gelida che Bill non poté fare a meno di sollevare lo sguardo, per spiare l’espressione del fratello.
- Non posso andarmene finché stiamo entrambi così. – continuò Tom. Il suo viso bianchissimo era bagnato e brillava più di prima. – E finché resto, sto male. Per te e per me.
Bill sollevò una mano, sfiorando il profilo della sua guancia. Una lacrima immacolata e brillante come una pietra preziosa gli inumidì i polpastrelli, e per un secondo anche la sua pelle luccicò tutta, come splendeva Tom.
- …non posso chiederti di portarmi con te, vero? – sussurrò a mezza voce, lasciandosi andare contro di lui.
- Non ti permetto neanche di pensarlo. – rispose dolcemente Tom, stringendolo forte.
Bill si lasciò andare ad un piccolissimo sorriso contro la sua pelle bianca, tiepida e morbida come sempre, e lo strinse a propria volta.
- Allora… - scollò faticosamente, - credo sia arrivato il momento di andare, per te.
Tom sorrise e lo baciò appena sulla fronte.
- Credo anch’io.
*
Il settimo giorno senza Tom, fu quello in cui Tom andò via per davvero.
Bill si svegliò, e non ebbe bisogno di andare a cercarlo, per capire che non l’avrebbe comunque trovato.
Fuori dalla finestra, il sole splendeva alto, e fuori dalla stanza tutti quanti si affaccendavano nei modi più disparati. Sentiva David dare disposizioni perché spostassero la bara. Andreas continuava a gridare a gran voce che non riusciva a trovare lo zucchero, e Georg stava implorando Gustav di andare ad aiutarlo per farlo smettere di strillare. Simone passava e rimproverava tutti indistintamente, continuando a lamentarsi perché non le sembrava che gli impiegati dell’agenzia funebre stessero trattando la bara del suo bambino con la dovuta cautela. Gordon cercava di calmarla, prima di sbottare anche lui che quello decisamente non era il modo giusto di caricare una bara in un ascensore. Jörg si faceva strada in quell’insana follia chiedendo timidamente un caffé, e poi cominciava ad urlare a propria volta contro gli impiegati, obiettando che “era ovvio non riuscissero ad infilarla in ascensore, da che mondo è mondo le bare si scendono a piedi”.
Il moro si sollevò dal letto, raggiunse la porta, la aprì ed uscì dalla camera.
Una quantità infinita di occhi gli si puntò addosso.
Lui ristette un attimo sulla soglia. Poi si portò le mani al viso.
- Oddio. – mormorò incerto, - Devo essere impresentabile.
Non riuscì a contare i sospiri di sollievo che udì in risposta a quella semplice frase.
Andreas si offrì di preparargli le cialde. Simone lo abbracciò ed abbozzò una coda di cavallo alta dietro la sua nuca. David era già in agguato alle porte della cucina, con un termometro in mano. Georg, Gustav e Gordon stavano infine cedendo alle preghiere di Jörg che, constatata l’incapacità degli impiegati, stava cominciando a predisporre tutto perché fossero loro a scendere la bara e caricarla sul carro funebre. Quando lo videro, sorrisero e lo salutarono timidamente, per poi tornare a dedicarsi al loro improvvisato dovere.
Bill sistemò la coda e si diresse pigramente in cucina, cercando invano di sfuggire agli attacchi di Jost ed alle continue domande di Andreas, che non ricordava neanche per sbaglio come si facessero le cialde.
Sembrava che, giocoforza, sarebbe riuscito a trovare un modo per uscirne. Ci avrebbe pensato da sé. O ci avrebbero pensato gli altri per lui.
Sorrise appena, mentre David gli ficcava il termometro sotto un’ascella.
Fidarsi non sembrava un’impresa particolarmente difficile.
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