Fanfiction a cui è ispirata: Tief Wie Das Meer di Sar@.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest.
- "La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto."

Note: Prima di tutto (di nuovo XD) un ringraziamento accoratissimo a Sara. Quattro pagine possono sembrare una cavolata, ma quando non scrivi niente di tanto lungo da una settimana intera (soprattutto se invece sei stata abituata a farlo per tutto l’anno precedente) suonano tanto come un miracolo inatteso quanto piacevole. Quindi grazie dell’opportunità che mi ha dato semplicemente scrivendo <3
Per quanto riguarda la storia, sono stupita del fatto non cozzi con la costruzione originale di Sara stessa <3 Stupita e felice, perché posso pubblicarla senza sensi di colpa <3 Ed a parte questo non ho veramente niente da dire, perché questa storia è stata quasi un dialogo fra me e Bill. Per cercare di capirlo meglio – d’altronde, è noto: io per conoscere i pg li faccio parlare XD
Unica precisazione: quando parlo del destino unico e dell’ossimoro perfetto, in realtà sto proprio citando In Die Nacht. Non alla lettera, ma diamo a Cotopuzzy quel ch’è di Cotopuzzy XD
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“Per Jost non era stato difficile dimostrare la propria paternità della più parte dei testi. Il fatto fossero nati anche da lunghe chiacchierate e confidenze ed appunti di Bill, all’improvviso, non contava più niente.
Tutto sommato, forse, era stato meglio così: del passato non gli era rimasto proprio niente. Se non un’infinita tristezza.”


LIFE GOES ON

Suonava quasi divertente – tanto. Quasi quanto triste – ripensare alle ultime parole che lui e David avevano scambiato. Il posto: un freddissimo atrio antistante la sala del tribunale in cui stava volgendo al termine la controversia legale che l’aveva visto opporsi alla Universal nel tentativo di impedire alla major di rubargli tutto proprio tutto. Il giorno: uno qualunque; non era neanche quello della sentenza: se ne sarebbe riparlato almeno dopo un paio di settimane. E lui aveva comunque deciso che non sarebbe stato presente.
L’atmosfera. Glaciale.
Da qualche parte – nell’angolino rimpolpato di bieco cinismo che Tom aveva scavato di prepotenza proprio accanto al suo cuore – saliva un prurito stupido ed immotivato, che avrebbe voluto obbligarlo a ridere: quell’uomo era stato per lui né più né meno che un padre, fino a quel momento. Ed ecco che si ritrovavano lì, di fronte ad un distributore automatico ronzante in maniera neanche troppo discreta, a fronteggiarsi come due estranei. Con lo stesso senso di disagio appiccicato addosso come una malattia.
David aveva sollevato un braccio, afferrato il bicchierino pieno di caffè dal vano che lo conteneva e poi gliel’aveva porto. Lui aveva accettato con un cenno di ringraziamento – anche parlare sembrava assurdo. Fastidioso, addirittura.
David, però, non doveva pensarla alla stessa maniera. Azionando la macchinetta una seconda volta, in cerca di un caffè che l’avrebbe reso nervoso per un motivo fisiologico – e che quindi sembrava molto più rassicurante del nervosismo irrazionale che lo agitava fin quasi al tremore – aveva deglutito e poi aveva parlato.
Lentamente. A bassa voce. Quasi sentisse il bisogno di riservargli un po’ del rispetto che la Universal stava spensieratamente calpestando proprio in quel periodo.
- In Die Nacht… - gli aveva detto, senza trovare il coraggio di guardarlo negli occhi, - non è nella lista, sai?
Non lo sapeva.
La lista delle pretese della Universal lui non l’aveva neanche sfogliata. Alrich Lange, il suo avvocato – un omino nervoso e davvero poco contento di trovarsi nella posizione in cui era – aveva insistito più o meno per tre o quattro minuti, perché fosse più partecipe di quella causa e si rendesse conto del fatto che il diritto al proprio nome su quei testi era qualcosa dalla quale poteva dipendere la sua intera vita. Ma s’era arreso subito, quando s’era accorto che, in realtà, della possibilità di ritrovarsi a vivere una vita da sceicco perso in un dolce far niente che aveva, già in prospettiva, poco di dolce e molto di straziante, non gli interessava poi molto.
Bill voleva cambiare.
Bill voleva andarsene.
Bill voleva solo scappare.
E quindi, non faceva proprio nessuna differenza se la Universal voleva rubargli proprio tutto, fino all’ultima goccia della sua identità. A lui non interessava tenersela.
- Ho pensato che potesse farti piacere tenerla. In qualche modo.
Si era ritrovato quasi senza accorgersene a mordere con violenza il bordo del bicchiere. La plastica aveva ceduto presto sotto la pressione dei suoi denti. S’era spaccata, ed il risvolto arricciato s’era aperto come un fiore, mostrandosi d’improvviso tagliente e appuntito, ferendogli l’interno del labbro.
Se n’era discostato fingendo indifferenza e passando la lingua sulla ferita come a volersi sincerare delle sue condizioni.
Bruciava un po’. Niente di drammatico.
- Grazie. – aveva scollato indifferente.
David s’era concesso un sorriso rammaricato ed aveva scosso il capo.
Era il ringraziamento meno sentito dell’universo.
Probabilmente perché di ringraziare per una cosa come quella Bill non aveva affatto voglia.
Di vedersi in qualche modo riconosciuto quell’amore che non aveva più senso d’esistere, non gli interessava più.
Gli toglievano tutto ma gli lasciavano Tom. Che era un po’ come non lasciargli proprio niente: perché Tom se n’era già andato da un pezzo. O meglio, era stato proprio lui a lasciarlo indietro.

Ma a ragione, Cristo. A ragione.

E così, quella canzone gli era rimasta per le mani.
In Die Nacht.
La prova fisica che qualcosa c’era stato. Qualcosa che l’aveva segnato profondamente. Qualcosa che era stato tutto per lui, per un lunghissimo periodo di tempo. Prima di Melli, prima del successo, prima dei Tokio Hotel, prima perfino della musica: c’era sempre stato Tom. Sotto vesti sempre differenti, e non era stato sempre amore – forse – ma la sua presenza, quella sì, era sempre stata ineludibile.
In fondo non si trattava neanche di una paternità particolarmente onerosa: In Die Nacht era stata solo una traccia nascosta. Una b-side, per di più. Il momento emotivamente più denso di un concerto, a voler essere proprio generosi. Nulla più di questo. Non era stata un singolo. Non era una canzone da spot pubblicitario. Non correva il rischio di diventare una qualche sigla televisiva da reiterare fino alla nausea.
Era una cosa privata. Qualcosa che aveva valore solo per lui.
Davvero solo per lui. E neanche più tanto.
Accucciato in un angolo del divanoletto che era diventato il suo giaciglio in casa di Ross Antony – almeno finché non avesse cominciato a guadagnare abbastanza da pagarsi un alloggio proprio, cosa che suonava perfino ilare, visto che diamine, era Bill Kaulitz e, fino a qualche mese prima, era stato probabilmente uno dei diciottenni più ricchi del mondo – Bill non riusciva effettivamente a pensare ad altro.
A quanto tutto ciò che gli rimaneva in mano fosse sostanzialmente un pugno di niente.
A quanto gli sarebbe piaciuto ritrovarsi davanti almeno per una volta Alrich Lange: per dirgli che, nonostante gliel’avessero spacciato per uno dei migliori del settore, come avvocato faceva proprio schifo.
A quanto, pure, avrebbe dovuto sentirsi fortunato nel trovarsi comunque con un tetto sopra la testa e dei vestiti ancora addosso.
Ma era roba di poco conto. Non c’era nulla che avesse veramente un valore, nel mucchio di certezze spicce che stava recuperando in quei giorni. La vita continua, ti fai degli amici, riprendi a lavorare.
E poi?

La triste verità dei lutti: la ferita non si cauterizza mai. Magari smette di bruciare, ma è lì. La bagni appena e riprende lo strazio. Poco da fare.
Magari lui era presuntuoso a parlare di lutto in una situazione come quella. In fondo, non era morto nessuno. In fondo, anzi, era stato proprio lui ad andarsene, no? A scappare. A mollare tutti senza una spiegazione. Senza neanche una parola.
Ma in realtà qualcosa era morto.
In realtà lui non era la persona che il lutto l’aveva subìto: lui era il lutto stesso.
Era lui che era morto: entrambe le parti che lo componevano, peraltro. Dentro di lui c’era sempre stata una componente di Tom ed una componente di Bill. Bill era ciò che lo rendeva se stesso. Tom era ciò che a quell’affermazione di indipendenza dava valore, perché era il filo che lo legava a suo fratello.
Legati ma non identici.
Due in uno.
Un destino diviso.
L’ossimoro perfetto.
Adesso, però, non restava più niente. Tom era morto d’asfissia: era stato lui stesso a soffocarlo, sull’aereo che lo portava a Parigi, fra le lacrime di disperazione che aveva nascosto dietro al solito paio di ingombranti occhiali da sole talmente fuori luogo da dare perfettamente l’idea di essere solo una maschera. Bill, poi, l’aveva seguito: morto di dolore.
Trovava difficile perfino svegliarsi alla mattina.
Rimettersi in piedi, darsi una ripulita, rendersi presentabile, fare colazione, andare a lavorare, ore di stage fra sconosciuti a volte odiosi a volte cordiali e comunque sempre freddi come marmo, poi tornare a casa, scollarsi di dosso la maschera di scena, cenare, accucciarsi sul divano, piangere un po’, dormire.
E perché?
Anche a pensarci, un motivo non si presentava.

Perché ci sono ancora, in fondo. Respiro. Parlo. Mi muovo.
Ed anche se ogni volta fa così male che preferirei smettere…
…sono ancora qui. Sono qui.


Non era mai stato un cinico – almeno, non prima di scoprire che l’amore era una farsa, tutto, indistintamente, ad ogni grado ed in ogni forma – ma non era mai stato nemmeno un illuso: aveva sempre saputo, o quantomeno sospettato, che la sua vita si sarebbe conclusa in un disastro epico. Un po’ perché fare la rockstar ti impone di pensarla a quel modo – vivi una vita brevissima da stella assoluta, non c’è modo di spegnerti senza che questo provochi un cataclisma mondiale – ed un po’ soprattutto perché la sua vita era davvero Tom. E quando accetti una cosa del genere, ne accetti anche tutti i possibili corollari.
Vale a dire anni e anni di frustrazioni, insoddisfazioni, tristezze di ogni sorta e depressioni feroci.
Vale a dire la scottante certezza d’essere quello sbagliato, proprio come pensano tutti.
Vale a dire, soprattutto, il presentimento di una fine da film drammatico. Separazioni, allontanamenti, litigi furiosi, tradimenti. Cose da cinema.
Ma quando ami tuo fratello, forse, è normale. Quando ami tuo fratello non puoi pretendere una separazione pacifica. Non puoi pretendere un dialogo aperto e maturo. Non puoi pretendere la replica in piccolo del divorzio dei tuoi genitori, insomma: perché già solo il divorzio implica dell’amore precedente. Lì, invece, fra lui e Tom, di amore precedente non c’era proprio traccia. Che non fosse unilaterale, ovviamente.

La vita, comunque, andava avanti. Avanti per davvero.
Fosse anche solo per il fatto che non potevi semplicemente fermarti e decidere di morire – o meglio: potevi anche decidere di farlo, ma la cosa non era poi così automatica – si continuava. Si continuava e basta. Senza liberarsi del dolore né della fatica né di una nostalgia stupida quanto atroce che lo inseguiva come un avvoltoio, ma si proseguiva.
Da Ross e Paul presto non avrebbe più potuto fermarsi – se non altro perché stava per fare il proprio ingresso in quell’appartamento un fagotto tanto piccolo quanto importante, e non era proprio sicuro di volere un bambino fra i piedi nel giro di, uh, per sempre. Probabilmente si sarebbe ritrovato ad accettare l’invito di quel tipo, Laurence du Comb, che sembrava tanto entusiasta all’idea di ospitarlo per un po’. Poteva immaginare perché con fin troppa chiarezza, ma d’altronde era sempre stato piuttosto chiaro riguardo la propria intimità ed i propri gusti.
Dannazione: era stato costretto ad affermarlo perfino in diretta nazionale, vaffanculo. Non era mai esistito nessuno più chiaro di lui, rispetto all’argomento.
Laurence si sarebbe rassegnato e punto.
Lui non poteva continuare a stare in quella casa.
Sarebbe andato.
Era un po’ diventata la sua filosofia di vita, quella, poco da fare. Quando cominci a sentirti scomodo, vai via. Trovati una nuova tana.
Non è detto che le cose migliorino, ma un tentativo puoi sempre farlo, no?

…no.
Perché io non ho un posto mio da quando ho perso le braccia di Tom.
Non ho più una voce da quando ho smesso di cantare.
Non ho più fiducia da quando ho perso quel poco che avevo guadagnato di Melli.
Non ho più niente di mio, tranne questa faccia troppo famosa, un’ambizione smorzata troppo presto ed un amore che amore non era, perché per amare – amare davvero – si dialoga in due. Parli da solo e fai un monologo. Solo un po’ meno squallido di una sega. Ugualmente triste, comunque.

La vita continua.
È l’asserto di uno che non ha vissuto affatto.
Continui a respirare, le cellule del tuo corpo continuano a riprodursi, il tuo cuore continua a battere. Ma sono azioni involontarie. Non pensi, quando le fai. Funzionano in autonomia, come certi muscoli che non hanno bisogno di un ordine per mostrarsi vivi e attivi.
Le funzioni corporee ti tradiscono.
Tu sei morto. E loro respirano al tuo posto.
La vita non continua.
La vita si ferma.
In una boccia di risentimento e nostalgia.
In un ricordo che si blocca a metà perché se solo provi a portarlo a termine ti viene tanto da piangere che non riesci a tollerarlo.
Nel respiro affannoso con cui ti svegli a notte fonda dopo un incubo orrendo.
Nella consapevolezza che indietro non si torna. Che è finito tutto. Tutto, dannazione. Che non riavrai indietro niente.
La vita si ferma.
Si ferma e basta.
È tutto il resto, che ti trascina in avanti.
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