Genere: Drammatico, Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Angst, Incest, Lime, OC (in un certo qual modo), Slash, Song-Fic, Threesome, What If?.
- Ipotesi. L'idea base sulla quale ruota il video di Spring Nicht è stata partorita da Tom Kaulitz. Ipotesi. Suo fratello si fa male durante le riprese. Ipotesi. Tom si sente in colpa. Ipotesi. Ed è come la fine del mondo.
Note: Ummamma, mi sembra assurdo scrivere queste note °_° Davvero, non potete capire °_° La trama per questa storia risale a tanti (ma tanti) mesi fa… io e la mia neechan Ana avevamo appena cominciato a fangirlare sui Tokio Hotel, avevamo da poco capito verso chi si orientavano le nostre preferenze XD ed a me è venuta in mente questa idea folle in cui, dopo il video di Spring Nicht, il povero Bill finiva in coma e da lì prendevano il via tutti gli eventi che si sono susseguiti in questa storia >.< Così, candidamente, sono andata da Ana e, sbrilluccicando come una bimba di fronte a un enorme cono gelato, le ho chiesto un modo per mandare in coma Bill *___* (mandando in paranoia lei, che aveva appena capito di amarlo X’D).
Poi, per una cosa o per l’altra, il progetto è stato accantonato. Se non altro perché io sono fermamente convinta che le trame più disparate possono nascere in qualsiasi momento, ma quando verrà il momento di metterle su carta sarà il tuo corpo a fartelo sapere è____é
Il tuo corpo o, come è successo in questa occasione, le circostanze °_° Perché non è normale che io ho questa storia in cantiere e sul forum dell’EFP vedo il concorso di Shian sui doppelgänger °_° Cioè, era come se il dio del fangirling stesse in qualche modo obbligandomi a scriverla °____° È indecente!
E così mi son messa al lavoro. E all’inizio pensavo sarebbe stata una cosa normale… voglio dire, non ho mai avuto il sospetto che me ne sarei uscita facile in cinque o sei pagine, ma di sicuro non sospettavo minimamente le proporzioni di drammone emo-twincest che la mia modesta storiella avrebbe preso °____° Infatti in più punti durante la stesura mi sono fatta prendere da insicurezze allucinanti perché mi pareva proprio che la storia stesse perdendo la verve iniziale per spegnersi nel niente ç_ç”””” Grazie al cielo le varie fangirl cui l’ho mandata in prelettura mi hanno rassicurata sulla resa (e a questo proposito vorrei ringraziare Ana, Meg, Lem, Ele ed anche Nai, che pur non essendo una fangirl dei gemelli è una mia fangirl, evidentemente XD e questo l’ha aiutata a sopportare questo dramma fino alla fine! Preoccupandosene anche °_°), altrimenti in più di un’occasione temo mi sarei arenata ._.
Un ringraziamento enorme anche a Yul, che sul mio archivio, in tag-board, mi ha fatto notare il testo di Use You, di Dave Gahan, dimostrando che lo showbiz fa paura. E siccome era una canzone troppo incest e cupa ed emoangst per non usarla… be’, l’ho usata appunto XD E un grazie a Shian per aver messo su il concorso e avermi di conseguenza obbligato “moralmente” a scriverla XD
Ah, importante: l’idea del video di Spring Nicht non è veramente di Tom XDDDDD (seh, figurarsi -.-) e durante le riprese Bill non s’è fatto assolutamente niente ù.ù
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DOPPELGÄNGER
wide awake on sleepy lust

Una enorme quantità di cavolate sciorinate nei momenti più improbabili – ovvero quando ci si trovava a dover fronteggiare un’intervista con qualche stronzo di conduttore desideroso di affondare quanto prima il fenomeno Tokio Hotel, e quindi ci si sarebbe aspettati da lui la quantità minima di buon senso da permettere al resto del mondo di prenderlo sul serio assieme a tutto il suo gruppo – aveva contribuito a renderlo “lo scemo” fra i gemelli Kaulitz. Non c’era alcun dubbio riguardo quella definizione.
Bill passava per quello intelligente, quello con la prontezza di spirito giusta, con le idee giuste, con l’atteggiamento giusto, con l’educazione giusta, eccetera eccetera. Tanto giusto da meritare un cenno d’approvazione perfino da parte di David – il più spietato fra i loro giudici, malgrado si trovasse fra le loro fila e non indossasse la divisa del nemico.
A Tom… be’, a Tom andavano gli scapaccioni, i rimproveri, gli “è mai possibile?!” ed i “sei disgustoso”. Ma non solo da parte del loro manager, no. Perfino da parte di Bill, di Gustav, di GeorgGEORG!!!, l’uomo la cui sensibilità ed educazione rasentavano quelle di un nerboruto vichingo incazzato e anche particolarmente affamato!
Neanche parlare liberamente di masturbazione e rivolgersi al proprio uccello chiamandolo “pennarello” fosse un crimine. Gli piaceva vedere tutti ridere, quando parlava in quel modo – e succedeva sempre – ma sapeva anche che era solo questione di tempo prima che la lucetta della telecamera si spegnesse, il conduttore li salutasse con un sorriso cordiale e si rifugiasse in camerino a commentare con malcelato disgusto la volgarità di quello coi rasta. Lo sapeva, perché era esattamente quello che facevano i suoi compagni. Primo fra tutti Bill.
In onda, si limitava ad una risata imbarazzata, trattenuta a stento da una mano a pressare forte sulle labbra.
Fuori onda, gli scoccava occhiatacce omicide e sibilava “Quando imparerai l’educazione, sarà troppo tardi”.
Per questo, adesso che stava vivendo il proprio tanto atteso momento di gloria, non poteva fare a meno di andarsene in giro per il backstage, il petto gonfio come quello di un galletto da combattimento – ma appena intuibile sotto l’ampia felpa e il voluminoso giaccone in piuma d’oca che indossava per proteggersi dal freddo – e il naso orgogliosamente puntato verso l’alto. Una camminata da principe.
- Piantala di andare in giro come un cretino.
La voce di Bill, lievemente velata da una punta di acidità, più che altro scherzosa, resa appena incerta da un tremito di freddo, interruppe i suoi sogni fantastici un attimo prima che cominciasse a vagheggiare di una possibile conquista del mondo, raggiungendolo alle spalle come uno sgambetto particolarmente vigliacco.
Ed infatti lui quasi inciampò, fermandosi a metà di un passo e rischiando di perdere l’equilibrio e capitombolare per terra da fermo come il peggiore degli idioti.
Bill si limitò a ridere come faceva sempre quando qualcosa lo divertiva molto ma non voleva darlo a vedere: una risatina piccola e incerta, appena un trillo fra le pieghe del silenzio del backstage, attraverso il quale non passava più nessuno, dal momento che regista ed operatori erano impegnati sul set a mettere a punto gli ultimi dettagli prima di cominciare a girare.
- Non mi dare del cretino. – protestò Tom, voltandosi a guardarlo, - Sarà merito mio se questo video verrà ricordato nei secoli dei secoli come la nostra migliore produzione.
Bill si strinse nelle spalle, arricciando le labbra.
- Per ora, è merito tuo solo il fatto che dieci minuti fa mi sono dovuto lasciare cadere dalla terrazza di un palazzo alto cento milioni di piani. – puntualizzò, strofinandosi le braccia sotto il giubbotto leggero appoggiato sulle spalle. – E non ero preoccupato dalla possibilità che i fili che mi reggevano potessero cedere, tanto quanto dal fatto che ero a maniche corte. Ti rendi conto di quanto freddo c’era?!
- Ero lì accanto a te… - gli ricordò il biondo, squadrandolo come fosse il più irriconoscente dei fratelli e piantando le mani sui fianchi.
- Sì, ma circondato di piuma d’oca. – ci tenne a precisare il moro, inarcando le sopracciglia.
Tom roteò gli occhi, esasperato.
- Ma sei mai contento, tu?! – protestò, andandogli incontro e passandogli un braccio attorno al collo. Finse di stringere come per strozzarlo quando in realtà, al più, quella stretta avrebbe potuto essere interpretata come una carezza affettuosa.
Bill rise ancora. Quella volta diversamente. Quella volta, come quando era semplicemente felice. Rise e si appese al suo avambraccio con le mani, affondando nel piumino con le unghie come a voler raggiungere pelle e carne sotto.
- Lo sarei moltissimo, se mi trovassi, chessò, in albergo, a letto e sotto un piumone caldissimo!
- Sì, certo! – annuì Tom, stringendo ancora un po’, - E magari poi vorresti anche una groupie di quelle più disponibili e una cioccolata calda per quando avrete finito! Te lo dico io, fratellino, tu non hai alcuno spirito di sacrificio!
Ennesima risata.
Però a Tom fece male, perché era la risata imbarazzata di quando erano in onda. Quella nascosta per finta. Quella piena di compassione. E irritazione. E fastidio. Quella di quando diceva una cazzata, e Tom odiava dire cazzate a Bill in privato. Aveva sempre come l’impressione di costringerlo ad allontanarsi da lui, quando lo faceva.
Ma il momento passò, e Bill tornò ad affondargli contro, cercando di riscaldarsi con la sua vicinanza.
- Ha parlato l’asceta! – si sentì in dovere di commentare. E quindi Tom si sentì in dovere di rispondere.
- Devi comunque ammettere che l’idea che ho avuto per il video è stata geniale. – argomentò, trascinando il fratello, senza lasciarlo neanche per un attimo, fino a una rampa di scale, sulla quale prese posto, tirandoselo addosso e lasciando che si sistemasse sul gradino inferiore, fra le sue gambe. Da quella posizione era anche più facile abbracciarlo, considerò con soddisfazione, affondando il mento fra i suoi capelli.
- In effetti è vero. – rispose Bill, pensoso. Le vibrazioni della sua voce raggiungevano Tom attraverso le ossa, su fino alla gola. Era come sentirlo parlare dall’interno di sé stesso, una sensazione magnifica. – David infatti non poteva crederci. – concluse il minore, con aria di superiorità.
- È uno stronzo. – commentò semplicemente Tom, affondando di più fra i suoi capelli, fino a strofinarli contro la punta del naso, gelata perché priva di protezioni, - E anche tu lo sei! Ma io so che l’idea di due Bill in giro per il mondo farà impazzire le fan. Tutti mi ringrazieranno per questo!
- Frena, frena… - lo riprese Bill, senza pietà, aderendo con la schiena al suo petto mentre Tom gli sistemava la giacca sulle spalle, - Guarda che è solo un video…
- E meno male! – aggiunse il rasta, strizzandolo con un briciolo di crudeltà in più, - Già tu da solo sei abbastanza una piaga!
Bill gli scoccò un’occhiataccia di traverso, provando senza particolare successo a liberarsi dalla sua stretta, e Tom ghignò vittorioso.
- Quando avete finito di amoreggiare… - rimbrottò David, mani sui fianchi e corteo agitato di cameramen capitanati da regista ansioso al seguito, - Bill, ci faresti la grazia di portare il culo sul set? Vorrei concludere le riprese di questo video entro il prossimo millennio, se non vi dispiace.
I due si separarono immediatamente, scattando in piedi come scolari appena rimproverati dal professore di matematica. Bill annuì e si avvicinò a Jost, che sorrise ironicamente, cercando di nascondere il divertimento che sempre provava nel vedere che quei due piccoli teppisti erano perfettamente in grado di mandare a cagare senza troppi complimenti la loro stessa madre, ma davanti a lui non si azzardavano ad esalare un fiato neanche per forza.
Questione di educazione troppo permissiva, si disse. Bisogna saper riconoscere quando è il caso di utilizzare il pugno di ferro.
- Sei crudele, Dave! – protestò Tom con una smorfia scema sulle labbra, - Ed io che avrei potuto seguire l’illuminato esempio di Georg e Gustav e rimanermene in albergo a poltrire! Invece eccomi qui, che mi sacrifico per amore di mio fratello, ed entrambi mi trattate di merda, nonostante il merito di tutto questo sia mio!
David agitò una mano e sospirò, come per dire “sì, come ti pare”, e Bill ridacchiò sommessamente, muovendosi assieme al resto del gruppo per raggiungere la scena e concludere, finalmente, quelle riprese.
Erano stati due giorni spaventosi. E Tom aveva bisogno di un caffè.
Dato che conosceva a memoria quel momento – l’aveva ripassato in mente mille volte, se l’era rigirato fra i neuroni come fosse stata una cosa fisica da trattenere fra le mani, Bill su un ripiano di plastica rigida perfetto per imitare il parapetto della terrazza, il materasso doppio davanti a lui, retto da quattro fra i più forti e attenti membri della troupe, lui che fissa i pochi centimetri che lo separano da quel riparo morbido, lui che fa un passo, lui che si lascia andare, lui che finge di cadere, lui che simula un suicidio idiota, “in perfetta sicurezza”, gli avevano assicurato, “questa è l’idea migliore che abbiamo mai sentito!” – decise che poteva anche prendersi una pausa dall’osservazione ostinata del proprio fratellino in azione, e si diresse tranquillamente verso il distributore di bevande in fondo al corridoio.
Inserì l’adeguato compenso all’interno della macchinetta – per quanto adeguato potesse considerarsi un euro per una decina di gocce di liquido nerastro ed insapore, che nulla aveva di anche solo vagamente somigliante al caffé – ed aspettò che il bicchierino si riempisse prima di recuperarlo dal suo scomparto.
Alla fine, pensò, era sempre in quel modo che si risolveva, fra lui e Bill. Lui protestava di essere un genio incompreso, Bill lo prendeva in giro, questa cosa puntualmente lo infastidiva e perciò rispondeva all’attacco con una difesa meschina e sciocca.
Non gli piaceva l’idea di far sentire Bill come qualcosa in meno che adorato. Perché lui lo adorava.
Ma, a volte, quelle stupide battute erano gli unici paletti che riusciva a porgli davanti per evitare che il gemello lo facesse sentire abissalmente stupido.
In fondo, però, era una consolazione vana e di durata brevissima. Lo dimostravano i sensi di colpa che, come al solito, lo presero allo stomaco nel ripensare all’ennesima bastardata che gli aveva propinato.

Non penso davvero che tu sia una piaga…

Sospirò e, sorseggiando distrattamente il proprio caffé, cercò nelle tasche dei jeans un’altra moneta. Faceva effettivamente freddo, nonostante fossero al chiuso. Il sistema di riscaldamento non era abbastanza potente per riscaldare l’intero ambiente, e lo stanzone nel quale stavano girando la scena finale era enorme. Difficilmente lì suo fratello non avrebbe sofferto. Tanto più che era costretto a stare di nuovo senza giacca, solo con la maglietta.
Avrebbe dovuto pensare a un cappottino di pelle anche per il Bill suicida.
Dato che, in quel momento e solo in quel momento, la sua genialità l’aveva abbandonato per dedicarsi ad altro, così che lui non aveva potuto dotare il Bill suicida della giusta protezione contro le intemperie dell’inverno tedesco, si sarebbe fatto perdonare con un bel bicchierone di tè caldo. Era consapevole del fatto si trattasse giusto di un beverone appena aromatizzato, ma era sicuro che Bill avrebbe capito. Ed apprezzato l’intenzione.
*
S’era appunto chinato, molleggiando sui talloni davanti alla macchinetta per osservare il lento scorrere dell’acqua bollente dal beccuccio al bicchiere di plastica, attendendo che si esaurisse, quando alle spalle lo raggiunse un boato.
Non avrebbe saputo descriverlo meglio.
Perché non era un urlo.
Non era un urlo, quella massa di voci così enorme e indistinta e forte, tanto da far tremare le pareti. Non era un urlo, era un terremoto, al più. Scattò in piedi, dimenticando del tutto il bicchiere dentro l’apparecchio, e si voltò. Dall’apertura in fondo al corridoio, all’inizio non venne fuori niente. Soltanto altro vociare indistinto. Meno forte, meno spaventoso. Ugualmente ansioso.
Fra le mille parole, non ne riconobbe che una.

Ambulanza.

Ambulanza? Ambulanza perché?
Ambulanza per chi?

Pietrificato, rimase lì, in mezzo al niente, con la sola compagnia di un distributore automatico ronzante alle spalle.
Poi, David.
O meglio, una voce che ricordava quella di David. Quella di David quando era veramente infuriato, quando lui disubbidiva e trascinava Bill in qualche follia del cazzo, o quando le prove andavano male, o quando durante un soundcheck rompevano le palle a un qualche tecnico del suono o delle luci, o quando Georg si sfondava d’alcool da qualche parte e finiva col provarci con tutte le cameriere che gli capitassero sottomano, o quando Bill aveva un attacco di nostalgia improvvisa e si faceva lagnoso e intollerabile, oltre che assolutamente ingestibile. Una voce simile, ma molto più preoccupata. Molto più agitata. Molto più nervosa.
- State zitti, cazzo, non sento niente! – strillava.
Solo allora, solo quando lo vide mettere un piede in corridoio ed allontanarsi dal set, Tom osò muovere un passo. Lo mosse nella sua direzione, ma David non si accorse di lui. Girò su se stesso e prese a camminare avanti e indietro, come un ossesso, dando indicazioni al telefono per spiegare all’operatore dall’altro lato della cornetta come raggiungere il luogo esatto in cui si trovavano. Il luogo esatto in cui trovare ciò che avrebbero dovuto prendere.
Che doveva essere sicuramente un tecnico. Sicuramente qualcuno che aveva fatto un errore e s’era bruciato. O qualcuno che era caduto e s’era fatto male.
Qualcuno.
Che.
Non.
Fosse.
Bill.

Ma nessuno, nessuno a parte Bill avrebbe potuto giustificare quello sguardo negli occhi di David, quella camminata isterica, quel contorcersi di viscere che Tom stesso sentiva appena sotto lo stomaco, quella paura immotivata, improvvisa, tanto forte e antica e sconosciuta da sembrare un impulso primitivo. Solo Bill.
Solo Bill.
- Bill… - disse a mezza voce. Quasi non si sentì neanche lui.
Ma David, lui lo sentì. Si fermò nel mezzo del corridoio, gli alzò addosso uno sguardo terrorizzato ed allontanò il cellulare dall’orecchio, annuendo un’ultima volta, come l’operatore potesse vederlo.
- Tom. – disse David, sollevando le braccia come avrebbe fatto se si fosse trovato davanti ad una bestia feroce, ed andandogli incontro lentamente, - Calmati.
- Bill! – ripeté Tom, e lo ripeté perché in quel preciso istante si sentiva in grado di pensare solo al suo nome. Non c’era spazio per nessun’altra parola, non esisteva niente.
Nient’altro oltre Bill.
Perché nient’altro poteva giustificare tutto quel dolore.
Si slanciò in avanti, e David lo afferrò per le spalle. Tom non era infastidito dalla propria gracilissima costituzione, ma in quel momento avrebbe desiderato essere un gigante alto più di due metri e largo almeno tre, per sfondare la resistenza dei muscoli compatti di David, forzare la sua stretta e oltrepassarlo, calpestandolo come fosse stato una formica.
Per fiondarsi da Bill.
Per vedere come stava.
- Non è niente di grave, Tom! – gli urlò David nell’orecchio, - L’ambulanza sta arrivando!
- Perché l’ambulanza?! – strillò lui a propria volta, - Cos’è successo a Bill?!
Una lenta nenia di “niente, niente, non preoccuparti, è tutto a posto” prese il posto dei pensieri irrazionali che gli avevano invaso il cervello fino a quel momento. Era irrazionale anche farsi cullare dalla voce di Jost, dal suo tono adesso morbido e rassicurante, da padre, di più, da fratello, ma lo fece lo stesso. Di quelle parole si riempì le orecchie. E la testa. E tutto il resto del corpo, finché non gli sembrò di riuscire a contenere solo quelle.
È tutto a posto.
Non preoccuparti.
Non è niente.

Si sistemerà tutto.

E non sarebbe stato meglio non ci fosse proprio niente da sistemare…?


- Il materasso ha ceduto… - una pausa. Forse David si stava chiedendo se fosse giusto dirglielo. Era sbagliato, ma Tom non glielo disse, perché tanto non sentiva più niente. In quel momento non lo stava davvero ascoltando. Il problema era che il suo cervello non poteva impedirsi di registrare quelle informazioni. – Un angolo è scappato di mano da uno dei tizi che lo reggevano. – E quindi? E quindi cosa, David? – Bill… - Bill cosa, David? – è stato sbalzato via… - E poi? – Ha battuto la testa…
Tom si fermò. Smise di strepitare, smise di agitarsi.
Probabilmente anche di respirare davvero.
Malgrado volesse vedere Bill, malgrado volesse andargli vicino, malgrado volesse toccarlo per assicurarsi fosse ancora tutto a posto, tutto come prima, tutto come una risata tenera soffiata a bassa voce prima di allontanarsi con un cenno di saluto, in realtà lui non voleva davvero guardarlo. Non voleva guardare suo fratello steso per terra in un lago di sangue. Non voleva guardare i suoi capelli bagnati e gocciolanti, non voleva guardare la ferita che probabilmente gli deturpava la fronte o chissà cos’altro, non voleva davvero guardare niente di tutto questo.
Perciò si abbandonò come svenuto fra le braccia di David. E, come sempre, David non lo tradì. Lo resse in piedi. Lo tenne ben stretto.
- Non si è ancora ripreso. Ma l’ambulanza sta per arrivare. Perciò sta’ tranquillo.
*
Nell’ambulanza diretta all’ospedale, con Bill privo di sensi mollemente adagiato su una barella ricoperta di carta immacolata già sporca del sangue che gli infermieri non erano riusciti tempestivamente a tamponare con le garze, non c’era chi avrebbe dovuto esserci.
Non c’erano Simone e Gordon, ancora a Loitsche ed ancora all’oscuro di tutto – perché David aveva pensato fosse più opportuno avvertirli solo quando avessero saputo qualcosa di certo.
Non c’era Jörg, che probabilmente sarebbe stato avvertito da Simone stessa – solo quando avesse saputo e solo quando avesse metabolizzato.
Non c’erano Gustav e Georg, che pure erano stati tempestivamente chiamati ed avvisati, e contro i quali David aveva dovuto minacciare di sguinzagliare l’intera security dell’albergo nel quale alloggiavano perché “smettessero di piagnucolare come mocciosi isterici e tornassero a dormire, che tanto Bill non si sarebbe rimesso in piedi solo per il loro convulso starnazzare notturno”.
Non c’era neanche David, che appena aveva visto Tom abbandonarglisi fra le braccia aveva pensato “merda” ed aveva deciso di rimanere con lui fino a quando non fosse stato necessario, perché tanto, per Tom, i medici non avrebbero potuto fare niente, mentre un buon medico era tutto quello che servisse a Bill.
E naturalmente non c’era Tom.
Tom che, in quel momento, stava semidisteso sul sedile posteriore della macchina di David, che seguiva l’ambulanza come un segugio fedele, a pochi metri di distanza, e fissava il vuoto buio oltre il finestrino, mordicchiando insistentemente il labbro inferiore e facendo occasionalmente tintinnare il piercing quando entrava in contatto coi denti.
David lo adocchiava nello specchietto retrovisore – spostato ad arte perché inquadrasse perfettamente la sua figura, centrato e per intero, come dentro una telecamera – ad intervalli regolari ogni dieci secondi, come volesse assicurarsi non usasse il finestrino per gettarsi in strada e porre fine alla massa enorme di sentimenti e sensazioni fangose che lo stavano ricoprendo e soffocando al punto da impedirgli di parlare se non per monosillabi.
- Va meglio? – gli chiese, stringendo la presa delle dita attorno al volante.
- No. – rispose Tom senza pensarci su più di mezzo secondo.
Non poteva andare meglio.
Sentiva che Bill non si era ancora ripreso.
E sarebbe stato sciocco ed infantile dirlo, oltre che vagamente falso, perché non riusciva davvero a percepire come stesse il proprio fratello, a quella manciata di metri che li separava, chiuso nell’ambulanza come in una scatola di sardine. Però riusciva a sentire benissimo come stava da sé. Riusciva a sentire che stava male, male da morire, male come mai. E si sentiva talmente preoccupato, e deluso da sé stesso, e colpevole, e inutile, e assente, che nella sua testa non c’era proprio spazio per l’ipotesi che le condizioni di Bill potessero essere migliorate, che lui potesse stare un po’ meglio.
Era caduto, aveva perso sangue, era svenuto e non s’era più ripreso, e tutto per colpa di una sua stupida idea.
Della più stupida delle sue idee.

Nessuno s’era ancora premurato di accusarlo. Neanche David, che in genere era sempre propenso a mollargli uno scapaccione sulla nuca ed insultarlo nelle maniere peggiori, s’era azzardato a dirgli una sillaba.
E dire che, per la prima volta in molto, moltissimo tempo, la sua colpa era così palese che a lui quasi veniva da ridere. E l’avrebbe fatto, se non fosse stato così sistematicamente certo che appena avesse schiuso le labbra sarebbe scoppiato a piangere come un idiota.
E non poteva piangere.
No. Nessun diritto di piangere.

*
- Tu aspetta qua fuori.
Si lasciò andare su una sedia in sala d’aspetto, impattando col sedere contro la plastica dura, fino a sentirla scricchiolare sotto di sé.
Avrebbe voluto afferrare David per un braccio e dirgli che quel teatrino di sicurezza, quella pallida imitazione di “è tutto a posto, reggo tutto io, non succederà niente di male”, poteva anche ficcarsela nel culo o usarla per pulirselo, perché era del tutto inutile. Tanto glielo si leggeva negli occhi che era terrorizzato a morte.
Come lo si poteva leggere nei suoi.
- Ci metterò un secondo.
Annuì meccanicamente, voltando lo sguardo intorno a sé. L’ospedale, o almeno la sala d’aspetto, era semivuota. Sembravano esserci più infermieri che pazienti bisognosi di cure.
Complimenti a Jost per la scelta.
L’avrebbe ringraziato per la discrezione in un altro momento. Un momento in cui fosse stato… più razionale.
Doveva essere proprio vero, quello che si diceva della paura. Che la fiuti, la scorgi nei cuori e negli occhi degli altri, e che ti atrofizza i sensi, paralizzandoti.
Tom aveva annuito senza volerlo realmente fare, e aveva rilasciato il capo all’indietro, contro il muro, cogliendo di sfuggita la figura di David imboccare un corridoio e sparire.
La paura poteva anche farti impazzire, e lui sapeva che nel suo caso aveva perfino buone possibilità di riuscirci.
Ne fu certo quando, un momento prima di chiudere gli occhi, vide Bill seduto su una sedia di fronte a sé. Capelli sparati in aria, cappotto di pelle e, stampato sul viso, il sorriso delle grandi occasioni. Quello soffice e tenero di quando si scusava. E sembrava voler dire non lo faccio più, Tomi. Perdonami.
Ma quello non poteva essere davvero Bill.
E, se anche lo fosse stato, Tom si sarebbe premurato di staccargli quel sorriso dalle labbra a morsi, se fosse stato necessario.
*
It’s killing me
To be in this room
I’ve gotta get out
I’ve gotta get out soon

Quando si risvegliò, il secondo di David si era prolungato in un millennio, e lui era tanto vecchio e stanco che avrebbe tranquillamente potuto dire di essere già pronto a morire.
- Dovresti tornare in albergo. – si sentì dire, e perciò spalancò gli occhi e li portò sulla figura del manager, incredulo.
- No! – disse, alzando la voce. E avrebbe aggiunto altro. Avrebbe cominciato a strillare che lui non aveva alcun diritto di chiedergli, no, di obbligarlo ad andarsene, e che si trovava esattamente nel posto in cui avrebbe dovuto trovarsi fin dall’inizio, ovvero al fianco di Bill, dal momento che non poteva essere al suo posto. E avrebbe strillato tanto che perfino Bill l’avrebbe sentito, in qualsiasi posto si trovasse.
Ma David lo conosceva. Abbastanza da provvedere con una mano sulla bocca, per zittirlo appena in tempo.
- Non dare di matto, Tom. È l’ultima cosa che ci serve. – disse il manager, seriamente, sedendoglisi accanto. Continuò a tenergli la mano pressata sulle labbra e, respirando affannosamente contro la sua pelle calda e leggermente sudata, Tom pensò che era ridicolo. Che tutta quella situazione era completamente ridicola. Erano ridicoli loro due, seduti in quella sala d’aspetto bianchissima e semivuota, era ridicola l’agitazione di Saki, che era andato in ambulanza con Bill e che, da quando ne era sceso, non aveva fatto che rimanere attaccato alla barella, col risultato che, adesso che la barella era stata portata in sala per l’operazione d’urgenza, s’era appiccicato al muro più vicino come fosse stato uno di quegli stupidi robottini incapaci di vedere che davanti hanno una parete e non possono attraversala, e quindi continuano a sbatterle contro nella speranza di sfondare le resistenze e passare altrove.
Ed era ridicolo anche lui. Bill.
Era ridicolo che potesse starsene su un lettino, sotto i ferri, incosciente.
Era ridicolo che potesse davvero farlo senza sentirsi in colpa per tutto il dolore che stava loro causando.
Si morse un labbro, e nel movimento sbavò un po’. Se ne accorse, lo trovò imbarazzante e disgustoso, ma David non tolse la mano.
- Saki. – chiamò invece a bassa voce, e la guardia del corpo sembrò come ridestarsi da un lungo sonno, andando loro incontro. – Riporta Tom in albergo. Per carità, fa’ in modo che entri senza che Georg e Gustav lo vedano. – si interruppe, per una breve riflessione. – Scusa se te lo chiedo, ma già che ci sei potresti controllare che quei due stiano realmente dormendo?
Saki annuì, sbuffando un sorriso intenerito e poggiando una mano sulla spalla di Tom.
Che non si mosse.
David lo guardò. Dritto negli occhi. Pochissimi secondi. La pressione delle dita appena un po’ più forte attorno alla mascella.
Dal momento che Tom sapeva che David non l’avrebbe mai abbracciato, e che quello sarebbe stato il contatto più consolatorio che avrebbe ricevuto fino a quando suo fratello non si fosse ripreso – e fino a quando, cioè, quello da abbracciare fosse stato lui – se lo fece bastare. Sospirò ed annuì.
David sorrise e spostò la mano sulla sua spalla, cercando di infondergli quel po’ di forza che gli era rimasta attraverso un paio di pacche decise.
Era ridicolo anche quello, in fondo, pensò Tom alzandosi e seguendo Saki verso l’uscita dell’ospedale. Nel momento in cui l’avesse visto uscire e fosse rimasto solo, David si sarebbe afflosciato su se stesso, avrebbe nascosto gli occhi dietro alle mani ed avrebbe esalato un sospiro tanto stremato e sconvolto che se qualcuno l’avesse sentito avrebbe pensato che non fosse solo un po’ d’aria ad abbandonargli i polmoni, ma la stessa vita. Chissà, probabilmente avrebbe perfino pianto, anche se prima di farsi vedere da qualcuno sarebbe andato a chiudersi in bagno.
- Non ti preoccupare, Tom, andrà tutto bene. – gli disse Saki, quando furono arrivati in albergo. – I medici sull’ambulanza hanno detto che non sembrava molto grave.
Era privo di conoscenza, avrebbe voluto ricordargli Tom, tu l’hai visto. E non di sfuggita, come me. Non hai dovuto accontentarti di un frammento di lui mentre la barella correva veloce per il corridoio fino in sala operatoria. L’hai guardato bene, per tutto il tempo. Come fai ad essere così tranquillo?
- Sì. – disse invece, annuendo come a rafforzare la validità della propria risposta. Sapeva che Saki avrebbe riferito tutti i particolari del suo comportamento a David, una volta che fosse tornato in ospedale, e non voleva preoccuparlo ulteriormente. Era meglio che la persona più vicina a Bill in quel momento non avesse altro che lui a cui pensare.
Le rassicuranti parole di Saki lo accompagnarono fino in camera, mentre si spogliava e si lasciava cadere esausto fra le coperte. Sapeva che non avrebbe dormito, ma era piacevole farsi cullare da qualcosa di morbido. E mentre si girava fra le lenzuola, sistemando il cuscino dietro la testa e fissando il soffitto con aria assente, quelle parole continuarono a girargli per la testa come una canzone un po’ stonata. E giravano, e giravano.
Giravano ancora, quando il telefono sul comodino squillò e lui si chinò a recuperare la cornetta per rispondere.
Forse fu per questo – perché ancora nella sua mente c’era solo la voce di Saki – che il timbro incerto eppure grave di David suonò così strano alle sue orecchie. Così irreale.
- È in coma.
Non doveva essere una cosa affatto grave?
Non doveva risolversi tutto in fretta?
Non doveva andare tutto a posto?

- I dottori sono fiduciosi. Dovrebbe riprendersi. Se… se supera la notte è fatta, dicono.
La progressione dei verbi era interessante.
Dal presente al condizionale in meno di dieci parole.
L’ipotetica finale, poi… il colpo di grazia.
- Tom? Ci sei?
Deglutì, sperò che David lo sentisse e lo prendesse come una risposta. E smettesse di parlare, una buona volta. Perché adesso no, non c’era proprio più niente da dire.
- …d’accordo. Senti, ti richiamo domani mattina. Non uscire dalla tua stanza, per favore. Per favore, Tom. Mi ascolti? Non uscire. Cerca di dormire. Dimmi che cercherai di dormire, Tom.
Schiuse le labbra, ma ne uscì solo un rantolo. Avrebbe voluto essere un sì – un sì, almeno, avrebbe chiuso la questione. Sarebbe stato falso, ma definitivo – ma non fu che un lamento strozzato.
- Ok… - rispose David, sospirando pesantemente. Tom poté immaginarlo passarsi una mano fra i capelli e poi lasciarla scivolare fra gli occhi, a massaggiare l’estremità superiore del naso. – Senti, vi sto rimandando Saki. Starà lui con voi. Se hai bisogno di qualcosa, chiamalo. Non… - Non dirmi di non preoccuparmi per Bill, David, non dirmelo, davvero, perché se me lo dici quant’è vero che sono vivo salto in piedi, ti raggiungo dovunque tu sia e ti azzanno alla giugulare, lo giuro, David, non dirmi di non preoccuparmi per Bill. – A Bill ci penso io. Cerca di riposare.
Tom tirò un respiro – il primo che gli sembrasse vero, per quella sera – ed interruppe la conversazione, rilasciando il capo sul cuscino e lasciando cadere il telefono al suo posto senza alcuna delicatezza.
Seguì il complicato disegno di ghirigori che decorava il soffitto, fino a quando non divenne una serie di macchie scure arrotolate su loro stesse, indistinguibili le une dalle altre. E si rese conto che non era un effetto ottico, no. Erano le lacrime. Quelle stesse che stavano rotolando giù lungo le sue guance, schiantandosi sul cuscino. Erano loro che gli impedivano di vedere bene.
Si morse l’interno di una guancia per non scoppiare in singhiozzi, e cercò di abituarsi allo spettacolo confuso, perché tanto non sarebbe cambiato per tutto il resto della notte.
*
Il primo pensiero sensato che gli attraversò la mente quando si svegliò, fu che il corpo umano è talmente inaffidabile ed infedele da dare la nausea, se solo ci si riflette su. Aveva giurato e spergiurato – be’, non consciamente, ma l’aveva fatto – che non avrebbe dormito. Non avrebbe chiuso occhio. Per quanto potesse sembrare stupido e infantile e melenso e deprimente, avrebbe pianto fino a non poterne più ed anche oltre, per tutta la notte. Questo era quello che s’era detto, fissando il soffitto.
E poi s’era addormentato.
Quel bastardo del suo corpo traditore aveva ceduto alla spossatezza e s’era addormentato.
Si lasciò andare ad un grugnito irritato, rigirandosi sul materasso per cercare di sfilarsi il cuscino di bocca – e come vi fosse finito in quel momento non lo interessava affatto, anche se supponeva potesse essersi trattato di un pallido tentativo di arginare i singhiozzi soffocandoli nel cotone – quando realizzò che il motivo per cui s’era svegliato era il bussare insistente che aveva percepito mentre ancora dormiva. E che continuava ad accompagnarlo anche adesso che era sveglio.
Toc toc.
Non poteva trattarsi di un sogno. Era un suono, era quasi fisico – lo sentiva rimbombare nel cervello come lo stessero prendendo a martellate – doveva essere reale.
Si sollevò a sedere e fissò la porta.
Toc toc.
Potevano essere Georg e Gustav. Magari avevano eluso la sorveglianza di Saki e intendevano torchiarlo finché non avesse detto loro cosa diavolo era successo.
O forse era proprio Saki. Magari voleva assicurarsi che fosse tutto a posto. Magari l’aveva ascoltato piangere per tutto quel tempo e poi, quando l’aveva sentito smettere, s’era preoccupato, e voleva vedere se era ancora vivo.
Oppure poteva essere David. Magari aveva pensato che stare ancora a rotolarsi nell’angoscia sul seggiolino scomodo della sala d’aspetto di un ospedale semivuoto potesse rivelarsi inutile, e dopo aver lasciato il proprio numero per essere contattato in caso di eventuali sviluppi, aveva deciso di tornarsene in albergo, e ora passava di lì per assicurarsi che fosse tutto a posto.
Toc toc.
Toc toc.
Continuo, incessante.
Si alzò in piedi. La moquette che ricopriva il pavimento non era affatto morbida. Era quanto di più fastidioso e pungente avesse mai sentito sotto la pelle. Infilò le pantofole e raggiunse la porta della camera mugugnando un “arrivo” poco convinto.
E poi aprì.
E lui e la persona dall’altro lato della porta sollevarono gli occhi nello stesso identico istante.
E quegli stessi occhi, l’uno nello sguardo dell’altro, riflessero lo stesso identico castano.
- Bill… - esalò, lasciando ricadere le braccia lungo i fianchi, come fosse già distrutto solo dopo aver pronunciato il suo nome, - Bill, che… che ci fai qui…? – si sforzò di chiedere, ricacciando indietro, giù per la gola, le lacrime che minacciavano di impossessarsi nuovamente dei suoi occhi.
Bill ridacchiò. Una risata che non gli aveva mai sentito veramente addosso. Che ogni tanto aveva immaginato, ma che non era mai realmente appartenuta a suo fratello. Qualcosa di malizioso, qualcosa di subdolo e sottile, qualcosa di… vagamente sgradevole.
Bill ridacchiò e gli posò una mano sul petto, spingendolo con delicatezza all’interno della stanza e richiudendosi la porta alle spalle.
Fu allora che Tom si accorse che quello non poteva essere altro che un sogno. Se ne accorse e quasi sorrise di sé stesso, chiedendosi come avesse potuto sperare, anche solo per un attimo, che quella visione potesse essere reale. Bill era in coma, sdraiato inerte su un letto d’ospedale. E se pure s’era ripreso, se pure aveva riaperto gli occhi, ricominciato a respirare da solo, a parlare normalmente, a sorridere ed a muoversi, di certo non si sarebbe mai potuto trovare lì. Non a quell’ora. Non quella notte.
Non con addosso lo stesso cappotto di pelle del video di Spring Nicht, non con tutto quel trucco, non con i capelli perfettamente in piega. Non con quel sorriso sulla faccia, non con quell’aria da folletto furbo, non senza neanche un segno della caduta, dell’operazione, del ricovero.
- Sto sognando… - disse ad alta voce, mentre Bill lo superava, scendendo a sfiorargli una mano con la propria e intrecciando le dita con le sue per condurlo più velocemente verso il letto, sul quale lo costrinse a sedersi prima di accomodarsi al suo fianco. – Sto sognando, è ovvio…
- No che non stai sognando, Tomi… - lo rassicurò Bill, anche se la sua voce sembrava provenire da molto, troppo lontano, e niente dei suoi gesti o della sua persona ricordava quella di suo fratello… se non il fatto che fossero due dannate gocce d’acqua.
Proprio come nella sua idea geniale.
Due Bill in giro per il mondo.
Anche se, al momento, uno in realtà era inchiodato ad un letto.
- Tu non puoi essere qui. – obiettò Tom seriamente, guardandolo dritto negli occhi.
Bill sorrise e trascinò una sua mano a sfiorargli la guancia.
- Mi puoi sentire…? – gli chiese poi, strofinando il viso contro la sua pelle, come un gattino in cerca di coccole.
E sì, Tom lo poteva sentire.
Lo poteva sentire al punto che mandò a fanculo la consapevolezza si trattasse solo di un sogno e lo strinse fra le braccia con impeto, quasi stritolandolo. Ma era un sogno, e quella era una certezza. Lo divenne incontestabilmente nel momento esatto in cui Tom lo strinse a sé e Bill non mostrò neanche un attimo di incertezza, o una nota di stupore, nel lasciarsi stringere.
Solo i sogni sono così ubbidienti.
Solo i sogni non chiedono mai perché.
- Scusa, Bill… - mormorò Tom contro la sua pelle, lasciandogli scorrere le mani sotto il cappotto, lungo la schiena, sentendo il cotone leggero della maglietta arrotolarsi in sbuffi sotto la pressione delle dita, - Non volevo che andasse così… mi avevano detto che sarebbe stata una scena sicura, da girare… c’erano quattro persone a reggere quel fottuto materasso, non so com’è che-
- Sssh… - lo interruppe Bill, scostandosi da lui solo qualche centimetro, ritrovando subito il contatto nello sfregamento delle loro fronti, e guardandolo negli occhi con affetto, - Non sono arrabbiato con te, Tomi… non è colpa tua… - ridacchiò, arricciando il naso in una smorfia tenerissima, - Come hai potuto pensare, anche solo per un momento, che potessi darti la colpa di quello che mi era successo? È stato un caso, una fatalità… la tua idea era comunque bellissima, sai…?
- Ma tu – riprese Tom, singhiozzando prepotentemente, pur continuando a ricacciare indietro le lacrime, - adesso sei in coma… in coma Bill… e non è neanche sicuro che ti riprenderai… - si interruppe un secondo, mordendosi le labbra, perché di dire ciò che doveva dire non aveva alcuna voglia. Ma le parole scalciavano sul fondo della gola, dove tutte le lacrime s’erano concentrate. Non c’era più spazio per entrambe. Ed allora, meglio che le parole uscissero, perché erano decisamente meno pericolose del resto. – Se tu dovessi morire…
- Non dirlo neanche per scherzo! – rise Bill, divertito, stringendogli le braccia attorno al collo e tornando ad affondare il viso nell’incavo della sua spalla, - Io non morirò! Non sto affatto male, Tom! Che c’è, non mi senti?
- Sì… - annuì Tom, tornando a stringerlo alla vita, - Sì, certo che ti sento, ma-
- Ma cosa? – insistette Bill, separandosi da lui, stavolta più nettamente, e tornando a guardarlo, - Non ti basta? Vorresti sentirmi di più?
Tom deglutì, scrutando le profondità dei suoi occhi cerchiati di nero senza riuscire a venire a capo del mistero di quel sogno così… tangibile. Caldo, profumato e solido sotto le mani.
- Vorrei avere la sicurezza che stai bene… - bisbigliò, scivolando con le labbra sulla sua fronte fino a scorrere anche sul profilo del naso, risalendo con le mani a sfiorare la nuca, come cercasse il segno di una qualche ferita.
Niente di niente.
- Sto bene, Tomi. – disse Bill, accarezzandogli le guance con entrambe le mani. – Posso pensare solo ad un modo per fartelo capire.
Non lo vide avvicinarsi.
Doveva aver approfittato dell’unico momento in cui si fosse concesso di sbattere le palpebre, staccandogli gli occhi di dosso.
Sentì direttamente il calore delle sue labbra contro le proprie. Morbide, sensuali, rassicuranti.
Il modo perfetto per fargli capire che sì, stava bene, e sì, era ancora al suo fianco.
Spaventato, incerto e un po’ intontito, si tirò indietro, senza però riuscire a togliergli le mani di dosso.
- Bill, cosa fai…? – chiese a mezza voce, anche se sapeva che era una domanda del tutto inutile: i sogni non rispondono. Per i sogni non esistono vere domande.
Perché i sogni fanno solo ciò che tu gli ordini di fare.
- Stai tranquillo, Tomi… - gli disse Bill, inginocchiandosi sul materasso di fronte a lui e sporgendosi in avanti per raggiungere ancora le sue labbra, in una serie di baci brevi e veloci, appena umidi, molto infantili, - Era tanto tempo che volevi farlo, vero Tomi…?
Provò a scostarsi, come in una protesta muta, ma Bill non lo lasciò andare.
- No, io… - provò allora a dire, ma Bill non lo lasciò neanche parlare.
- Quando hai saputo che ero in coma hai pensato che non avresti mai potuto farlo, vero Tomi…? – e ancora una cascata di baci, sempre più piccoli, sempre meno incerti, sempre meno contrastati.
- Smettila di parlare così! – disse Tom, socchiudendo gli occhi e stringendo la presa delle dita attorno ai suoi fianchi sottili, stupendosi della straordinaria consistenza della pelle, della carne e delle ossa fra le mani, - Non chiamarmi Tomi, tu non sei Bill…
Bill – l’altro Bill – ghignò. Si alzò e gli si parò di fronte, poggiandogli le mani sulle spalle. Poi lo scavalcò e gli si sedette in grembo, ancorandosi a lui e intrecciando le gambe dietro la sua schiena.
- Se non sono Bill… allora quello che stiamo facendo non è un problema… - gli mormorò sulle labbra, prima di tornare a coprirle di baci.
E Tom si stupì nel ritrovarsi a rincorrerli, quegli stessi baci. Quando le labbra di Bill si allontanavano, erano le proprie a protrarsi in avanti e seguirle. Alla ricerca della loro traccia morbida e calda. Di tutto ciò che di tangibile gli restasse di Bill. Del proprio adorato fratellino steso su un letto in un ospedale bianco, triste e semivuoto, a causa sua.
- Tomi, anche io volevo farlo da tanto tempo, sai…? – disse ancora Bill in un sussurro, leccandogli lentamente le labbra, ancora una volta simile a un gattino, per costringerlo a schiudere le proprie.
E Tom ubbidì.
Perché i sogni fanno solo ciò che ordini loro.
E se l’altro Bill stava facendo quelle cose…
…Tom lo sapeva, che era solo perché era lui ad ordinargliele.
Non capiva se fosse uno strano tentativo di chiedere perdono o… qualcosa di peggio, ma erano ordini precisi. Ordini chiari.
Ordini che lui non si sentiva in diritto – né in dovere – di mettere in discussione.
Perché quello che fai nei sogni resta nei sogni.
Non si riversa nella vita reale.
E perciò, quello che fai nei sogni non diventa mai un problema.
- Scusami, Tomi… - bisbigliò Bill, passandogli le mani sul petto nudo, scivolando lento come lo scorrere delle ore, - Ti ho fatto preoccupare tanto… ma adesso sono qui, non c’è più niente di cui aver paura…

Ma io ho paura di te, Bill.
E ho paura anche di me stesso.
Questo non vale niente…? Proprio niente…?


- Nei sogni no, Tomi. – rispose Bill, sicuro, come lo avesse sentito – e probabilmente era davvero così – forzandolo a distendersi sul materasso.
*
La sensazione umida, pastosa e un po’ appiccicaticcia di un sogno troppo realistico, lo accompagnò per tutta la notte. Per tutta la notte ebbe come l’impressione di muoversi all’interno di un dormiveglia spaventosamente vigile e allo stesso tempo ovattato come da un oceano di bambagia. Anche se riusciva a lanciare uno sguardo da qualche parte alla sua sinistra, sul comodino, per rendersi conto del trascorrere del tempo, ed anche se era sicuro di trovarsi a letto, e cominciava ragionevolmente a credere di non essersi mai mosso, la strana sensazione di aver toccato Bill lo perseguitava come un incubo. O una maledizione.
La sua pelle calda sotto le dita.
Le vene pulsanti sotto i polpastrelli.
I muscoli tesi sotto i palmi.
I movimenti lenti.
Sensuali.
Il bisbigliare dritto al suo orecchio, parole irripetibili, segreti inconfessabili, dichiarazioni impronunciabili. La loro traccia era ancora nella memoria, marchiata come a fuoco vivo.
L’odore del suo sudore, il solletico dei suoi capelli contro la pelle.
La sensazione inebriante provata entrando dentro di lui. Trovandolo accogliente e perfetto come e meglio di una donna. Un incastro ad arte, quasi miracoloso.
Il calore umido del suo sperma fra le dita.
Il richiamo indelebile del sesso ad aleggiare nell’aria attorno a lui come un fantasma. Le particelle d’ossigeno erano intrise di quel richiamo, gli sembrava di aver smesso di respirare aria pura, poteva respirare solo sesso.
Sesso era tutto ciò che c’era stato quella notte in quella camera d’albergo.
Lui. Ed il proprio gemello.
E un sogno finto, come di gesso. Che se lo stringi fra le dita un po’ troppo forte, si sgretola.
*
Passare dal sonno alla veglia con tanta immediatezza, pensò Tom, scattando a sedere sul letto e afferrando il telefono squillante sul comodino, dovrebbe essere vietato. Vietato per legge.
Non poteva esserci niente di peggio di quel dolore sordo sepolto nelle profondità del cervello, e non poteva esserci niente di peggio di quell’intorpidimento diffuso su ogni centimetro del corpo, al punto da renderlo dolente per ogni movimento, e non poteva esserci niente di peggio neanche di quel saporaccio osceno sulla lingua, e di quel raschiare della gola anche solo mentre si cerca di respirare.
Rispose alla chiamata quando lo squillo fu lì lì per farsi intollerabile.
- Tom?
Era David.
Era David ed era felice.
Senza neanche pensarci, si voltò a guardare l’altro lato del letto. Era sicuro che non ci avrebbe trovato niente… era solo per controllare.
E, controllando, scoprì che, in effetti, poteva esistere qualcosa di peggio rispetto ai risvegli bruschi.
Infatti quasi urlò, quando vide che, contrariamente a quanto pensava – speravaqualcuno c’era. L’altro Bill era ancora là. Completamente nudo, coperto appena dal lenzuolo, assopito al suo fianco. Respirava lentamente, profondamente, era un suono così dolce… I capelli scendevano a lambirgli le scapole in ciocche e si disperdevano sul cuscino tutto intorno a lui.
- Dimmi… - ansimò, sperando che David non si accorgesse del suo sconvolgimento.
David non se ne accorse. Perché era davvero, davvero felice.
- Bill si è svegliato! – annunciò esultante, mentre una voce flebile e ancora bassa – Bill! Bill!!! Quello vero! Era lì, parlava, Dio, parlava!!! – esalava un “yeeeh!” festoso, almeno nelle intenzioni, e si lasciava andare ad un risolino divertito. – Sentito? – chiese il manager, cercando di trattenere a propria volta le risate, - Sta bene!
- Bill… - mormorò incredulo, continuando a fissare la copia addormentata al proprio fianco, - Passamelo!
- Meglio se vieni direttamente. – consigliò David, sospirando sollevato, - Vuole vederti. E porta anche Georg e Gustav. Basta che recuperiate Saki dovunque si trovi… non azzardatevi ad uscire da soli, mi hanno detto che sono trapelate delle notizie dalla location del video e c’è già un capannello di giornalisti, qua fuori.
Bill, dall’altro lato della cornetta, lontanissimo eppure incredibilmente vivido, si lasciò andare ad un “che palle” disperato.
Tom sorrise, stringendo il telefono fra le dita.
- Saremo lì in un minuto. – assicurò, interrompendo la chiamata.
Poggiò il cellulare sul comodino e si rivoltò sul materasso.
In teoria avrebbe… avrebbe dovuto chiamarlo? Dirgli di svegliarsi? Che era tardi, che doveva… sparire? Perché i sogni non restano, dopo che gli occhi si sono aperti. I sogni, a quel punto, si dissolvono, se non si sono già dissolti prima.
Allungò una mano verso il suo corpo, ma l’altro Bill lo precedette, mugugnando infastidito ed accucciandosi per un secondo fra le lenzuola, prima di stiracchiarsi e girarsi supino, aprendo faticosamente gli occhi.
Tom non avrebbe saputo che dire.
E infatti non disse niente.
L’altro Bill si voltò a guardarlo e gli sorrise.
- Te l’avevo detto, che stavo bene. – disse ironico, stiracchiandosi ancora ed allungando un braccio sul pavimento per recuperare i boxer.
Tom lo osservò sedersi e schioccargli un bacio sulle labbra, prima di alzarsi in piedi e rivestirsi, cappotto compreso.
- Allora io vado. – disse il sogno, salutandolo con una mano, - Non dimenticare di venire a trovarmi in ospedale. – ricordò ridacchiando, - E comunque ci rivedremo presto.
- Aspetta! – cercò di fermarlo Tom. E avrebbe davvero potuto chiedergli qualsiasi cosa, ma per i sogni le domande sono inutili. Perciò non lo fece. – Ti… ti vedranno tutti, si chiederanno cosa ci faccia tu qui… - bisbigliò incerto, abbassando lo sguardo.
Bill rise allegro.
- Non mi vedrà nessuno. – lo rassicurò.
E poi sparì oltre la porta, richiudendosela delicatamente alle spalle.
*
- Scommetto che in questo momento ti sta odiando perfino Bill. – borbottò Georg, contrariato, battendo nervosamente un piede per terra. – Hai detto tu che aveva voglia di vederci! E invece arriviamo e ci tieni qua fuori per la paternale…
- Non sarà una paternale… - sospirò stancamente David, passandosi una mano fra i capelli, - Ho solo detto che voglio dirvi due parole prima di farvi entrare.
Gustav annuì, battendo due colpi d’incoraggiamento sulla spalla di Georg e fermandolo un attimo prima che ricominciasse a lamentarsi. Annuì perfino Tom, nonostante si trovasse evidentemente perduto da qualche parte all’interno della propria testa, troppo intento a correre come un matto alla ricerca dell’uscita per rendersi veramente conto di cosa stesse succedendo attorno a lui.
- Quando entrerete, non lanciate gridolini idioti. – disse quindi il manager, incrociando le braccia sul petto.
Gustav inarcò un sopracciglio.
- Ma allora vedi che avevo buoni motivi per odiarti?! – riprese Georg, stringendo i pugni, - Seriamente, ti sembra che entreremmo là dentro e-
- L’hanno rasato. – spiegò l’uomo, interrompendo il bassista con voce bassa ma ferma. – A zero. E voi adesso siete felici come mocciosi davanti ad un triciclo nuovo. Perciò no, non mi fido della vostra capacità di giudizio autonoma. E voglio assicurarmi che non farete o direte qualche cazzata, presi dall’entusiasmo. – si fermò qualche secondo, inumidendosi le labbra con la lingua e spostando il peso del corpo da un piede all’altro. – Quando s’è svegliato stamattina ho temuto che impazzisse, scoprendolo. Invece ovviamente è stato bravissimo, ha sorriso e ha detto che non è importante e ricresceranno. Ma è chiaro che sta da cani. Perciò – concluse, risollevando lo sguardo sui propri pupilli e squadrandoli severamente uno ad uno, - sensibilità.
*
Rivedere Bill dopo un avvenimento sconvolgente metteva sempre Tom in condizione di superare il momento e ricominciare a ragionare come una persona normale. Era una cosa provata. Era sempre stato così, fin dalle prime volte in cui era stato possibile osservare il comportamento dei gemelli.
Ad esempio, quando durante una delle prime session di registrazione, Tom non era stato in grado di eseguire decentemente la linea di chitarra di Durch Den Monsun, ed era stato perciò necessario tenerlo in studio fino alle otto passate di sera – dalle dieci del mattino – era stato rivedere Bill che aveva salvato Tom dallo strillare che con quel mestiere di merda non avrebbe voluto avere più nulla a che fare e che, per quanto lo riguardava, avrebbero potuto cominciare a cercarsi un sostituto, perché il Kaulitz numero uno si ritirava.
Era su un meccanismo simile che contava David, quando aprì la porta della camera di Bill e lasciò che Tom entrasse e si precipitasse al suo fianco, seguito a pochi centimetri di distanza da Georg, Gustav e un insospettabilmente bonario Saki.
Come quella volta di tanti anni prima, infatti, gli occhi di Tom si riempirono di uno stupore sollevato e commosso – uno di quegli sguardi che sembravano dire “grazie a Dio esisti tu, almeno, a rendere questo mondo un posto meno schifoso”, e che David aveva osservato spessissimo durante il lungo periodo di frequentazione che l’aveva unito ai gemelli Kaulitz – e le sue labbra si dschiusero in un sorriso sincero e spontaneo, mentre si lasciava ricadere sul letto accanto al gemello e gli afferrava una mano fra le proprie, salutandolo con calore.
Ovviamente, nessuno accennò al cappellino di lana che Bill aveva preteso gli fosse calato sulla testa prima che tutti entrassero, per coprire l’enorme fasciatura che gli avvolgeva il capo.
Piuttosto, la prima cosa che Bill fece, adocchiando i propri amici avvicinarglisi, fu sorridere, stringendosi nelle spalle mentre Georg gli dava automaticamente dell’idiota e, di fronte al suo sguardo offeso e colmo di disappunto, precisava che non solo non aveva idea di cosa cavolo avesse combinato per finire addirittura in ospedale, ma che per giunta non gli andava affatto di saperlo, tanto la sua opinione sarebbe rimasta la stessa: Bill era un idiota e non avrebbe mai dovuto permettersi di tirar loro uno scherzetto simile.
Gustav annuì e rincarò la dose minacciandolo di morte – morte vera, ci tenne a rimarcare – in caso ci avesse riprovato.
Mentre David scuoteva il capo, disapprovando la facilità con la quale i ragazzi riuscivano ad abbandonarsi all’umorismo nero in un momento come quello, Tom eruppe in un singhiozzo stremato che nessuno a parte lui sembrò notare. Bill lo percepì, e infatti tremò appena, dentro alla sua leggera vestaglietta di finto tessuto, ma non sembrò accorgersene davvero. E Georg e Gustav erano troppo impegnati a fingere di non essersi commossi per la ripresa di Bill per accorgersi di una qualsiasi cosa.
Ma Tom aveva singhiozzato. E David l’aveva sentito. E di sicuro non poteva ignorarlo.
Perciò gli si avvicinò e gli posò una mano sulla spalla, cercando di rassicurarlo.
- È tutto a posto. – rispose meccanicamente il biondo, sollevandogli addosso un sorriso incerto, - Sto bene, sono ancora un po’ scosso.
- Non c’è niente per cui scuoterti… - bisbigliò il manager, sorridendo sereno, - Bill sta bene.
- Sì. – annuì Tom, mordicchiandosi un labbro. – Lo vedo.
Il problema è che non mi sento più tanto in grado di fidarmi dei miei occhi.
Era questo, quello che Tom avrebbe voluto aggiungere. Ma dire una cosa simile l’avrebbe obbligato a delle spiegazioni. Spiegazioni che, nella maniera più assoluta, non si sentiva in grado di fornire.
Perciò tacque. E tornò a guardare Bill, sperando fosse quello vero. Quello sano. Quello che non avrebbe mai potuto sfiorare come aveva sfiorato quel fantasma nella notte.
*
Era sicuro al cento per cento che le vicende ospedaliere di Bill fossero appena cominciate. Forse perché né lui né suo fratello s’erano mai lasciati sfuggire una puntata di Doctor House, e forse perché in show del genere la parola più ricorrente dopo “morte”, in caso di coma, era sempre “riabilitazione”, aveva creduto che da quel momento in poi la vita del proprio fratello sarebbe stata scandita per un periodo interminabile da continue visite mediche e lunghissime sedute fisioterapeutiche, che gli avrebbero impedito la piena ripresa delle attività lavorative per tempi irragionevolmente lunghi.
Invece, la prima cosa che il dottore disse, entrando in camera di Bill con un enorme sorriso sul volto, fu “Molto presto potrà andare a casa! E speriamo di non vederla mai più qui dentro, signor Kaulitz!”.
Tom aveva realizzato di avere addosso un’espressione da perfetto idiota solo quando il fratello s’era premurato di fargliela gentilmente notare.
In seguito, il dottore aveva spiegato che l’intervento era andato perfettamente, che in effetti il coma di Bill non era durato più di tre o quattro ore e che dalle analisi non risultava nessuna complicazione che potesse giustificare un ricovero in ospedale. Perciò, giusto il tempo di risolvere qualche pratica burocratica – “Lei è il padre?”, chiese il dottore a David. “Una specie”, rispose lui. – e in men che non si dica si sarebbe ritrovato a poter riposare nel proprio letto.
Al solo sentire quelle due parole, Bill s’era voltato a guardare il manager con aria supplicante. “Andremo in albergo prima, Bill”, aveva però risposto Dave, con aria vagamente afflitta, “Poi si vedrà”.
Alla fine s’era deciso di rimanere a Berlino, dove si trovavano in quel periodo. Bill aveva sempre saputo che le possibilità di tornare davvero a Loitsche per un periodo di vacanza erano sempre state del tutto nulle, perciò non ne soffrì più di tanto – o almeno, se ne soffrì non lo diede a vedere. In compenso, David si premurò di deglutire a vuoto, afferrare il telefono e chiamare Simone per avvertirla dell’accaduto. Dopo essersi assicurata che fosse tutto a posto, la donna chiese l’indirizzo esatto dell’albergo e disse che sarebbe arrivata al più tardi l’indomani dopo pranzo, e di non muoversi di lì. David la implorò di non portare nessun altro – “qua la situazione è già abbastanza incasinata” – lei annuì e gli assicurò che si sarebbe mossa con discrezione. Poi lo ringraziò ed interruppe la telefonata.
- Verrà? – chiese Bill, speranzoso, sistemando il cappellino che non aveva voluto sfilare dalla testa.
David sorrise.
- Certo che verrà. Domani. Ma adesso devi chiuderti in camera tua… - lanciò uno sguardo afflitto fuori dalla finestra, sospirando mentre constatava che la folla di giornalisti e curiosi per strada non si era affatto sfoltita, - …possibilmente cementandotici dentro… - aggiunse, causando un breve scoppio d’ilarità nei gemelli che lo fissavano dal divanetto ad angolo della sua camera, - E riposare. – concluse infine il manager, tornando a guardarlo seriamente. – Hai decisamente bisogno di riposo. Tom, riportalo tu in camera, d’accordo?
Il biondo annuì, alzandosi in piedi ed aspettando che il gemello facesse lo stesso prima di condurlo in corridoio.
- Finalmente soli! – esultò Bill quando si ritrovarono in corridoio, saltandogli addosso e stringendogli le braccia attorno al collo prima di schioccargli un sonoro bacio bagnato sulla guancia.
- Ehi, ehi… - ridacchiò Tom, imbarazzato, eludendo la sua stretta ed afferrandolo per i polsi per riportargli le mani in un punto che non fosse troppo pericoloso – ovvero abbastanza lontane dal suo corpo da non causargli improvvisi quanto intollerabili innalzamenti di temperatura. – Attento, potrebbe vederci qualcuno…
Bill fece una smorfia contrariata, liberando i polsi dalla stretta del fratello e riprendendo a camminare lentamente verso la propria camera.
- Non ti sei mai preoccupato di cose simili… - si limitò a fargli notare, deluso, piantando lo sguardo sulla moquette rossa che rivestiva il pavimento del corridoio.
- Ma la situazione adesso è diversa… - motivò lui, fissando dritto davanti a sé, - Sei appena uscito dall’ospedale, l’albergo è circondato da giornalisti… non è il caso… dai, lo sai…
Il moro scrollò le spalle, infilando le mani nelle tasche dei jeans.
- Sarà. – borbottò deluso, guardando altrove.
Tom gli lanciò un’occhiata di sfuggita, mordendosi un labbro. Dio solo sapeva quanto gli costasse rifiutare il contatto con Bill. Sfiorarsi, abbracciarsi, accarezzarsi, perfino scambiarsi qualche bacetto tenero sulla guancia, quando nessuno li guardava, era per loro una routine quasi banale. Erano sempre stati particolarmente appiccicati, fin da piccoli. La cosa non li aveva mai messi in imbarazzo, e oltretutto non si era mai rivelata d’ostacolo per le interazioni con l’altro sesso. Non è che passassero tutta la loro giornata attaccati l’uno all’altro come gemelli siamesi. Ma c’erano dei momenti, momenti particolari, momenti di estrema debolezza da parte di entrambi, momenti di nostalgia, momenti di sfiducia, perfino momenti di felicità o grande emozione, in cui il bisogno di contatto fisico si faceva urgente come fosse stata una sete ancestrale. Immotivata e inestinguibile, finché non fosse stata soddisfatta.
Era così felice di sapere Bill sano e salvo che gli sarebbe saltato addosso fin dal primo momento in cui l’aveva visto.
Ed il problema era esattamente quello.
- Entri un po’? – gli chiese Bill quando furono davanti alla porta di camera sua.
- No, dai, sarai stanco… - cercò di difendersi lui con un sorrisetto stupido, arretrando verso la propria stanza, dall’altro lato del corridoio.
Bill aggrottò le sopracciglia, incrociando le braccia sul petto.
- Non è che adesso perché sono stato una notte in ospedale in seguito a un incidente del cazzo dobbiamo azzerare i rapporti, eh, Tom?
Tom sbuffò una risatina incredula. Forzata e imbarazzante.
- Ma che idiozia. Non sto azzerando i rapporti! Sto dicendo che domani ti servirà energia…
- Ed esattamente per fare cosa? Per sostenere l’enorme fatica che comporterà stare costretto a letto con mamma che mi sorveglia per impedirmi di alzarmi?
Anche Tom aggrottò le sopracciglia, stringendo i pugni.
- Sono stanco io. – disse alla fine, fissandolo con rabbia. – Non dormo da ieri.
L’espressione di Bill si fece spaurita e confusa, mentre scioglieva le braccia e le lasciava ricadere come morte lungo i fianchi.
- …ah… - articolò con un filo di fiato, - Sì, scusa, dimenticavo che… - abbassò lo sguardo, sorridendo debolmente, - …eravate tutti preoccupati, già…
Una voragine.
Nel centro del petto.
Proprio in mezzo ai polmoni.

- Bill, non è che-
- No, hai ragione. Hai ragione. – disse, sollevando lo sguardo e piantandoglielo addosso. Sereno. Limpido. – Ora che ci penso, ho sonno anche io. Ci vediamo domani.
E in meno di un secondo era oltre la porta. Scomparso.
Almeno alla sua vista.
Sospirò, voltandosi lentamente verso la propria porta per aprirla.
Perfetto.
Sto sbagliando tutto.
Anche l’impossibile.

Entrò in camera e si abbandonò contro il muro, chiudendo gli occhi e godendo dell’oscurità dell’ambiente. Le tende pesanti erano l’invenzione più meritevole di tutta la storia del genere umano.
- Bel colpo, Tomi. – disse la voce di Bill nel buio, - Basso, ma bello.
Spalancò gli occhi e si guardò intorno. Nel nero fisso e compatto della stanza non riusciva a vedere niente, ma la voce l’aveva sentita. Era impossibile da confondere.
- Bill… tu sei…
Bill ridacchiò.
- Sei stato bravo, Tomi.
Quel modo insinuante e malizioso di pronunciare il suo nome…
- Sei di nuovo qui…
Bill si distese sul letto – sentì il fruscio delle coperte sotto il suo corpo in movimento – e raggiunse il lume sul comodino, accendendolo.
Era tutto proprio come la notte prima. Lunghi capelli dritti sulla testa, trucco pesante e cappotto di pelle.
- Ti sono mancato? – chiese ridacchiando.
Tom deglutì, mentre le labbra si tendevano in una smorfia stupita e vagamente impaurita.
- Credevo fossi un sogno. – disse a mezza voce, restando immobile contro il muro.
Bill si lasciò andare ad una risatina divertita, e si alzò in piedi, andandogli incontro.
- Come sto senza capelli?
Il biondo aggrottò le sopracciglia, incerto.
- Ricresceranno. – disse, scostando lo sguardo verso un punto vuoto oltre la figura alta e scura davanti a sé.
Bill rise ancora.
- Vuol dire che sto male. – commentò distrattamente. – Quindi ti fa piacere vedermi così, no?
Tom gli riportò lo sguardo addosso, scrutandolo come volesse misurarlo. O modellarlo.
- …sì. – rispose. Sollevò una mano a sfiorargli una guancia, - Ma anche mio fratello tornerà così. È solo questione di tempo.
- E tu… - insinuò l’altro Bill, malizioso, scivolando col viso contro il suo palmo aperto, - …aspetterai che io sia tornato così bello come mi vedi adesso, per baciarmi…?
L’ennesima smorfia rimescolò i tratti del suo viso, e Tom staccò la mano da Bill privandolo di quel contatto caldo quasi con violenza.
- Io non voglio baciare mio fratello. – si difese ostinatamente, oltrepassandolo e raggiungendo il letto, per sedersi in punta sul materasso.
Bill si voltò a guardarlo mentre compiva il movimento, e con l’ennesimo risolino lo seguì, accomodandosi al suo fianco.
- Sì che vuoi. – gli disse, afferrandogli il mento tra le dita e costringendolo a guardarlo. – Prima lo ammetti, meglio sarà. Per entrambi. – poi il suo sorriso si allargò, assumendo un tono di crudele e impietosa malignità che non gli aveva ancora mai visto addosso. – Anche perché Bill lo vuole esattamente quanto te, sai?
Tom si separò da lui ancora una volta, sfuggendo alla stretta ora lievemente più forte delle sue dita sulla mascella e muovendo qualche passo agitato all’interno della stanza.
- Tieni fuori Bill. – gli disse, senza riuscire a guardarlo, - Di me, dì quello che cazzo vuoi. Ma tieni fuori Bill da questa schifezza.
L’altro Bill rise ancora. Quasi sguaiatamente. Si sollevò dal materasso e lo raggiunse alle spalle, circondandolo con le braccia e posando baci teneri sulla sua nuca dopo aver scostato la coda che teneva stretti i dread.
- Hai ragione. – annuì, mentre Tom si rivoltava contro di lui, lasciandosi abbracciare fronte contro fronte, circondandolo a propria volta con le braccia attorno alla vita, - Di te posso parlare senza problemi. Quello che provi, lo so. Quello che provi, lo sai anche tu. – Tom aprì gli occhi, fissandolo quasi con dolore. – Io sono te, Tomi. – riprese il fantasma, sfiorandogli le labbra con un bacio, - Sono così solo perché è così che tu mi vuoi. Però non sono veramente Bill. E quindi non posso conoscere i suoi pensieri e i suoi sentimenti. Non più di quanto non li conosca tu stesso. – si interruppe, scivolando con le labbra sul suo collo e fermandosi appena sotto l’orecchio. – Quando dico che anche Bill vorrebbe baciarti, Tom… - sussurrò spietato, mentre lui si paralizzava nel suo abbraccio e strizzava gli occhi, terrorizzato, - …è perché sei tu a sperarlo.

I’m hurting you
With everything I do
It’s too long
Too long in this place

*
Fra tutti coloro che ebbero a che fare con lui in quel periodo, sua madre fu l’unica a capire di cosa realmente avesse bisogno.
- Quando vi ho partorito, ho creduto di aver dato un cervello a ciascuno di voi. Ma, a quanto pare, mi sbagliavo di grosso. Tu che ne pensi, Tom?
No, non di sentirsi attaccato per una colpa – pure ingenua, pure involontaria, ma sempre una colpa – che comunque intimamente sentiva di avere. No.
- Avanti mamma… lo sai che non è stata colpa sua.
Ma di sentirsi difeso da Bill, quello sì. Di ascoltare la sua voce negare risolutamente che una qualsiasi delle conseguenze di quell’errore grossolano e stupido fosse da ricondurre a lui. Non i capelli tagliati, non l’enorme fasciatura da cambiare ogni sera, non la sottile cicatrice che sarebbe rimasta – “ma no, Tom, neanche si vedrà!” – non i brevi momenti di confusione che ancora coglievano Bill a tradimento, quando nessuno se lo aspettava, impedendogli di trovare una parola pure semplice o di ricordare le parole di canzoni che aveva cantato e ricantato fino alla nausea per anni.
Simone sospirò, sporgendosi in avanti, sul letto, per abbracciare Bill. Un po’ goffamente, come sempre succedeva da quando entrambi erano diventati due giganti. Se erano loro ad abbracciarla non sembrava poi così strano. Ma quando era lei ad allargare le braccia e cercare di inglobarli come fossero stati ancora bimbi piccoli, d’improvviso la sproporzione enorme delle loro dimensioni si faceva sentire, rendendo quegli abbracci quasi caricature di abbracci.
Tom li adocchiò distrattamente e nascose un breve risolino dietro una mano, mentre Simone si rimetteva dritta e lo sferzava con un’occhiataccia colma di disappunto.
- Togliti questo cappellino, tesoro. – disse poi accorata, rivolgendosi a Bill e sfiorando il bordo doppio con le dita, - È pesante, non vorrei ti accaldassi troppo…
Lui sorrise tranquillo.
- Fa freddo. Sto bene. – rispose con noncuranza.
Tom lo osservò solo per un secondo. Passato il quale non riuscì, fisicamente, a tenergli ancora gli occhi addosso. Bill era ancora e comunque la cosa più pura che avesse mai conosciuto. Una presenza che nella sua mente non aveva mai nemmeno sfiorato la sensualità. Una cosa… intonsa, virginale.
Dipendeva anche, in parte, dall’idea di sé che suo fratello amava spacciare in giro, probabilmente. La storia del sesso solo con il vero amore. Un amore da attendere con fedeltà. E da coccolare e proteggere con devozione, una volta che fosse giunto.
Cose in cui Tom non credeva. Cose che, dette da chiunque altro, avrebbe ritenuto stupide. Semplicemente perché, da chiunque altro, non avrebbero acquistato la stessa credibilità. Chiunque altro avrebbe buttato lì quelle parole e poi alla prima occasione si sarebbe scopato una tizia qualunque, solo perché gli tirava e non gli andava di ridursi per l’ennesima volta ed una sega in camera prima di andare a dormire.
Ma Bill no. Perché Bill non si limitava a dirlo. E non si limitava neanche a pensarlo. Lui agiva esattamente per come ragionava. Quindi ogni suo pensiero ed ogni parola da esso derivata era pesante come un macigno. Non puoi dare della stronzata ad una cosa che non lo è, e in maniera così palese. Per questo motivo non aveva mai potuto dare della stronzata a ciò che suo fratello diceva, e non era mai neanche riuscito a ritenerlo uno stupido o un ingenuo perché agiva in quel modo, anche se, a livello generale, riteneva stupido e ingenuo quel modo di agire.
Lo stesso, invece, non si poteva dire di lui.
Lui pensava che ciò che faceva con l’altro Bill fosse disgustoso.
Lui pensava che non avrebbe mai voluto coinvolgere Bill in qualcosa di simile, neanche indirettamente, neanche idealmente.
Lui pensava di non voler davvero fare quelle cose.
Ma il suo modo di comportarsi non rifletteva affatto i suoi pensieri. Il suo modo di comportarsi rifletteva in pieno, però, ciò che lui intimamente era. La sua essenza più reale, più concreta. Quella di uno stronzo che quando è stuzzicato da qualcosa fa di tutto per prendersela. Passando sopra qualsiasi regola senza quasi neanche vederla. Fosse per capriccio o per desiderio effettivo, non importava.
Quello dei capricci era un vizio che lui e Bill avevano preso insieme.
Ed in entrambi era ancora evidente.
Ma, Tom ne era sicuro, i capricci di Bill non avrebbero mai potuto essere sporchi come i suoi.
*
We’re counting down
Only seconds now
I gotta hang on
Hang on to you

Per quella settimana non fece che cercare di stare lontano da lui. Non che lo evitasse, anzi. Stare con lui, nella stessa stanza, era l’unica fonte della sua gioia. Sua madre, peraltro, non sembrava pensare davvero che la colpa di quanto successo fosse sua; infatti, appena aveva trovato un momento per appartarsi con lui, l’aveva abbracciato – facendolo sorridere una volta di più – e gli aveva chiesto come stesse, come si sentisse, se gli andasse di parlare. Per questo motivo, non gli aveva impedito di stare con loro in camera di Bill.
Suo fratello aveva avuto ragione, quando gli aveva detto che non avrebbe poi avuto bisogno di una riserva di energia particolarmente grande: Simone, in effetti, l’aveva tenuto ancorato al letto nel solito modo. Non gli aveva impedito di alzarsi. Si era limitata a sconsigliarglielo caldamente.
Entrambi sapevano che uno sconsiglio era ben più pericoloso di una minaccia. Perciò, quando Simone l’aveva detto, incrociando le braccia sul petto e socchiudendo gli occhi, si erano guardati ed avevano sorriso, e Bill si era arreso ancora prima di cominciare a protestare.
Non l’aveva evitato, quindi.
Si era limitato ad evitare di toccarlo.
Anche quando, durante uno dei rari momenti di intimità che il mondo concedeva loro, Bill si sporgeva – per una carezza, un abbraccio, un tocco anche lieve e distratto – Tom si ritirava. Come se suo fratello scottasse. Ma ancora prima di provarne il bruciore.
D’altronde, era molto facile continuare in quel modo. Bastava stringere i denti. Non pensare a quanto di Bill stesse perdendo mentre rifiutava anche solo di sfiorarlo. Concentrarsi sul pensiero che, una volta solo, qualcun altro l’avrebbe fatto star meglio. L’avrebbe consolato.
Qualcuno che da sé aveva plasmato ad immagine e somiglianza della persona per lui più importante.
Della persona che amava.
Che desiderava.
Che avrebbe voluto stringere a sé continuamente, senza pause.
E che non si azzardava neanche a guardare per paura di distruggerla.
- Allora, posso fidarmi? – chiese Simone, poggiando le mani sui fianchi e guardando entrambi i propri figli con aria inquisitoria.
Bill sbuffò e roteò gli occhi, mentre Tom si stringeva nelle spalle, lasciandosi andare ad un sorrisetto che avrebbe tanto voluto essere ironico e distaccato, ma che risultava solo contrito e vagamente colpevole.
- Mamma, a meno che un cataclisma non si abbatta su Berlino, devastandola, sopravvivremo. – commentò il moro, seccato.
- Mi auguro facciate di tutto per sopravvivere anche in caso di cataclisma, comunque! – precisò Simone, ridacchiando, prima di abbracciarli entrambi un’ultima volta e uscire dall’albergo per infilarsi nel taxi che l’avrebbe portata alla stazione.
Bill continuò a salutarla sorridendo finché non la vide sparire oltre la porta d’ingresso. Dopodichè lasciò ricadere il braccio lungo il fianco e s’incurvò su sé stesso, esalando un sospiro stremato.
- Dio mio, non ne potevo più! – articolò, passando una mano sul cappellino come per sistemarlo.
Tom sorrise.
- Era solo preoccupata, dai…
- Ma sì, lo so… - continuò il ragazzo, mordicchiandosi il labbro inferiore, - Però mi infastidisce che tutti mi trattino come fossi appena tornato dal mondo dei morti. – si lamentò, irritato. – Sto bene, cazzo. In che diamine di lingua devo dirlo?
Suo fratello rise più apertamente, indicando gli ascensori con un cenno del capo e cominciando a muoversi verso di loro, presto seguito dal più piccolo.
- Non è una questione di dirlo in un modo piuttosto che in un altro. – gli spiegò, chiamando uno degli ascensori non occupati, - È che ci siamo tutti preoccupati moltissimo per te. Non puoi pretendere che ora-
- Fino a prova contraria, – sbottò Bill, interrompendolo, - dovrei essere io quello in diritto di avanzare pretese in quel senso. Cioè… - mugugnò incerto, - dovrei essere io quello che dice “non mi sono ancora ripreso, ho bisogno di tempo”. Invece io sto perfettamente, e siete tutti voi che mi guardate come fossi pazzo e mi dite “eh, ma noi abbiamo bisogno di tempo per riprenderci”. Ti rendi conto che è assurdo?
Tom scrollò le spalle.
Se suo fratello avesse realmente voluto avere un’idea del significato più profondo della parola “assurdo”…
…no, probabilmente neanche in quel caso gli avrebbe parlato dell’altro Bill.
Quello andava oltre anche all’assurdo.
Quello era folle.
- Comunque, per certi versi, tu sei tornato indietro dal mondo dei morti. – gli fece notare scherzosamente.
- Eccome. – rise Bill, ammiccante, - Satana in persona mi ha detto che non faccio per lui.
- Sei troppo pure per il demonio, piaga?
- Puoi dirlo forte! Il demonio mi fa una sega.
- Però. Devo dire che dall’oltretomba sei tornato sboccato… - commentò dubbioso, incrociando le braccia sul petto e fermandosi lungo il corridoio proprio davanti alla porta della camera di Bill.
- È la compagnia. – sospirò Bill, scrollando teatralmente le spalle, - L’Inferno non è posto per nobili. – si interruppe un attimo, riflettendo. Poi spalancò gli occhi e lo afferrò per un orecchio, tirando verso il basso. – Ma poi, proprio tu…!
- Ahi, ahi! Bill! Mi fai male!
E fu in quel momento che Tom se ne accorse.
La mano di Bill non scottava affatto. Non era scoppiato un incendio solo perché si erano toccati, la sua pelle non stava bruciando ed era tutto esattamente uguale a prima. Non naturale come prima, non ovvio come prima e non privo di implicazioni come prima, ma ugualmente innocuo.
Si tirò dritto, guardandolo spaesato.
- Ma si può capire che diavolo hai? – gli chiese Bill, lasciandolo e incrociando le braccia sul petto, - Sembri deficiente, da un po’ di tempo.
Tom fece una smorfia, contrariato.
- Avresti potuto dirlo con un po’ di delicatezza in più.
Bill rise.
- Ti va di entrare un po’ in camera e parlare? – gli chiese, sempre sorridendo.
- Mmmh… - mugugnò Tom, lanciando uno sguardo sconsolato alla porta della propria stanza, - È tardi…
Bill spalancò gli occhi.
- Sono appena le dieci, dai… non fare il cretino, Tom! – e così dicendo lo afferrò per una manica e lo trascinò oltre la porta, richiudendosela alle spalle, e fino al letto, sul quale lo scaraventò senza delicatezza.
- Ok, ok! – rise Tom, mettendosi seduto, - Capito l’antifona, ti sono mancato!
Bill arricciò le labbra, imbarazzato.
- Be’, è vero! – ammise, infilando entrambe le mani nelle tasche dei jeans. – Però non è bello che tu mi sfotta con tanta disinvoltura…
Tom sorrise teneramente, battendo piano una mano sul copriletto accanto a sé, per invitare Bill a sedersi. Lui lo fece con un mezzo sorriso.
- Non hai… - cominciò il biondo, incerto, - Non hai pensato che io avessi smesso di volerti bene, vero?
Bill ridacchiò, stringendosi nelle spalle.
- Ho pensato tante cose… - buttò lì, quasi casualmente, guardando altrove.
- Ma non che io avessi smesso di volerti bene, vero? – insistette Tom, sporgendosi cautamente verso di lui.
Bill gli lanciò un’occhiata di sbieco.
- Avrei dovuto? – insinuò a bassa voce.
- Avanti! – si lamentò Tom, inclinando il capo, - Adesso non facciamolo passare per un litigio fra fidanzati! – borbottò. Poi si fermò. Sentì bruciare, da qualche parte della gola. E si disse che il suo corpo non era mai stato tanto esplicito con lui, per quanto riguardava i segnali di pericolo. Mai tanto quanto in quel periodo. – Voglio dire…
- So esattamente cosa vuoi dire. – sospirò Bill, abbassando lo sguardo, - E no, Tomi, non l’ho pensato. David mi ha detto… - lo guardò, un po’ incerto, abbozzando un sorriso imbarazzato, - di quando sono caduto. Di come sei stato. Mi ha… fatto piacere. – si interruppe anche lui, distogliendo istantaneamente gli occhi, - Oddio, che stronzo egoista sono…
- Cazzate. – lo fermò lui, posandogli una mano sulla spalla. – Non sei niente del genere.
Rimasero qualche secondo in silenzio, semplicemente guardandosi.
- Bill, per favore. – disse Tom, dopo un po’, sporgendosi verso di lui fino a sfiorargli la fronte con la propria, - Non stupirti più, la prossima volta che mi preoccupo per te. È… terribile, che tu possa davvero stupirtene.
Bill si mordicchiò un labbro e sorrise.
- Scusa. – biascicò.
Anche Tom sorrise, socchiudendo gli occhi e abbandonandosi più tranquillamente contro di lui, quasi obbligandolo a sostenere il peso di entrambi. Bill, comunque, ci riuscì più che bene. Gli orli dei loro cappelli si sfioravano, producendo un rumore un po’ ovattato. Era quasi divertente.
- Tomi… - lo richiamò Bill dopo qualche secondo, quasi piagnucolando, - Senti, resti a dormire con me, stanotte…?
Tom si separò da lui, spalancando gli occhi.
- Non siamo un po’ grandicelli, per-
- Non è paura del buio. – disse il moro, senza neanche un’incertezza. – Non è neanche nostalgia di casa. Non sono triste. E non sto male. È solo che sei stato… lontano. Solo un po’. – sorrise silenziosamente, un sorriso piccolo e infantile, immensamente tenero. – Vuoi restare con me? Solo stanotte…
In camera, quasi sicuramente c’era già l’altro ad attenderlo. In un abbraccio caldo di passione e fresco di lenzuola pulite. Un altro, con la faccia di Bill, che non gli avrebbe chiesto di dormire insieme, no. Un altro che se lo sarebbe preso. Un altro dal quale desiderava farsi prendere.
…ma non quella notte.
Ridacchiò.
- E va bene. – concesse bonario, - …ma domattina lo spieghi tu a David!
*
Nel buio fitto della camera d’albergo, che neanche un filo di luce riusciva a spezzare, Bill dormiva già da un pezzo, respirando lentamente e profondamente al suo fianco mentre lui continuava a rigirarsi sul materasso in preda a un’inspiegabile quanto insopprimibile angoscia. In parte dipendeva anche da quell’oscurità spaventosa. Lui non riusciva a dormire in un’oscurità talmente tetra. Bill, invece, era il tipo che per addormentarsi pretendeva il buio più totale. O meglio: non che non fosse in grado di addormentarsi ovunque ed a qualsiasi condizione – soprattutto quando era veramente stanco – ma se si trattava di fare le cose con ordine – una doccia lunga e rilassante, un pigiama caldo e morbido, mettersi fra le coperte, leggere un po’ e solo dopo addormentarsi… e non era una successione di eventi che riuscisse a replicarsi tanto spesso, purtroppo – allora pretendeva il buio più profondo.
Tra le lamentele di Tom, quando già entrambi sonnecchiavano pigramente al calduccio sotto le coperte, lui aveva mugugnato, s’era alzato in piedi, aveva raggiunto il balcone e l’aveva praticamente sprangato.
Tom si voltò su un fianco e cercò di scorgere il profilo di Bill, ma non ci riuscì. Non riusciva a vedere niente di niente.
Poi, all’improvviso e per un solo secondo, il suo campo visivo venne investito da un fascio di luce giallastra. Una luce che gli permise di scorgere la figura di Bill accoccolata in posizione fetale accanto a lui, e che poi morì in un attimo, lasciandogli sulle labbra solo un sorrisetto breve, quasi incompiuto, nato spontaneamente quando aveva incontrato l’immagine di suo fratello così tranquillo e placido.
Solo quando fu tornato al buio si rese conto che quel fascio di luce improvviso non era stato una cosa normale.
Allarmato, si puntellò coi gomiti sul materasso e girò uno sguardo intorno al letto, alla ricerca di un qualche segno che potesse confermargli l’invasione che sentiva di aver subito: quella luce non poteva essere stata che quella del corridoio; perciò, qualcuno doveva aver aperto la porta.
- C’è qualcuno…? – bisbigliò a mezza voce, cercando di non svegliare Bill.
E qualcuno c’era.
Qualcuno che rispose con una risatina divertita, poggiandogli una mano sulla guancia e lasciandola scivolare poi lungo il collo, rilasciandola sul petto.
- Bill… - mormorò, trattenendo il fiato ma non la sorpresa, cercando di identificarlo nello spazio nero attorno a loro.
- Oggi non sei venuto… - disse l’altro, piagnucolando come un bambino, - Ti aspettavo…
Tom serrò le labbra, percependo la spinta della mano di quel fantasma sopra il petto, pesante come un macigno. Era di quel tipo di sensazione che parlavano le persone che avevano avuto incontri simili con gli ectoplasmi? Quel fantomatico senso d’oppressione, quel timore di venire schiacciati, la mancanza di fiato e l’incapacità di respirare normalmente… era davvero con uno di quei fantasmi che aveva a che fare?
E se sì… cos’è che era morto? In lui, in Bill… cos’è che era morto?
L’altro lo fissò a lungo e poi lasciò guizzare gli occhi su Bill addormentato al suo fianco. Sorrise crudelmente, assottigliando gli occhi e chinandosi su di lui.
- Adesso comincerai a trascurarmi, Tomi? – sibilò astioso a un centimetro dalla sua pelle, - Adesso che hai ripreso a parlare con tuo fratello fingerai che io non sia mai stato il tuo amante e mi ignorerai? Ricomincerai a comportarti come hai fatto fino ad ora?
- No, io…
Che stava facendo? Consolava un fantasma?
- …sarà tutto come prima, Tomi? Ricomincerai a giocare al bravo fratello maggiore e… - risalì con la mano dal petto alla spalla e poi lungo il collo, fermandosi lì, appena sotto l’orecchio, ghiacciandolo. - …e non mi toccherai più? Non pensi a quanto questo ci farà soffrire, Tomi…?
- …ci…?
L’altro ghignò, baciandogli lievemente una guancia.
- Te. Me. Lui.
Tom si morse un labbro, spalancando gli occhi sotto quel tocco umido e freddo e stringendo convulsamente le mani attorno a un lembo di lenzuolo.
- Non si salverà nessuno di noi, Tom. – proseguì il fantasma, scavalcandolo e sedendoglisi in grembo, - E sarà solo colpa tua. – poi si fermò, baciandolo sulle labbra e scostandosi con una smorfia quando vide che non solo lui non le schiudeva, ma nulla della sua espressione sembrava in procinto di spostarsi. Immobile e congelato nel tempo, Tom si limitava a guardarlo. E lui sorrise condiscendente, quasi tenero, e lo abbracciò. – Ma io non voglio che succeda, amore mio… non voglio che Bill ti odi e non voglio che tu cominci a odiare te stesso. Non ti permetterò di fingere ancora.
Si scostò da lui e gli poggiò le mani sulle spalle, costringendolo a tornare disteso lungo il materasso. Il respiro di Bill gli lambiva le orecchie, caldo e tranquillo. Una delle sue mani giaceva immobile accanto alla sua, riusciva a percepirne il tepore attraverso i pochi centimetri d’aria che le separavano. Il calore di Bill si irradiava da lui e lo avvolgeva come una coperta, rendendo tiepido anche il corpo altrimenti ghiacciato che continuava a sovrastarlo, le cosce chiuse attorno al suo bacino come una tenaglia e ugualmente ineludibili.
Tom si lasciò anestetizzare da tutte quelle sensazioni. Si lasciò distendere, si lasciò sfiorare, si lasciò scaldare.
E baciare, e toccare.
- Non possiamo farlo… - biascicò senza convinzione quando l’altro prese a spogliarsi, - Bill è proprio qui… ci sentirà…
E il fantasma sorrise, baciandolo ancora.
- Allora farai meglio a far piano.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you

*
Dal giorno dopo, Bill cominciò a dare segni di cedimento. S’era comportato in maniera impeccabile, fino a quel momento, nonostante tutto quello che aveva passato. Ma da quel giorno in poi cominciò ad andare tutto storto.
All’inizio erano sciocchezze. Nel senso che continuavano a beccarlo – tutti – davanti allo specchio, col cappellino sollevato, mentre scrutava la benda con sospetto, provando a sollevarla per cercare di capire se i capelli stessero cominciando a ricrescere o meno. Oppure lo si vedeva fermo nella stessa posizione, a fissare il beauty-case sigillato da quando era uscito dall’ospedale, squadrandolo con occhiate oblique neanche fosse stato un traditore.
Tom non si sarebbe mai sognato di avvicinarglisi e chiedergli perché non ricominciasse a truccarsi. Fortunatamente, non era Tom l’unico altro componente dei Tokio Hotel oltre a Bill, e del lavoro sporco si caricò – come sempre – Georg, il quale, facendo fruttare per qualcosa di utile la propria proverbiale insensibilità, lo assaltò un giorno armato di mascara aperto – rubato proprio al beauty che Bill teneva sotto chiave, ed alla violazione del quale, fino a qualche settimana prima, come minimo avrebbe reagito staccando teste e braccia a morsi – puntando alle sue ciglia e strillando “Bill, sei un cesso, per carità, passati almeno un filo di trucco sugli occhi!”. Bill aveva riso e l’aveva evitato con grazia, sfilandogli il mascara dalle dita con un gesto lieve e fulmineo e ficcandoselo in tasca dopo averlo richiuso, rispondendo con noncuranza che non si sentiva in vena.
Questo aveva fatto preoccupare perfino David.
Bill aveva un modo proprio di far sapere al resto del mondo che non stava bene. Ed ovviamente non era dire “non sto bene”, ma nascondersi dietro a un vago “non mi sento in vena”. Che nella lingua comune può voler dire una quantità infinita di cose, ma nel linguaggio di Bill Kaulitz significava sempre la stessa: “mi sento uno schifo e non voglio rotture”.
E, in genere, anche “peggiorerà, statene certi”. Perché il passo successivo era scoppiare in lacrime per nessun motivo particolare – o per un motivo talmente piccolo che nessuno era riuscito a notarlo in tempo – e cominciare ad urlare di voler tornare a casa propria.
Bill era un ragazzo adorabile, e professionale, e tutto, ma non c’era modo di farlo ragionare, quando dava di matto. A meno di infilarlo in una stanza da solo con Tom ed aspettare che si fossero sbranati a vicenda per poi aiutarli a ricomporsi una volta che avessero scaricato rabbia e tensione.
A una decina di giorni da quando erano tornati in albergo, con la produzione che non riusciva a prendere una decisione per quanto riguardava il video di Spring Nicht, e che perciò li obbligava a restare lì a Berlino fino a nuovo ordine, che Bill impazzisse, scoppiasse a piangere e si facesse prendere da un attacco di nostalgite acuta, era l’ultima cosa di cui David Jost avesse bisogno.
Fu per questo che, nel momento esatto in cui, inspiegabilmente senza una lacrima, Bill irruppe in camera sua – con la solita discrezione silenziosa ma del tutto impossibile da ignorare – piagnucolando di voler tornare ad Hamburg, la lampadina d’allarme che David aveva imparato a sviluppare da quando lavorava coi ragazzi si accese e lo spaventò.
Se non altro, era già qualcosa che non pretendesse di tornare a Loitsche ora e subito. Generalmente lo faceva. Quella volta, magari, aveva solo voglia di ritrovare i propri spazi e la propria incasinata e adolescenziale quotidianità fatta di orsetti gommosi ed enormi e disgustose pizze familiari da dividere con gli amici guardando un orribile film per famiglie in televisione.
- Devo parlarne con la produzione, Bill. – mentì, omettendo la parte secondo la quale aveva già parlato con la produzione e, a dirla tutta, aveva chiesto loro anche di lasciare che i ragazzi se ne tornassero a casa, ottenendo come unica risposta un “le faremo sapere” tanto diplomatico quanto falso. – Io capisco che tu non abbia la minima voglia di tornare a girare il video, ma ti renderai conto-
- Ma a me non seccherebbe girare. – lo interruppe lui, saldo nelle proprie intenzioni, - Almeno lo facessimo. Ma, ozio per ozio, preferisco farlo a casa mia!
- Adesso non fare il bambino.
Non lo stava facendo, chiaramente. Ma non poteva cedere così facilmente. Soprattutto nel momento in cui si rendeva conto di non avere alcun potere decisionale a riguardo.
Bill aggrottò le sopracciglia e guardò per terra, arricciando le labbra in una smorfia infastidita e delusa. David odiava vedergli quella smorfia addosso. Perché Bill era davvero adorabile, ed era davvero un piacere lavorare con lui; quindi gli faceva male doverlo ogni volta disilludere, ripetendogli in tutti i modi possibili che no, Bill, lo show business non ti ringrazia e non ti concede sconti, anche se gli hai dato il corpo e l’anima senza risparmio per anni.
- Avanti… - mormorò, in preda ai sensi di colpa, posandogli una mano sulla spalla e stringendo teneramente, percependo la clavicola sottile sotto la pressione del pollice, - Perché non vai un po’ a giocare con Georg e Gustav? Sono chiusi in camera a sparare ai vampiri da ore, vedrai che un joystick per te lo trovano. – suggerì, consapevole del fatto che Bill non avrebbe mai trovato interessante un gioco che implicasse la possibilità di rovinare intere mezz’ore di manicure per ammazzare esseri già biologicamente morti.
E infatti Bill scrollò le spalle, del tutto indifferente.
- …nel frattempo, ti prometto che io chiamo la produzione e cerco di strappar loro una vacanza.
I sorrisi di Bill somigliavano agli schiaffi, in un certo modo. Erano repentini e veloci al punto che spesso neanche li vedevi arrivare. Ma poi, quando si aprivano del tutto, e lui ti guardava con quegli occhi pieni di gioia e gratitudine… ti colpivano. Sì, proprio come schiaffi. Ma più piacevoli.
David sorrise a propria volta e strinse ancora un po’ sulla spalla, prima di lasciarlo andare ed osservarlo cinguettare un “grazie” e fuggire trotterellando lungo il corridoio, diretto verso la camera di Georg dove sapeva essere stata montata la consolle.
Ovviamente, nel momento in cui rimase solo, prendere il cellulare e mantenere la propria promessa non fu un pensiero contemplato. Piuttosto, si fiondò in corridoio, con la chiara intenzione di irrompere in camera di Tom e obbligarlo a fare qualcosa, non importava cosa, per riportare la situazione ad un livello di allarme meno preoccupante. Solo che, quando arrivò di fronte alla porta e provò a sfondarla – ricordava male, o aveva esplicitamente chiesto a quei mocciosi di tenere aperte le porte per ogni evenienza?! Tanto, chi volevano andasse a rompere loro le palle in un’ala di albergo completamente deserta?! – si ritrovò di fronte ad una verità piuttosto scomoda. La porta era chiusa a chiave, e dall’interno venivano dei rumori di natura inequivocabile.
- Tom! – urlò, battendo un paio di volte il pugno contro la porta.
Non sapeva come diavolo avesse fatto quella groupie ad entrare là dentro, ma l’avrebbe scoperto, oh, sì. E, se fosse stato necessario, avrebbe cementato ogni condotto d’areazione di quella dannata stanza.
Tom non rispose. Ma almeno i rumori si fermarono.
- Deficiente, apri questa maledetta porta! Lo so che ci sei!
- Sì, sì! Arrivo! – ansimò il chitarrista, agitato, caracollando velocemente verso la porta e aprendola pochi secondi dopo.
David lo scaraventò sul letto con una manata e prese a guardarsi intorno come un predatore.
- Dov’è?! – sbraitò poi, dal momento che non riusciva a vedere nessuno.
- …chi? – fu la stupita risposta di Tom, che, immobile sul letto, non riusciva a staccargli quello sguardo terrorizzato di dosso.
- Lo so cosa stavi facendo, dannato moccioso infoiato. – si limitò ad accusarlo lui, fissandolo con severità. – Dove hai nascosto la tizia con cui eri?
Tom arrossì fino alla punta delle orecchie.
David non l’aveva mai visto arrossire quando parlava di sesso.
Il che, unito alla consapevolezza che in quella stanza non c’era effettivamente profumo di donna e tutto sembrava avvolto in un silenzio religioso e quasi irreale, poteva voler dire solo che…
- …ah. – articolò, spalancando a propria volta gli occhi e incrociando le braccia sul petto. – Scusa.
Il rasta deglutì e non disse altro, abbassando lo sguardo con l’aria di uno che avrebbe gradito scomparire sotto quintali di terra.
- Volevi dirmi qualcosa? – si sforzò comunque di chiedere, grattando la moquette con la suola delle scarpe da tennis.
Complimentandosi interiormente con la forza d’animo del ragazzo, David si ostinò a svolgere il proprio dovere di tutore, come gli piaceva pensare quando era semplicemente preoccupato per Bill e cercava di darsi da fare per farlo star meglio.
- Che ha tuo fratello? – gli chiese a bruciapelo, sedendosi sul letto accanto a lui.
Tom gli sollevò addosso un’occhiata stupita.
In effetti, David si rendeva conto di star ponendo una domanda presuntuosa. D’accordo che erano gemelli, d’accordo che erano appiccicati l’uno all’altro come piattole, d’accordo che erano sempre stati uniti da qualcosa che andasse al di là di ciò che tutti gli altri riuscivano a comprendere, ma era forse troppo pretendere anche che Tom conoscesse precisamente ogni sfumatura degli stati d’animo di Bill. Ed il problema, con quel benedetto ragazzo, erano proprio le sfumature. Bill non viveva i sentimenti con pienezza, ne viveva solo parti. Li prendeva a morsi. Non potevi dire semplicemente “è arrabbiato”, perché i suoi stati d’animo non erano definibili con una tale nettezza. Erano sempre una commistione varia ed eventuale di cose slegate fra loro.
Tom non riusciva sempre ad esprimerli a parole.
Riusciva spesso, però, a migliorare la situazione anche solo imponendo la propria presenza.
In fondo, il rapporto che legava i gemelli era dannatamente speculare. Proprio come il loro aspetto.
David ci contava. Ci contava forse troppo.
*
Come fai a dire al tuo manager – la cosa più vicina a un padre che tu abbia avuto da quando sei andato via di casa alla tenera età di tredici anni – che non hai la più pallida idea di come aiutare tuo fratello perché a stento riesci ad aiutare te stesso a camminare nonostante lo schifo in cui stai immerso fino alle ginocchia? Come fai a dirglielo, quando è palese che ti sta mettendo nelle mani non solo il futuro della propria sanità mentale, ma anche dell’unità del gruppo stesso – che, per inciso, è la cosa più importante che tu abbia dopo il succitato fratello?
Certe volte aveva come l’impressione che il resto del mondo si lavasse le mani rispetto ai problemi di Bill, perché “tanto ci sarebbe stato comunque lui a risolverli, in un modo o nell’altro”. Era una sensazione pesante… l’aveva sempre fatto sentire in qualche modo responsabile del proprio fratello, fin da quando era… davvero troppo piccolo per ricordare l’anno esatto.
Come poteva guardare Dave e dirgli “C’è un problema: qualche giorno fa ho scopato un fantasma uguale a Bill, proprio nel letto di Bill, con lui che dormiva placidamente accanto. Dici che possiamo risolvere prima questo e solo dopo passare a mio fratello, o no?”.
Scrollò le spalle.
- Non parliamo molto, ultimamente.
- Lo immaginavo. – annuì David con competenza, - Tom, lo so che è stato un periodo duro per tutti. Lo so che l’incidente ti ha scosso molto, lo so che dover rimanere chiusi in albergo ventiquattro ore su ventiquattro è uno strazio, lo so che le cose non sono facili. Ma devi capire che se per te è uno schifo, per Bill lo è di più.
- Se hai un modo per misurare la quantità di dolore che una persona sta provando, brevettalo. – rispose astioso, aggrottando le sopracciglia, - E non rompere le palle a me.
- Tom, lo sai che i ceffoni non me li sono mai risparmiati. Non farteli tirare addosso per forza. – si interruppe, sospirando rumorosamente. – Dimmi che hai, su. Che avete entrambi. È un disastro!, lo capisci che così non può continuare?
Certo che lo capiva. Lui lo capiva meglio di tutti loro messi insieme. Ma non poteva dirlo, perché non poteva dire a nessuno quello che combinava in camera propria quando nessuno poteva vederlo. Non poteva dire a nessuno di stare scopando col sosia del proprio fratello un attimo prima che David entrasse in camera. Non poteva dire di averlo visto salutare e uscire dalla finestra per scomparire subito dopo, perché quello avrebbe voluto dire troppe, troppe, davvero troppe cose, e lui non era preparato per… non sarebbe mai stato preparato ad ammetterle.
Stava crollando, era vero.
E stava portando a picco con sé anche Bill.
E questo, probabilmente, avrebbe distrutto tutto. E non voleva, davvero, ma come… che altro avrebbe potuto fare…?
- Tom. – sbottò David dopo un po’, indispettito dal suo silenzio, - Ascoltami. Avete bisogno di distrarvi. Inforcate un bel paio di occhiali da sole e andate da qualche parte, chessò… a fare shopping, a mangiare un panino da McDonald’s, una cosa qualunque…! Scommetto che è l’aria di questo stupido albergo. Scommetto che è questo che vi opprime.
Questo, e un fantasma tentatore, David.
Da lui posso fuggire…?

- Per favore, Tom. – concluse il manager, prima di battergli un’affettuosa pacca sulla spalla ed avviarsi verso l’uscita, - Qualcosa dovrai pur fare! E sei l’unico che possa.
*
- Voglio solo tornare ad Hamburg.
Ebbene sì. Alla fine aveva ceduto. Aveva messo da parte tutti i propri problemi, s’era sforzato di non pensarci, s’era sforzato di credere che, ignorando anche quell’enorme disastro in cui s’era cacciato, poco a poco sarebbe riuscito a farlo sparire, ed era andato da Bill a chiedere conto e ragione dell’atteggiamento allarmato di David.
- Non mi sembra di chiedere tanto. – aggiunse il gemello, senza staccare gli occhi dai piedi dell’armadio in fondo alla stanza, dove li aveva piantati nel momento in cui Tom l’aveva raggiunto ed aveva cominciato a chiedergli se ci fosse qualche problema.
- Non chiedi tanto. – si affrettò a precisare Tom, sedendosi al suo fianco, - Non è questione di chiedere tanto o poco. È questione di chiedere una cosa che, per quanto minuscola, per ora è impossibile. Capisci, è come se, nel mezzo del deserto, tu pretendessi di vedere, chessò, una carota che sbuca dalla sabbia! Una carota è una cosa piccola, ma ciò non toglie che-
- Non voglio una carota. Voglio solo tornare a casa nostra.
Ecco. Quando Bill cominciava ad ignorare le parti razionali del discorso per travisare il resto e mugugnare sciocchezze, era segno che ci fosse davvero un problema. Un problema di quelli di cui non riusciva a parlare, perché quella era la sua tecnica preferita per glissare le discussioni.
- Bill… - sospirò stancamente, - Se hai-
- E comunque, David poteva venire a dirmelo da solo, che non ci avrebbe fatto andare. Poteva risparmiarsi di prendermi in giro.
- Non prendertela con lui, adesso. – sbuffò contrariato, - Non è venuto da me a dirmi “non ho le palle per confessare a Bill che non posso lasciarvi andare, potresti dirglielo tu per conto mio?”. È venuto a chiedermi come stessi. E, francamente, Bill, adesso voglio saperlo pure io. – lo afferrò per il mento, costringendolo a farlo voltare verso di sé. Ma gli occhi di Bill rimasero lontani, piantati nel vuoto, come fossero incapaci di metterlo a fuoco. Non per impossibilità. Ma per mancanza di voglia. - …fino a qualche giorno fa eri felice come una pasqua, e adesso guardati…
- Sto bene!
- Senti, Bill: fai almeno finta di crederci, quando spari una balla, ok?
- Vaffanculo! – strillò, separandosi da lui con uno scatto e saltando in piedi neanche l’avesse punto con un milione di spilli. – Non puoi pretendere di…
Si fermò, serrando le labbra ed aggrottando le sopracciglia, gli occhi che si riempivano lentamente di lacrimoni spaventosi.
- Ma Bill, ero solo preoccupato per te… - replicò Tom a bassa voce, cercando di capire cosa avesse solo fissandolo.
Il moro lo sferzò con un’occhiataccia improvvisamente lucida e presente.
- Smettila di dire che sei preoccupato per me. Proprio tu che… - ma si fermò ancora. Era come se, arrivato ad un certo punto, non trovasse più la forza né il modo di andare avanti.
Qualcosa – qualcosa di troppo simile al cuore – si mosse lentamente, spostandosi dal petto di Tom fino alla sua gola, e lì restando. Soffocandolo.
- C’è qualcosa che devi dirmi? – cercò di dire, simulando sicurezza.
- C’è qualcosa che tu devi dire a me? – ritorse Bill, stringendo i pugni lungo i fianchi.
E qualcosa c’era. Ci doveva essere. Perché la linea tesa delle labbra di Bill e l’onda delle sue ciglia umide di pianto ormai asciutto – no, non “ormai”: sempre asciutto. Bill non aveva mai pianto. – stavano parlando così ad alta voce che sembrava stessero gridando. Bill rimaneva in silenzio, Bill lo sfidava a parlare, Bill pretendeva una confessione della cui entità non aveva minimamente idea.
Tom ne era sicuro: era per questo che la pretendeva. Perché non capiva quanto fosse terribile.
Deglutì, alzandosi in piedi ed avvicinandoglisi lentamente. Lo vide tremare impercettibilmente e combattere con furia il desiderio di indietreggiare, uscendo vittorioso dal conflitto. Lo vide rimanere fermo, rigido sulle gambe, proteso in avanti. Non era più solo il suo sguardo a sfidarlo, era tutto il suo corpo.
- Bill… - cominciò, pacato. Erano proprio in guerra. Talmente in guerra che lui stava parlando come un ambasciatore. Con la stessa codarda prudenza. - …non litighiamo adesso. Io non voglio litigare. – Bill sembrò sciogliersi, rilasciando le dita dalle nocche ormai bianche, e schiudendo le labbra, - Se ci sono cose che non vuoi dirmi… andiamo, lo so che ci sono cose che uno non vorrebbe mai dire agli altri. Lo capisco. Mi sta bene. Solo… non mi va di stare in tensione con te. È una situazione del cazzo… - sorrise appena, increspando le labbra, - Possiamo solo sostenerci l’un l’altro, no?
E Bill rilassò le spalle, che si curvarono quasi sotto il peso di un enorme macigno.
Mai come in quel momento Tom provò fortissimo il desiderio di stringerlo a sé. E nient’altro. Solo abbracciarlo, cercare di fargli capire in quel modo che non era solo, che anche lui portava un peso, che anche lui sapeva cosa significasse soffrire sotto un carico impossibile da lasciarsi indietro. Che, pure se non sapeva cosa stesse pensando, come sempre riusciva a capirlo benissimo. A sentirlo benissimo. Quasi quella di Bill fosse una seconda pelle, o un’estensione del proprio stesso corpo.
- Scusa… - esalò Bill, esausto, chinando il capo.
- Senti… - disse allora lui, cercando di abbozzare un sorriso e sollevando le mani a stringergli le spalle, - David mi ha detto una cosa, sai? – Bill sollevò lo sguardo e lo fissò con aria da cucciolo triste e curioso insieme. Tom sbuffò un sorriso intenerito e continuò, - Lui pensa che dovremmo metterci addosso un travestimento e andarcene in giro. – Bill ridacchiò, socchiudendo le palpebre e scuotendo il capo, - No, no, davvero. – insistette Tom, convinto, - C’è un luna park qui vicino, sai? Tu non ti trucchi, io nascondo i rasta, ci mettiamo addosso i vestiti di Georg, un paio di occhiali da sole e ci siamo! Nessuno si accorgerà di noi! Ok?
- Le fan sanno che siamo bloccati qui… l’ho letto anche io su internet… - mugugnò Bill, - Scommetto che sono organizzate in squadre e ci danno la caccia per tutta la città…
- Eh, chissenefrega. – sbottò Tom, scrollando le spalle, - In caso fuggiamo. Ma sono sicuro che andrà tutto bene, vedrai.
- E se non dovesse andare tutto bene? – insistette lui, preoccupato, mordicchiandosi un labbro, - Non voglio essere visto, non voglio che mi si veda in questo stato
Anche Tom si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Non sei in nessuno “stato”, ok? – lo rassicurò, - Stai benissimo. Sei… - sospirò e socchiuse gli occhi, - …stupendo. Come sempre.
Come sempre.
Bill sorrise debolmente, inclinando appena il capo. E poi annuì.
Non serviva che ringraziasse.
- Allora? Andiamo a travestirci da Listing o no?
*
Prima o poi avrebbe dovuto pensarci. Mettersi seduto ad un tavolo e riflettere seriamente su ciò che provava per Bill. Cercare di capire se fosse solo una suggestione della sua mente, se per caso non fosse colpa dell’altro, se non fosse soltanto un rigurgito della paura di perderlo che aveva provato quando aveva saputo che era in coma… o se davvero quello che sentiva per lui fosse amore. Perché se lo era, se quella spinta al sapore di inevitabilità era reale, lui doveva saperlo. Doveva prenderne atto. E risolvere.
In realtà non aveva mai creduto possibile “risolvere”i sentimenti. Men che meno per ciò che riguardava l’amore o l’attrazione. Perché “risolvere”, in quel campo, indicava solo una cosa: sopprimere. A sopprimere i propri sentimenti – in realtà, a sopprimere i propri istinti – lui non ci aveva neanche mai provato. Nonostante perfino ai suoi occhi offuscati dal desiderio fosse chiaro quanto oscena e disgustosa fosse l’inclinazione che stavano prendendo le sue voglie, nemmeno quella volta ci aveva provato. Nemmeno allora che rischiava di far del male a Bill, nel caso la situazione fosse venuta fuori, si era detto “fermati, rifletti e smetti di concedertelo”. Se l’era concesso, prima perché credeva fosse un sogno – o semplicemente gli faceva comodo pensare che fosse così – e poi perché, sogno o non sogno, non aveva più potuto farne a meno. Provare piacere, essere soddisfatti, non farsi mancare niente, erano un po’ le basi di tutto il suo agire.
Niente rinunce. Niente no.
Sì, decisamente era lui il più viziato fra i due.
- Voglio assolutamente andare anche lì! – cinguettò allegro Bill al suo fianco, indicando l’enorme ruota panoramica che troneggiava nel mezzo del parco.
Tom lo fissò di sbieco.
- Ma se l’hai sempre trovata mortalmente noiosa…
- Sì, però abbiamo già fatto quasi tutto… - argomentò Bill, sbuffando, - E poi non ci sono mai stato, mi piacerebbe vedere ancora Berlino dall’alto…
Tom sorrise teneramente, dandogli un buffetto su una spalla.
- Ti è piaciuta così tanto la prima volta? – lo prese in giro, - Ed io che pensavo fosse una città grigia e noiosa!
- È splendida… - negò Bill, con aria sognante, - Non puoi nemmeno immaginare…
- Ehi, adesso. – borbottò lui, contrariato, - Mi sembra di aver già specificato che su quel tetto c’ero anche io, non eri da solo…
Bill scosse ancora il capo, sorridendo debolmente.
- Non puoi capire. – ribadì, - Sei lì, sul ciglio del niente… il vuoto a due passi, la città ai tuoi piedi… enorme, luminosa e nonostante tutto piena di punti oscuri… solo che tu ti senti quasi in grado di arrivare a vederli, quei punti oscuri… a percepirne le forme, gli odori, perfino il sapore dell’aria… è-
- Dio mio, sento una canzone in arrivo! – scherzò ridacchiando e dandogli una pacca sulla spalla.
Bill fece una smorfia e lo fissò offeso.
- Sei uno stronzo. – sbottò, - Stavo esprimendo un concetto! Ora, mi rendo conto che per te arrivarci possa essere uno sforzo troppo grande, ma-
- Sì, sì, come vuoi. – concesse lui, chiudendo gli occhi per darsi un tono ed agitando mollemente una mano davanti al viso. Bill borbottò ancora qualcosa e ficcò le mani nelle tasche del giubbotto, guardando altrove con aria irritata. – Comunque… - riprese Tom con un breve sorriso, - ti ci porto, ok. Ma non prima di avere fra le mani una sufficiente dose di zucchero!
Bill si voltò repentino, guardandolo con un sorriso enorme e altrettanto enorme gratitudine riflessa negli occhi. Poi sembrò riflettere sulle sue ultime parole, ed arricciò le labbra in una smorfia curiosa.
- Zucchero…? – chiese incerto, inclinando il capo.
Tom sorrise più apertamente.
- Bianco o rosa? – si limitò a domandare a propria volta, scatenando definitivamente lo scoppio di risate di Bill che, dopo aver strillato “Bianco, e che cavolo!!!”, cominciò a dirigersi esultante verso il bancone dello zucchero filato, poco distante da dove si trovavano in quel momento.
Lo osservò saltellare felice fino al tavolinetto, chiedere una porzione per sé ed una anche per lui e poi attendere che fossero pronte, le mani sui fianchi, un sorriso sereno e genuino ad arricciare teneramente le labbra un po’ scure per il freddo, e pensò che gli sarebbe piaciuto scaldarle. Che gli sarebbe piaciuto non essere suo fratello per accostarglisi e baciarlo. Che gli sarebbe piaciuto non essere neanche maschio, per poterlo fare senza dover sentire stupide risatine o versetti disgustati da parte dei più puritani fra gli altri presenti in quel luogo. Gli sarebbe piaciuto poter mostrare al mondo intero quanto e come l’amava. Con quale intensità l’avrebbe fissato negli occhi, se solo avesse potuto. Con quanto desiderio avrebbe fatto scorrere un braccio attorno alla sua vita, stringendolo a sé.
Ma non poteva.
E la cosa peggiore era che non poteva mostrarlo neanche a Bill.
In realtà, proprio non avrebbe dovuto avere niente da mostrare.
- Non puoi fermarti quando vuoi. – sibilò una voce alle sue spalle, direttamente contro il suo orecchio, - Non è un gioco, Tomi. L’amore non lo ignori.
Si irrigidì, incapace di voltarsi.
- Ti vedranno tutti.
- Non mi vedrà nessuno. Non mi vede mai nessuno. Secondo te perché, Tomi…?
- Non lo so. – si morse un labbro, - Non voglio saperlo. Cosa vuoi ancora?
- Te l’ho detto. – rispose l’altro, stringendolo da dietro attorno al collo, - Non posso lasciare che tu finga ancora. Tu non vuoi che io ti lasci fingere ancora. Tu non hai fatto che aspettarmi, perché potessi liberarti.
- Non voglio essere liberato. Non c’è niente di cui liberarmi. Non c’è proprio niente.
L’altro Bill ghignò apertamente, e così crudelmente che Tom percepì quasi la sensazione di averlo addosso, quel ghigno. Sulla pelle come una ferita. Che brucia e tira e si spacca e sanguina. Sgradevole.
- Il tuo corpo sembra pensarla diversamente… - mormorò sensuale, scivolandogli sul collo con le labbra mentre ritirava le mani per poi agganciarlo alla vita e stringere il cavallo dei pantaloni insolitamente stretti sulla sua eccitazione pulsante.
- Non è per Bill… - si difese blandamente lui, chinando il capo ed arrossendo, - Vattene…
- Se io me ne vado, tu mi seguirai. – lo ammonì il fantasma, muovendosi sul suo bacino, lieve e lento e insopportabile, - Lo sai che lo farai. Non hai il coraggio per prenderti da Bill ciò che vuoi e quindi lo prendi da me. Mi sta bene. Prima ancora, non avevi il coraggio neanche per prendertelo da me, e te lo prendevi da ragazze sconosciute di cui non ti importava un accidenti. Mi stava bene anche quello, ma com’è cambiato cambierà anche questo.
- Non c’entra niente… - si lamentò lui, pregando da un lato che Bill tornasse in fretta con lo zucchero filato e lo liberasse da quell’angoscia, ma dall’altro perché non tornasse più, e non lo vedesse mai in quelle condizioni, e non capisse mai niente di quanto storto e sconvolto fosse suo fratello maggiore, - Quello che c’era con le ragazze… quello che c’è con te… con Bill non c’entra…
- Devi fidarti di me, Tomi… - insistette lui, accarezzandolo più decisamente, - Io la so la verità. Non puoi prendermi in giro, non ci riuscirai.
- Vattene. – ripeté, stringendo i pugni per non cedere alla tentazione di sollevare a propria volta una mano e posarla su quella dell’altro Bill, perché, contrariamente a quanto stava dicendo, restasse lì per sempre.
Bill ridacchiò e smise di toccarlo. Tom aprì gli occhi e vide che suo fratello era ancora fermo davanti al tavolinetto del venditore ambulante; molleggiava, spostando il peso da un piede a un altro, arricciando le labbra, infastidito dall’attesa. Non sembrava essersi accorto di quanto era successo.
Si guardò intorno.
Be’, nessuno sembrava essersi accorto di quanto era successo.
- Sono pazzo… - mormorò fra sé, quasi dolorosamente.
Prima ancora di riflettere per cercare di capire se fosse innamorato o meno, avrebbe dovuto riflettere per cercare di capire se ancora ci stesse con la testa o fosse partito del tutto. Anche perché il primo punto avrebbe potuto tranquillamente essere la diretta conseguenza del secondo.
Il primo bastoncino di zucchero filato era ora fra le mani di Bill, che si voltò e lo guardò, agitandolo in aria con un sorriso trionfante dipinto sul volto. Lui mosse un saluto a fendere il vento con una mano, sorridendo debolmente.
E poi si guardò intorno.
E l’altro Bill era ancora lì. Splendido come sempre. Le braccia incrociate dietro la schiena ed un sorriso furbo sul volto.
- Ce ne hai messo di tempo. – si sentì dire in uno sbuffo condito d’ironia, - Voglio andare nella stanza degli specchi… tu e Bill non ci siete ancora stati, vero?
- Aspetta…
Ma l’altro non lo ascoltò. Si voltò e prese a dirigersi velocemente – troppo velocemente, per essere reale – verso un edificio basso e grigio.
- Aspetta! – ripeté più ad alta voce, correndogli dietro.
Da qualche parte, alle sue spalle, Bill – suo fratello – aveva recuperato anche il secondo bastoncino di zucchero filato, aveva pagato e s’era voltato a guardarlo. E, voltandosi, l’aveva visto correre via verso la stanza degli specchi.
Lui se ne accorse. Razionalmente, sapeva che avrebbe dovuto fermarsi. Indietreggiare. Tornare da Bill, mangiare con lui lo zucchero filato, accompagnarlo docilmente sulla ruota panoramica mentre lo prendeva in giro per l’espressione meravigliata che avrebbe assunto il suo volto quando fossero arrivati abbastanza in alto da avere ai piedi tutta Berlino…
Ma il suo corpo non poteva tollerare un rinvio. Né una negazione. Perciò continuò a correre. E non s’interessò di nient’altro.
Nemmeno di quando, con la coda dell’occhio, vide suo fratello lanciare a terra i bastoncini di zucchero filato e prendere a inseguirlo di corsa.
*
Gli specchi, per lui, non erano mai stati semplicemente specchi. Sia per lui che per Bill, in effetti, avevano sempre rappresentato un modo come un altro per ritrovarsi. Per specchiarsi in un’immagine uguale e visualizzare, al suo posto, un’immagine simile ma non del tutto identica. L’immagine del gemello. Dell’altra metà di loro stessi.
Tom aveva scoperto di essere in grado di vedere Bill, guardandosi allo specchio, quando, da piccolo, era stato costretto a passare qualche giorno lontano da lui, al campeggio. Quando Bill, in preda ad un attacco di nostalgia, aveva preteso di essere rimandato a casa, lui aveva voluto mantenere intatta la propria maschera di “Kaulitz duro” ed era rimasto lì, per quanto il solo pensiero di separarsi dal fratello anche solo per un giorno lo annichilisse in maniera quasi devastante.
Ecco, sì. Senza Bill s’era annichilito. Nessuna attività sembrava più stuzzicarlo, non aveva più voglia di fare niente o di parlare con qualcuno.
Poi, una mattina, mentre si lavava i denti, fissandosi con aria annoiata nell’enorme specchiera del bagno comune, invece di vedere sé stesso aveva visto Bill. Erano ancora del tutto identici, in quel periodo, perciò solo lui era in grado di vedere effettivamente in cosa differissero le loro immagini. La disposizione dei nei, i lineamenti lievemente più affilati, gli occhi più grandi e liquidi. Quello nello specchio era Bill. E sorrideva.
Quella era stata la prima volta.
Le volte successive non era stato più così improvviso. Era stato lui a richiamarlo. Ad evocarlo, come per magia, per consolarsi della sua assenza, del vuoto enorme che sentiva quando pensava che magari avrebbe potuto fare qualcosa di interessante che comunque sarebbe risultato del tutto inutile e privo di validità, per il semplice fatto che non avrebbe potuto condividerlo con lui.
Era ironico che il luogo in cui sarebbe morto dovesse essere interamente composto di specchi.
Perché lui, in quel posto, ci sarebbe morto.
Lo immaginò piuttosto chiaramente quando, entrando nell’edificio, si ritrovò a fronteggiare da vicinissimo – appena un paio di centimetri – l’altro Bill che, invitante, si protendeva verso di lui, sollevando le mani e poggiandogliele sul petto, sfiorandolo attraverso il giubbotto, la felpa e la maglietta, riuscendo comunque a farlo sentire talmente bollente da bruciare.
Ma lo seppe – lo seppe con certezza – quando all’immagine dell’altro riflessa negli specchi tutto intorno si sovrappose anche l’immagine del suo Bill. Il suo piccolo Bill. Quello che aveva cercato di tenere alla larga, di proteggere fino a quel momento. E che ora lo fissava attraverso le decine di superfici riflettenti che lo circondavano, facendolo sentire sotto assedio, mentre due mani del tutto uguali alle sue lo accarezzavano senza pietà e due labbra affamate e ghiacciate – sì, proprio identiche alle sue – gli succhiavano la pelle del collo.
E lui rimaneva lì, immobile.
A fissarsi nello specchio.
Disgustato.
Ed a guardare Bill.
Terrorizzato.
- Tom… - mormorò suo fratello alle sue spalle.
L’altro Bill non smise di baciarlo.
Tom strinse le labbra e deglutì rumorosamente.
Suo fratello rimase immobile, gli occhi spalancati e un’espressione sconvolta a distorcere i lineamenti del viso. Muoveva impercettibilmente le punte delle dita, come fosse incerto su cosa farsene. Chiudere le mani a pugno? Stenderle come avesse bisogno di sciogliere i tendini?
Dire qualcosa?
Ma dire cosa?

L’altro Bill finalmente si staccò da lui e li guardò entrambi. Ed a Tom sembrò che ghignasse. Che lo facesse con pietà e con una vena di crudele compiacimento.

E se tu sei un parto della mia mente, perché ridi così?

- Doveva succedere, prima o poi. – sussurrò tagliente il fantasma, separandosi definitivamente da lui e muovendosi lento verso Bill. Tom si voltò a guardarlo, ma non mosse un dito per fermarlo. Neanche quando lo vide sollevare una mano e posargliela sulla guancia, scendere verso il mento seguendo il suo profilo e lì afferrarlo, per costringerlo a guardarlo fisso negli occhi, stringendolo con violenza. Non si mosse neanche quando vide la scintilla di paura negli occhi di Bill trasformarsi in puro terrore. Non si mosse, perché era lui il colpevole. Non poteva salvare Bill da quello che stava succedendo, semplicemente perché non poteva salvarsi da sé stesso.
Era un animale. Era un criminale. Gli stava facendo del male. Era completamente pazzo.
E non poteva fare niente per impedirselo.
- Tom! – lo chiamò Bill, cercando di voltare lo sguardo a cercarlo, malgrado il fantasma lo tenesse ancora bloccato e immobile.
E Tom abbassò lo sguardo. Abbassò lo sguardo e si morse un labbro e poi strizzò le palpebre e pregò fosse un sogno. Pregò di essere veramente pazzo, pregò di trovarsi in un delirio, in un’allucinazione, pregò d’essere in una camera dalle pareti imbottite, stretto in una camicia di forza, rinchiuso al sicuro in un manicomio criminale. Pregò che niente di tutto quello che aveva visto e vissuto fino a quel momento fosse stato vero. Pregò intensamente, malgrado non avesse mai avuto fede in nulla.
Non si stupì così tanto, quando Dio non rispose. Quando l’aria si riempì di mugugni e lamenti soffocati con violenza. Quando sollevò lo sguardo e vide che il fantasma stava baciando il suo piccolo Bill, lo stava baciando con cattiveria, forzando le sue labbra con le proprie da assassino, mugolando di piacere per questo. Mentre Bill teneva gli occhi spalancati e fissava il vuoto, spingendo inutilmente contro il petto dell’intruso per separarlo da lui.
- Ti piace, Tomi? – chiese il fantasma staccandosi da lui e lasciandolo intontito e senza fiato, - Quanto ti senti perverso?
Malato.
Era quella la parola.
- Bill… - trovò appena la forza di esalare, portando entrambe le mani al viso e nascondendovisi dietro, - Mi dispiace… non volevo…
- Bugia… - cantilenò il fantasma, prendendo Bill per mano e trascinandolo senza delicatezza fino a lui, - Apri gli occhi, Tomi. Apri gli occhi e guardalo.
Tom scosse il capo, pressando più forte le mani sul viso, ma il fantasma sollevò le proprie e lo liberò da quella prigionia volontaria, costringendolo a sollevare lo sguardo. Bill era una maschera di paura e incertezza. Il volto magro era contratto in una smorfia allarmata, e gli occhi castani saettavano sulla sua figura alla ricerca di un perché, di una rassicurazione, di un riparo. Di una bugia. Della bugia che avrebbe potuto mettere fine a quella situazione assurda. Del “non c’è niente di strano” che avrebbe lasciato il fantasma a svanire nel niente. Del “sei solo il mio adorato fratellino” che avrebbe chiuso per sempre le porte alla verità e a qualsiasi sciocca speranza fosse nata nella mente di Tom in quei giorni.
E lui voleva davvero salvare Bill. Anche a costo di vivere una menzogna per sempre, fino alla morte. Anche a costo di seppellircisi, sotto alle mille menzogne che avrebbe dovuto tirar fuori da quel momento in poi. Anche a costo di prenderle tutte in bocca e soffocarcisi.
Perciò dischiuse le labbra.
E si preparò a mentire.
- Ti amo. – spalancò gli occhi. – Ti voglio…

Cosa diavolo stava succedendo?

- Te l’ho detto, Tomi. – rise impietoso il fantasma, - Niente più bugie. Non ti lascerò più scappare.
E Bill, Bill…
Bill restava lì, inerme a guardarlo…
Piangeva, finalmente… piangeva e singhiozzava forte, e stringeva la mano attorno a quella del fantasma perché fino a quel momento l’aveva visto come l’unico nemico ma adesso gli serviva qualcosa cui aggrapparsi per non cadere, e quella cosa non avrebbe mai potuto essere Tom, perché era Tom che lo stava spingendo, sì… era Tom che lo stava spingendo di sotto.
- Scusa… - biascicò ancora Tom, sollevando una mano a sfiorare la guancia di Bill, che sotto il suo tocco si tese impercettibilmente, - Io ti amo sul serio… non avrei mai voluto farti male…
Bill si morse un labbro e deglutì, stringendo ancora di più la presa sul fantasma, che ghignò apertamente.
- Tu… - tirò fuori a forza, cercando di non abbassare lo sguardo, - …dici di amarmi… amare me… tu… con lui
Li aveva visti.
Li aveva visti.
Quasi lo trovava divertente. Perché era stato tanto stupido da credere… da sperare…
No.
Era stato tanto presuntuoso da essere certo che ogni sua azione folle sarebbe rimasta circoscritta all’interno della sua mente.
Ma la sua mente non era tanto forte.
Niente di lui era abbastanza forte da reggere quel peso enorme.
- Questo posto è perfetto… - sibilò freddamente il fantasma, liberandosi dalla stretta di Bill e sospingendolo con una delicatezza tutta nuova verso il fratello, - Con tutti questi specchi, nessuno può dire chi è chi. Io posso essere lui, tu puoi essere me, lui può essere te… non è bellissimo, Tomi? Non è meraviglioso?
Lo era sul serio. Se solo faceva lo sforzo di non ascoltare non sentire neanche percepire quello che aveva intorno… se solo faceva lo sforzo di ignorare la voce di Bill, così sostanzialmente differente da quella del fantasma, o il suo calore, del tutto ignoto al suo corpo di aria e immaginazione, privo di appigli reali se non quelli che la sua mente si ostinava a dargli – un letto, un muro, una qualsiasi superficie sulla quale abbandonarsi e perdersi in mezz’ora di sospiri – per poter credere di non essere solo, per poter credere di essere ricambiato, per poter credere che per ogni amore c’è speranza, perfino per il più lurido ed ingiusto.
I sospiri di Bill non gli davano nessuna speranza, invece. Il suo tepore sotto le dita, mentre le lasciava scivolare sulla pelle, non lo aiutava a sentirsi amato. Si sentiva sporco. Lo stava ferendo. Lo stava obbligando a… Dio, no…
Il fantasma si allungò verso di lui, obbligandolo a guardarlo negli occhi. E poi lo baciò. Lasciò che si perdesse nella sua totale assenza di sapore e consistenza e poi lo guidò gentilmente fino alle labbra di Bill. Che si lasciò baciare senza protestare, si lasciò invadere senza un mugugno di dissenso. Continuò a lasciarsi divorare, e Tom si ostinò a tener gli occhi chiusi e buttare fuori la realtà, ma non c’era niente di reale in quello che stavano facendo, e perciò, se anche la realtà stava lontana, da tutto il resto lui non poteva scappare. Dalle mani del fantasma che si insinuavano prima sotto i suoi vestiti e poi sotto quelli di Bill, liberandoli dal loro abbraccio caldo e protettivo, conducendoli come in una danza i cui passi fossero loro del tutto ignoti, aiutandoli a muoversi come fosse lui a doverli guidare, lui a dover mostrare loro la via, lui a sapere cosa fosse meglio per loro, lì ed in quel momento.
E forse era proprio così.
Perché dopo un po’ le mani che lo toccavano smisero di essere fredde. No. Smisero di essere false. E si trasformarono in mani vere. Le mani di Bill. Si trasformarono nelle mani di Bill, e non perché lui, strizzando gli occhi fino a sentirli bruciare, s’era convinto della loro presenza fino ad immaginarle pure dove non erano, no. Le mani di Bill erano lì. E scivolavano lente lungo il suo petto e il suo ventre, arrampicandosi fino alle spalle e rigettandosi poi lungo le scapole, cercando fra di esse il disegno appuntito della spina dorsale. Affondando anche con le unghia fino alla carne, mentre la bocca di Tom si faceva strada sul suo collo, nell’incavo appena sotto il pomo d’Adamo, sul petto, a raccogliere i respiri fra le labbra come volesse nutrirsene o dissetarsene in lunghi sorsi.
Bill non disse una parola. Continuò ad accarezzarlo e lasciarsi accarezzare. Continuò ad ansimare ed ascoltare i suoi ansiti senza protestare, senza negarsi, senza ritrarsi. Neanche quando il gioco si fece ancora più pericoloso, neanche quando furono i pantaloni a sparire, neanche quando sentì il sesso di Tom premere contro al suo. Neanche quando il fantasma lo forzò ad aprire gli occhi e voltarsi, intrattenendolo con baci freddissimi, brevi e asciutti a fior di labbra mentre Tom si faceva strada dentro il suo corpo, lento, incerto, spaventato almeno quanto lui.
L’aria era piena solo dei loro respiri. Affannati e profondi e spezzati. E della voce di Tom. Che cantilenava scuse su scuse alternandole al suo nome e a dichiarazioni d’amore accorate al punto da sembrare fossero nate fra le lacrime. E così, probabilmente, era.
Al dolore di Bill, Tom rimase sordo. Alla certezza che, da qualche parte davanti a lui, i suoi occhi fossero serrati e le sue labbra tese in una smorfia sofferente, non volle credere. I suoi occhi e le sue labbra non riusciva davvero a vederli. Il fantasma teneva il suo viso immobile, incastrato contro la sua spalla. Era su quella pelle fredda e rarefatta che andavano ad infrangersi i sospiri di Bill. Non sulla propria. Lui non li sentiva sul serio. Non voleva proprio.
Si chinò su di lui, uscendo un attimo prima di venire. Lo schiaffeggiò con violenza la consapevolezza di essersi comportato né più né meno come aveva fatto con tutte le ragazzine senza nome e, ormai, anche senza volto che s’erano susseguite nelle decine e decine di camere d’albergo che aveva occupato in quegli anni.
Usa sempre il preservativo, ripeteva sempre David, e se sei tanto cazzone da dimenticarlo, esci sempre prima di venire. Serve a poco, ma almeno è qualcosa.
A cosa serviva, adesso che era venuto addosso a suo fratello, insudiciando la pelle candida e madida di sudore della sua schiena arcuata e in lento movimento dal basso verso l’alto, mentre Bill cercava di ristabilire un ritmo meno malsano per il proprio respiro e, davanti a sé, Tom non riusciva a vedere altro che gli occhi e le labbra di un fantasma spaventoso sorridere cattive nella sua direzione, stuzzicandolo e sfidandolo a ritirarsi adesso, adesso che era tutto scoperto, adesso che veniva a galla tutto lo schifo che aveva nascosto per anni?
Il fantasma strinse appena le palpebre, e l’ultima cosa che sussurrò prima di sparire fu una frasetta ad effetto. Sarebbe stato divertente se non fosse stata la dimostrazione manifesta della propria pochezza intellettuale.
- Qui non avete più bisogno di me. – sussurrò infatti, lasciando andare Bill, che si accasciò a terra, sfinito e dolorante, e ritirandosi nell’ombra. La sua immagine continuò a riflettersi sugli specchi intorno a loro, fino a quando Tom non si accorse che non era più la sua. Che non era neanche quella di Bill. Che non era nemmeno la propria e che, soprattutto, se anche lo fosse stata lui non sarebbe riuscito a distinguerle.
Si chinò al suo fianco, incerto sulla possibilità di toccarlo o meno.
Allungò una mano nella sua direzione e la poggiò delicatamente sulla sua spalla, accarezzandolo con dolcezza. Bill non si ritrasse e lui sospirò di sollievo. Ascoltò i suoi singhiozzi placarsi e farsi via via sempre più sordi e attutiti, fino a quando non lo sentì deglutire un’ultima volta e respirare pesantemente.
Perdeva sangue.
Si forzò ad ignorare il dettaglio e gli si chinò addosso, sfiorandogli una spalla con le labbra.
Bill rabbrividì, ma non si mosse.
Di solito, alla fine dei film o dei romanzi, il cattivo di turno muore. Quando non muore – e, se c’era una cosa che sapeva con certezza, era che in quel momento l’avrebbe preferito – è solo perché il buono riesce “a far breccia nel suo cuore” e convincerlo della possibilità di cambiare le proprie azioni e diventare buono a propria volta. Così il cattivo crolla a terra, in ginocchio, e piangendo confessa ogni crimine commesso. Ogni sofferenza arrecata agli altri. Ogni errore cui non ha voluto porre rimedio. E il buono poi si accoccola al suo fianco, lo consola e gli offre aiuto. Gli promette che gli resterà accanto. Che insieme ne verranno fuori. Che risolveranno tutto.
Lui non voleva sentire promesse simili da Bill. Perché Bill era ferito e sofferente sotto di lui, anche in quel momento, e qualsiasi promessa di quel tipo sarebbe suonata falsa.
Ma suo fratello non era una persona falsa.
Suo fratello non stava pensando che voleva salvarlo.
Non stava pensando neanche che voleva salvarsi.
Non stava pensando a niente, probabilmente.
- Convincerai David a lasciarci tornare a casa…? – chiese in un respiro spezzato e sommesso, senza sollevare gli occhi dal pavimento lurido, stringendosi nelle spalle per cercare di evitare almeno un po’ il freddo pungente che rendeva congelata perfino quella stanzetta.
Tom si morse un labbro. Strisciò sul pavimento fino a recuperare il proprio giaccone e lo utilizzò per coprire le spalle sottili e tremanti di Bill. Poi annuì, lo aiutò ad alzarsi in piedi e, insieme ed in silenzio, si rivestirono.

We have each other
You are my brother
Sitting here beside you
I just wanna use you
back to poly

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