Genere: Introspettivo.
Pairing: Bill/Tom, Tom/OC.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Het, Lime, Incest, OC.
- "Ha le labbra rosso puttana. Sapete di che colore parlo, no? E' una tonalità inconfondibile di rosso, acceso, invitante, fa venir voglia di passarci su due dita e sbavarlo sulle guance e sul mento. Soprattutto se si ha una bella pelle liscia e tanto tanto chiara, come la sua.
Questa donna è quanto di più diverso da Bill possa esistere in tutta la Germania, ne sono sicuro.
E poi è femmina.
Ed è esattamente per questo motivo che mi trovo qui, adesso.
"
Note: Questa storia nasce un giorno, per caso. Girovagavo felice per il sito di Criticoni e mi sono imbattuta, del tutto casualmente (alias, la attendevo con tanta ansia che praticamente aggiornavo la pagina ogni dieci minuti), nel bando della seconda edizione della Disfida. Titolo della competizione: red-light district. Richieste: “che sia zozza e che contenga un riferimento al rosso”. È stato qui che ho finalmente deciso di utilizzare in una storia un’espressione che desideravo utilizzare da secoli, alias le famose “labbra rosso puttana” dell’inizio. In realtà non l’ho coniata io, quest’espressione, ma Nai. O meglio, non so se l’abbia coniata lei, ma è stata da lei che l’ho sentita dire la prima volta XD E quindi è lei che devo ringraziare. Per questo, per il sostegno, per l’aiuto e, come al solito, per altre miriadi di cose :*
Assieme a lei, i ringraziamenti doverosi per tutto ciò vanno anche alla mia neechan Ana, alla Lemmina, ad eLe ed a Meggie, che l’hanno letta in anticipo e hanno dissipato qualsiasi dubbio relativo alla resa della storia su carta. Avevo in mente tante di quelle paranoie che avrei potuto morire d’angoscia, se loro non avessero salvato la mia vita T_T Ragazze, vi amo e non vi merito :*
È la seconda volta che uso il nome di una band musicale come titolo per una fanfic °_° La prima volta furono gli Slowmotion Apocalypse, e la fic era anche lì un’RPS. Di quel gruppo non sapevo niente e non so niente neanche tutt’ora. Dei Mindless Self Indulgence, invece, posseggo informazioni più circostanziate. Ovvero so che la bassista, Lyn-z è la moglie di Gerard Way, e che a Brian Molko piace molto (così come il resto del gruppo) (no, chiaramente non ho mai sentito una canzone o.o È ovvio che, quando io parlo di informazioni circostanziate, mi sto chiaramente riferendo a robe inutili derivanti dall’uso smodato che faccio di MTVNews e LiveJournal Community come fonti di fangirlistico diletto XD). Comunque mi sembrava un buon titolo per la fic. Una buona identificazione per Tom. Per questo Tom, dico, che spero non vi faccia arricciare troppo il naso, sebbene in genere non si sia abituati a vederlo ragionare tanto XD Ho voluto cercare di mantenerlo spontaneo e idiota come lo conosciamo, almeno in parte. Spero di esserci riuscita.
La citazione iniziale della storia viene dalla splendida Drain degli X-Japan. È una canzone che amo a livelli incredibili, e che mi ha accompagnata per tutta la stesura. Consiglio è_é Qui c’è il testo.
Vorrei anche ringraziare Wikitravel per avermi salvato dal disastro quando ho creduto che non avrei mai scoperto il nome della strada sulla quale si trovano le prostitute (almeno, uno dei centri più frequentati) a Berlino X’D Stavo seriamente per impazzire. Se c’è qualche errore, chiaramente, è colpa sua e non mia. Io a Berlino mica ci vivo. Mi fido di internet ù_ù *muore*
Ciò detto, ho concluso. Amen X’D Ciu :*
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MINDLESS SELF INDULGENCE

Let me drain my feelings out…

Ha le labbra rosso puttana. Sapete di che colore parlo, no? È una tonalità inconfondibile di rosso, acceso, invitante, fa venir voglia di passarci su due dita e sbavarlo sulle guance e sul mento. Soprattutto se si ha una bella pelle liscia e tanto tanto chiara, come la sua.
Questa donna – o è una ragazza? Non riesco a identificare la sua età… probabilmente è a causa del trucco pesante, ma in realtà sono sempre stato una frana in queste cose, per cui potrebbe dipendere senza problemi da una mia incapacità, e non lo saprò mai – questa donna è quanto di più diverso da Bill possa esistere in tutta la Germania, ne sono sicuro. Ha i fianchi morbidi e il seno prorompente, cosce corte e affatto slanciate, gonfi capelli biondi a caschetto – un caschetto da puttana, come il rossetto, di quelli scalati sulla nuca, che rendono i colli sensuali anche quando non lo sono – dita corte e tozze, e le unghie sono mangiucchiate e sporche – scommetto che non vive in questa casa, scommetto che non vive neanche in una casa.
E poi è femmina.
Ed è esattamente per questo motivo che mi trovo qui, adesso.
*
È stato graduale, ma è stato anche dannatamente veloce. Se dovessi quantificare quanto ci ho messo, direi che è stata più o meno una settimana. Ogni giorno di più, e non un po’ alla volta. Profumi, sapori, sensazioni, mi si sono riversati addosso come una valanga, ad enormi ondate.
Non potevo resistere.
Non darò la colpa all’adolescenza, agli ormoni sessuali, al risveglio dei sensi.
Se così stessero le cose, io vorrei scopare mio fratello da quando ho compiuto quindici anni.
E così non è.
Non darò la colpa neanche al trucco e ai vestiti di Bill.
Perché, se fosse per questi oggetti, io vorrei scopare mio fratello da molto, molto prima.
Potrei dare la colpa a mille cose, all’astinenza forzata durante i lunghi periodi di tour – perché davvero non è facile rimediare una scopata a notte quanto ti ritiri spossato alle tre del mattino e l’indomani hai la sveglia alle sette – all’enorme quantitativo di tempo che passiamo insieme, alle influenze esterne, all’atteggiamento talvolta – anche se non poi così tanto – ambiguo di Bill.
Niente di tutto ciò sarebbe vero.
La verità è che qualche mese fa, senza nessun motivo particolare, per una settimana io sono impazzito. Sono impazzito e la mia mente s’è riempita di miraggi.
Miraggi che hanno preso a calci e pugni il mio cervello senza neanche un briciolo di pietà.
Quello che rimane di me, oggi, è questo.
Un diciottenne ubriaco che s’infila nel letto di una ragazza senza nome e senza volto, ma con un corpo talmente definito e femminile che mai e poi mai, neanche durante gli strascichi di sonno o quelli, ancora più confusi, dello stordimento da alcolici, potrà essere scambiato per il corpo del proprio fratello.
Sono pazzo. Sono malato.
È tutto quello che mi serve sapere.
*
Mi piace il corpo di questa ragazza. Mi piace scivolarle fra le cosce, è brava a tenerle aperte, è brava ad accogliermi dentro di lei. Sa perfettamente cosa piace agli uomini.
Probabilmente per il resto del mondo non è così, ma per me è questo che s’intende, quando si parla di “naturalezza” nell’atto di fare del sesso. Non ho mai provato a farlo con un uomo – non mento, non mi sto dando delle arie, è vero che non ci ho mai pensato, prima di Bill – ma dubito che l’intimità di un uomo possa essere la stessa di una donna. Dubito che l’intimità di un uomo possa essere così… morbida e calda e bagnata e accogliente. Lo è perché è nata per esserlo. Lo è perché è lì che ti aspetta da quando è venuta al mondo. Lo è perché anche tu sei lì che la aspetti da quando sei venuto al mondo. E siccome sai che non potrà mai essere diversa da come te l’hanno raccontata i ragazzi più grandi quando eri così piccolo e sciocco da sederti assieme ai tuoi amichetti attorno a loro, come fossero stati guru o capi indiani degni di enorme rispetto, è così che te la aspetti.
Le donne non deludono mai.
Lascio scivolare una mano sulla rotondità dei suoi fianchi e le vengo dentro con un’ultima spinta, mentre lei si inarca e finge di godere, mordendosi il labbro inferiore. Il mio seme si schianta contro il preservativo, e posso quasi sentirlo soffrire, agonizzante. È terribile che non possa rendersi utile. Mi dispiace per lui.
…mi dispiace perché penso che, se scopassi Bill, sarebbe esattamente lo stesso. Dentro di lui, tutti i miei spermatozoi morirebbero inutilizzati.
Mi mordo un labbro anche io, ma lei sa che non è piacere. Lo sa perché conosce il volto degli uomini e sa interpretarne le variazioni. Mi scosto e mi lascio andare sul letto, affondando il viso nel cuscino, che puzza di sudore non mio.
Dopo un po’ me ne pento, e torno a guardarla.
La guardo attentamente, lei guarda me e non dice una parola.
Voglio ricordare bene i suoi tratti, per ritrovarla con facilità la prossima volta che avrò bisogno di lei. Ho faticato tanto, per trovare qualcuno che riuscisse ad assomigliargli così poco anche se nella mia testa tutto sembra somigliargli sempre spaventosamente troppo, che non posso proprio lasciarmela scappare.
*
Ci sono tre parti del corpo che decidono la vita dei maschi. Cuore, cervello e cazzo.
Col cuore fai tutte le cose tenere. Le cose che nascono spontanee e provocano gioia e sollievo in te e in chi ti sta intorno. Funziona con gli amici, ad esempio. Quando scopri che uno di loro ha la febbre ed ordini quintali di pizza e migliaia di DVD e invadi casa sua “con tutto il gruppo” solo per sentirlo lamentarsi che sta male e non vuole rotture di coglioni, mentre già tira calze e magliette sporche sotto il letto con un calcio e dice a tutti di accomodarsi dove vogliono, mentre lui cerca di far partire quel catorcio del lettore.
Col cervello fai le cose delle quali sai potresti pentirti in futuro in caso di errore, e perciò dedichi loro più attenzione. Lo usi quando devi fare i compiti, quando devi parlare con qualcuno in grado di decidere il tuo futuro, o quando devi attraversare la strada e hai la necessità impellente di ricordare che si guarda a destra e a sinistra e poi magari anche il semaforo in attesa che diventi verde. Si usa il cervello per avere un’assicurazione, e poter evitare di sentirsi in colpa nei confronti di sé stessi e degli altri, anche se l’errore alla fine si compie lo stesso. “Eh, è andato tutto storto, ma io non mi sono comportato in maniera avventata, non ho agito rischiando, non ho sbagliato. È stato il mondo a fare casino”. A volte è vero. Altre volte no. Si smette di chiederselo quando si capisce che è più comodo non saperlo e pensare di aver avuto ragione comunque, “solo che…”.
Col cazzo scopi. E questo non ha bisogno di spiegazioni. Purtroppo. A volte vorrei che il sesso fosse una cosa più complicata. Una cosa per la quale bisognasse riflettere, ad esempio, o per la quale fosse necessario provare un certo tipo di sentimento. Una cosa che, se non hai i requisiti base, non possa funzionare. Invece no, il sesso funziona sempre. È una cosa talmente meccanica, talmente animale… a volte non ha bisogno nemmeno di stimoli. In quanto maschio, mi sento una creatura affascinante: a volte mi tira anche quando non sono eccitato. È una cosa stupenda, il cazzo vive una vita propria. Ha richiami e motivazioni tutte proprie. È l’unico vero organo indipendente dell’intero corpo umano. Fosse più difficile metterlo in funzione – soprattutto a una certa età – ci si eviterebbe una tale quantità di casini che, secondo me, se solo noi maschi si provasse davvero a vivere senza per qualche mese, poi non lo si rivorrebbe più indietro.
In genere questi tre organi insieme non funzionano.
Continuano a prendersi a cazzotti a vicenda. Litigano, per dirla in parole povere.
Le donne hanno ragione, quando dicono che a volte i sentimenti “prevalgono” sulla razionalità, così come il desiderio fa con i sentimenti stessi. Perché è proprio una guerra, c’è la parte che vince e avanza vittoriosa fino a raggiungere il proprio obiettivo, e c’è la parte che perde, viene crudelmente massacrata e resta lì per terra in agonia finché non si riprende.
Quando fai qualcosa di carino per qualcun altro, poi te ne pentirai, perché razionalmente non avresti dovuto farlo.
Quando scopi con qualcuno perché sei eccitato e non riesci a vedere a un palmo dal tuo naso, poi te ne pentirai, perché la persona che amavi magari era a casa e tornare a guardarla negli occhi ti farà sentire lurido e stronzo.
Quando fai qualcosa di sensato a dispetto dei tuoi affetti, te ne pentirai comunque, perché magari avrai fatto la cosa migliore per tutti tranne che per te stesso, e te ne accorgerai solo quando sarà troppo tardi, nel momento in cui ti guarderai intorno e scoprirai di aver fatto terra bruciata attorno a te, privandoti delle possibilità di risanare i rapporti ormai persi nel tempo.

È strano.
Bill è l’unico col quale tutte e tre le cose riescano a funzionare contemporaneamente.
*
So che sto scopando.
So che sto scopando perché il seno di questa ragazza ondeggia, pieno, sodo e roseo, senza posa di fronte ai miei occhi.
So che sto scopando perché sento carne viva, umida e calda attorno al cazzo, perché mi sento avvolgere da una sensazione di tensione piacevole e vagamente dolorosa e perché sto sudando e l’odore del mio sudore si mischia con quello del suo, in una fragranza pungente e quasi fastidiosa.
So che sto scopando perché mi infastidirebbe davvero quest’odore, se non lo stessi facendo.
So che sto scopando anche perché lei mi si piega addosso e cerca le mie labbra chiamando il mio nome.
E adesso che so che lei conosce il mio nome, come una rivelazione improvvisa e importante in maniera del tutto immotivata, so anche che è una fan dei Tokio Hotel, o comunque ci conosce. Io non mi sono presentato. Non dovrebbe sapere come mi chiamo, eppure lo sa.
Lei si muove ancora un paio di volte su di me, piantando le mani sul mio ventre per aiutarsi a sollevarsi e ridiscendermi addosso, divorandomi come una belva famelica.
Sfregamento meccanico.
So che sto scopando ma non sto provando niente.
Vengo solo per sfregamento meccanico, perché non sto provando alcun piacere.
Dopo essere venuto resto inerme sul letto, non ho neanche il fiatone. Lei ce l’ha, invece. Ma solo perché s’è agitata come un’indemoniata. Lei non è venuta, glielo leggo sulla faccia perché anche io so leggere la faccia delle donne. E, oltretutto, lei finge bene, ma Bill finge meglio. E io lo interpreto come un libro aperto.
Questa ragazza – Lucrezia? Lavinia? Lorena? Me l’ha detto, come si chiamava. Non stavo ascoltando. Stavo ascoltando e non lo ricordo? – dovrà impegnarsi molto di più, se spera di ingannarmi.
Recupera il ritmo nel respiro e mi si stacca di dosso, affondando nel materasso accanto a me. Una molla ribelle le si conficca nella schiena e lei geme di dolore, si solleva appena dal letto e poi si distende nuovamente, cercando a tentoni una posizione migliore.
Allungo una mano verso i jeans abbandonati sulla sedia accanto al letto e frugo nelle tasche. Ci metto un po’ a trovare sigarette ed accendino, ma quando le trovo ci metto meno di un secondo a portarne una alle labbra ed accenderla. Aspiro lentamente, gustando il sapore del tabacco sulla lingua mentre scivola in sbuffi di fumo giù per la trachea e fino ai polmoni, dove lo trattengo un istante prima di espirarlo.
Bill finge di detestare il fatto che fumi. Finge di aver smesso di farlo e mi rimprovera perché invece io continuo. Finge di non riuscire a tollerarne l’odore, perfino il pensiero. Non ho bisogno di beccarlo a fumare di nascosto per sapere che lo fa. Gli sento addosso la puzza anche da lontano. Nessun altro riesce, il suo alito sa sempre di menta e le sue mani di sapone, e sono sempre fresche come appena lavate.
Questo succede solo perché, appunto, si lava spesso.
Mio fratello non tollera di avere addosso tracce di qualcosa che non sia sé stesso, o meglio, l’idea di sé stesso che pretende di dare in pasto agli altri. E quest’intolleranza, no, non la finge. Ecco perché, ogni traccia che gli resta addosso, lui la cancella con solerzia, prima di tornare a mostrarsi agli occhi del mondo.
Bill non tollera neanche di avere addosso tracce di me.
Usiamo due profumi diversi, e durante le sessioni fotografiche spesso siamo costretti a condividere spazi ristretti o stare appiccicati come sardine, quindi capita che il mio profumo – più forte del suo – gli si attacchi addosso. Questo lo fa soffocare. Quando succede, Bill va a cambiarsi, e se può si fa una doccia.
Io so perché lo fa. Non perché odi me o la mia presenza, ma perché gli interi primi diciott’anni della propria esistenza Bill li ha passati a difendere con forza ciò che è, in una guerra continua intollerabilmente violenta combattuta contro tutto il resto del mondo. Tenere addosso qualcosa che non appartenga alla sua identità per lui sarebbe peggio di una sconfitta plateale.
Ecco perché odia sentirsi addosso il mio profumo.
No, non finge neanche questo.
Anche se a volte vorrei lo facesse.
*
Non saprei, davvero. Non so cosa è scattato nella mia testa il giorno in cui ho pensato per la prima volta che avrei voluto scopare con Bill, che mi sarebbe piaciuto fargli scorrere addosso le mani, saggiare la consistenza della pelle tesa e bianca sotto le dita, percepire il guizzo dei muscoli appena sotto la superficie e la durezza compatta delle ossa in profondità. Qualcosa deve essere successo, anche se non ricordo che l’odore di Bill o i suoi sorrisi o il suo tono di voce fossero diversi, sensuali al punto da abbagliarmi.
Bill ha un modo di fare molto seducente. Non è una cosa chiaramente sessuale, è una cosa generale. Anche se ogni tanto mi diverto a dire che il leader del gruppo avrei dovuto essere io, in realtà so bene che non sarebbe mai stato possibile. Non perché io non sarei stato in grado di trovare il carisma necessario, ma perché Bill brilla di luce propria. Bill ti fissa negli occhi coi propri e riesce a farti credere di stare guardando la cosa più straordinaria dell’universo anche se in fondo sono solo un paio di anonimi occhi castani. Bill ti lancia un sorriso di traverso e riesce non solo a mandarti in paranoia chiedendoti se fosse rivolto a te o a qualcun altro perché, oddio!, non può davvero aver sorriso proprio a te!, ma riesce anche a fare in modo che, una volta che ti adatti al pensiero, tu possa sentirti anche un po’ speciale. Solo perché ti ha considerato. Bill solleva una mano nella tua direzione, anche solo per salutarti, e tu sei costretto a seguire il movimento delle sue dita, perché forzano all’attenzione, ti inchiodano immobile dove sei e ti lasciano solo quando si fermano. La voce di Bill è entusiasta e avvolgente, ti cattura con una sola parola e non mostra mai un’incertezza. Anche quando lo guardi, e pensi che dovrebbe essere commosso, o irritato, o confuso, o chissà cos’altro perché magari è successo qualcosa di destabilizzante ed è assurdo che lui sia così calmo e rilassato, lui non mostra mai un cedimento. Se la sua voce trema, è perché lui l’ha lasciata tremare. Se si incrina, è perché lui ha lasciato che s’incrinasse. Perché voleva scatenare in te qualche reazione e ha premuto il pulsante giusto per generarla.
Non lo fa perché è studiato così. Non del tutto, almeno.
Oddio, non sono ancora così perso da pensare che i suoi siano comportamenti sempre naturali. È ovvio che è cosciente del potere che ha sulle persone. È ovvio che sfrutta il suo fascino a proprio favore. È ovvio che si compiace di sé stesso, quando riesce a rigirarti fra le mani come una marionetta.
Però gran parte di questi atteggiamenti erano già lì quando lui era solo un bambino e non sapeva come comportarsi su un palcoscenico. Erano già lì quando il mondo, di lui, non sapeva niente. Quando il suo nome aveva una certa importanza solo fra le mura domestiche.
Erano già lì, quegli atteggiamenti, erano lì sotto forma di bocciolo. Non erano ancora fioriti, ma c’erano.
Erano abbastanza per tenergli vicino chiunque lo conoscesse appena un po’ sotto la superficie.
…almeno, erano abbastanza per tenergli vicino me.
Sono stato il banco prova di mio fratello così a lungo che non ricordo neanche quand’è cominciata. Scopriva che, sbattendo le ciglia più o meno velocemente, poteva ottenere una qualche concessione in più da mamma? Era su di me che veniva a testare l’effetto delle variazioni sul tema. Scopriva che un broncio più o meno pronunciato equivaleva a un regalo carino da parte di Gordon? Eccolo che ritornava da me per verificare che funzionasse anche con qualcun altro.
E così sempre, così per anni.
Finché erano le palpebre in lento movimento dall’alto verso il basso, finché erano le labbra che si arricciavano in una smorfia offesa, potevo reggerlo. Finché eravamo entrambi bambini, non era un problema.
Ma poi i gesti sono diventati sempre più espliciti, sempre più sensuali. Non per tutti, chiaramente. Ma per la percezione che avevo di lui, sì.
Forse è questo che è successo, il primo dei sette giorni immaginari in cui sono impazzito.
Forse Bill s’è presentato davanti a me ed ha provato una nuova mossa. Un nuovo modo di ravviarsi i capelli dietro le orecchie, o di inumidire le labbra prima di riprendere a parlare. Non lo ricordo. Non lo ricorderò mai, non potrò mai tornare indietro con la memoria e focalizzare quell’attimo, perché sarà stato così simile a milioni di altri che sul momento probabilmente non ci avrò nemmeno fatto caso.
Io no.
Cervello, cuore e cazzo sì.
*
Io non sono un illuso.
Non credo che quello che provo per lui durerà in eterno.
E non sono un romantico.
Non credo che il non poterlo avere alimenterà il fuoco della mia passione per sempre.
So che prima o poi mi stancherò. So che, se riesco a reggere abbastanza bene da oltrepassare quel punto senza far trapelare neanche uno dei sentimenti che sto provando in questo periodo, tutto si sarà risolto per il meglio.
Io so che i desideri incestuosi sono sbagliati. Non perché penso sia sbagliato in sé il desiderio di scoparsi un parente, ma perché credo fermamente che una persona disposta a passare l’inferno sotto il giudizio dell’opinione pubblica solo per una scopata sia completamente pazza.
Io non sono ancora pazzo a quel punto.
Non ho alcuna intenzione di sottopormi ad un calvario.
E non lo faccio solo perché “non potrei sopportare di far soffrire Bill”. Mi interessa di lui, è vero che non vorrei mai farlo star male, ma non è questo il primo pensiero che ho quando penso ai motivi che mi impediscono di portare alla luce questi sentimenti e questi desideri.
Non voglio soffrire.
Non voglio soffrire per niente.
Non voglio soffrire per una scopata del cazzo.
È per questo che non dirò una parola.
E passerà.
Io sono volubile. Tanto quanto una puttana, se voglio.
*
Si allunga verso di me e chiede una sigaretta anche lei. Non riesco a negargliela, perché stavolta le ho letto in viso che era eccitata sul serio, e dal momento che non è venuta – perché venire non è il suo mestiere – posso concederle almeno questa consolazione.
Sono stato molto stupido. So bene come funzionano queste cose. Quando scopi una volta con un cliente random, è impossibile tu abbia un orgasmo. Ma quando le scopate cominciano a diventare due, tre, quattro, cinque, dieci, e si ripetono nel tempo, per giorni, settimane, fino a lambire il compimento di un mese, allora è più difficile. Perché la scopata di una volta diventa una relazione. E la relazione la aspetti, la coltivi, la proteggi, la custodisci.
Le donne hanno un cuore enorme. C’entrerebbe di tutto, se solo si provasse a farcelo stare.
È stata colpa mia.
Non avrei dovuto continuare a scegliere sempre lei.
Ma davvero, ci ho messo così tanto a trovare la negazione perfetta di Bill, che non ho pensato neanche per un secondo di poterne cercare un’altra. Non avrei mai potuto scegliere qualcuno coi capelli neri, o con gli occhi castani, o con un tatuaggio addosso. Per il resto, avrebbe potuto anche essere la sua antitesi, ma quel piccolo particolare mi avrebbe ricordato lui per sempre, e il perché di queste scopate si sarebbe perso nel nulla, vanificando le mie fatiche.
Mi dispiace che ora a pagarne le conseguenze sia lei.
Mi dispiace che in questo momento stia pensando di essere felice, perché è riuscita a fare ciò che nessun’altra ragazza di buona famiglia era riuscita a fare, ovvero accalappiare Tom Kaulitz per i capelli e impelagarlo in una storia.
Mi dispiace di riuscirle a leggere nei pensieri con tanta facilità, come fosse trasparente, perché tutto questo mi fa sentire dannatamente colpevole. E siccome so che il senso di colpa è la stessa cosa dalla quale stavo cercando di fuggire quando ho dato il via a tutto questo, mi sento ancora più stupido e impotente.
È una sensazione veramente fastidiosa.
Mi si allunga addosso ma se ne pente subito. Ultimamente si sta prendendo troppe libertà, lo sa. Il fatto che io non ne sia infastidito la spaventa e le destabilizza, perché non sa cosa aspettarsi da me. La parte razionale di lei non fa che ripeterle che sono solo un cliente, ma quella irrazionale martella come la fottuta pioggia, e continua a stordirla dicendole che le piaccio.
Anche tu mi piaci, Lucrezia o chi per te.
Vorrei davvero dirtelo e vorrei che tu potessi credere anche solo per un istante che fosse vero.
- Sei triste, stasera. – mormora, cercando di sistemarsi meglio sul cuscino.
Mi lascio andare ad un sorrisetto stentato e le rispondo che non vuole veramente sapere cosa mi passa per la testa. Non so neanche io perché rispondo così. È un chiaro invito a chiedermi di più, riesco a capirlo perfino io, nonostante sia stonato come mi avessero lobotomizzato. Avrò pulsioni suicide?
- Tu mettimi alla prova. – risponde lei suadente, e io mi volto a guardarla.
- Ti piacciono i Tokio Hotel, Lucrezia? – chiedo a bruciapelo.
Lei mi fissa con insistenza, senza battere ciglio. Non si chiama veramente Lucrezia, ma continuerà a lasciarsi chiamare così. E se anche la prossima volta dovessi cominciare a chiamarla Lavinia, non si arrabbierebbe – non si stupirebbe neanche. Lascerebbe che io la battezzassi di nuovo di continuo, per sempre. Un nome ha davvero poca importanza, alla fine.
- Sì che mi piacete. – risponde con un risolino da ragazzina, dandomi l’esatta idea di quale sia la sua età e facendomi pentire di così tante cose che mi confondo.
Mi passo una mano fra i capelli e mi pento anche di questo. Le dita restano imprigionate fra le ciocche e devo sfilarle via di prepotenza, facendomi male.
- Quindi conosci anche mio fratello Bill. – proseguo socchiudendo gli occhi, cercando di scrutare le sue reazioni senza che si accorga che lo sto facendo.
Lei annuisce entusiasta.
Chissà se ha una vaga idea di ciò che sto per dirle.
Chissà se se lo aspetta.
Chissà se, anche solo per una volta, una nostra fan ha davvero provato a immaginare come sarebbe stato se tutti i suoi vaneggiamenti a riguardo di una possibile relazione fra me e mio fratello potessero rivelarsi realistici. Di più, reali.
- Mi piace Bill, sai? – le dico tranquillamente.
Dirlo è semplice.
È semplice come il sesso.
Non è piacevole altrettanto, però. È strano, appena le parole mi sono uscite dalle labbra mi sono sentito come privato di un pezzo di me. Un pezzo di qualcosa necessaria alla sopravvivenza, un pezzo di un qualche organo veramente importante, stomaco, polmoni, reni, una cosa del genere. Un pezzo di qualcosa che magari senza quel frammento continuerà a tirare avanti, ma così assillata dagli stenti che avrebbe preferito non sopravvivere affatto.
Lei mi guarda come non sapesse cosa aspettarsi da me, e in effetti non posso darle torto. Rido.
- Non sei contenta? – commento con tono quasi derisorio, - Credevo che a voi fan la cosa piacesse.
Lei fa una smorfia e scivola sul materasso, allontanandosi da me e trattenendo la sigaretta fra le labbra, mentre fissa il soffitto con aria annoiata.
- Non siamo tutte fan del twincest. – spiega atona, - A me piaceva Bill.
Rido ancora, forte, tanto che mi trema la gola.
- Che sfiga! – le dico, battendole una mano sulla spalla. Lei fa un’altra smorfia, per mostrare tutto il disappunto che prova nei confronti della mia mancanza di delicatezza, e poi massaggia il punto dolente con una carezza distratta.
Io non chiedo scusa.
- Anche tu non fai completamente schifo.
So di piacerle. E so anche che se mi sta parlando così è perché l’ho ferita, nel modo lieve e persistente in cui feriscono le cose in cui fingi di non credere, perché sai che l’illusione vera, quella in cui speri davvero, è mortale. Come poche altre cose nel mondo.
Non avrei dovuto parlare.
- State insieme? – chiede, fingendo disinteresse.
- Ti pare possibile? – ritorco con un mezzo sorriso ironico.
- No, ma sinceramente non mi pareva possibile neanche che fra voi due ci fosse realmente qualcosa, quindi-
- Fra noi due non c’è niente. – preciso ansioso, sollevandomi su un gomito e guardandola attentamente, per farle capire che sono serio e non è una frase di circostanza detta per nascondere chissà che segreto scabroso.
David ci ha insegnato subito l’importanza della chiarezza. Quando ha visto che piega stavano prendendo i gusti di una parte del target al quale ci rivolgevamo, ci ha chiamati tutti e quattro in ufficio e ci ha spiegato che sul palco e durante le interviste avremmo potuto fare e dire tutto quello che volevamo, tutto quello che avremmo ritenuto opportuno utilizzare per alimentare l’affetto dei fan e, conseguentemente, anche le vendite. Ma ci ha detto anche che, se non volevamo grane nella nostra vita privata, almeno in quella avremmo dovuto essere sempre molto chiari e precisi, in modo che la gente capisse e pensasse solo ciò che volevamo capisse e pensasse. Senza lasciare spazio alle fantasie o ai giochetti strani.
Mio fratello non ha mai giocato davvero, con me. Per quanto in pubblico possa sembrare che la nostra relazione a volte sfiori i limiti del naturale gettandosi nell’illecito, in privato l’unica cosa illecita sono le sberle che mi tira sulla testa quando mi ostino a comportarmi in qualche modo che lui non approva.
- Mi piacerebbe vivere nella testa delle fan, a volte. – continuo, tornando a distendermi sul materasso, - Entrare lì dentro e vedere che tipo di vita ho. Se è meglio o peggio. Se vale la pena.
- Non ti piacerebbe vivere nella mia testa. Non adesso, almeno.
- Oddio. – ridacchio divertito, - Non andare in paranoia, adesso. Non ti ho rubato Bill, hai ancora delle possibilità. Fingi di non essere una fan dei Tokio Hotel e di amarlo per quello che è e vedrai che avrai fortuna. A Bill piacciono le cose finte, ci si trova a suo agio.
- Tom… - sospira, esalando uno sbuffo di fumo.
- Sì, lo so. – la interrompo, stringendo i denti con uno scatto secco e fastidioso. Sto dicendo cattiverie gratuite. Le sto dicendo perché sono nervoso. Parlare mi ha reso nervoso.
Non avrei davvero dovuto farlo.
- Io avevo un’amica… - dice lei, parlando a bassa voce, come cercasse di recuperare fra i ricordi qualcosa che non riesce ad afferrare pienamente, - Non qui. Ad Augsburg, dove abitavo prima.
- Cazzo… - visualizzo la Germania nella mente, lo faccio con poco sforzo perché Bill sta sempre molto attento ai percorsi dei tour e convince anche me a stargli dietro, - Stavi così lontano? Quando ti sei trasferita?
- Ormai è passato più di un anno. – mi lancia un’occhiata, e io la ricambio, sollevando le sopracciglia, - Non voglio parlare di questo. Comunque sia, lì andavo al liceo e avevo un’amica che era davvero ossessionata dai Tokio Hotel. Andavo spesso a studiare da lei, e la sua stanza mi terrorizzava. Non hai idea di quanti poster aveva attaccati alle pareti.
Rido, e anche lei si prende qualche secondo per farlo.
- Io mi sentivo quasi in imbarazzo nei suoi confronti. In fondo, voglio dire, eravate- siete anche più piccoli di noi di un anno. Era allucinante, per me, che potesse sentirsi così sconvolta da persone che in fondo non erano niente più che coetanei.
Annuisco, aspirando dalla sigaretta ed espellendo il fumo dalle narici.
- È il potere della televisione. – la rassicuro, - Nessuno ci amerebbe tanto se non ci fosse lo schermo in mezzo. La televisione trasforma le cose banali in cose interessanti.
- Bill non è banale. – insiste lei, piccata come l’avessi offesa personalmente.
Sollevo le braccia e le incrocio dietro la nuca, e ci rifletto sul serio.
- No, Bill forse non lo è. – concedo soprappensiero, - Ma io e tu siamo le persone meno adatte per stabilirlo.
- E chi è che dovrebbe stabilirlo? – mi chiede, ridendo con sufficienza. Non si dà per vinta. – Qualche critico musicale del cazzo il cui ultimo ascolto risale a Paganini e che non è in grado di capire che i tempi cambiano?
Rido ancora. In questa ragazza c’è qualcosa di simpatico – oddio, non posso davvero aver utilizzato questo termine nei suoi confronti, povera Lucrezia… - qualcosa che mi impedisce di pentirmi del tutto di averle detto ciò che provo.
- Hai un’idea troppo dolce dei critici musicali. Non hanno davvero bisogno di aver ascoltato Paganini, per spalarti merda addosso.
Lei scrolla le spalle come non le interessasse un accidenti di quanto detto fino ad ora.
- Comunque sia, se ti sei innamorato di lui, non può essere così banale.
Annuisco. Mi fa bene crederlo. Mi fa bene pensare a Bill come ad una persona fuori dal comune, qualcosa che non si ferma a un corpo e una parlantina sciolta, qualcosa anche oltre alla sua presenza. Mi fa bene perché mi rimette al mio posto. Fra quelli che guardano e non toccano.
Mi fa bene, una volta tanto, non prendere ciò che voglio anche a costo di usare la forza.
Penso che, al di là dell’avermi fatto completamente impazzire, l’influenza di Bill su di me sia in qualche modo benefica.
E una cosa del genere la penso ogni volta. Ogni volta riesco a recuperare un motivo più o meno valido per sollevarmi da questo letto, rimettermi in ordine, camminare a testa china fino ad Oranienburger Straße, afferrare un taxi e farmi riportare a casa.
Perciò lo faccio anche oggi.
Non cambia niente l’averlo detto a qualcuno. Non cambia niente anche se faccio il poeta tragico e mi angoscio da solo cercando di capire se qualcosa cambierebbe, per esempio se mi mettessi sulla cima di un palazzo, afferrassi un megafono e lo confessassi al mondo intero.
Lucrezia mi lascia andare senza dire una parola, guardando dal letto i soldi che ho lasciato sul comodino. Sa che tornerò e lo so anche io. So che è piena di domande e lo sono anche io. Sappiamo entrambi che farei meglio a cambiare giro, la prossima volta, così come sappiamo che non lo farò.
Bill ama dire che io generalmente non rifletto.
Siccome mi piace dargli ragione, eviterò di contraddirlo anche in questo caso.
*
Nel momento in cui entro in casa, Bill è seduto sul divano, raggomitolato su sé stesso e sotto una coperta. Si passa le unghia sulle labbra come fa sempre quando è nervoso e vorrebbe mangiucchiarsele ma, per ovvi motivi, non può farlo. Fissa con aria irritata e scontenta il televisore, anche se non sembra vedere realmente le immagini che danzano sullo schermo, davanti ai suoi occhi.
- Tornato. – notifico piatto, poggiando le chiavi sul vassoio d’argento del mobile ad angolo.
- Non fare casino. – mi rimprovera lui, senza staccare gli occhi dalla tv.
- Scusa.
Non mi sto scusando davvero. Lo intuisce, e solo allora si volta a guardarmi, con uno scatto repentino che agita la coda alta dietro la testa. Ha fatto le pulizie, nel pomeriggio. Ha addosso una vecchia tuta, non c’è traccia di trucco sul suo viso né di smalto sulle sue unghie. Probabilmente non è uscito per tutto il giorno. Me lo rinfaccerà alla prima occasione favorevole, ma io so che stare solo in casa gli piace. Gli piace sentirsi padrone di un piccolo mondo del quale può decidere le sorti.
Così come gli piace sentirsi padrone di piccoli sudditi da rigirarsi fra le dita.
- Ti rendi conto di che ore sono?! – mi attacca duramente. Non ha nemmeno bisogno di urlare, gli basta alzare giusto un po’ il tono di voce.
Lascio perdere il piano iniziale – che comprendeva sgattaiolare silenziosamente in camera e dormire fino a quando lo stomaco non mi avesse svegliato, possibilmente dopo un paio di giorni – e mi muovo stancamente verso di lui, lasciandomi ricadere sul divano al suo fianco.
- Potevi andare a dormire. – suggerisco pacato, abbandonando le braccia in grembo e guardandolo dritto negli occhi.
- Non ti ho aspettato sveglio. – si limita ad osservare lui, con aria così sicura che non posso fare a meno di credergli, anche se so che mente. – Non avevo sonno.
Sorrido.
- Neanche io. È per questo che sono tornato tardi.
E ora vorrei poter dire che anche lui mi sta sorridendo. Che si sta abbassando a seguire le regole del mio gioco e che, per una volta, sta giocando con me e non si sta prendendo gioco di me.
Ma in questo momento lui non sta veramente sorridendo. Sta solo ghignando. E lo sta facendo perché non ha idea di cosa mi gira per la testa – o forse sì e non gl’importa – e sono questi, davvero, gli unici momenti in cui mi andrebbe di afferrarlo per le spalle, baciarlo con violenza, sbatterlo su questo divano e dirglielo. Una volta sola, sono sicuro che basterebbe. Non per romanticismo, non perché lo ami e non perché me lo voglio fare. Per cancellargli quel cazzo di ghigno dalla faccia, solo questo.
Ma mi freno.
Rimango sul divano e continuo a ridere come un idiota, fingendo di non possedere questo vantaggio – che, per quanto inutile, è pure sempre un vantaggio. Fingendo di farmi sconfiggere. E di non essere io a dargliela vinta.
Nonostante tutto, sono davvero convinto sia più comodo così.
Passerà. Lo so.
Sono volubile anche io, quando voglio…
Sono volubile anche io.
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