Fanfiction a cui è ispirata: Absynthe di Sara.
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Spin-off.
- Coraggio, Tom, dimenticalo. Solo per un secondo. E' facile. Uno. Due. Dimenticato. Quattro. Cinque. Fanculo.
Note: Prima di tutto: ci tengo a ringraziare Sara per avermi dato modo, con la sua magnifica opera, di scrivere una storia che amo e che mi è davvero servita. Per riappacificarmi con Tom, soprattutto, che durante tutto il corso di Absynthe avevo cordialmente detestato XD Per motivi ovvi, che chiunque abbia letto la storia comprenderà.
Ciò detto, irrtümlich significa “per errore”. L’ho trovato un titolo adatto per la storia. Straordinariamente, come termine in italiano non è abbastanza forte, ed in inglese sarebbe stato orribile. È proprio vero che certa roba va scritta in tedesco, fertig. No? X’D
Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Angst, Slash, Incest, Spin-off.
- Coraggio, Tom, dimenticalo. Solo per un secondo. E' facile. Uno. Due. Dimenticato. Quattro. Cinque. Fanculo.
Note: Prima di tutto: ci tengo a ringraziare Sara per avermi dato modo, con la sua magnifica opera, di scrivere una storia che amo e che mi è davvero servita. Per riappacificarmi con Tom, soprattutto, che durante tutto il corso di Absynthe avevo cordialmente detestato XD Per motivi ovvi, che chiunque abbia letto la storia comprenderà.
Ciò detto, irrtümlich significa “per errore”. L’ho trovato un titolo adatto per la storia. Straordinariamente, come termine in italiano non è abbastanza forte, ed in inglese sarebbe stato orribile. È proprio vero che certa roba va scritta in tedesco, fertig. No? X’D
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“Com’è la vita là fuori, Tomi?”.
Tom aveva scrollato un po’ il capo, fissando lo sguardo all’ordinato vialetto di ghiaia.
Aveva scelto l’assenzio, non la realtà.
Si era venduto al fuoco fatuo di una fiamma verde. Aveva perso.
“Mi manchi”.
Bill aveva posato il capo contro la sua spalla e chiuso gli occhi.
“Allora… Portami via”.
Forse anche io sono un po’ pazzo. Forse anche io sono un po’ sbagliato. Forse non sono così diverso da Bill. Forse tutte le cose in cui ho creduto per tutta la mia vita in realtà non erano che bugie. Parole vuote che continuavo a ripetermi ed alle quali mi sarei aggrappato fino a quando non mi si fossero sbriciolate fra le mani. Forse in realtà neanche ci credevo davvero, perché adesso che mi servirebbero non riesco più a trovarle da nessuna parte. Forse avrei dovuto essere più sincero con me stesso. Forse avrei dovuto essere più sincero anche con Bill, prima di tutto, perché lui, in qualche modo, è sempre riuscito a tirarmi fuori dalla bocca perfino le cose più orribili, per evitare che mi avvelenassero restando in circolo.
Io invece non sono riuscito a ripulirgli il sangue nemmeno un po’.
L’assenzio che gli correva nelle vene, quello che ha travasato nelle mie, non sono neanche riuscito a diluirlo.
Però io un veleno tanto potente non l’avevo mai visto. Proprio mai.
Ed io non sono un antidoto, Bill avrebbe dovuto saperlo.
Forse sarebbe bastato parlare un po’ di più. Forse ostinarsi a tacere su qualcosa di tanto ingombrante non è stata la mossa più furba.
Forse quello che sto pensando di fare non risolverà proprio un bel niente.
Però in effetti non m’importa. Bill m’importa molto di più.
S’era svegliato con quel pensiero fisso, che non erano neanche le sei del mattino. Fuori era ancora buio in maniera spaventosa, quasi intollerabile, e Tom si forzò a chiudere gli occhi ed ignorare quanto lo circondava, pressando forte il viso contro il cuscino nella speranza di annullare qualsiasi influenza del mondo esterno all’interno del suo mondo ideale.
Un mondo ideale che, composto solo dei ricordi felici della sua vita, contribuiva ad aiutarlo ad alzarsi dal letto ogni mattina senza per questo dover desiderare di scoppiare a piangere come un bambino per un nonnulla.
Il cuscino non sapeva di niente. Non aveva profumo. Non sapeva neanche di pulito, perché la donna delle pulizie che da qualche settimana David si ostinava a mandargli a casa, nella vana speranza che un po’ di contatto umano sereno e rilassato ogni tanto potesse aiutarlo a non sprofondare nel groviglio della solitudine, usava un detergente del tutto asettico.
C’era stato un periodo in cui il suo cuscino aveva saputo solo di donne sconosciute.
Poi c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Bill.
A seguire, c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Christina.
E adesso non sapeva di niente.
Avrebbe avuto un bel da fare, David, a tenerlo lontano dalla solitudine: lui non era mai stato così disperatamente solo.
Comunque, non avrebbe dovuto pensare a cose simili così presto al mattino. Soprattutto non alle sei di una giornata qualunque. Una giornata nella quale neanche avrebbe potuto vederlo.
Lanciò un’occhiata furtiva alla sveglia sul comodino. 28 aprile, venerdì, 06:01:08. 09. 10. 11.
Tornò ad affondare nel cuscino, serrando le palpebre contro il cotone tiepido di sonno.
Toglitelo dalla testa, Tom.
Toglitelo dalla fottuta testa.
Nascondilo, accidenti.
Gettalo via. Anche solo per una volta. Anche solo per un secondo.
12. 13. Dimenticato. 15.
Fanculo.
Si decise a mettersi in piedi, se non altro perché rimanere a letto si stava facendo perfino scomodo. Quasi si sentiva incastrato fra le coperte. Se le scostò di dosso con un gesto repentino e nervoso, scattando a sedere e rigettando indietro la massa di rasta sempre più lunga e intricata che sovente finiva per accecarlo del tutto.
Avrebbe dovuto tagliare un po’ i capelli, ma ogni volta che adocchiava un paio di forbici ripensava a Bill. E questo era del tutto normale, ma anche incredibilmente doloroso.
E dire che lui non era mai stato un grande appassionato di quelle che le persone chiamano “le piccole cose”. Quelle che finisci per notare per forza, e che poi ti accompagnano come parenti scomodi per tutto il resto della tua vita.
Lui non credeva in questo potere. Perché lui non vedeva mai niente.
Ma le forbici lo facevano pensare a Bill più di ogni altra cosa. Più della musica, più dei microfoni, più delle siringhe, più della penna.
E sì, questo era del tutto normale, perché era ciò che Bill aveva voluto.
Da qualche parte dentro di sé, aveva sempre conservato il sospetto per cui in realtà Bill non volesse affatto porre fine a tutto. Bill voleva semplicemente dimostrargli in quanti e quali modi avesse sbagliato. In ogni particolare che aveva volutamente ignorato. In ogni parola che s’era lasciato colpevolmente sfuggire di bocca. In ogni sfaccettatura d’espressione cui aveva risposto con studiato distacco. Lui era colpevole.
Le forbici non erano l’arma del delitto. Erano la sua personalissima ghigliottina.
* Non avrebbe dovuto trovarsi lì. Prima di tutto, perché quella non era giornata di visita. Non l’avrebbero mai fatto entrare. Non gli avrebbero mai permesso di vederlo. Aveva affrontato un viaggio perfettamente inutile.
Secondo poi, perché non stava bene. Anzi: non ci stava affatto con la testa. E questo poteva portarlo a sciocchezze davvero pericolose.
Terzo infine, perché Bill non lo sapeva. E lui era terrorizzato a morte dalla possibilità di fare qualcosa che avrebbe potuto distruggere completamente tutta la fatica che aveva fatto fino a quel momento per riavvicinarsi a lui. Sempre che poi faticare tanto fosse servito a qualcosa.
Le mura che circondavano la clinica erano alte, ma non tanto alte. Costellate da punte disomogenee e dolorose, anche, ma non abbastanza.
Non si arrampicava su qualcosa da…
…e l’ultima volta in cui l’aveva fatto era stato per lui…
Lanciò un’occhiata impaurita oltre il reticolato che sovrastava la parete in cemento per più di mezzo metro. Attraverso le maglie in fil di ferro, si poteva vedere lo scorrere lentissimo della vita dei ricoverati. Chi solo, chi in compagnia di un infermiere, si godeva il proprio momento d’aria. Tutti gli alberi in boccio. Il profumo dei fiori forte al punto da stordirti. Il profumo di un’aria libera e fresca che tra le pareti dell’edificio potevi sentire solo se ti sporgevi alla finestra – e spesso non potevi farlo.
Da qualche parte, là in mezzo, doveva esserci pure Bill.
E lui avrebbe voluto notarlo per primo, ma non ci riuscì.
Come sempre, gli occhi di suo fratello vedevano le cose molto prima che ci riuscissero i suoi. Molto prima che ci riuscissero anche quelli di tutti gli altri, perché le vedeva semplicemente molto prima che si verificassero. Le sentiva nell’aria. Sentiva lui.
Lo sguardo di Bill attraversò il cortile, dalla panchina sulla quale lui era seduto, e si piantò nei suoi occhi. Le sue labbra assunsero una sfumatura di sorpresa del tutto inedita ed ansiosa, e le mani, prima impegnate a stringere un libro del quale, a quella distanza, era impossibile decifrare il titolo, persero presa, lasciando scivolare il volume sulle sue cosce. Tom lo osservò avanzare, appendersi brevemente alle sue ginocchia spigolose e poi rovinare a terra, sull’erba fresca, ai suoi piedi.
Non riusciva neanche a capire cosa sarebbe stato meglio fare. Ma non era una sensazione particolarmente nuova, anzi. Aveva imparato a conviverci, perché nel tempo aveva capito fosse meglio provare il brivido dell’incertezza che non il gelo tremendo della sicurezza con la quale ti imponi di sbagliare pur di non cedere di un passo al tuo orgoglio.
Bill decise per lui, in ogni caso, come aveva sempre fatto e come avrebbe fatto sempre. Si alzò in piedi, recuperò il libro da terra – chinandosi ordinatamente come nelle pubblicità dei cerotti per il mal di schiena, piegandosi sulle gambe senza inarcare la spina dorsale – lo chiuse e lo ripose con cura sulla panchina, bene in fondo, perché non potesse cadere ancora.
Poi si mosse. Con cautela e circospezione, ma senza dare nell’occhio per l’eccessiva furia con la quale ci si guarda intorno quando si è agitati.
Bill era perfetto, come sempre. Ricoperto della solita maschera di ombretto e mascara. Le solite bugie.
Tom lo osservò sorridere cordialmente ad un dottore che l’aveva fermato, ed intrattenersi con lui per qualche chiacchiera di poco conto. Osservò tutto questo mordendosi le labbra. Perché era appeso al muro di una clinica psichiatrica. Perché stava aspettando suo fratello come un ladro – o un amante segreto. Perché Bill era a pochi metri da lui e quello non era il giorno in cui si sarebbero dovuti incontrare né il modo in cui il loro incontro sarebbe dovuto avvenire, ma sembrava tutto talmente giusto da fare quasi paura.
Negli ultimi anni, non gli era mai capitato di sentirsi così dalla parte della ragione. Dalla parte dei buoni. Dalla parte di Bill.
Suo fratello si liberò del dottore con poche, semplici parole di rassicurazione, e poi riprese a muoversi con sicurezza verso di lui. Solo quando fu veramente vicino, Tom si accorse che l’espressione di Bill era incrinata da una sottile vena di paura. Il suo sorriso non era piatto e plastificato come al solito. Anzi, non sorrideva affatto.
Ma c’era una luce nuova, nei suoi occhi. Una luce che non ricordava di vedere da tanto tempo.
Tanto di quel tempo che non riusciva neppure a rammentarne il significato.
Si aggrappò con forza al reticolato, issandosi fino a superarlo con una buona metà del corpo, e si sporse oltre il muro, tendendo le braccia.
Lo ricordò allora, il significato di quella luce. Lo ricordò nel momento in cui la vide farsi più intensa ed inondare completamente le pupille di Bill. Nel momento esatto in cui anche suo fratello tese le proprie braccia, artigliò con furia la carne appena sotto le spalle – oltre la giacca, oltre i vestiti, perché Bill non aveva bisogno di farlo sanguinare davvero, per farsi percepire sottopelle – e si lasciò tirare in alto, aiutandosi coi piedi piantati con decisione sul cemento, e poi fra le maglie della rete, giù fino a terra, sul lato opposto del marciapiede. Il lato giusto.
Bill era leggero come un lenzuolo e non altrettanto ingombrante.
Bill era anche pesante come una benedizione, e altrettanto spaventoso.
I capelli avevano continuato a crescere, ormai lambivano la base del collo. Erano molto più sottili e meno folti di un tempo, ma lui era ancora incredibilmente carino. Aveva anche preso qualche chilo. Non più di uno o due, ma su suo fratello poche centinaia di grammi avevano sempre fatto la differenza.
Bill si guardò intorno e poi si guardò addosso.
- Non sono in pigiama, ma mi sembra di esserlo. – sussurrò, stringendo le braccia attorno alle spalle, come a volersi nascondere fra di loro.
Tom si morse un labbro. Lo strinse a sé. E lo condusse alla macchina.
* Non dissero neanche una parola, per tutto il tragitto di ritorno verso l’appartamento. Bill guardava fuori dal finestrino, il cappuccio della felpa con la quale Tom l’aveva coperto – e dentro la quale lui affogava come un cucciolo fra le coperte di una cuccia troppo grande – calato sul viso, per renderlo irriconoscibile di fronte a qualsiasi sguardo indiscreto. Teneva le mani appoggiate al finestrino, le dita bene aperte ed i palmi aderenti alla superficie liscia e fresca, la bocca talmente vicina al vetro da lasciare una traccia di vapore ad ogni respiro.
Tom non aveva fatto che guardarlo per tutto il tempo. Al punto che aveva dovuto forzarsi a fissare solo la strada, da un certo momento in poi, perché continuando a spostare lo sguardo dall’asfalto a Bill trovava sempre più facile distrarsi dal primo e sempre più difficile separarsi dal secondo.
Non poteva credere di averlo fatto davvero.
Un’evasione, Cristo.
David e il dannato contratto che si intestardiva a non voler rescindere lo avrebbero perseguitato per sempre.
Così come il fantasma di aver semplicemente sbagliato per l’ennesima volta.
Quando arrivarono a casa, si sentì quasi obbligato a rompere quell’inquietante voto di silenzio. Se non altro, perché stava cominciando a farsi ridicolo.
- Mettiti seduto. – gli disse, passandogli una coperta ed indicandogli il divano, - Ti faccio un po’ di tè.
Bill però scosse il capo, trattenendo per un istante la coperta fra le dita, per poi spostare la presa più in alto, sulla mano di Tom. Le si era avvicinato di soppiatto, quasi strisciando, e poi l’aveva afferrata con una decisione incredibile, seppure in qualche modo esitante. Spaventata, più che altro.
- Vieni con me? – gli chiese, e Tom annuì. Non si sarebbe sentito in grado di negargli neppure la Luna. Si augurava solo lui fosse ancora abbastanza stordito da omettere di chiedergliela.
La parola successiva, Bill la disse dopo aver passato molti minuti semplicemente seduto in silenzio sul divano, a rigirarsi la mano di Tom fra le dita, fissandola intensamente, come volesse sincerarsi della sua reale presenza.
- Perché? – chiese in un fiato, senza staccare gli occhi dalle sue dita, massaggiandone lentamente le nocche.
- Cosa? – ritorse Tom, inumidendosi le labbra secche per l’agitazione.
Bill sbuffò un sorrisetto in parte divertito ed in parte intenerito, e portò l’altra mano a stringergli il polso, massaggiando lentamente anche questo. Come stesse cercando di riprendere familiarità col corpo di Tom poco a poco, centimetro dopo centimetro. Misurandogli la pelle per provare a scambiarla con la propria.
- Mi hai davvero portato via… - soffiò allora, senza lasciar scomparire neanche una sfumatura di quel sorriso vago eppure incredibilmente dolce.
Tom ne evitò la vista, non avrebbe potuto reggerla oltre.
- Mi mancavi. – spiegò, un lieve tremito nella voce che svelava precisamente la prepotenza della sua ansia.
- Anche tu mi mancavi tanto. – annuì Bill, proseguendo la propria carezza nostalgica su fino al gomito di Tom. – C’erano ancora così tanti giorni, fino al quindici…
- Sì. – sorrise brevemente Tom, tornando a guardarlo, - Non potevo aspettare.
Bill ridacchiò, coprendosi le labbra con una mano, mentre l’altra risaliva il braccio del fratello e si fermava sulla sua spalla, come addormentata.
- Mi trovi bene? – chiese Bill, sfuggendo il suo sguardo e stringendo la presa.
- Tu come ti senti?
- Non ha nessuna importanza. – rispose scuotendo il capo, - Almeno, non quanto ne ha il modo in cui mi vedi tu. Secondo te sto bene?
Tom aggrottò le sopracciglia, mentre la mano di Bill lasciava andare la spalla e si avvicinava al collo, sfiorandone appena la pelle sensibile e un po’ accaldata.
- Sembri stare meglio, tutto sommato.
Bill sorrise dolcemente, strizzando lievemente le palpebre.
- Allora sarà vero. – annuì con sicurezza, aprendo le dita per farle aderire completamente al collo di Tom. Non era una stretta, la sua, e per la verità non era neanche una pressione. Sembrava troppo debole perfino per una carezza, era… era come un respiro. Come un saluto sussurrato. Bentornato, Tomi. Bentornato me. – Tomi… - lo richiamò poco dopo, inspirando profondamente ed abbassando lo sguardo, - Noi non abbiamo mai avuto veramente occasione di parlare, dopo quella lettera…
La punta d’ansia che l’aveva scosso dentro ogni muscolo fino a quel momento si fece più insistente. Risalì fino in superficie, attaccandoglisi alla pelle, dolorosa e crepitante come elettricità.
Deglutì.
- Tu non mi hai disgustato, Bill. – rispose. Sentì il dovere di rispondergli, anche se in quel momento Bill non gli aveva posto nessuna domanda. La verità era che Bill non aveva mai fatto altro che chiedergli sempre la stessa cosa, da quando erano venuti al mondo. Stammi vicino. Non te ne andare. Non lasciarmi indietro. Accettami. Amami. Potevano sembrare richieste diversissime, ma in realtà erano la stessa cosa. Bill non chiedeva “molto”. Chiedeva pochissimo, in fondo. Ma in quel pochissimo che chiedeva, c’era tutto. C’era lui. C’erano loro. C’era un’intera vita. – Non volevo farti sentire rifiutato. Non volevo, ma è successo comunque. È successo, ed io l’ho capito subito, sai Bill? L’ho capito da quella volta che ti trovai nel bagno della Kaiserkeller. L’ho capito… - si avvicinò a lui, lasciando che Bill si ripiegasse sul suo collo, elegante come un cigno, offrendogli riparo come avevano sempre fatto fin da bambini, - L’ho capito, e non sono riuscito a farci niente. Perché mi faceva paura. Mi faceva paura tutto, mi facevi paura anche tu, mi facevo paura da solo. Sono stato così male che ho dimenticato quanto potevi stare male tu.
Bill sollevò entrambe le braccia, aggrappandosi con forza dietro la sua nuca, stringendosi a lui con tanta foga da sembrare volesse scavarsi una via nel suo petto, per raggiungere il cuore e nascondersi lì dentro per sempre. Almeno, in questo modo sarebbero ritornati ad essere un’unica cosa. E magari avrebbero sofferto di meno.
- È stata tutta colpa mia, Bill. Tutto quello che è successo dopo, è stata solo colpa mia. Tu non hai proprio niente da rimproverarti.
Gli baciò lievemente una tempia. Era tutto ciò che riuscisse a vedere di lui, così da vicino. Tutto il resto era semplicemente troppo vicino al proprio corpo perché lui potesse davvero riuscire a distinguerli.
- Sapevo che mi avresti salvato, Tomi. – sussurrò Bill, la voce rotta dalle lacrime, accarezzandogli lentamente le spalle, - Sapevo che l’avresti fatto. Io non ho fatto che aspettare. Aspettavo ogni tua visita sperando fosse quella giusta. Ed alla fine è arrivata. Finalmente sei arrivato. – si separò da lui, solo qualche centimetro, lo spazio minimo indispensabile per guardarlo negli occhi. – Finalmente mi hai trovato.
Tik.
* Forse Bill ha sempre avuto ragione su tutto. Forse lui ha semplicemente avuto più coraggio di me, ecco. Ha avuto il coraggio di vivere per come voleva. Di viversi per com’era. Mentre io non ho fatto che nascondermi. Non ho fatto che montare un’impalcatura di menzogne, tanto intricata quanto debole. Debole perché nessuna delle viti che la reggevano aveva l’anima d’acciaio. Debole perché viti proprio non ce n’erano, probabilmente.
Forse, se avessi perso meno tempo a cercare la soluzione più facile, avrei potuto guardare in faccia la soluzione difficile e darmi da fare perché si rivelasse quella vincente. Forse, se avessi perso meno tempo a cercare le sfumature della normalità in una vita che di normale non aveva mai avuto niente, sarei riuscito a venire a patti con quanto siamo sbagliati tutti, chi più, chi meno, e sarei riuscito ad essere più felice. Sarei riuscito a rendere più felice Bill.
Forse avrei dovuto semplicemente lasciarmi andare all’unico errore che avrebbe sistemato tutto, invece di inanellare una sequenza sempre più fitta di errori privi di senso, allontanandomi da Bill. Che contava i passi, e non se ne lasciava sfuggire neanche uno. Misurava la lunghezza che ci separava, così come la misuravo anche io, ma se per me era un modo come un altro per mettermi in salvo, per lui era solo un modo in più di affondare in sé stesso. E perciò, quel po’ che ancora ci teneva insieme s’è dissolto.
Forse sarebbe bastato riflettere di meno. Forse sarebbe servito riflettere di più.
Forse, semplicemente, avrei dovuto stare ad ascoltare con più attenzione. Guardarlo sempre, come dicevo di fare, anche se mentivo.
Forse sarebbe bastato cercare di ritrovarci. Io e lui, insieme, come sempre.
Forse possiamo ancora.
Si svegliò con questo pensiero fisso, stringendo convulsamente il lenzuolo fra le mani. C’era un rumore acuto e tintinnante che gli riecheggiava nella mente, e lui ne ricordava perfettamente la fonte, ma decise – una volta di più – di lasciare l’immagine nascosta dietro la solita porta, dove vederla sarebbe stato impossibile.
Prima o poi sarebbe riuscito a fronteggiarla, quella verità.
Prima o poi sarebbe stato abbastanza forte.
Prima o poi l’avrebbe salvato davvero.
Nel frattempo, prova a dimenticarlo.
Solo una volta, non farà male a nessuno.
Solo una volta, ti sentirai meglio.
Solo una volta, lui non lo saprà mai.
O forse sì, ma sarà stata una volta sola.
Una volta sola, dimenticherai in fretta anche questo.
Avanti, Tom. Solo un secondo.
06:01:08. 09. 10. 11.
Fanculo.
Tom aveva scrollato un po’ il capo, fissando lo sguardo all’ordinato vialetto di ghiaia.
Aveva scelto l’assenzio, non la realtà.
Si era venduto al fuoco fatuo di una fiamma verde. Aveva perso.
“Mi manchi”.
Bill aveva posato il capo contro la sua spalla e chiuso gli occhi.
“Allora… Portami via”.
IRRTÜMLICH
Forse anche io sono un po’ pazzo. Forse anche io sono un po’ sbagliato. Forse non sono così diverso da Bill. Forse tutte le cose in cui ho creduto per tutta la mia vita in realtà non erano che bugie. Parole vuote che continuavo a ripetermi ed alle quali mi sarei aggrappato fino a quando non mi si fossero sbriciolate fra le mani. Forse in realtà neanche ci credevo davvero, perché adesso che mi servirebbero non riesco più a trovarle da nessuna parte. Forse avrei dovuto essere più sincero con me stesso. Forse avrei dovuto essere più sincero anche con Bill, prima di tutto, perché lui, in qualche modo, è sempre riuscito a tirarmi fuori dalla bocca perfino le cose più orribili, per evitare che mi avvelenassero restando in circolo.
Io invece non sono riuscito a ripulirgli il sangue nemmeno un po’.
L’assenzio che gli correva nelle vene, quello che ha travasato nelle mie, non sono neanche riuscito a diluirlo.
Però io un veleno tanto potente non l’avevo mai visto. Proprio mai.
Ed io non sono un antidoto, Bill avrebbe dovuto saperlo.
Forse sarebbe bastato parlare un po’ di più. Forse ostinarsi a tacere su qualcosa di tanto ingombrante non è stata la mossa più furba.
Forse quello che sto pensando di fare non risolverà proprio un bel niente.
Però in effetti non m’importa. Bill m’importa molto di più.
S’era svegliato con quel pensiero fisso, che non erano neanche le sei del mattino. Fuori era ancora buio in maniera spaventosa, quasi intollerabile, e Tom si forzò a chiudere gli occhi ed ignorare quanto lo circondava, pressando forte il viso contro il cuscino nella speranza di annullare qualsiasi influenza del mondo esterno all’interno del suo mondo ideale.
Un mondo ideale che, composto solo dei ricordi felici della sua vita, contribuiva ad aiutarlo ad alzarsi dal letto ogni mattina senza per questo dover desiderare di scoppiare a piangere come un bambino per un nonnulla.
Il cuscino non sapeva di niente. Non aveva profumo. Non sapeva neanche di pulito, perché la donna delle pulizie che da qualche settimana David si ostinava a mandargli a casa, nella vana speranza che un po’ di contatto umano sereno e rilassato ogni tanto potesse aiutarlo a non sprofondare nel groviglio della solitudine, usava un detergente del tutto asettico.
C’era stato un periodo in cui il suo cuscino aveva saputo solo di donne sconosciute.
Poi c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Bill.
A seguire, c’era stato un periodo in cui aveva saputo solo di Christina.
E adesso non sapeva di niente.
Avrebbe avuto un bel da fare, David, a tenerlo lontano dalla solitudine: lui non era mai stato così disperatamente solo.
Comunque, non avrebbe dovuto pensare a cose simili così presto al mattino. Soprattutto non alle sei di una giornata qualunque. Una giornata nella quale neanche avrebbe potuto vederlo.
Lanciò un’occhiata furtiva alla sveglia sul comodino. 28 aprile, venerdì, 06:01:08. 09. 10. 11.
Tornò ad affondare nel cuscino, serrando le palpebre contro il cotone tiepido di sonno.
Toglitelo dalla testa, Tom.
Toglitelo dalla fottuta testa.
Nascondilo, accidenti.
Gettalo via. Anche solo per una volta. Anche solo per un secondo.
12. 13. Dimenticato. 15.
Fanculo.
Si decise a mettersi in piedi, se non altro perché rimanere a letto si stava facendo perfino scomodo. Quasi si sentiva incastrato fra le coperte. Se le scostò di dosso con un gesto repentino e nervoso, scattando a sedere e rigettando indietro la massa di rasta sempre più lunga e intricata che sovente finiva per accecarlo del tutto.
Avrebbe dovuto tagliare un po’ i capelli, ma ogni volta che adocchiava un paio di forbici ripensava a Bill. E questo era del tutto normale, ma anche incredibilmente doloroso.
E dire che lui non era mai stato un grande appassionato di quelle che le persone chiamano “le piccole cose”. Quelle che finisci per notare per forza, e che poi ti accompagnano come parenti scomodi per tutto il resto della tua vita.
Lui non credeva in questo potere. Perché lui non vedeva mai niente.
Ma le forbici lo facevano pensare a Bill più di ogni altra cosa. Più della musica, più dei microfoni, più delle siringhe, più della penna.
E sì, questo era del tutto normale, perché era ciò che Bill aveva voluto.
Da qualche parte dentro di sé, aveva sempre conservato il sospetto per cui in realtà Bill non volesse affatto porre fine a tutto. Bill voleva semplicemente dimostrargli in quanti e quali modi avesse sbagliato. In ogni particolare che aveva volutamente ignorato. In ogni parola che s’era lasciato colpevolmente sfuggire di bocca. In ogni sfaccettatura d’espressione cui aveva risposto con studiato distacco. Lui era colpevole.
Le forbici non erano l’arma del delitto. Erano la sua personalissima ghigliottina.
Secondo poi, perché non stava bene. Anzi: non ci stava affatto con la testa. E questo poteva portarlo a sciocchezze davvero pericolose.
Terzo infine, perché Bill non lo sapeva. E lui era terrorizzato a morte dalla possibilità di fare qualcosa che avrebbe potuto distruggere completamente tutta la fatica che aveva fatto fino a quel momento per riavvicinarsi a lui. Sempre che poi faticare tanto fosse servito a qualcosa.
Le mura che circondavano la clinica erano alte, ma non tanto alte. Costellate da punte disomogenee e dolorose, anche, ma non abbastanza.
Non si arrampicava su qualcosa da…
…e l’ultima volta in cui l’aveva fatto era stato per lui…
Lanciò un’occhiata impaurita oltre il reticolato che sovrastava la parete in cemento per più di mezzo metro. Attraverso le maglie in fil di ferro, si poteva vedere lo scorrere lentissimo della vita dei ricoverati. Chi solo, chi in compagnia di un infermiere, si godeva il proprio momento d’aria. Tutti gli alberi in boccio. Il profumo dei fiori forte al punto da stordirti. Il profumo di un’aria libera e fresca che tra le pareti dell’edificio potevi sentire solo se ti sporgevi alla finestra – e spesso non potevi farlo.
Da qualche parte, là in mezzo, doveva esserci pure Bill.
E lui avrebbe voluto notarlo per primo, ma non ci riuscì.
Come sempre, gli occhi di suo fratello vedevano le cose molto prima che ci riuscissero i suoi. Molto prima che ci riuscissero anche quelli di tutti gli altri, perché le vedeva semplicemente molto prima che si verificassero. Le sentiva nell’aria. Sentiva lui.
Lo sguardo di Bill attraversò il cortile, dalla panchina sulla quale lui era seduto, e si piantò nei suoi occhi. Le sue labbra assunsero una sfumatura di sorpresa del tutto inedita ed ansiosa, e le mani, prima impegnate a stringere un libro del quale, a quella distanza, era impossibile decifrare il titolo, persero presa, lasciando scivolare il volume sulle sue cosce. Tom lo osservò avanzare, appendersi brevemente alle sue ginocchia spigolose e poi rovinare a terra, sull’erba fresca, ai suoi piedi.
Non riusciva neanche a capire cosa sarebbe stato meglio fare. Ma non era una sensazione particolarmente nuova, anzi. Aveva imparato a conviverci, perché nel tempo aveva capito fosse meglio provare il brivido dell’incertezza che non il gelo tremendo della sicurezza con la quale ti imponi di sbagliare pur di non cedere di un passo al tuo orgoglio.
Bill decise per lui, in ogni caso, come aveva sempre fatto e come avrebbe fatto sempre. Si alzò in piedi, recuperò il libro da terra – chinandosi ordinatamente come nelle pubblicità dei cerotti per il mal di schiena, piegandosi sulle gambe senza inarcare la spina dorsale – lo chiuse e lo ripose con cura sulla panchina, bene in fondo, perché non potesse cadere ancora.
Poi si mosse. Con cautela e circospezione, ma senza dare nell’occhio per l’eccessiva furia con la quale ci si guarda intorno quando si è agitati.
Bill era perfetto, come sempre. Ricoperto della solita maschera di ombretto e mascara. Le solite bugie.
Tom lo osservò sorridere cordialmente ad un dottore che l’aveva fermato, ed intrattenersi con lui per qualche chiacchiera di poco conto. Osservò tutto questo mordendosi le labbra. Perché era appeso al muro di una clinica psichiatrica. Perché stava aspettando suo fratello come un ladro – o un amante segreto. Perché Bill era a pochi metri da lui e quello non era il giorno in cui si sarebbero dovuti incontrare né il modo in cui il loro incontro sarebbe dovuto avvenire, ma sembrava tutto talmente giusto da fare quasi paura.
Negli ultimi anni, non gli era mai capitato di sentirsi così dalla parte della ragione. Dalla parte dei buoni. Dalla parte di Bill.
Suo fratello si liberò del dottore con poche, semplici parole di rassicurazione, e poi riprese a muoversi con sicurezza verso di lui. Solo quando fu veramente vicino, Tom si accorse che l’espressione di Bill era incrinata da una sottile vena di paura. Il suo sorriso non era piatto e plastificato come al solito. Anzi, non sorrideva affatto.
Ma c’era una luce nuova, nei suoi occhi. Una luce che non ricordava di vedere da tanto tempo.
Tanto di quel tempo che non riusciva neppure a rammentarne il significato.
Si aggrappò con forza al reticolato, issandosi fino a superarlo con una buona metà del corpo, e si sporse oltre il muro, tendendo le braccia.
Lo ricordò allora, il significato di quella luce. Lo ricordò nel momento in cui la vide farsi più intensa ed inondare completamente le pupille di Bill. Nel momento esatto in cui anche suo fratello tese le proprie braccia, artigliò con furia la carne appena sotto le spalle – oltre la giacca, oltre i vestiti, perché Bill non aveva bisogno di farlo sanguinare davvero, per farsi percepire sottopelle – e si lasciò tirare in alto, aiutandosi coi piedi piantati con decisione sul cemento, e poi fra le maglie della rete, giù fino a terra, sul lato opposto del marciapiede. Il lato giusto.
Bill era leggero come un lenzuolo e non altrettanto ingombrante.
Bill era anche pesante come una benedizione, e altrettanto spaventoso.
I capelli avevano continuato a crescere, ormai lambivano la base del collo. Erano molto più sottili e meno folti di un tempo, ma lui era ancora incredibilmente carino. Aveva anche preso qualche chilo. Non più di uno o due, ma su suo fratello poche centinaia di grammi avevano sempre fatto la differenza.
Bill si guardò intorno e poi si guardò addosso.
- Non sono in pigiama, ma mi sembra di esserlo. – sussurrò, stringendo le braccia attorno alle spalle, come a volersi nascondere fra di loro.
Tom si morse un labbro. Lo strinse a sé. E lo condusse alla macchina.
Tom non aveva fatto che guardarlo per tutto il tempo. Al punto che aveva dovuto forzarsi a fissare solo la strada, da un certo momento in poi, perché continuando a spostare lo sguardo dall’asfalto a Bill trovava sempre più facile distrarsi dal primo e sempre più difficile separarsi dal secondo.
Non poteva credere di averlo fatto davvero.
Un’evasione, Cristo.
David e il dannato contratto che si intestardiva a non voler rescindere lo avrebbero perseguitato per sempre.
Così come il fantasma di aver semplicemente sbagliato per l’ennesima volta.
Quando arrivarono a casa, si sentì quasi obbligato a rompere quell’inquietante voto di silenzio. Se non altro, perché stava cominciando a farsi ridicolo.
- Mettiti seduto. – gli disse, passandogli una coperta ed indicandogli il divano, - Ti faccio un po’ di tè.
Bill però scosse il capo, trattenendo per un istante la coperta fra le dita, per poi spostare la presa più in alto, sulla mano di Tom. Le si era avvicinato di soppiatto, quasi strisciando, e poi l’aveva afferrata con una decisione incredibile, seppure in qualche modo esitante. Spaventata, più che altro.
- Vieni con me? – gli chiese, e Tom annuì. Non si sarebbe sentito in grado di negargli neppure la Luna. Si augurava solo lui fosse ancora abbastanza stordito da omettere di chiedergliela.
La parola successiva, Bill la disse dopo aver passato molti minuti semplicemente seduto in silenzio sul divano, a rigirarsi la mano di Tom fra le dita, fissandola intensamente, come volesse sincerarsi della sua reale presenza.
- Perché? – chiese in un fiato, senza staccare gli occhi dalle sue dita, massaggiandone lentamente le nocche.
- Cosa? – ritorse Tom, inumidendosi le labbra secche per l’agitazione.
Bill sbuffò un sorrisetto in parte divertito ed in parte intenerito, e portò l’altra mano a stringergli il polso, massaggiando lentamente anche questo. Come stesse cercando di riprendere familiarità col corpo di Tom poco a poco, centimetro dopo centimetro. Misurandogli la pelle per provare a scambiarla con la propria.
- Mi hai davvero portato via… - soffiò allora, senza lasciar scomparire neanche una sfumatura di quel sorriso vago eppure incredibilmente dolce.
Tom ne evitò la vista, non avrebbe potuto reggerla oltre.
- Mi mancavi. – spiegò, un lieve tremito nella voce che svelava precisamente la prepotenza della sua ansia.
- Anche tu mi mancavi tanto. – annuì Bill, proseguendo la propria carezza nostalgica su fino al gomito di Tom. – C’erano ancora così tanti giorni, fino al quindici…
- Sì. – sorrise brevemente Tom, tornando a guardarlo, - Non potevo aspettare.
Bill ridacchiò, coprendosi le labbra con una mano, mentre l’altra risaliva il braccio del fratello e si fermava sulla sua spalla, come addormentata.
- Mi trovi bene? – chiese Bill, sfuggendo il suo sguardo e stringendo la presa.
- Tu come ti senti?
- Non ha nessuna importanza. – rispose scuotendo il capo, - Almeno, non quanto ne ha il modo in cui mi vedi tu. Secondo te sto bene?
Tom aggrottò le sopracciglia, mentre la mano di Bill lasciava andare la spalla e si avvicinava al collo, sfiorandone appena la pelle sensibile e un po’ accaldata.
- Sembri stare meglio, tutto sommato.
Bill sorrise dolcemente, strizzando lievemente le palpebre.
- Allora sarà vero. – annuì con sicurezza, aprendo le dita per farle aderire completamente al collo di Tom. Non era una stretta, la sua, e per la verità non era neanche una pressione. Sembrava troppo debole perfino per una carezza, era… era come un respiro. Come un saluto sussurrato. Bentornato, Tomi. Bentornato me. – Tomi… - lo richiamò poco dopo, inspirando profondamente ed abbassando lo sguardo, - Noi non abbiamo mai avuto veramente occasione di parlare, dopo quella lettera…
La punta d’ansia che l’aveva scosso dentro ogni muscolo fino a quel momento si fece più insistente. Risalì fino in superficie, attaccandoglisi alla pelle, dolorosa e crepitante come elettricità.
Deglutì.
- Tu non mi hai disgustato, Bill. – rispose. Sentì il dovere di rispondergli, anche se in quel momento Bill non gli aveva posto nessuna domanda. La verità era che Bill non aveva mai fatto altro che chiedergli sempre la stessa cosa, da quando erano venuti al mondo. Stammi vicino. Non te ne andare. Non lasciarmi indietro. Accettami. Amami. Potevano sembrare richieste diversissime, ma in realtà erano la stessa cosa. Bill non chiedeva “molto”. Chiedeva pochissimo, in fondo. Ma in quel pochissimo che chiedeva, c’era tutto. C’era lui. C’erano loro. C’era un’intera vita. – Non volevo farti sentire rifiutato. Non volevo, ma è successo comunque. È successo, ed io l’ho capito subito, sai Bill? L’ho capito da quella volta che ti trovai nel bagno della Kaiserkeller. L’ho capito… - si avvicinò a lui, lasciando che Bill si ripiegasse sul suo collo, elegante come un cigno, offrendogli riparo come avevano sempre fatto fin da bambini, - L’ho capito, e non sono riuscito a farci niente. Perché mi faceva paura. Mi faceva paura tutto, mi facevi paura anche tu, mi facevo paura da solo. Sono stato così male che ho dimenticato quanto potevi stare male tu.
Bill sollevò entrambe le braccia, aggrappandosi con forza dietro la sua nuca, stringendosi a lui con tanta foga da sembrare volesse scavarsi una via nel suo petto, per raggiungere il cuore e nascondersi lì dentro per sempre. Almeno, in questo modo sarebbero ritornati ad essere un’unica cosa. E magari avrebbero sofferto di meno.
- È stata tutta colpa mia, Bill. Tutto quello che è successo dopo, è stata solo colpa mia. Tu non hai proprio niente da rimproverarti.
Gli baciò lievemente una tempia. Era tutto ciò che riuscisse a vedere di lui, così da vicino. Tutto il resto era semplicemente troppo vicino al proprio corpo perché lui potesse davvero riuscire a distinguerli.
- Sapevo che mi avresti salvato, Tomi. – sussurrò Bill, la voce rotta dalle lacrime, accarezzandogli lentamente le spalle, - Sapevo che l’avresti fatto. Io non ho fatto che aspettare. Aspettavo ogni tua visita sperando fosse quella giusta. Ed alla fine è arrivata. Finalmente sei arrivato. – si separò da lui, solo qualche centimetro, lo spazio minimo indispensabile per guardarlo negli occhi. – Finalmente mi hai trovato.
Tik.
Forse, se avessi perso meno tempo a cercare la soluzione più facile, avrei potuto guardare in faccia la soluzione difficile e darmi da fare perché si rivelasse quella vincente. Forse, se avessi perso meno tempo a cercare le sfumature della normalità in una vita che di normale non aveva mai avuto niente, sarei riuscito a venire a patti con quanto siamo sbagliati tutti, chi più, chi meno, e sarei riuscito ad essere più felice. Sarei riuscito a rendere più felice Bill.
Forse avrei dovuto semplicemente lasciarmi andare all’unico errore che avrebbe sistemato tutto, invece di inanellare una sequenza sempre più fitta di errori privi di senso, allontanandomi da Bill. Che contava i passi, e non se ne lasciava sfuggire neanche uno. Misurava la lunghezza che ci separava, così come la misuravo anche io, ma se per me era un modo come un altro per mettermi in salvo, per lui era solo un modo in più di affondare in sé stesso. E perciò, quel po’ che ancora ci teneva insieme s’è dissolto.
Forse sarebbe bastato riflettere di meno. Forse sarebbe servito riflettere di più.
Forse, semplicemente, avrei dovuto stare ad ascoltare con più attenzione. Guardarlo sempre, come dicevo di fare, anche se mentivo.
Forse sarebbe bastato cercare di ritrovarci. Io e lui, insieme, come sempre.
Forse possiamo ancora.
Si svegliò con questo pensiero fisso, stringendo convulsamente il lenzuolo fra le mani. C’era un rumore acuto e tintinnante che gli riecheggiava nella mente, e lui ne ricordava perfettamente la fonte, ma decise – una volta di più – di lasciare l’immagine nascosta dietro la solita porta, dove vederla sarebbe stato impossibile.
Prima o poi sarebbe riuscito a fronteggiarla, quella verità.
Prima o poi sarebbe stato abbastanza forte.
Prima o poi l’avrebbe salvato davvero.
Nel frattempo, prova a dimenticarlo.
Solo una volta, non farà male a nessuno.
Solo una volta, ti sentirai meglio.
Solo una volta, lui non lo saprà mai.
O forse sì, ma sarà stata una volta sola.
Una volta sola, dimenticherai in fretta anche questo.
Avanti, Tom. Solo un secondo.
06:01:08. 09. 10. 11.
Fanculo.