Genere: Introspettivo, Romantico (vagamente).
Pairing: Bill/Tom.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Slash, Incest.
- Tre maggio duemilasette. Una giornata frenetica. Di voci, di suoni, di luci. Ma non abbastanza contatto fisico. E poi...?
Note: Per la mia neechan <3 Anche se faccio la stronzetta, a volte, ti voglio bene. E finalmente hai il tuo regalo di compleanno per intero, oh! XDDDD
Ok, note sensate, adesso X’D Questa fanfiction significa moltissimo per la mia neechan <3 È la prima fanfiction sui gemelli di cui abbia immaginato la trama. Ed in questo momento, se la sua coinquilina pazza non stesse cantando a squarciagola Notre Dame De Paris, starebbe perfino piangendo per l’emozione XD Ed è per questo che gliel’ho dedicata ù_ù Oltre che perché comunque gliela dovevo, visto che gliel’avevo promessa assieme a Lust And Lunacy per il suo compleanno °_° (Cioè, vi rendete conto? Millenni fa!!!). Tra l’altro, quale modo migliore per riallacciare i contatti dopo un gavettone inaspettato, che non dichiararsi amore eterno con una fanfiction? XD
A parte questo, potrebbe avere un seguito. Nel senso che, più che una oneshot autoconclusiva, somiglia molto – troppo – a un prologo. La qual cosa è spa-ven-to-sa. Ma, che dire? Si va dove ci porta l’ispirazione ù.ù Anche se l’ispirazione ci porta verso cose piccole, dolciose e gioiosamente inutili :D
Spero vi piaccia <3 Anzi, lo speriamo entrambe ù_ù!
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ICH BIN NICH’ ICH

Bill sembrava troppo piccolo e troppo sottile.

Durante tutta la giornata non aveva avuto veramente occasione per pensare. Non che, in genere, quella fosse l’occupazione che preferiva in assoluto, ma raramente gli era capitato di attraversare ventiquattro ore di totale assenza di un qualsiasi pensiero razionale che gli attraversasse la testa anche solo per sbaglio.
Fin dall’inizio di quel tre maggio, invece, era stato tutto talmente concitato, veloce e sincopato che lui proprio non aveva avuto modo di concedersi neanche un pensiero piccolo piccolo.
Alle sette del mattino David aveva fatto irruzione nelle loro camere, buttandoli giù dal letto. Erano stati trascinati in bagno uno per uno, neanche avessero avuto tredici anni e si stessero lamentando dicendo di avere il mal di pancia per non dover andare a scuola. Poi erano stati scaraventati su una limousine dai vetri oscurati e da lì erano stati condotti agli studi di Viva per le prove. Spring Nicht. Poi Heilig. A Bill non era piaciuto com’era venuta. L’avevano ripetuta. Poi David gli aveva fatto ripetere per scrupolo Spring Nicht ed a quel punto Bill aveva preteso riprovassero un’altra volta anche Heilig. Alla fine, se Gustav non si fosse fatto sconfiggere da un provvidenziale crampo e Georg non fosse corso in suo aiuto, cominciando a stiracchiarlo come faceva spesso in quelle occasioni, probabilmente avrebbero continuato a provare quelle due canzoni in circolo fino all’orario dell’inizio dello show, e lui avrebbe cominciato ad odiarle.
E non era proprio il caso, visto che soprattutto una delle due minacciava di restare nel loro repertorio fino alla fine dei tempi.
In ogni caso, dopo la frenesia di David – tutta incentrata sul concetto fondamentale per cui “loro erano solo dei ragazzini e perciò del tutto inaffidabili; quindi, se potevano permettersi di provare fino alla nausea, non dovevano prenderla come una fatica inutile ma come una valida occasione di migliorarsi eccetera eccetera” – era arrivata anche la frenesia di Bill.
Certe volte Tom si ritrovava a pensare i comportamenti di Bill fossero l’unica nota stonata della perfetta placidità che contraddistingueva in genere le reazioni dei Tokio Hotel. Sia lui che Georg che Gustav erano sempre piuttosto impassibili, quando si trattava di ricevere notizie, belle o brutte che fossero.
Bill, per contro, non poteva proprio fare a meno di entusiasmarsi sempre troppo. Che fosse in un verso – la massima felicità – o che fosse nell’altro – la fase di depressione più acuta della storia – Bill era sempre molto esagerato. Fino a, be’, sì, sembrare perfino stonato.
Quando pensava cose simili, però, finiva sempre per arenarsi su un punto. Il punto che diceva “Se Bill non fosse così, se non fosse così estremo, se non fosse così ambivalente, se non fosse così intenso, se non fosse così tutto e tutto assieme, non sarebbe dove si trova. Non si ritroverebbe a fronteggiare ogni volta migliaia di persone con la sola protezione della propria forza di volontà e di un microfono”.
Non sarebbe il nostro leader.
Di solito, era questo che pensava.
Quel giorno, però, non aveva proprio avuto tempo per pensare a niente. Bill l’aveva stordito di chiacchiere per tutto il pomeriggio, e quando aveva smesso – per andarsi a chiudere nel proprio camerino, armato di tutto punto per imbrattarsi la faccia come piaceva tanto a lui ed a tutte le loro fan – David era tornato all’attacco: l’aveva legato ad una sedia ed aveva ricominciato a riempirgli la testa con l’importanza di stare bene attenti agli accordi “perché il fatto di essere idolatrati da un sacco di ragazzine di mezza Europa non li dispensava dal cercare di suonare al massimo delle loro potenzialità – ovvero appena decentemente”, di seguire il ritmo, di guardare Gustav “e non solo per ridere sotto i baffi quando gli si vedeva la pancia tremolare sotto la maglietta mentre suonava”, e tutta un’altra serie di informazioni inutili che, se non fosse stato già abbastanza impegnato ad eliminare prima ancora che venissero immagazzinate, avrebbe automaticamente rimosso nel giro di un paio d’ore.
E poi, poi, poi…
…poi era stato tutto così incredibilmente luminoso
Rapido, immediato.
Confuso.
I premi – tanti, tantissimi, troppi, quando mai aveva sperato di poterne vedere tanti tutti insieme…? – le esibizioni, le urla, i complimenti, quella ragazza che per poco non si faceva venire un infarto dopo averlo appena sfiorato…
No, proprio non aveva avuto il tempo di pensare a niente.

Ma neanche di abbracciare suo fratello come avrebbe dovuto e voluto.

Quella degli abbracci, per loro, era sempre stata una prassi quotidiana. E dannatamente importante. Bill passava per quello insicuro, quello bisognoso di contatto fisico, quello “debole”, in un certo qual modo. Ma lui non era diverso. C’erano dei momenti in cui toccare o non toccare suo fratello poteva essere la differenza fra stare bene e stare male.
C’era stata confusione, quella sera.
C’era stato troppo rumore.
Non c’era stato abbastanza spazio per trovarsi.
E infatti non s’erano trovati.

Appollaiato su una sedia a sdraio, sull’ampio balcone su cui dava il salotto del loft, Bill stava avvolto in una delle sue felpe. Era così enorme da sembrare quasi ridicola, addosso a lui. Stava rannicchiato su se stesso, le ginocchia al petto e le braccia a circondare le gambe. Si stringeva nell’abbraccio che non aveva potuto avere. Probabilmente stava lì ad illudersi di potersi sentire completo anche da solo.
Era solo un’illusione, appunto. Perché doveva esserci stato un motivo, se erano nati insieme, e Tom aveva sempre sospettato che sia nel proprio organismo che in quello di Bill fosse sempre mancato un pezzo che invece stava conservato nel corpo dell’altro. E questo era il motivo per cui non potevano davvero stare separati.
Per cui non potevano essere loro stessi, quando l’altro non era nei paraggi.

Da solo, Bill sembrava troppo piccolo e troppo sottile. Fu questo il primo pensiero che gli attraversò la mente, durante tutto l’arco di quella giornata. Ed era un pensiero triste, mentre nella sua testa avrebbero dovuto trovarsi solo pensieri felici.
La semplice idea che anche nella mente di Bill potessero affastellarsi pensieri simili – quando lui, più di tutti gli altri, avrebbe meritato solo di godersi il momento senza pensare a niente di deprimente – lo faceva sentire abbattuto.
Perciò gli si avvicinò, sfiorandogli lentamente la spalla con una mano. Discreto ma, in qualche modo, invadente. Sapeva che a Bill era sempre piaciuto quel tipo di rapporto. Che adorava sentirsi libero di introdursi nella sua vita. Che adorava sapere che anche lui si sarebbe sempre preso la stessa libertà.
Bill sollevò lo sguardo e gli sorrise, facendosi più in là sulla sdraio per lasciargli un angolino per sedersi – e sul quale lui si abbandonò immediatamente, come un peso morto.
- Sono esausto! – annunciò, chiudendo gli occhi e gettando indietro il capo, incontrando quasi casualmente la spalla di Bill e decidendo di restare appoggiato lì a riposarsi. – È stata una giornata intensa, mh?
- Sarebbe l’eufemismo del secolo? – ridacchiò Bill, puntellandosi meglio sulla sedia con le mani, per evitare di cedere sotto il peso di suo fratello, leggero eppure non indifferente – soprattutto per lui, che era così piccolo e magro e sottile.
- Certo che fra te e David non so chi mi abbia fatto passare più guai, oggi. Eri isterico! – sbottò, - Neanche quelli fossero i nostri primi riconoscimenti, o le nostre prime esibizioni… siamo già praticamente dei veterani!
- Dio, fa che non ti senta David. – continuò a ridere suo fratello, strofinandogli addosso la punta del naso, lievemente infreddolita, - Potrebbe sbranarti.
- C’è poca carne da sbranare, comunque. – si limitò a scrollare le spalle lui. Poi rimase in silenzio per qualche secondo, a percepire il sottilissimo movimento che il respiro di Bill causava all’intero suo corpo, e per riflesso anche al proprio che a lui stava così vicino. – Come ti senti? – chiese infine, voltandosi a guardarlo di sottecchi.
- Stanco. – sospirò Bill, - E mi sei mancato.
- …come scusa?! – ironizzò lui, guardandolo adesso più apertamente, - Ma se siamo stati appiccicati tutto il giorno?!
Bill sorrise, enigmatico come al solito.
- Non quando contava di più.
Tutti i sorrisi di Bill sapevano di mistero. Era quello che affascinava tanto chiunque lo guardasse. Era esattamente quello che affascinava anche Tom, pure se lui, in tutti quei misteri, ci stava immerso, felice come un bambino, da quando era nato.
- Hai ragione. – rispose in un soffio, allargando le braccia e girandosi completamente, attirandolo a sé con decisione. La felpa gli scivolò giù dalle spalle, e lui non mosse un muscolo quando Bill tirò giù la cerniera di quella che lui stava indossando e vi si intrufolò all’interno.
- Scusa. – si giustificò a bassa voce, - Sento un po’ di freddo.
Era primavera inoltrata. Non c’era affatto freddo, quella sera.
Non era per il freddo che Bill aveva eliminato quella barriera di acrilico pesantissimo.
- Figurati. – rispose, stringendolo più forte, appena sotto le spalle.
A Tom stava benissimo anche in quella maniera.
Bill si scostò da lui, solo qualche centimetro, pochi secondi dopo. Teneva le mani appoggiate sul suo petto, ben ferme, aperte. Aveva delle bellissime mani, Bill. Erano così eleganti, così calde… Tom abbassò il proprio sguardo su di lui.
- Che c’è? – chiese, lievemente in imbarazzo, notando che Bill lo stava fissando neanche fosse stato una stella cadente – strana ironia.
- Niente. – ridacchiò Bill, strizzando lievemente gli occhi, - Sono felice. – disse semplicemente, prima di annullare quella porzione minuscola eppure quasi insostenibile di centimetri che li separavano e baciarlo lievemente sulle labbra.
Una pressione tanto lieve da sembrare perfino finta.
Ma che era verissima.
- E questo? – chiese Tom con un filo di voce, inarcando lievemente le sopracciglia e sorridendo a metà.
Bill si strinse nelle spalle.
- Un grazie?
Sì.
Forse.

…comunque, a Tom stava benissimo anche in quella maniera.
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