Genere: Introspettivo, Drammatico.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Slash, OC.
- "Quando Bill Kaulitz entrò nella mia vita, era una bella giornata di fine primavera." La storia di un ragazzo che non sa chi è, non sa cosa vuole e non sa perché stia combattendo, ma di sicuro è certo che non smetterà di battersi fino alla fine. Perché lui ha ragione. Tutti gli altri torto.
Note: Questa storia mi ha decisamente messa a dura prova XD Un po' perché, quando l'ho cominciata, avevo idea dovesse venir fuori molto – ma molto – più breve e meno articolata. Ma questa è stato lo stravolgimento minore, se devo dire la verità.
Questa storia va più o meno contro tutti i miei principi fangirlanti. È gratuitamente depressa. È del tutto disillusa e neanche vagamente romantica. Ed affronta un argomento molto pesante. Io giudizi non ne do. Spero sia ovvio che qualsiasi parola sia uscita dalla bocca dei personaggi non rispecchia necessariamente il mio modo di vedere le cose. Se non fossi in grado di scindermi dai personaggi di cui scrivo (cosa che faccio sempre, tranne durante le scene di sesso, perché in quelle è più divertente così ù.u") scriverei solo robe piene zeppe di Mary-Sue, e fortunatamente quel periodo l'ho abbandonato anni fa. È una storia che mi piace molto, se non altro perché è totalmente diversa da tutto ciò che ho scritto e letto sui Tokio Hotel da quando ho cominciato a fangirlare su di loro. Mi piace molto anche perché mi piace questo Bill. Adoro i personaggi che mi fa paura affrontare, e lui paura me ne fa eccome X3 E poi mi piacciono molto anche i brandelli di Tomi che si vedono, perché è un Tom molto indifeso, impreparato e sconvolto, completamente diverso dal "solito" che si è abituati ad incontrare nelle fanfiction. Ciononostante, sebbene per la maggior parte del tempo in cui la scrivevo l’abbia non solo amata ma anche apprezzata per come veniva fuori, verso la fine ho, come al solito, cominciato a farmi prendere dalle paturnie XD Il che dimostra che io non dovrei mai rileggere quello che scrivo, perché rischio la depressione.
Per la totalità della sua progettazione – ed anche per buona parte della stesura – è rimasta senza titolo. Un po' come i personaggi originali – che adoro, perché sono tutt'altro che perfetti e compiono un errore di valutazione più o meno ogni venti righe *-* - i quali, alla fine, sono rimasti senza nome. Semplicemente non ne avevano uno, e neanche la storia. Alla fine, non dico che ho dovuto trovarglielo per forza, ma be', quasi. Anche perché, se c'era una cosa che non mi andava, era di lasciarla Untitled "XD Comunque sia, alla fine Mister Bellamy è venuto in mio soccorso – come sempre. Anche se in realtà non si trattava esattamente di lui, ma della sua emanazione pseudo-pubescente-refrattaria-allo-sviluppo-nonostante-l’adolescenza-incombente del 1994 (Dio-mio), anno in cui, presentandosi come Rocket Baby Dolls, lui e quelli che poi sarebbero diventati i Muse assieme a lui, vinsero un contest musicale in quel della loro odiosa contea. La canzone si intitolava Jigsaw Memory, ed era un orrido rigurgito punkettino post-adolescenziale del quale oggi – fortunatamente – sopravvivono solo sette secondi – che io ovviamente possiedo u.u
Comunque sia, jigsaw è un termine adorabile, che in inglese sta ad indicare i puzzle e tutti quegli altri giochini che si compongono. Mi è sembrato un titolo molto adatto per quella che, in fondo, è una storia ricostruita coi ricordi di tre persone.
Oltre che coi puzzle, questa storia ha anche molto a che fare con Somewhere I Belong dei Linkin Park. E non solo perché la stavo ascoltando mentre la plottavo, ma perché mi ricorda incredibilmente il Bill di questa storia. Il fatto sia innamorato di suo fratello è una componente della sua caratterizzazione, sì, ma non la totalità. Dentro di lui non è tanto importante l'incapacità di accettarsi com'è, ma più che altro, come ammette lui stesso, l'incapacità di comprendere che possano esistere persone che, di accettarlo così com'è, non hanno la benché minima voglia. E questo nonostante l'abbia provato sulla sua pelle. In particolare, quando Mike canta "'cause I can't trust no one by the way everyone is looking at me", io lo sento molto Bill, ecco >_<
Un'altra fondamentale fonte di ispirazione, mentre plottavo, è stata la lettura della splendida Heilig, di Sara. Che, se ve lo state chiedendo, con questa storia non c'entra un accidenti di niente XD Ma mostrava un interessantissimo rapporto fra Tom e un chirurgo. Che neanche quello c'entrava un accidente col rapporto che lega Bill al mio, ma mi è stato d'incentivo per provare a vedere la storia da questo punto di vista, ecco tutto. Quindi, un grazie anche a Sara <3 Per questo, e per aver fornito l'utilissima info (l'anno teorico in cui Bill ha fregato la ragazza a Tom XD Che poi, sinceramente: a uno che dice di aver fatto sesso la prima volta a tredici anni, per quanto sia figo, voi credete, quando dice che il fratello gli ha rubato la ragazza quando ne aveva dieci? Bah.) che è servita per sviluppare decentemente il tema del twincest all'inizio della parte di Bill *-* Vedi, Sara? Sei mia complice nel twincest. *ride*
Un grazie anche a Nai, che ha betato – donnina, sei l'amore <3 – ed a Meg che, mentre, come al solito, andavo in paranoia, leggeva e mi rassicurava. Vi voglio bene.
Ovviamente, l'ultimo grazie va a voi, amate lettrici e fangirl <3 Per aver letto. Per aver letto fino a qui XD Per aver letto fino a qui nonostante tutto!!! X'DDDD E per le recensioni che lascerete. Tanto amore ed a presto <3
Pairing: Bill/Tom.
Rating: NC-17
AVVERTIMENTI: Incest, Slash, OC.
- "Quando Bill Kaulitz entrò nella mia vita, era una bella giornata di fine primavera." La storia di un ragazzo che non sa chi è, non sa cosa vuole e non sa perché stia combattendo, ma di sicuro è certo che non smetterà di battersi fino alla fine. Perché lui ha ragione. Tutti gli altri torto.
Note: Questa storia mi ha decisamente messa a dura prova XD Un po' perché, quando l'ho cominciata, avevo idea dovesse venir fuori molto – ma molto – più breve e meno articolata. Ma questa è stato lo stravolgimento minore, se devo dire la verità.
Questa storia va più o meno contro tutti i miei principi fangirlanti. È gratuitamente depressa. È del tutto disillusa e neanche vagamente romantica. Ed affronta un argomento molto pesante. Io giudizi non ne do. Spero sia ovvio che qualsiasi parola sia uscita dalla bocca dei personaggi non rispecchia necessariamente il mio modo di vedere le cose. Se non fossi in grado di scindermi dai personaggi di cui scrivo (cosa che faccio sempre, tranne durante le scene di sesso, perché in quelle è più divertente così ù.u") scriverei solo robe piene zeppe di Mary-Sue, e fortunatamente quel periodo l'ho abbandonato anni fa. È una storia che mi piace molto, se non altro perché è totalmente diversa da tutto ciò che ho scritto e letto sui Tokio Hotel da quando ho cominciato a fangirlare su di loro. Mi piace molto anche perché mi piace questo Bill. Adoro i personaggi che mi fa paura affrontare, e lui paura me ne fa eccome X3 E poi mi piacciono molto anche i brandelli di Tomi che si vedono, perché è un Tom molto indifeso, impreparato e sconvolto, completamente diverso dal "solito" che si è abituati ad incontrare nelle fanfiction. Ciononostante, sebbene per la maggior parte del tempo in cui la scrivevo l’abbia non solo amata ma anche apprezzata per come veniva fuori, verso la fine ho, come al solito, cominciato a farmi prendere dalle paturnie XD Il che dimostra che io non dovrei mai rileggere quello che scrivo, perché rischio la depressione.
Per la totalità della sua progettazione – ed anche per buona parte della stesura – è rimasta senza titolo. Un po' come i personaggi originali – che adoro, perché sono tutt'altro che perfetti e compiono un errore di valutazione più o meno ogni venti righe *-* - i quali, alla fine, sono rimasti senza nome. Semplicemente non ne avevano uno, e neanche la storia. Alla fine, non dico che ho dovuto trovarglielo per forza, ma be', quasi. Anche perché, se c'era una cosa che non mi andava, era di lasciarla Untitled "XD Comunque sia, alla fine Mister Bellamy è venuto in mio soccorso – come sempre. Anche se in realtà non si trattava esattamente di lui, ma della sua emanazione pseudo-pubescente-refrattaria-allo-sviluppo-nonostante-l’adolescenza-incombente del 1994 (Dio-mio), anno in cui, presentandosi come Rocket Baby Dolls, lui e quelli che poi sarebbero diventati i Muse assieme a lui, vinsero un contest musicale in quel della loro odiosa contea. La canzone si intitolava Jigsaw Memory, ed era un orrido rigurgito punkettino post-adolescenziale del quale oggi – fortunatamente – sopravvivono solo sette secondi – che io ovviamente possiedo u.u
Comunque sia, jigsaw è un termine adorabile, che in inglese sta ad indicare i puzzle e tutti quegli altri giochini che si compongono. Mi è sembrato un titolo molto adatto per quella che, in fondo, è una storia ricostruita coi ricordi di tre persone.
Oltre che coi puzzle, questa storia ha anche molto a che fare con Somewhere I Belong dei Linkin Park. E non solo perché la stavo ascoltando mentre la plottavo, ma perché mi ricorda incredibilmente il Bill di questa storia. Il fatto sia innamorato di suo fratello è una componente della sua caratterizzazione, sì, ma non la totalità. Dentro di lui non è tanto importante l'incapacità di accettarsi com'è, ma più che altro, come ammette lui stesso, l'incapacità di comprendere che possano esistere persone che, di accettarlo così com'è, non hanno la benché minima voglia. E questo nonostante l'abbia provato sulla sua pelle. In particolare, quando Mike canta "'cause I can't trust no one by the way everyone is looking at me", io lo sento molto Bill, ecco >_<
Un'altra fondamentale fonte di ispirazione, mentre plottavo, è stata la lettura della splendida Heilig, di Sara. Che, se ve lo state chiedendo, con questa storia non c'entra un accidenti di niente XD Ma mostrava un interessantissimo rapporto fra Tom e un chirurgo. Che neanche quello c'entrava un accidente col rapporto che lega Bill al mio, ma mi è stato d'incentivo per provare a vedere la storia da questo punto di vista, ecco tutto. Quindi, un grazie anche a Sara <3 Per questo, e per aver fornito l'utilissima info (l'anno teorico in cui Bill ha fregato la ragazza a Tom XD Che poi, sinceramente: a uno che dice di aver fatto sesso la prima volta a tredici anni, per quanto sia figo, voi credete, quando dice che il fratello gli ha rubato la ragazza quando ne aveva dieci? Bah.) che è servita per sviluppare decentemente il tema del twincest all'inizio della parte di Bill *-* Vedi, Sara? Sei mia complice nel twincest. *ride*
Un grazie anche a Nai, che ha betato – donnina, sei l'amore <3 – ed a Meg che, mentre, come al solito, andavo in paranoia, leggeva e mi rassicurava. Vi voglio bene.
Ovviamente, l'ultimo grazie va a voi, amate lettrici e fangirl <3 Per aver letto. Per aver letto fino a qui XD Per aver letto fino a qui nonostante tutto!!! X'DDDD E per le recensioni che lascerete. Tanto amore ed a presto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
JIGSAW MEMORY
Quel ragazzino lo conoscevo. Ne sapevo abbastanza di lui – che era famoso, che era ricco, che era desiderato, che era una star – da sapere anche che non avrebbe dovuto trovarsi dove si trovava, ovvero nel mio studio, su una scomoda poltrona girevole in pelle marrone, davanti alla mia scrivania, a parlare di chirurgia plastica.
Curiosamente, sapevo abbastanza di lui anche per intuire che forse il posto in cui era fosse il migliore in assoluto nel quale avrebbe dovuto e potuto trovarsi.
Questo perché, nell’enorme presunzione che spesso e volentieri accomuna i medici – specialmente i chirurghi, è proprio il caso di ammetterlo – credevo di potere intuire i suoi motivi da ciò che sapevo di lui.
Cioè che il suo modo di presentarsi in pubblico era ambiguo e che gli davano della femmina.
Sapevo che non era lì per dare una forma migliore a un nasino a punta in alto che perfino il meno esperto degli esteti non avrebbe esitato a definire perfetto. Sapevo che non era lì per privarsi di un po’ di grasso corporeo, semplicemente perché risultava chiaro anche alla più distratta delle occhiate su quel corpo ci fosse tutto meno che grasso. Sapevo che non era lì per aumentare la propria altezza, perché una lunga lista di modelli si sarebbe messa in fila per ottenere qualcosa di anche solo vagamente somigliante allo slancio atletico e perfetto delle sue cosce o alla perfetta proporzionalità dei suoi polpacci, il cui unico difetto avrebbe forse potuto riscontrarsi nell’eccessiva magrezza, che però ben si armonizzava con tutto il resto del suo corpo.
L’unica altra cosa – oltre quella a cui pensavo – per la quale avrebbe potuto presentarsi nel mio studio, era l’aumento della massa muscolare. Ma avevo l’impressione che la muscolatura ed il suo tono non fossero il primo dei suoi pensieri, vista la sottile eppure evidente pancetta che caratterizzava il suo ventre, e che, più che grasso, sembrava proprio un generale rilassamento di addominali.
I chirurghi sono anche piuttosto perversi, però.
I chirurghi plastici soprattutto.
Io posso dirlo perché lo sono.
Un chirurgo. Un chirurgo plastico. E perverso, anche.
Perciò, quando lo vidi e quando gli parlai, non pensai al tono muscolare. Non pensai neanche per un secondo che quello fosse il tipo d’intervento che gli interessava.
- Coraggio, dottore. Completiamo il lavoro.
Semplicemente ci sei abituato.
Ma sto divagando.
La giornata era splendida davvero. C’era un bel sole, non troppo caldo e non troppo distante, un bel cielo terso e tutti gli alberi in fiore. L’aria profumava di buono in ogni molecola. Non c’era verso di sfuggire a quell’odore delizioso, ti perseguitava ed era stupendo lo facesse.
In città trafficate come Berlino, cose simili non succedono molto spesso.
O sei tu che, semplicemente, in genere non sei in grado di notarle.
Comunque, Bill Kaulitz varcò quel giorno la porta del mio ufficio, la zip del giubbotto tirata su fino al naso, un enorme paio di occhiali da sole a mascherargli il viso e un incredibile cappuccio di lana sulla testa.
Bill Kaulitz entrò nel mio ufficio. Si rese riconoscibile. Sorrise.
E mi distrusse la vita.
Cosa per la quale non posso che essergli grato.
Lui mi squadrò attentamente.
- No. – disse, sincero, - Non lo sapevo. Che significa?
- Non possiamo operare indiscriminatamente chiunque. – spiegai atono, stringendomi brevemente nelle spalle, - C’è una prassi da seguire. Bisogna prima effettuare un colloquio con una psicologa. Qualcuno che possa garantire che la sua scelta sia lucida e ponderata, e non il risultato di uno scatto irragionevole.
Bill si concesse un sorriso storto, sbuffando sonoramente.
- Credevo si basasse tutto sul concetto di soddisfazione del cliente. – borbottò senza guardarmi, - Se il cliente non è a posto con qualche particolare del suo corpo, lo si cambia.
Avrei voluto sorridere ed annuire, perché per me in effetti era esattamente quello, il punto della questione. I chirurghi plastici giustificano con quella frase il loro lavoro, in effetti. Glisserò sul fatto che i chirurghi plastici siano praticamente l’unica categoria di medici obbligata a giustificarsi per ciò che fa, e dirò direttamente che, in genere, quando dicono cose simili stanno mentendo.
Il mestiere del chirurgo plastico è parecchio remunerativo. È quella la loro motivazione. È quella l’unica cosa che li spinge a concedere gli interventi.
Ciononostante, fra i chirurghi plastici, ce n’è qualcuno che in questo principio crede davvero. Io appartenevo alla categoria, per esempio. In presenza di pazienti palesemente lucidi, trovavo l’obbligatorietà della visita di valutazione psicologica totalmente inutile. Spesso cose come quelle portavano più problemi che altro. Obbligavano i pazienti a prendere atto di verità che fino a quel momento non avevano voluto neanche prendere in considerazione, quando sarebbe stato molto più semplice dar loro ciò che chiedevano e lasciare che vivessero spensierati, nella perfetta ignoranza delle pieghe più meschine della propria psiche.
Sta di fatto che, in quell’occasione, proprio non potevo rinunciare a quella visita. Mi avvicinavo ai cinquant’anni e stavo vivendo un periodo lavorativo particolarmente soddisfacente. Finire in galera per aver permesso ad un ragazzino di sottoporsi ad un intervento come quello, solo per non aver voluto valutare prima se fosse completamente pazzo o meno, non rientrava nei miei programmi a breve né a lungo termine.
- Per interventi di piccola entità, in effetti, generalmente non obblighiamo il paziente a questa routine. – argomentai, - Ma qui non si parla di un lifting né di una rinoplastica, se ne renderà conto. Si tratta di qualcosa di molto più drastico. Devo assicurarmi che non si tratti anche di qualcosa di cui in futuro potrebbe pentirsi, rinsavendo. – ridacchiai, - Per poi farmi causa.
Bill rise con me, giocherellando distrattamente con una sfilacciatura nella pelle del bracciolo della poltrona.
- Mi creda, dottore, non sto sbagliando adesso. – cercò di rassicurarmi, guardandomi dritto negli occhi, - È la natura che ha sbagliato all’inizio. Il vostro mestiere non è riparare questo tipo di errori?
- Esattamente, signor Kaulitz. – insistetti, alzandomi in piedi per concludere il dibattito, - Ma solo dopo esserci assicurati che lo siano davvero. Ora, se vuole accomodarsi nella sala accanto, la segretaria si occuperà di prenderle un appuntamento con la psicologa del nostro centro.
La cosa non mi ha mai stupito: siamo sostanzialmente identici. Entrambi forti ed orgogliosi, ed entrambi completamente votati ai nostri lavori.
Entrambi degli idealisti, a nostro modo.
Chiacchierammo un po’ e ci rendemmo conto di quanto i nostri mestieri fossero simili, pur nella diversità dei campi in cui operavamo. Alla fine, sia io che lei non facevamo che riparare errori funzionali. Nell’aspetto io, nella sostanza lei.
Fortunatamente, lei non è mai stata il tipo di psicologo che, in virtù di questa differenza fondamentale – quella che separa l’aspetto dalla sostanza, appunto – si creda superiore rispetto al lavoro svolto dagli altri.
Girava tutto intorno allo stesso obiettivo, in fondo: curare la gente.
Questo era tutto quello che avevamo in comune. Può sembrare assurdo basare una storia su queste premesse, ma noi lo facemmo lo stesso, e ci sposammo nel giro di due anni. Nel giro di altri due, sprofondammo poi dall’entusiasmo iniziale all’indifferenza reciproca.
Personalmente, sapevo che sarebbe successo. L’unica cosa di cui parlavamo, sia prima che durante la nostra vita matrimoniale, era il lavoro. Non avevamo hobby in comune – non avevamo hobby – né altri argomenti di conversazione da sfruttare. Trovavo già di per sé una vittoria l’aver evitato di cadere nella classica spirale d’odio che porta le coppie al divorzio dopo un logorante periodo di violenza più o meno esplicita. Pensavo addirittura che avrebbe potuto funzionare come quei vecchi matrimoni in cui semplicemente ti abitui alla presenza dell’altro, ne fai una costante fondamentale della tua vita, un punto fermo, una garanzia, e poi finisce pure col mancarti quando non c’è più.
Ero tutto sommato soddisfatto.
Assunsi mia moglie nel mio studio proprio per cementare quest’unione, e lei me ne fu grata. Tra l’altro, non era prevenuta nei confronti della chirurgia plastica: non partiva dal presupposto di dover convincere i pazienti ad evitarla ed accettarsi a tutti i costi così com’erano. Lei stessa, mi confessò, aveva subito un intervento al seno destro, poco più che ventenne, per regolarne la pendenza e livellarla rispetto a quella del seno sinistro. Quell’asimmetria l’aveva imbarazzata e messa a disagio per anni, e da quando aveva risolto il problema era una donna molto più sicura e serena.
Era la collaboratrice perfetta. Generalmente, quando mi diceva che non pensava fosse il caso di operare un certo paziente, mi trovava d’accordo. Non entravamo quasi mai in conflitto.
Io avevo già deciso che avrei operato Bill Kaulitz.
E lo mandai da lei con la certezza che sarebbe stata d’accordo.
- Bill, devo dirtelo. – si lasciò andare ad un mezzo sorriso tirato e inquieto. Io cercai di ignorarlo ed andai avanti, - Non sono d’accordo con la tua scelta. Non credo che un intervento simile risolverebbe i tuoi problemi, anzi, sono piuttosto sicura del contrario. Devo avvertirti che ne parlerò col dottore e darò il mio esplicito dissenso.
Il sorriso di Bill mi fece male. Mi fece male perché era fisso, immobile, come cristallizzato sul suo volto, innaturale e fasullo come i sorrisi delle bambole. Mi fece male perché non era una testimonianza di rassegnazione, no. Non aveva sempre saputo che sarebbe finita in quel modo. Lui ci aveva creduto, in quella soluzione. Aveva messo il suo corpo nelle mani di uno sconosciuto, e la sua mente nelle mani di una sconosciuta, ed aveva creduto veramente che sarebbero riusciti a condurlo dove voleva.
In quel momento, Bill non stava mostrando tutta la rassegnazione disillusa del ragazzo che, in fondo in fondo, aveva sempre saputo che non ce l’avrebbe fatta. Bill stava mostrando tutta la delusione, e la tristezza, e il disappunto del ragazzino che ci aveva sperato tanto intensamente da concedersi di crederci per davvero, una volta tanto.
Non è facile vedere sorrisi simili. Non è facile, perché sorrisi simili uccidono. Non è facile, grazie al cielo.
- Mi dispiace. – aggiunsi, in uno slancio di cortesia che sapevo perfettamente inutile.
- Non è vero. – commentò lui, senza sollevare lo sguardo. Poi sospirò, e nella poca aria che trattenne nei polmoni sembrò condensare tutto il coraggio che gli mancava e che aveva racimolato attingendo alle scorte che avrebbero dovuto bastargli per l’intera vita. – Dottoressa, io ho bisogno di quell’operazione. Ne ho bisogno davvero. Così non posso più andare avanti, devo fare qualcosa.
- Potresti fare qualcosa di molto meno drastico. – suggerii pacatamente, lasciando scorrere lo sguardo sui taccuini zeppi di appunti che avevo preso su di lui. Ripercorsi mentalmente la sua storia e tutti i suoi racconti, nella speranza che questo mi aiutasse a trovare una soluzione da proporgli. Qualcosa che fosse efficace. Qualcosa che lo aiutasse.
In quindici anni di collaborazione, io e mio marito avevamo discusso praticamente qualsiasi cosa: dal colore della moquette in camera da letto ai luoghi dove trascorrere le vacanze estive. Ci eravamo trovati immediatamente d’accordo così raramente che posso contare le volte sulle dita di una mano. Ma il lavoro è sempre stato diverso. Nel lavoro non ci siamo mai contraddetti. Anche perché sia io che lui abbiamo sempre avuto ben chiara la differenza che corre fra una legittima ricerca di un corpo bello ai propri occhi e la totale follia. Ovvero, per fare un esempio, entrambi sapevamo che le costole fossero dodici per lato. Che toglierne un paio potesse anche starci. E che invece toglierne sei o otto fosse già indice di un problema più radicato di quanto siano le stesse ossa nella colonna vertebrale.
Sapevo che lui voleva operare Bill Kaulitz. Sapevo che Bill Kaulitz voleva essere operato. Sapevo che lo volevano perché erano entrambi convinti fosse la cosa migliore da fare.
Io, però, non potevo permettere niente del genere a nessuno dei due.
- Nient’altro andrebbe bene. – ribatté lui, scuotendo il capo, - Nient’altro avrebbe lo stesso… impatto.
- Non sempre hai bisogno di distruggere una vita, per cambiarla. – feci presente, cercando i suoi occhi. Ma non li trovai, Bill non mi guardava. Ed ho il vago sospetto che, tutte le altre volte, anche quando mi guardava, Bill neanche mi vedesse.
- Per cambiare no, dottoressa. – corresse lui, sorridendo a malapena. – Ma per ricostruire, sì. Io non ho nulla da cambiare. Io devo abbattere. Devastare, spazzare via. E poi ricominciare.
- Questo è solo perché ti sei convinto di non avere altre soluzioni! Credi di non avere altre vie di scampo! – mi agitai io, stringendo i pugni sulla scrivania.
E lui finalmente lo sollevò, quel benedetto sguardo.
Quando una persona è veramente bella, te ne accorgi in momenti come questo. Quando è stravolta dal dolore, dalla preoccupazione, dalla tristezza e dalla paura. Ed è comunque bellissima.
- Io non credo niente, dottoressa. – concluse pacato, intrecciando le dita proprio lì, a pochi centimetri dai miei pugni serrati. – È solo in quest’operazione che credo. – sospirò ancora, socchiudendo gli occhi prima di tornare a guardarmi. – Lei non può fermarmi. – mi avvertì atono, - Se non otterrò qui ciò che voglio, lo cercherò altrove. Prima o poi troverò qualcuno che si faccia convincere dalle mie argomentazioni. – sorrise brevemente, sbuffando una risatina che era tutto meno che divertita, - O che non le chieda affatto.
Aveva ragione.
Quello non era uno studio unico, ne avrebbe trovati altri uguali. Altri che avrebbero risposto no. Altri che gli avrebbero consigliato l’analisi. Altri che non gli avrebbero permesso di uccidersi. Non eravamo una mosca bianca.
Eravamo comunque pochi, però. Anche col prossimo tentativo, avrebbe potuto incappare in un medico cui non interessassero motivazioni e ripercussioni legali – perché magari andava solo alla ricerca di soldi, o sapeva che un intervento del genere su un tipo del genere gli avrebbe dato più notorietà di quanto non avrebbero fatto lustri di duro ed onorato lavoro – un medico che, semplicemente, lo accontentasse.
Bill aveva ragione, io non potevo fermarlo.
Il punto era: nelle mani di chi volevo che si ritrovasse, quando avrebbe riaperto gli occhi e, dopo aver capito cos’aveva fatto, avrebbe avuto solo voglia di morire?
Hollywood è un’incredibile dispensatrice di menzogne, in questo senso. Non è colpa sua, non è che in calce ad ogni pellicola ci sia scritto “tutto avviene sempre come lo dipingiamo nei film”, anzi. In genere, il messaggio che si cerca di far passare è molto diverso.
Ma le menti umane, le menti umane… sono così facili all’inganno, così naturalmente predisposte al farsi stupidamente irretire dalle realtà semplici ed intuitive… perciò, se in un film vedono una ragazza affetta da un disturbo di personalità multiple recarsi di propria iniziativa da uno psichiatra perché ha appena ripreso conoscenza nel mezzo di un giardino abbigliata come dovesse andare all’opera e vuole giustamente capire cosa diavolo le sta succedendo, faranno la prima associazione mentale utile e crederanno che sia sempre così. Sapessero quanto raramente psicologi e psichiatri hanno la fortuna di essere in grado di aiutare persone con problemi così gravi e quanto spesso capita che, nelle rarissime volte in cui entrano a contatto con soggetti simili, lo facciano solo per un puro caso fortuito, probabilmente si preoccuperebbero molto di più. Perché significherebbe riuscire ad inquadrare la realtà delle loro città per ciò che realmente è: un enorme agglomerato di persone con turbe di ogni tipo, più o meno gravi, in cui più o meno una ogni dieci potrebbe svegliarsi un giorno e scoprirsi serial killer. E nessuna di loro che abbia pensato a mettere al sicuro i suoi concittadini sani, dedicandosi a un ciclo di analisi. Che egoisti.
Ma sto divagando, ed ecco un altro motivo per il quale mio marito ha sbagliato a chiedermi aiuto per questa cosa: la mia capacità di raccogliere i pensieri in un unico filo sensato con un capo, una coda ed uno svolgimento ben definiti mi è totalmente estranea.
Ma lui sembra tenere moltissimo alla completezza di questa stupida cartella clinica. E in qualche modo ci tengo anche io, quindi farò uno sforzo di concentrazione e mi darò da fare coi ricordi.
Dunque. La prima cosa che sento, in genere, dai pazienti, quando chiedo loro perché credono di trovarsi sulla sedia davanti a me, è “perché mi hanno detto di venire qui”. Che è, francamente, la risposta migliore in assoluto un paziente possa dare ad un dottore, credetemi.
Quando la gente va dallo psicologo di propria iniziativa, è sempre piena di congetture ed idee. Così, quando il medico chiede “allora, signora cara, perché pensa di trovarsi qui?”, la signora cara non è mai avara di motivazioni strampalate. “Credo di avere avuto problemi con mio padre, credo che il suicidio della mia cugina di quinto grado avvenuto a migliaia di chilometri di distanza da me quando avevo quindici anni mi abbia sconvolto, credo di avere un conflitto irrisolto col mio barboncino Lulu” eccetera eccetera. Ovviamente, le stesse cose varrebbero anche per un signore caro… se gli uomini andassero veramente in analisi. In genere, però, non lo fanno affatto.
Comunque, avere un paziente “contaminato” è drammatico. Fornire ipotesi del genere è offensivo e fastidioso, nei confronti di uno psicologo, esattamente quanto lo è andare proponendo diagnosi amatoriali, chessò, ad un cardiochirurgo o ad un oncologo. Il bello è che la gente lo fa pure. Si presenta in uno studio medico dicendo “io credo di avere il cancro, dottore”, dimenticando che “dottore” è lì esattamente perché è il suo mestiere stabilire se chi si rivolge a lui abbia veramente il cancro o meno.
Sarebbe tutto molto più semplice e naturale se i pazienti fossero sinceri, nel rispondere alle domande.
Perché è qui, signore?
Perché sto male.
Punto.
Le motivazioni e le cause le cercheremo insieme.
Comunque, in mancanza di una tale spiccia sincerità, è sempre molto meglio sentirsi rispondere “non ho idea del perché sono qui, mi ci hanno mandato”. C’è sempre qualche barriera da abbattere, prima di creare un buon rapporto medico-paziente, ma è molto più facile abbattere le barriere della diffidenza che quelle della presunzione, credetemi.
Negli occhi di Bill, il giorno in cui venne da me, non c’era alcuna presunzione, ovviamente.
Neanche alcuna diffidenza, però. Sul momento, la cosa mi ha un pochino turbato. Già avere a che fare con un altro essere umano, nella posizione di medico, è tremendamente difficile. Se poi non hai la minima idea di cosa aspettarti da lui, le prospettive diventano disastrose.
Fortunatamente, però, poi ho ricordato quanto mi aveva detto mio marito a colazione, quello stesso giorno. “Oggi dovrebbe venire da te un ragazzo particolare. Si chiama Bill Kaulitz. Credo non sia assolutamente preparato per una valutazione psicologica, ma l’ho convinto che superarla sia l’unico modo per ottenere quello che vuole”. “E cos’è che vuole?”, avevo chiesto distrattamente io, addentando un croissant alla marmellata. “Cambiare sesso” era stata la sua lapidaria risposta. Ed io credo di non averlo nemmeno finito, quel cornetto.
Comunque, il fatto mio marito l’avesse convinto che passare quella visita fosse l’unico modo per ottenere l’operazione, giustificava almeno la luce di determinazione quasi abbagliante che si irradiava dai suoi occhi e si spandeva sul suo sorriso sereno.
- Allora, Bill. – cominciai io, conciliante quanto più potei dopo quanto avevo sentito su di lui nel complesso. Chiaramente, il fatto volesse cambiare sesso non era l’unica informazione possedessi sul suo conto. Diamine, era Bill Kaulitz e quella era la Berlino del duemilanove, avrei dovuto aver vissuto sulla Luna per gli ultimi cinque anni almeno, per non sapere chi fosse. – Perché pensi di essere qui?
- Me l’ha detto il dottore l’altroieri. – rispose lui, sorridendo tranquillo, - Spero che sia una cosa veloce.
Io ridacchiai, intrecciando le dita sulla scrivania.
- Lo sarà, se è tutto a posto. – considerai, stringendomi nelle spalle.
Non avevo pregiudizi. Non credevo che, siccome voleva cambiare sesso, dentro di lui dovesse necessariamente esserci un enorme problema psichico. Molte persone lo fanno, credono che solo perché uno non accetta di essere un maschio e dover andare a letto con le femmine – o viceversa – sia pesantemente disturbato. Sono preconcetti un po’ infantili, in realtà. Nella mente di ognuno di noi, durante la crescita, si forma una sessualità che non è solo fisica, ma soprattutto mentale. È quella che ci dice cosa siamo e cosa vogliamo tra le lenzuola. Non solo il fatto di nascere con un pene o una vagina fra le gambe.
Ciononostante, non mi era mai capitato di dover dare il mio consenso per un intervento di quella entità. Intendo, cambiare sesso è una cosa molto piccola, molto banale, in realtà, almeno teoricamente. In realtà, però, praticamente, è un intervento incredibilmente invasivo, debilitante e, soprattutto, irreversibile. Se non pagando il dazio di un ulteriore intervento incredibilmente invasivo, debilitante ed irreversibile. E così via, ovviamente – e questo solo perché, in realtà, nulla è veramente per sempre, fortunatamente.
Comunque sia, non è un intervento per il quale si possa acconsentire a cuor leggero. I rischi che correvamo – Bill come paziente, io come garante, mio marito come esecutore e lo studio come tetto sotto il quale tutto stava avvenendo – erano grossi. Era inevitabile sentire la responsabilità di una cosa simile. Perciò volevo un lavoro fatto bene.
Sciolsi le dita, aprii un cassetto e ne tirai fuori un taccuino nuovo, sulla copertina del quale scrissi il nome di Bill e la data di quel giorno. Dopodiché lo aprii, spianai bene le pagine coi palmi aperti e tornai a guardare il mio interlocutore.
- Dimmi, Bill. Quando hai cominciato a pensare di voler cambiare sesso?
Il sorriso che increspava le sue labbra si smorzò e si spense, mentre lui fissava gli occhi nei miei e cercava di plasmare le mie parole nella propria mente perché acquisissero un senso che, sparpagliate nell’aria gelida fra i nostri visi, sembravano non possedere.
- Come, scusi?
Ecco cosa intendeva mio marito per “non credo sia preparato per la valutazione psicologica”. Probabilmente quel ragazzo aveva pensato si sarebbe trovato davanti ad un mucchio di stupidi fogli ricoperti di macchie a forma di granchio, e che avrebbe dovuto provare a fare di tutto per non rispondermi “ma sono granchi, è ovvio!”, visto che chissà che significato nascosto avevano in psicologia i granchi.
Di sicuro, comunque, non era pronto per parlare.
- È quello che vuoi, no? – chiesi, sorridendo, - Cambiare sesso. Non voglio sapere quando hai cominciato a sentirti donna o quando ti sei accorto che ti piacevano i ragazzi. Queste cose non c’entrano col tuo intervento. – lui mi lanciò un’occhiata perplessa, e perciò mi sentii in dovere di spiegare. – O meglio, c’entrano, ma in una misura che è solo tua, appartiene alla tua sfera privata. – sorrisi conciliante. – Non sei in analisi, Bill, non voglio costringerti a vuotare il sacco su tutta la tua vita. Voglio solo capire se la decisione che hai preso l’hai presa coscientemente, in seguito ad un’adeguata riflessione, o meno.
Provò a sorridere, mordicchiandosi incerto il labbro inferiore.
- Se anche lei è preoccupata che possa fare causa allo studio, può stare tranquilla. – mugugnò, stringendosi nelle spalle, - Se, dopo l’intervento, non dovessi essere soddisfatto, troverei sicuramente un altro modo per risolvere il problema.
Ridacchiai. Era tipico di mio marito accogliere i clienti con battutine sagaci che poi sarebbero state le uniche cose loro avrebbero ricordato della spiacevole avventura della chirurgia plastica, quando l’intervento sarebbe stato concluso.
- No, non è questo che mi preoccupa, Bill. – lo rassicurai, stappando la penna. – Ogni medico ha come obiettivo primario il benessere dei propri pazienti. È del tuo benessere che mi preoccupo.
- Starò benissimo, una volta che sarò diventato femmina. – ribatté lui, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Forse. – concessi io, annuendo. E poi sorrisi più maliziosamente. – Se lo diventerai.
Lui digrignò i denti. E quello fu il primo successo di quella seduta.
- Sta cercando di ostacolarmi, dottoressa? – chiese frettolosamente, stringendo i pugni.
Io risi, stemperando la tensione.
- No, Bill, calmati. Sto solo cercando di scuoterti un po’. A volte, capita che uno sia talmente ossessionato da una soluzione, che dimentica di guardarsi intorno alla ricerca di altre. Ed ha bisogno di essere un po’ distratto.
Lui sospirò, rilassandosi contro lo schienale della sedia.
- Le ho analizzate tutte, le altre soluzioni, mi creda. Non va bene niente. Va bene solo questo.
- D’accordo. – ammisi io, - Se è davvero così, tu avrai la tua operazione e saremo tutti contenti. Ma per scoprire se è vero, ho bisogno che tu mi racconti esattamente come l’hai presa, questa decisione. È molto importante. Perciò, forza.
Irritato, lui incrociò le braccia sul petto. Non è bello, quando un paziente fa una cosa simile. È un chiaro segno di chiusura al dialogo – spesso anche alla semplice riflessione. Con pazienti così ostili, e tremendamente difficile ragionare.
- Insomma. – borbottò, guardando altrove, - Dottoressa, so esattamente a cosa vado incontro e sono maggiorenne e vaccinato. Vi pagherò profumatamente-
- Pagherai anche per il supporto psicologico.
- Be’, preferirei evitare, a questo punto!
- Bill, non agitarti adesso. – consigliai con una smorfia, - Tra l’altro, non sono neanche completamente sicura tu sappia davvero a cosa vai incontro.
Lui sollevò una mano davanti al viso, il palmo rivolto verso di me, come volesse obbligarmi al silenzio, e portò l’altra a coprirsi gli occhi, massaggiando lentamente le palpebre ed esalando un sospiro stremato.
- Vado incontro ad una vita migliore. – disse a bassa voce, - Qualsiasi sofferenza o disagio debba attraversare per raggiungerla, non sono che passi obbligati. Non ho problemi in questo senso, lo giuro.
- Ed io ti credo. – risposi fermamente. – Ma ho bisogno che me lo dimostri, Bill. Se davvero sei così sicuro, parlamene.
I suoi occhi si risollevarono repentinamente sui miei, e nel secondo successivo lui s’era alzato in piedi in uno scatto felino.
Rimase lì, interdetto, a fissarmi, per molti secondi.
- …non so se voglio. – si lamentò alla fine, stringendo e rilasciando i pugni con aria nervosa.
Mi strinsi nelle spalle, abbassando lo sguardo sulla pagina desolatamente bianca del taccuino.
- Trovala, la voglia, se vuoi quest’operazione. – dissi, con un tono che perfino a me suonò molto più minaccioso di quanto non avrebbe dovuto e voluto essere.
Ma il giorno non era quello, in ogni caso, ed io lo sapevo. Adesso sapeva in cosa sarebbe consistita la sua valutazione. Adesso sapeva cosa avrebbe trovato la prossima volta che fosse venuto. Restava da decidere solo se ripresentarsi o meno.
- Sono pronto. – mi disse serenamente, sedendosi di fronte a me, - Possiamo cominciare quando vuole.
Io sorrisi, recuperando taccuino e penna e preparandoli per gli appunti.
- Buongiorno anche a te, Bill. – dissi ironica, giocando distrattamente con la fede attorno all’anulare.
Lui arrossì istantaneamente.
- Mi scusi… - biascicò, abbassando lo sguardo ed abbozzando un sorriso incerto, - Sono un po’ impaziente, vorrei concludere tutto il prima possibile.
- Ma sì, me ne rendo conto. – concessi annuendo. – Allora direi che possiamo cominciare. – poggiai la punta della biro sul foglio di carta. – La domanda la sai, non c’è bisogno di ripeterla.
Lui si ritirò sulla sedia, poggiandosi contro lo schienale ed accavallando le gambe, perdendosi per un attimo nei propri pensieri. E poi parlò.
- Lei è mai stata innamorata davvero, dottoressa?
Sospirai, scuotendo il capo pesantemente.
- Bill, questo non è l’atteggiamento giusto. Non è di me che dobbiamo parlare, ma di te.
- Ma è importante! – insistette lui, stringendo infantilmente i pugni, - Ho bisogno di sapere se lei potrebbe capirmi, prima di parlare!
- Ho studiato per anni appositamente per capirti, Bill. Avanti, non fare il bambino.
- Come se per capire sentimenti simili si potesse studiare… - borbottò con una smorfia.
Io sospirai ancora. Sarebbe indubbiamente stato ancora più difficile del previsto.
- Tu sei innamorato, Bill? – ritorsi, sorridendo apertamente.
Sembrava non stesse aspettando altro.
- Io sì, dottoressa, da morire. – cominciò. Ed anche io cominciai a scrivere. – C’è una persona fantastica nella mia vita, che amo tantissimo. È il meglio del meglio che potessi trovare, è una persona premurosa, gentile, divertente, cerca sempre di fare qualcosa per farmi felice… è fantastico poterne parlare così apertamente, di solito non ne ho mai la possibilità, è talmente frustrante! – rise, ed il suo entusiasmo era talmente travolgente che risi anch’io. Non si poteva certo restare indifferenti di fronte ad un ragazzo così carino che letteralmente saltava sulla sedia per esprimere tutta la propria gioia. – L’unico problema è che non sa quello che provo. – riprese, con una smorfia delusa, - Non è facile trovare il coraggio per confessarsi. Scommetto che a lei non è mai successo, è una donna così bella… sembra anche così sicura di sé…
- Bill! – ridacchiai, scuotendo il capo, - Non mi adulare, non ti servirà.
- No, ma non intendevo questo! – rise anche lui, coprendosi la bocca con le mani. – Lei sa che ho un fratello, dottoressa? Un fratello gemello. Omozigote. Siamo praticamente due gocce d’acqua!
- Mh-mh… - annuii, tirando una lunga linea orizzontale sotto gli appunti che avevo appena preso in quello che era diventato lo spazio delle “confessioni sull’amore” di Bill, per separarlo da quello che, invece, sarebbe diventato lo spazio delle sue “confessioni sui parenti”, - Sì, conosco tuo fratello Tom. Ma cerchiamo di non saltare di palo in frasca, ok? Che c’entra tuo fratello con quello che hai detto fino ad ora?
Lui sorrise timidamente, stringendosi nelle spalle.
- È lui la persona di cui sono innamorato, dottoressa. – confessò d’un fiato, reggendo il mio sguardo solo per pochi secondi, prima di lasciarlo morire sulla moquette che ricopriva il pavimento, schiacciato sotto il peso dell’imbarazzo.
La mia mano si fermò a metà della seconda astina, quella che avrebbe completato la prima lettera del nome di Tom.
- Oh. – sillabai incerta, girando attorno a noi uno sguardo intimidito. – Oh.
Bill sospirò, ridacchiando a bassa voce.
- Sapevo che sarebbe successa una cosa del genere. – ammise, intrecciando le dita in grembo.
- Ma non è successo niente… - mi sforzai di rassicurarlo, tirando fuori un sorriso che non rifletteva nemmeno alla lontana il mio stato d’animo.
- Non c’è bisogno di mentire, dottoressa… - mi sorrise lui, agitando una mano davanti al viso, - Lo so che non è una cosa normale. Mi rendo conto che per metabolizzare una cosa simile ci vuole tempo… pensi che io ci ho messo qualcosa come cinque anni! – rise, stringendosi nelle spalle.
Risi anch’io. Molto più nervosamente di quanto avrei voluto.
La verità è che non avevo la minima idea di come prendere quell’informazione. Da psicologa, ero stata abituata a non giudicare mai i desideri dei pazienti, ma solo a cercare di capire se fossero o meno dannosi per loro e per gli altri. E, nei miei quasi vent’anni di carriera, di incesti ne avevo sentiti di ogni tipo. Consensuali o no, non erano mai situazioni delle quali chi ne fosse coinvolto potesse parlare con tanta… allegria, ecco. Bill, però, l’aveva fatto.
E, da quanto aveva detto, cominciava a diventare chiaro un particolare interessante.
Ovvero, che il suo desiderio di diventare donna non fosse legato tanto al fatto di sentirsi tale, quanto al desiderio di farsi percepire in quel senso da qualcun altro.
E non riuscivo a capire se questo fosse un bene o un male, per lui.
- È la prima volta che lo dico a qualcuno. – continuò a raccontare lui, a bassa voce, quasi senza accorgersi di me. – Ho immaginato tante volte quali avrebbero potuto essere le reazioni delle persone, sentendo una cosa simile, e per la verità ero spaventato a morte dalla possibilità di doverlo dire. Poter parlare di Tom come di un ragazzo qualunque, del quale semplicemente mi fossi innamorato, mi sembrava un’ipotesi così remota… alla fine, mi sono convinto a dirlo a lei perché so del segreto professionale…
- Bill, io… - deglutii, rigirandomi nervosamente la penna fra le dita, - …quando dovrò discutere il tuo caso col dottore, dovrò necessariamente dirglielo…
- Oh, sì, ma il dottore va bene! – annuì lui, entusiasticamente, come si fa sempre quando si vuole dimostrare agli altri di essere sicuri al cento per cento di qualcosa che invece terrorizza a morte, - Sembra una persona fantastica. È così gentile e disponibile…
Annuii forzatamente, abbassando gli occhi sul taccuino. Era ovvio che Bill la pensasse così, di lui. Il desiderio che aveva mio marito di portare a termine quell’intervento, trasudava attraverso la sua pelle e ti si attaccava addosso. Bill doveva averlo trovato galvanizzante. In quel momento, ripensando alla sensazione che avevo provato quella mattina, quando me n’ero accorta, io lo trovai spaventoso.
Era possibile che sia lui che Bill stessero prendendo una cantonata terribilmente grande.
- Comunque, - riprese Bill, alzandosi lentamente in piedi, - credo di essermi rassegnato al fatto che ci vorrà più tempo del previsto, a convincerla.
- Tu non devi convincermi, Bill. – mormorai, scuotendo il capo, - Tu devi cercare di capirti meglio. Io posso aiutarti in questo.
Lui annuì, sempre sorridendo. Non una parola di ciò che avevo detto l’aveva toccato davvero.
- Certo, come vuole. – rispose, per rendere ancora più chiaro il suo totale disinteresse, - Prendo appuntamento con la segretaria per una terza visita.
Annuii, salutandolo con un breve cenno della mano, per poi affondarla fra i capelli e massaggiarmi la cute, tornando a fissare il taccuino. Lentamente, cancellai la linea orizzontale con un paio di linee frastagliate e terminai di scrivere il nome di Tom. Poi racchiusi sia lui che tutte le cose meravigliose che Bill aveva detto in due cerchi differenti e li unii con una freccia.
Alla fine, non mi rimase che chiudere il taccuino nel cassetto e precipitarmi dalla segretaria perché mi dicesse per quale giorno aveva preso l’appuntamento per Bill.
- È mai possibile che tu non ne sia ancora venuta a capo?
Fu così che esordii durante una normalissima colazione con mia moglie, qualcosa come tre settimane dopo aver mandato Bill da lei per la valutazione psicologica.
- In genere ti bastano una o due sedute per decidere. – rimarcai, sorseggiando il caffé e fissandola con sospetto. Lei evitò il mio sguardo, affondandolo nel suo tè.
- Non è una caso facile. – commentò, stringendosi nelle spalle.
- Come no? – protestai io, spalancando gli occhi, sorpreso, - Guarda che Bill è un ragazzo semplice, molto più di quanto non possa sembrare…
Lei tornò a guardarmi, con una certa rabbia.
- Stai cercando di insegnarmi a fare il mio lavoro? – chiese astiosa. Io feci un passo indietro.
- Ma no, ovviamente. – affermai, poggiando la tazzina sul tavolo, - Solo che conoscendolo-
- Conoscendolo davvero, - mi interruppe lei, - è molto più complicato di quanto non sembri in apparenza. Il che è tutto dire.
La cosa stava cominciando a farsi irritante.
- Adesso non dire sciocchezze. – scoccai seccamente, - L’ho incontrato ieri fuori dall’ufficio. È impaziente. Se hai intenzione di farlo scappare, dimmelo chiaramente, che mi organizzo di conseguenza.
- Non ho intenzione di farlo scappare. – ritorse lei, senza guardarmi, - Anche se probabilmente te lo meriteresti.
- Come, scusa?!
- Non ti stai interessando minimamente alla sua situazione psicologica! – mi rimproverò aspramente, - E la cosa mi sconvolge, perché non ti sei mai comportato così! Perché vuoi fare quest’operazione a tutti i costi? Potrebbe non essere la soluzione giusta per lui!
- Oh, stronzate! – risposi io, alterato, - Basta parlare con lui due secondi per capire che non vuole altro dalla vita!
- E se questa ti sembra una cosa positiva, devi decisamente rivedere i tuoi canoni di positività!
Scattai in piedi, battendo una mano sulla superficie del tavolo e facendo tintinnare le tazze contro i loro piattini. Il rumore lievissimo della ceramica tremolante pose un veto di silenzio su mia moglie, che si irrigidì sulla sedia ed intrecciò le dita sul tavolo, davanti a sé, fissandomi con un’aria a metà fra lo stupito e lo spaventato.
- Non credevo che saresti mai diventata quel tipo di psicologo. – considerai seccamente, - Quel tipo convinto che l’operazione sia solo l’ultima spiaggia, che ci si dovrebbe accettare come si è e tutte le altre cazzate di quel tipo.
- Non penso niente del genere, infatti. – rispose lei freddamente, - L’operazione non è mai “l’ultima spiaggia”. È giusta o sbagliata. E nel caso di Bill potrebbe essere sbagliata.
Tornai a sedermi, massaggiandomi le tempie con due dita e sospirando pesantemente. Lei continuò a parlare.
- Non sai niente, di lui. Dì un po’, lo sai perché vorrebbe farsi operare?
- Dio mio, è Bill Kaulitz! Avanti! Lo vedi, come va in giro! Hai bisogno d’altro?
- Sì che ho bisogno d’altro. Ed infatti, parlando con lui, l’ho trovato. – si prese una pausa, adocchiando il tè nella tazza e meditando un po’ sulla possibilità di sorseggiarlo o lasciarlo lì. Lo lasciò lì. – È innamorato di suo fratello. O almeno così dice. – sospirò, rilasciando l’informazione proprio sul tavolo, in mezzo a noi, come fosse una bazzecola.
Ci sono dei momenti, nella vita di un uomo, che non si dovrebbe affatto essere costretti a vivere. Prima di tutto perché non li vivi davvero, li subisci e basta. Stai lì immobile, ed osservi la valanga dei tuoi errori abbattersi contro il muro delle tue convinzioni, devastandolo. Scardinando mattone dopo mattone tutte le tue certezze.
Per la verità, sul momento non cambiò molto. Mi alzai dal tavolo, decisi che la conversazione era finita e le annunciai che non avrei accettato altre stupidaggini di quel tipo come motivazioni per fermarmi.
La verità è che non avrei mai voluto sentirmi dire una cosa come quella. Perché una cosa come quella significava che, da qualche parte, stavo sbagliando. Ed anche che, da qualche parte, doveva aver sbagliato pure Bill.
Il problema della chirurgia plastica è che la fiducia che dev’esserci fra medico e paziente non è univoca, ma mutuale. Non è solo il paziente che si mette nelle mani del chirurgo, fiducioso che lui lo farà uscire dalla sala operatoria il più vicino possibile a come si desidera. Anche il medico si fida di chi plasma sotto le mani. Confida che non cambierà idea. Confida che sappia ciò che sta facendo. E confida che sappia cosa vuole.
Bill non voleva un corpo da donna, Bill voleva suo fratello.
Ed era convinto che ottenendo una cosa avrebbe avuto anche l’altra, ma non era detto che andasse così.
Eppure, in quel preciso istante, quando mia moglie mi rivelò la verità, a me non interessò. Io non presi quello che mi stava dicendo per ciò che era – ovvero un tentativo di aiutarmi a capire che avrei dovuto frenarmi e ripensare un po’ a tutto, aiutando anche Bill a fare lo stesso così come stava cercando di fare lei. Io lo presi per una ripicca, un modo stupido di contestarmi gratuitamente, facendo leva su pettegolezzi dei quali tutti parlavano ed ai quali nessuno credeva.
Fu per questo che, quando tre o quattro giorni dopo, lei venne da me e depose le armi, dicendo che non era riuscita ad ottenere niente da Bill, perché lui era ancora fermo sulle proprie posizioni ed a quel punto non c’era nulla da fare se non lasciare che avesse la sua dannata operazione, io la presi come una vittoria.
Quando invece era palese che avrei dovuto prenderla come una sonora sconfitta.
Completiamo il lavoro, dottore. Coraggio.
Avevo visto persone diventare l’esatta antitesi di se stesse, in un mese d’analisi praticamente giornaliera. Non era la norma, ma quando accadeva era qualcosa di talmente evidente da surclassare in importanza le decine di casi in cui invece non si cambiava affatto.
Bill, per contro, era un esempio perfetto di immobilità. Aver vuotato il sacco su tutta la sua vita, su tutti i suoi pensieri più intimi e scomodi, non sembrava aver avuto alcun effetto su di lui. Era lo stesso. Forte della stessa determinazione. Ripieno della stessa, combattiva lucidità.
- Stai bene, Bill? – gli chiesi, fissandolo con attenzione oltre la scrivania sulla quale avevo appoggiato i gomiti. E mi resi conto solo in quel momento della nota tenera che aveva assunto la mia voce nel rivolgersi a lui. Il mese di confessioni al quale mia moglie l’aveva sottoposto, piuttosto che aiutarlo a cementare un rapporto con lei, aveva cementato il nostro. E dovevamo aver trascorso insieme in totale qualcosa come non più di tre o quattro ore.
Nella sua testa doveva essere tutto molto semplice. Mia moglie voleva privarlo della felicità, io volevo donargliela.
E quando capii questo, in una serie sconnessa e spaventosa di prese di coscienza, io mi resi conto che avevo davanti un bambino. Un bambino che non aveva la più pallida idea di cosa stesse facendo, di dove l’avrebbe portato la strada che aveva imboccato.
Scrupoli di coscienza.
Per la prima volta, da quando era cominciata tutta quella storia.
Deglutii rumorosamente, picchiettando con nervosismo crescente le dita sul tavolo, mentre Bill sorrideva, si sistemava meglio sulla poltroncina girevole ed esalava un soddisfatto “alla grande!”, accavallando le gambe.
- Dottore, può farmi un favore? – mi chiese, dopo avermi visto sorridere debolmente in risposta al suo attestato di gioia. Io annuii, restando in ascolto senza dire una parola. – Dovrebbe scusarsi con la dottoressa per conto mio. – mugugnò imbarazzato, - Devo essere stato un paziente impossibile.
- Come mai? – chiesi divertito, cercando di rilassarmi contro lo schienale della mia poltrona.
- Sono un tipo piuttosto cocciuto. – ammise lui, stringendosi nelle spalle, - La dottoressa sperava di farmi vedere le cose in un’ottica un po’ diversa rispetto alla mia, ma vede, dottore, io non l’ho mica mai fatto. – confessò seriamente, parlando come non lo stesse facendo specificatamente con me, ma più con un se stesso invisibile che avesse come ruolo quello di starlo a sentire indipendentemente dalla razionalità di ciò che avrebbe detto. – Tipo, quando stavo ancora a Loitsche, non è che il fatto mi truccassi mi sconvolgesse più di tanto, così come non sembrava sconvolgere mio fratello e mia madre, per dire. Però non riuscivo ad entrare nell’ottica di idee che potessero esistere persone per le quali invece la cosa era effettivamente sconvolgente. Quindi mi limitavo a pensare che io avessi ragione e tutti gli altri torto, punto e basta. – feci per interromperlo e rassicurarlo sul fatto che, da quanto mi aveva detto mia moglie, anche io ero portato a pensare che gli stronzi che lo pestavano a scuola solo perché si truccava avessero torto e lui ragione, punto e basta, ma lui mi fermò con un cenno della mano, sorridendo sereno. – Non parlo di quelli che mi mettevano le mani addosso. – precisò tranquillamente, - Parlo di tutte quelle persone che non erano d’accordo col mio modo di fare. Per farle un esempio: Gordon, il mio patrigno, non s’è mai sognato di sfiorarmi nemmeno con un dito, anche quando me lo sarei meritato. E mi vuole bene, sinceramente. Però il fatto che io mi truccassi non gli è mai andato giù. A lui, come a mio padre, per fare un altro esempio. Sanno esattamente cosa c’è dietro, eppure sono nauseati dalla mia faccia truccata. Non me l’hanno neanche mai fatto pesare, se se lo sta chiedendo, ma io so che ne sono infastiditi. – si prese un attimo per respirare profondamente, mordicchiandosi il labbro inferiore. – Io li odio, per questo. – aggiunse poi, impietoso. Il suo tono di voce era talmente freddo che mi sentii congelare la pelle. La sentii raggrinzirsi, tirare e cristallizzarsi. – Nella mia testa, sono stronzi esattamente quanto quegli altri bastardi che mi picchiavano. Ora capisce? Io ho le mie idee, e non le cambio. Per nessuno. Mai.
Ed io capivo. Capivo fin troppo bene che mi ero cacciato in un problema molto, molto più complesso da districare di quanto non consentissero le mie capacità di analisi. Capivo che se mia moglie – che quello stupido lavoro lo faceva da quasi due decadi, e che quindi era molto più abituata a sbrogliare le matasse di quanto non lo fossi io – aveva sollevato le mani, scosso il capo ed ammesso la propria disfatta, io avrei dovuto seguire il suo esempio. Perché adesso non c’era più modo di uscirne senza spezzare il cuore a Bill. O senza distruggere il mio sistema nervoso.
Deglutii ancora, incerto sul da farsi, massaggiandomi la base del collo, dolente per la rigidità cui era stata costretta durante la lunga confessione di Bill.
E poi capii che l’unico modo che avevo per risolvere la situazione era cercare di valutare razionalmente solo i fatti. Mia moglie aveva sbagliato a concentrarsi sul passato, cercando di scioglierne i nodi per aiutare Bill a vedersi più chiaramente. Ed io avevo sbagliato a concentrarmi sul futuro, credendo ciecamente in qualcosa – la felicità perfetta cui Bill agognava – che era solo una possibilità, e neanche delle meno remote.
Il punto era il presente. Perché l’operazione sarebbe stata esattamente quello: una cosa presente. Un adesso. Un subito. E lo sarebbe stata anche la reazione di Bill, così come la risposta di tutte le persone che lo frequentavano, lo amavano e tenevano a lui. Il punto era capire come si sarebbe mosso il presente. Per prevenirne gli scossoni. Ammortizzarne l’impatto. E cercare di proteggerne l’integrità finché non si fosse stabilizzato. Perché solo allora, naturalmente, si sarebbe trasformato nel migliore futuro possibile.
Quindi, feci a Bill l’unica domanda sensata possibile. L’unica che ancora nessuno gli aveva posto ed anche l’unica che avesse un significato. E non minimo. Estremo.
- Bill. Ne hai mai parlato con Tom?
Sperai sinceramente che la risposta di Bill fosse “sì”. Che fosse “sì”, che fosse netta e decisa e che mi rassicurasse sul fatto che sì, erano d’accordo, e che sì, entrambi pensavano fosse la soluzione migliore, e che sì, era già stato deciso che, una volta finito tutto, sarebbero stati felici insieme.
In questo senso, la risposta di Bill fu molto deludente. E altrettanto spaventosa.
Mi guardò come avrebbe potuto guardare un alieno – ovvero con stupore e terrore neanche tanto malcelati – e strinse le labbra in una smorfia ansiosa, rendendole sottili e pallidissime.
- Cosa intende? – chiese incerto, torturandosi le dita.
- Hai detto a mia moglie di volerti operare per poi provare ad avere un futuro con Tom. Ma Tom che dice di tutto questo? Tom che dice dei tuoi sentimenti? E che dice delle tue intenzioni?
Bill si fermò. Per una quantità indefinibile di secondi, sospese tutte le attività. Smise perfino di battere le palpebre.
E poi riprese a respirare con tanta ansia che il suo petto si gonfiò in maniera quasi innaturale; e, buttando fuori l’aria, lui quasi si affogò. E tossì. E chiuse gli occhi, si batté il petto con un pugno e coprì la bocca con un altro.
Quando tornò a guardarmi, i suoi occhi erano lucidi.
- Tom non sa niente. – confessò a bassa voce. – Non gli ho neanche detto di essere innamorato di lui… dottore, come pensa che avrei potuto farlo?! – si ribellò, alzando improvvisamente la voce.
- Non lo so, Bill… - dissi io, scuotendo il capo, - Non mi è mai successa, una cosa simile. Però dobbiamo fidarci l’uno dell’altro, ed io non posso fidarmi di te se scopro che mi menti…
- Io non le ho mentito! – protestò animatamente, sporgendosi verso di me, agitato da una sacrosanta indignazione.
- Mi hai detto di aver considerato tutte le soluzioni possibili. – ricordai io, pensieroso, - Ed ora scopro che non è vero. Le soluzioni possibili includono anche le reazioni di Tom, Bill. Come fai ad agire in sua funzione se non sai nemmeno come reagirà di fronte al fatto compiuto?
- Tom non è il problema, dottore. – sospirò, - Al più, quello che provo per lui è una parte del problema. E poi io conosco mio fratello. – ritorse acido, - Lui non mi abbandonerà.
- D’accordo. Ma vederti rispuntare come una femmina lo porterà automaticamente anche ad innamorarsi di te? Come fai a saperlo?
Lui si tirò indietro, teso come una corda di violino, irrigidendo le mani strette in grembo.
- …non lo so… - articolò incerto, inumidendosi nervosamente le labbra.
Io sospirai, socchiudendo gli occhi e scuotendo il capo.
- Io voglio operarti, Bill. – lo rassicurai, - So che è questo, quello che vuoi, e voglio farti felice, perché il mio lavoro è questo. E perché mi paghi per farlo. Ed anche perché, francamente, credo tu te lo meriti. – sospirò di sollievo, guardandomi con gratitudine, mentre un sorriso lievissimo e tremante gli si apriva sulle labbra. – Sono disposto anche ad ignorare il parere contrario di mia moglie. Ma tu, Bill, devi parlare con tuo fratello.
Tornò a tendersi, allontanandosi impercettibilmente dalla scrivania facendo scivolare le rotelle della poltrona contro il lucido pavimento in marmo nero.
- Non può chiedermelo. – singhiozzò, eppure non c’era un’ombra di lacrime, nei suoi occhi.
- Ti sto proponendo un accordo. – insistetti io, sporgendomi sulla scrivania per diminuire la lontananza che il suo movimento aveva accentuato, - Tu dici tutto a tuo fratello ed io ti opero. Così tu avrai quello che vuoi ed io avrò la sicurezza che, se poi starai male, ci sarà qualcuno a sostenerti.
Era l’accordo migliore che potessi proporre. E Bill lo capì senza che dovessi aggiungere altro.
Risposi che per me non era un problema, la sala operatoria non sarebbe fuggita alle Maldive e neppure io, perciò si poteva spostare il tutto anche di una o due settimane, così lui avrebbe avuto il tempo per fare tutto senza che il solo pensiero sembrasse troppo ridicolo anche solo per provarci. Bill, però, non fu d’accordo. Pretese che l’operazione rimanesse segnata per il venerdì successivo e promise che avrebbe risolto tutto entro il tempo stabilito. Probabilmente aveva semplicemente paura di poter cambiare idea, arrivato a quel punto. Spesso succede. Per dire, io a trent’anni avevo deciso di smettere di fumare, perché i clienti si aspettavano da me fossi sempre perfetto, e dover curare le unghia ogni sera per liberarle dalla nicotina, così come sottopormi mensilmente a dolorosissime quanto costose sedute di pulizia dentale, sembravano prospettive davvero improponibili, se viste sulla lunga distanza. Perciò, m’ero dato un’ultima settimana di sigarette e poi, giunto a domenica notte, avevo passato qualcosa come sei o sette ore di fronte al posacenere ricolmo di mozziconi a valutare e rivalutare di continuo pro e contro della scelta.
Al mattino, mia moglie era entrata in studio, mi aveva visto placidamente addormentato sulla poltrona ed aveva svuotato il posacenere nel cestino, per poi eliminare il sacchetto.
Io m’ero svegliato e, semplicemente, avevo smesso di fumare.
Ma non avrei rimproverato niente a Bill, se tre giorni dopo avesse chiamato per dire che non intendeva più operarsi. È un altro dei principi su cui si fonda la chirurgia estetica: il paziente è sempre in tempo per cambiare idea, sia prima che dopo l’operazione. Meglio se lo fa prima, perché il “dopo” porta sempre conseguenze poco piacevoli, ma se l’ha fatto Pamela Anderson non c’era alcun motivo per il quale la pratica dovesse essere vietata per chiunque altro.
Bill non chiamò, né disdette in altro modo. Quando lo rividi la volta successiva, era già in sala operatoria. Avvolto in un camice bianco a pallini verdi, stava seduto sul lettino e dondolava le gambe a pochi centimetri dal pavimento, sorridendo ed annuendo mentre mia moglie gli parlava, in piedi di fronte a lui.
- Non sono arrabbiata con te, Bill. – gli disse nel momento in cui entrai discretamente, per non disturbarli, - Anche se non sono d’accordo con la tua scelta, mi fa piacere tu abbia deciso di operarti qui, perché per qualsiasi cosa potrai contare sul mio appoggio.
Bill sorrise ancora, e quando si accorse della mia entrata il suo sguardo si illuminò.
- Dottore! – disse felice, saltando in piedi ed avvicinandosi a ma senza premurarsi d’infilare le ciabatte.
- Scivolerai, se non ti metti le scarpe. – commentai, sorridendo a mia volta mentre lui si fermava ridacchiando al mio fianco.
- Non posso credere che questo giorno sia finalmente arrivato! – esultò, quasi saltellando sul posto per la gioia. Io lanciai un’occhiata veloce a mia moglie, e la vidi che fissava il pavimento, le labbra strette e tese e lo sguardo cupo.
Probabilmente, già allora stava pensando di lasciarmi.
- Torna a distenderti, su. L’anestesista ed i miei assistenti stanno arrivando. – lui annuì con entusiasmo, saltellando a ritroso fino al lettino. – Sarà una giornata lunga. – tornai a guardare mia moglie, che nel frattempo aveva risollevato lo sguardo su Bill, che ancora la cercava in attesa di un sorriso di approvazione. Lei glielo concesse senza esitare e senza nemmeno mentire, abbracciandolo con calore, prima di allontanarsi verso l’uscita. – Non resti? – le chiesi, seguendola con gli occhi.
Lei scosse il capo.
- Non sarei d’aiuto. – si giustificò, stringendosi nelle spalle. – Allora ci vediamo dopo! – disse gioviale, tornando a guardare Bill e salutandolo con la mano. Lui la imitò, lei sorrise ed uscì.
Bill era visibilmente nervoso. Continuava a dondolare le gambe, spingendosi in fondo al lettino per evitare che le punte delle dita battessero contro le piastrelle ghiacciate del pavimento nel movimento, e tormentava con le dita – per una volta prive di smalto – l’orlo inferiore del camice che indossava, stropicciandolo.
- Andrà tutto bene. – gli dissi, mettendogli una mano sulla spalla e spingendolo lievemente perché si distendesse. Lui non oppose resistenza. – Hai parlato con tuo fratello, vero?
Bill annuì, sostenendo il mio sguardo con una punta di imbarazzo.
- È stato liberatorio, sa? – mi confessò a bassa voce, - Tomi era un po’ confuso, ma ne verrà fuori. Ne verremo fuori tutti.
Era così determinato, così sereno, così sicuro di sé, che ogni paura residua di sbagliare svanì del tutto dalla mia mente, e sorrisi anch’io.
- Le devo molto. – riprese dopo un po’, tendendomi una mano che strinsi con calore, - Grazie.
Poi arrivò l’anestesista, un paio di infermiere e il mio socio, che mi avrebbe aiutato per tutto il giorno, viste la complessità e la lunghezza dell’operazione. Bill sorrise a tutti, si lasciò preparare e poi poggiò il capo sul lettino.
- Allora, Bill. – disse l’anestesista, sorridendo tranquilla, - Adesso io ti metto questa bella mascherina e tu conti lentamente da dieci a zero, ok?
Bill annuì, mordicchiandosi l’interno della guancia.
Io sistemai i guanti.
E poi sentii delle urla disumane provenire dal fondo del corridoio e mi voltai repentinamente a guardare, mentre Bill scattava seduto e portava le mani alle labbra, come per coprire un singhiozzo di paura e stupore.
- Tomi! – lo sentii chiamare, nel momento stesso in cui un ragazzo – quanto di più simile e quanto di più differente da lui potesse esistere in tutto il mondo – fece irruzione in sala operatoria, trattenuto a stento da mia moglie, che lo tirava per la maglietta enorme che indossava senza riuscire a frenarlo con particolare successo.
- Non devi farlo! – disse il ragazzo, liberandosi con uno strattone di mia moglie e correndo verso il lettino, per poi afferrare Bill per le spalle, - Non può essere davvero questo, quello che vuoi! Tu sei tu, Cristo santo, cosa c’entra diventare donna?!
- Che vuol dire che io sono io?! – strillò Bill, cercando di divincolarsi, - Prova a chiedere ad una persona qualunque chi sono io e non saprà dirti nemmeno se sono femmina o maschio! Vaffanculo, Tom, non mi serve nessuno che mi faccia la morale, e se non ti sta bene-
- Me ne sbatto il cazzo della morale! – riprese il biondo, stringendolo con più forza, - Ti sei sentito tanto figo, ieri, quando mi dicevi che questa scelta l’avevi presa per merito mio? Sai cosa? La prossima volta, quando decidi di fare una cazzata così enorme, invece di andare in giro facendo sentire responsabili gli altri, crocifiggiti al letto! Così ci risparmiamo tutti un sacco di preoccupazioni!
- Come sarebbe a dire tutti? – boccheggiò Bill, impreparato di fronte a tutto quell’astio.
- Tutti! – ripeté suo fratello, lasciandolo finalmente andare e spintonandolo poco graziosamente con una manata sulla spalla, - Noi poveri coglioni: io, i tuoi migliori amici e quell’altro disgraziato di David!
Bill spalancò gli occhi, inarcando le sopracciglia verso il basso.
- L’hai detto a tutti… - esalò sconvolto.
- Certo che l’ho detto a tutti! Come pretendevi riuscissi a fermarti, senza che mi aiutassero loro? Se David non si fosse messo a litigare con metà delle segretarie impiegate in cliniche private di questa cazzo di città, staremmo ancora a chiederci dove fossi, stronzo! E se Gustav e Georg non avessero sfondato la sicurezza, io qui sopra non ci sarei mai arrivato! Ma io dico, vaffanculo, dovevi essere del tutto pazzo per pensare che una cosa simile avrebbe risolto ogni problema!
- Ma io sono pazzo, Tom! – lo interruppe Bill, scattando in piedi e cercando di allontanarlo da sé con uno spintone poco convinto, - Sono malato, - aggiunse, mentre gli occhi gli si riempivano di lacrime, - sono uno psicopatico, sono un essere orribile, non ho dignità e non ragiono più, Tom, semplicemente non ragiono più! – si fermò un attimo, ansante, mentre suo fratello lo guardava con sgomento sempre crescente. – Tutto quello che speravo era di trovare un sistema per fare in modo che tu mi amassi, almeno un po’… - bisbigliò fra i singhiozzi, portando entrambe le mani a coprirsi il volto arrossato e rigato di pianto, - ma non mi amo più neanche io, Tomi… non mi amo più neanche io… non ne posso più di essere così, non ne posso più di essere sbagliato, voglio diventare un’altra persona… mi odio a morte, cazzo…
Tom deglutì, continuando a guardarlo.
Intorno, tutti noi restammo in attesa di una mossa che spezzasse quel silenzio spaventoso, interrotto solo dai singhiozzi e dai lamenti di Bill. Mi sentivo un intruso, era come se ognuna delle persone presenti in quella stanza stesse spiando quanto di più privato Bill nascondesse nel proprio cuore. Ciononostante, non riuscivamo a muoverci. Forse perché temevamo che un qualsiasi movimento avrebbe distrutto la dinamicità perfetta di quell’attimo. Temevamo che, se avessimo fatto qualcosa, Bill sarebbe semplicemente tornato a nascondersi dentro il suo guscio e Tom non avrebbe più capito niente di lui, e se lo sarebbe lasciato sfuggire dalle mani, perdendolo.
Almeno, questo era quanto temevo io.
Ma nessuno mosse un muscolo, e Tom ebbe il tempo di sollevare le braccia, avvicinarsi al fratello e stringerlo con tenerezza, cullandolo.
- Io ti amo. – gli disse all’orecchio, baciandogli una guancia.
Bill si agitò sul suo petto, senza riuscire a liberarsi ed arrendendosi con un piccolo pugno.
- Non come vorrei. – rispose quindi, tirando fuori dallo stomaco le parole con una fatica immane.
- Ti amo più della mia vita. – rafforzò allora Tom, stringendolo con più decisione. – Più di così non potrei amarti. Più di così non potrei amare nessuno. È tutto quello che ho da darti. – affondò il viso nell’incavo del suo collo, sfiorandone la pelle accaldata con le labbra. – Io ti amo perché sei così come sei. Tu sei un maschio, Bill. Tu sei mio fratello. Se io ti amo tanto, mi spieghi perché dovresti odiarti tu?
Bill non rispose, semplicemente perché una risposta non c’era. Scoppiò a piangere con rinnovata forza, aggrappandosi alla maglietta già umida del fratello e nascondendosi completamente contro di lui, quasi sparendo nei suoi vestiti.
Fu allora che tutti i miei collaboratori furono come risvegliati d’improvviso da una lunga trance, ed abbandonarono in fretta la sala, in perfetto silenzio. Io invece rimasi lì. Serrai le labbra e guardai altrove, per non invadere ulteriormente la loro privacy, ma non uscii.
Il primo segno che ebbi del fatto si fossero mossi, me lo diede Bill. Che mi si avvicinò, mi batté una debole pacca sulla spalla e, quando io sollevai lo sguardo su di lui, mi sorrise.
- Sembra che ci siano errori che non possono essere sanati, dottore. – sussurrò salutandomi.
Lei non riuscì a perdonarmi. Non riuscì a venire a patti col fatto fossimo stati in disaccordo su una cosa così importante. Non riuscì a venire a patti con la mia colpevolezza e, soprattutto, non riuscì a venire a patti col fatto lei non avesse potuto fare niente per fermarmi, mentre inconsapevolmente devastavo la vita di due ragazzini.
Mi sono anche ritirato dalla professione. Lavoro saltuariamente come consulente presso uno studio privato di Berlino, ma non opero più e non vivo neanche in città. Penso siano conseguenze normali di situazioni come quella che ho vissuto.
So che neanche mia moglie lavora più a tempo pieno. Anche se non saprei dire se si sia trasferita o meno. In ogni caso, da quando abbiamo divorziato non la sento più.
Quel giorno, quando Bill fu riaccompagnato in macchina dopo avermi salutato, Tom tornò da me. In un primo momento, credevo fosse tornato per farmi una scenata o minacciare un qualche procedimento legale, ma non era lì per quel motivo.
- Ci sono moduli da riempire? – mi chiese incerto, le mani ficcate a fondo nelle tasche e lo sguardo sfuggente.
- Prego…? – chiesi io, cercando di interpretare le sue parole senza riuscirci.
- Sì, per annullare l’operazione. – spiegò lui, stringendosi nelle spalle, - Spero che la cosa non abbia causato dei problemi alla clinica.
- Oh… no. – deglutii io, disorientato, - Affatto. Non c’è nessun modulo da riempire, potete semplicemente… andare.
Tom annuì, prendendosi un secondo per digerire l’informazione.
- Comunque mi dispiace. – buttò lì, più per educazione che per altro, voltandosi per uscire.
Io non so perché lo chiamai e gli chiesi di fermarsi. Forse perché il sorriso rassegnato di Bill era ancora così fresco nella mia memoria da spaventarmi un po’. Però gli chiesi di fermarsi e gli corsi incontro prima che uscisse.
- Ti senti… - cominciai, inumidendomi le labbra, - …lo so che non sono fatti miei, ma ti senti in colpa per la scelta di tuo fratello? Perché, se ti senti in colpa-
- Penso sia inevitabile. – mi interruppe lui, atono. – So che non dipende solo da me, ma dipende anche da me. Sarà piuttosto dura venirne fuori.
- …pensi che potrai mai accettare quello che prova per te?
Tom si prese un secondo. Ma non per riflettere sulla risposta, piuttosto per squadrarmi da capo a piedi, come chiedendosi se, di quella situazione, avessi capito qualcosa o brancolassi ancora nel buio.
- Credo di sì, dottore. – rispose dopo, sereno. – Lui è mio fratello gemello. Io sono nato per accettare tutto, di lui.
L’unico motivo per il quale non posso tranquillamente affermare di aver amato mio fratello da sempre, è che non si ha prova che i feti possano amare, mentre si trovano dentro l’utero materno. Di un feto si può sapere se è contento – perché ride – o se è irrequieto – perché, in un modo tutto suo, piange – ma non si può sapere se ama. Immagino che la scoperta sconvolgerebbe l’intero mondo scientifico, in caso venisse fuori qualcosa del genere.
Comunque, da quando sono venuto al mondo, pochissime persone hanno superato la soglia di un’indifferenza – la mia – che non dico non dipenda anche da una certa predisposizione personale, ma che è stata soprattutto fomentata dal mondo che mi circondava. Perché quando vivi tra Loitsche e Magdeburg – e non sai, sinceramente, stabilire quale delle due sia peggio – devi per forza corazzarti, almeno un pochino, o rischi grosso.
Comunque, di queste pochissime persone – mia madre, Andreas e Tomi, ed infatti era ovvio me li tatuassi addosso – solo lui ha avuto un’importanza vitale. E quando dico “vitale” non sto esagerando, non sto facendo leva sul romanticismo degli innamorati, che tende ad ingigantire cose infinitesimali per convincere qualcuno di non essere in grado di sopravvivere senza l’altra persona. Tomi è sempre stato la mia aria, il mio tranquillante naturale e, cosa ancora più fondamentale, la mia ispirazione. Se mi serviva un motivo per alzarmi dal letto e cominciare a darmi una mossa, anche nei giorni in cui sapevo sarebbe andato tutto storto, era in lui che lo ritrovavo. In quello sguardo sempre acceso e coraggioso, che sembrava ripetermi di continuo che, in ogni caso, lui ci sarebbe stato. Perciò io potevo stare tranquillo, perché non sarei mai stato solo, e non avrei dovuto affrontare niente senza il suo aiuto, neanche le cose più stupide ed insignificanti.
Questo ha fatto di me un ragazzo viziato, lo so. Quando David si arrende ad un qualche mio capriccio, e comincia a sospirare come un nonnetto, lamentandosi che avrebbe voluto essere presente durante la nostra infanzia, così avrebbe ripreso nostra madre, che palesemente non è stata capace di educarci, io sorrido e passo oltre, perché so che sta scherzando ma so anche che ciò che dice non rispecchia la realtà. Non è colpa di mia madre, se sono viziato. È stato Tom a viziarmi.
L’unica colpa di mia madre, probabilmente, è l’avermi reso troppo libero. Non avermi insegnato con nettezza la differenza fra giusto e sbagliato, l’avermi lasciato impararla da solo, sperimentarla sulla mia pelle per poi farmi un’idea.
Non mi ha posto alcun freno, ed io mi sono innamorato di mio fratello. Perché sulla mia pelle l’idea non suonava male. Perché le carezze di Tom, i suoi abbracci, i baci morbidi che mi lasciava sulle tempie quando piangevo a dirotto e sembravo inconsolabile, non sembravano sbagliati. E sinceramente non sembrava sbagliato neanche il passo successivo – desiderare di sentirmi addosso il suo profumo sempre, desiderare le sue labbra, i suoi occhi fissi su di me, colmi di desiderio come quando guardava le ragazze… a volte ero tremendamente geloso, sapevo che Tom non mi avrebbe mai guardato in quel modo, ed io invece volevo avere per me ogni singola sfumatura del suo comportamento, e sapere che ce ne sarebbe sempre stata qualcuna che non mi sarebbe mai appartenuta mi uccideva.
Non fraintendetemi. Non ho vissuto fuori dal mondo durante tutti i miei infiniti e pienissimi vent’anni. So perfettamente che l’incesto è ritenuto dai più sbagliato.
Però mi pare di averlo già detto. Se anche tutto il resto del mondo fosse contrario a quest’amore, rimarrei della mia idea. Io ho ragione. Tutti gli altri torto.
Eravamo davvero molto piccoli. Non c’era niente che facessimo con una ragazza – con una bambina, una bambina come noi – che non potessimo fare anche con nostra madre. Tutta la nostra esperienza di intimità consisteva in un bacio asciuttissimo dato a fior di labbra dietro i cespugli del cortile della scuola, e che era del tutto identico al bacio che davamo a mamma ogni mattina, uscendo di casa. Scommetto che anche per Tom – nonostante lui adorasse farsi gran figo, in quell’ambito – le cose non fossero poi così diverse.
Io ero mortalmente geloso, ovviamente. Karolina era carinissima, molto più carina di me. Realizzarlo non mi stupì. Era un pensiero ridicolo, ma non fuori dall’ordinario: io mi vedevo orribile. Continuai a vedermi così anche negli anni successivi. Il trucco migliorava un po’ le cose, ma non smettevo di vedermi brutto se nello specchio vedevo un me stesso completamente ricoperto d’ombretto e gel per capelli. Mascheravo tutto solo un po’, ma di fondo rimanevo uguale. Non potete nemmeno immaginare quanto mi abbia sconvolto sapere dell’esistenza di fan cui piaccio perfino struccato.
Comunque era così. Karolina era carinissima ed anche molto più interessante di me, e Tom si vedeva con lei ogni pomeriggio.
Sapevo cosa facevano – sapevo che si baciavano sempre sulla bocca – perché un giorno ero andato al parco, seguendoli di nascosto, e li avevo visti.
Quando mi presentai a lei – facendo sfoggio di ammirabile coraggio e faccia tosta, devo ammetterlo – sapevo già come sarebbe finita. Sapevo che l’avrei baciata anche io e sapevo che poi Tomi ce l’avrebbe avuta con me per un sacco di tempo, e che, anche una volta avesse superato l’offesa, quello sarebbe rimasto per sempre una sorta di tabù fra di noi; sapevo che sarebbe stato un argomento intoccabile, perfino quando saremmo diventati grandi e maturi. Rubandogli la ragazza lo pungevo dove si sentiva più sicuro, lo rendevo vulnerabile dove credeva il suo scudo fosse più forte e lo mettevo in ridicolo di fronte agli amichetti fighi di cui ancora, a quell’età, era pieno.
Ovviamente, niente di simile era nelle mie intenzioni.
Volete sapere perché rubai la ragazza a mio fratello? Ve lo dico subito.
Sulle labbra di quella bambina doveva esserci il sapore di Tom. Doveva esserci il sapore di Tom in una sfumatura che non avevo mai sentito – perché era quella delle sue labbra, ed io non avevo mai potuto assaggiarle – e che doveva essere resa ancora più preziosa dal fatto che le labbra da cui l’avrei presa appartenessero a qualcuno che sembrava interessargli più di me.
Era un furto, il mio, sì. Ma era anche una dichiarazione d’amore.
Perciò, io sapevo esattamente cosa dire. Il problema, semmai, era trovare il coraggio per farlo.
Quello era sempre stato un problema, fra noi due. Non che non mi fidassi di lui, non che non mi fidassi di lui da sempre, è ovvio. Gli avrei affidato la mia vita. In realtà l’avevo fatto davvero, in almeno un miliardo di occasioni. Già l’essere riusciti a nascere insieme, quando invece, la maggior parte delle volte, uno dei due gemelli finisce per essere fagocitato dall’altro prima del parto, era a mio parere una grande prova di fiducia. Io non mordo te e tu non mordi me. Se possiamo farlo adesso, possiamo farlo anche per tutto il resto della nostra vita.
Tom è sempre stato un ragazzo incredibilmente coraggioso, sincero e leale. La sua onestà, soprattutto nei miei confronti, è qualcosa di abbagliante. Lui è davvero fermamente convinto non possano esistere cose che dovremmo nasconderci a vicenda.
Era superare questo scoglio, gli scrupoli e le paure che la sua onestà mi metteva addosso, la parte difficile.
Tom avrebbe voluto saperlo, se avesse anche solo sospettato che nella mia testa potesse esserci qualcosa di simile. Il problema era, però, che saperlo lo avrebbe ferito. Ed io non volevo ferirlo.
So che suona alquanto incredibile, ma credo proprio Tom non mi abbia mai fatto del male. Consapevolmente, s’intende. Poi, è chiaro che a quindici, sedici anni, quando lo vedevo saltellare da un letto all’altro prima di tornare a svenire accanto a me in hotel, mi sfondavo i polmoni a furia di piangere e soffocare i singhiozzi nel cuscino. Ma questo non dipendeva da Tom, non era un suo problema. Lui non faceva che comportarsi come un ragazzo normale, ero io quello sbagliato.
Avrei tranquillamente potuto mentire, al dottore. Non dire niente a Tom, fingere di averlo fatto e presentarmi comunque per l’operazione. Scommetto che le cose sarebbero andate diversamente. Tanto per cominciare, io avrei davvero cambiato sesso, se avessi deciso in quel modo.
Non l’ho fatto, perché mi sono reso esattamente conto di cosa stesse cercando di dirmi il dottore, mentre mi consigliava di parlarne prima con mio fratello e diceva di voler essere sicuro che avrei avuto qualcuno a sostenermi, dopo che avessi superato l’operazione.
Qualsiasi cosa io abbia fatto, nella mia vita, l’ho fatta col supporto di Tomi. Non ho davvero mai affrontato niente da solo. Il divorzio dei nostri genitori, i trucchi, le tinture e tutte le conseguenze, le delusioni sul piano affettivo e quelle sul piano professionale… perfino la solitudine, ecco, perfino quando mi sentivo mortalmente solo e neanche la sua presenza riusciva a lenire quella sensazione orribile, il fatto lui ci fosse rendeva comunque tutto più facile. Continuavo a sentirmi solo, ma avevo qualcuno che mi tenesse la mano. Non nel modo in cui avrei preferito, ma era comunque un modo. Potevo continuare a fissare e fissare le nostre dita intrecciate fino a convincermi fosse davvero l’unica cosa di cui avessi bisogno. Potevo continuare a fissarlo dormire al mio fianco, e credere fermamente di non desiderare né un bacio né una carezza né il suo respiro sul collo, perché il calore della sua pelle a qualche centimetro dalla mia mi sarebbe comunque bastato.
Non era veramente pensabile io potessi affrontare tutto questo senza di lui. Non potevo e neanche volevo.
Entrai in camera sua senza bussare, come sempre, e lo trovai immerso in un’agguerrita sfida contro il cervello elettronico di qualcosa che somigliava ad un gioco di guerra ma comprendeva anche degli alieni, e sorrisi, vagamente intenerito, mentre lui mi faceva un cenno col capo, mandandomi a sedere sul letto.
Chiuse la partita in pochi secondi e si voltò a guardarmi, chiedendomi se fosse tutto a posto.
Ed io presi tutte le parole che non gli avevo mai detto e le riversai lì, sul pavimento, proprio davanti a lui. Erano quasi fisiche, accidenti. Fisiche almeno quanto lo sgomento che riempì i suoi occhi e sembrò irradiarsi fino a me, lasciandomi impaurito ed incerto a tremare su un materasso che non avevo mai trovato così scomodo.
Lui non disse niente.
Ed io potei capirlo, perché se fosse stato lui a venire da me per dirmi “sono innamorato di te e sto per sottopormi ad un intervento per diventare donna”, nemmeno io avrei avuto qualcosa da dire. E sì che io non ho mai problemi, con le parole.
Deglutii nervosamente, restando ad aspettare ancora un po’ che da lui provenisse un segnale di qualsiasi tipo, ma non arrivò niente. Mio fratello era una statua di sale, ed anche lui sembrava in attesa di qualcosa. Che ritrattassi tutto, probabilmente.
Mi mordicchiai l’interno di una guancia e mi sollevai in piedi, facendo leva con le mani sul materasso.
- Mi dispiace. – dissi senza guardarlo, - Dovevi saperlo.
Feci per uscire dalla stanza, ma Tom mi afferrò per il polso, bloccandomi.
Mi voltai a guardarlo.
- Cosa devo fare? – mi chiese. Non lo fece con insofferenza né con supponenza, la sua era una domanda sincera.
Ma mi spaventò. Perché lui aveva sempre saputo esattamente cosa fare con me. Ed io, in quel momento, ero la persona meno adatta a suggerire.
Scossi il capo.
- Ne hai parlato con David? – riprese lui, inumidendosi le labbra.
- Pensi che me lo lascerebbe fare? – ritorsi con una smorfia.
- No… - rispose lui, guardando altrove senza lasciarmi, - …ma ci va di mezzo anche lui… e Georg, e Gustav… i Tokio Hotel…
- Tanto nessuno capisce che sono un maschio comunque.
- Bill, ti prego…
Scossi il capo.
- Ne ho bisogno. È quello che voglio.
Lui si prese un attimo per riflettere, aggrottando le sopracciglia.
- È colpa mia? – chiese alla fine, stringendo la presa sul mio polso.
- È per merito tuo. – risposi io, separandomi da lui con uno strattone.
Non vorrei si pensasse che la mia operazione sia saltata per vigliaccheria, o perché l’unico scopo della messinscena era fare in modo che Tom venisse a salvarmi sul suo cavallo bianco.
Se ho rinunciato a cambiare sesso è stato per un altro motivo, un motivo ben più profondo, che l’irruzione di Tom mi ha solo aiutato a comprendere meglio.
Probabilmente, ormai ci sarete arrivati anche voi.
Ma io ho davvero bisogno di dirlo. Davvero davvero.
Ma prima serve una piccola premessa, e dal momento che ho incasinato la vita ad un sacco di persone, mi sembra giusto dire la mia. È giusto perché ho bisogno di scusarmi – perché la maggior parte delle persone coinvolte semplicemente tenevano a me, e non meritavano di passare ciò che hanno passato per i capricci di uno stupido adolescente del tutto fuori di testa – ed è giusto anche perché ho il diritto di replicare. Ho il diritto di fare valere le mie opinioni. Anche se erano stupide e dettate da sentimenti orribili, più che da ragionamenti sensati, erano cose mie. Ed avevano una dignità.
Non so se vi è mai capitato di restare fuori casa troppo a lungo, di notte. O di aprire una finestra per far cambiare l’aria al salotto e poi addormentarvi davanti al televisore senza richiuderla e senza coprirvi.
Quando succedono cose simili, il gelo che si attacca al corpo – alla pelle, alla carne, alle ossa – è qualcosa di ultraterreno. Non è una componente ambientale, non è normale freddo. Non è normale, perché anche quando metti le tue calzette di lana e il pigiama più pesante che hai, anche quando ti cali un cappello sulla testa fino a coprire le orecchie, ed anche quando metti i guantini, abbracci una borsa dell’acqua calda e ti avvolgi in quattro o cinque strati di coperte isolanti, quel freddo assurdo non se ne va. E se ti passi addosso una mano, lo senti. Lo senti se ti passi una mano sulle gambe, o sulla pancia, o sul viso. Lo senti anche se hai lo stesso identico freddo attaccato ai palmi.
È un gelo spaventoso. Per quante ore possano passare, finché il tuo corpo rimane immobile, congelato nella notte, fermo al momento in cui quel freddo ne ha preso possesso, non passerà. Rimarrà lì, persistente come una maledizione, a farti compagnia assieme al rumore dei tuoi denti che battono e al terrore di non potertene più liberare.
Scivola via solo con la mattina, quando riprendi a muoverti con più energia. Quando riprendi a comportarti come è giusto che ti comporti.
Quel freddo è la giusta punizione per i tuoi atti sconsiderati. Non è freddo e basta, è la tua condanna. Ti sei esposto alla notte troppo a lungo, e ne paghi le conseguenze. È questa l’unica spiegazione sia riuscito a trovare per quel freddo, riflettendoci a lungo, perché è vero che poi passa solo al mattino, e che le sensazioni che provi quando te lo senti addosso sono quelle di una punizione. Lo sono, perché non fai altro che ripeterti che la prossima volta tornerai a casa prima. O che la chiuderai, quella dannata finestra. Questo è imparare dalle punizioni. Quindi quel freddo lo è, è una punizione.
Le prime volte ti sta anche bene. Ti dici che te lo sei meritato, che dovresti imparare e ricordare e fare tesoro di quella sensazione orribile per evitare di ritrovartela attaccata addosso in futuro. Perciò accetti la punizione… no, non con gioia, ma con una giusta e serena dose di rassegnazione.
Però magari mesi e mesi dopo dimentichi di nuovo, anche solo per una volta, e ricomincia da capo. E d’improvviso, quando stai nel tuo letto e cerchi di trovare la traccia calda che sai il tuo corpo dovrebbe lasciare sul materasso – e che non c’è, per quanto la cerchi semplicemente non c’è – realizzi che in realtà non è affatto giusto quello che stai provando. Che non è affatto giusto ghiacciare in quel modo assurdo per una stupida dimenticanza. Per un errore minimo, che sta compromettendo un’intera nottata di meritato riposo. Perciò ti rompi i coglioni e accendi una fottuta stufa. Lei, minuto dopo minuto, la situazione la risolve. È stata inventata apposta.
Ora, voi immaginate di avere quella sensazione di freddo appiccicoso e pungente addosso da quando siete nati. Di non aver passato neanche un giorno della vostra stramaledettissima vita senza esservi sentiti inadeguati, imperfetti e completamente sbagliati.
Immaginate di amare vostro fratello. Il vostro cazzo di fratello stupendo. La persona più importante che avete, l’unica persona senza la quale sapete che il vostro cuore smetterebbe inesorabilmente di battere, perché sareste voi a fermarlo, causa insopportabile eccesso di tristezza.
Immaginate di essere un dannatissimo maschio e di truccarvi come una dannatissima femmina. Immaginate di farlo da quando siete poco più di un bambino, immaginate di aver sentito più insulti nella vostra vita per questo, per il semplice fatto di usare un ombretto, che non per le innumerevoli volte in cui siete stati effettivamente stronzi col vostro prossimo, al punto da meritare un ragionevole invito ad andare affanculo.
All’inizio sopportate e sopportate. Vi dite “se mi rompono il culo a scuola è perché magari è vero quello che dicono, magari è vero che sono un frocetto e non merito di vivere”. Vi dite “magari se soffro tanto perché vorrei un bacio da mio fratello è perché sono un pervertito, e non poter avere ciò che voglio è la giusta punizione per questi sentimenti sbagliati”.
È ragionevole. È sensato. Ci credete, è giusto, fate i martiri e soffrite in silenzio.
Io l’ho fatto. Dio santo, l’ho fatto per anni.
E poi mi sono rotto i coglioni. Perché avrei potuto essere donna e nascere nella casa accanto rispetto a quella di Tom e la mia vita sarebbe stata perfetta. Erano pochi metri di differenza e qualche stupido centimetro di pelle in meno. Sarebbe bastato che il fottuto spermatozoo di mio padre capisse che non c’era spazio per due bambini nell’utero di mia madre. Nel frattempo, la coppietta dei vicini avrebbe trovato un modo simpatico per passare la serata, e sarei venuto fuori io. Non sarei stato esattamente io, ma forse avrei conosciuto Tom lo stesso. Probabilmente gli sarei piaciuto, i gusti di mio fratello in fatto di donne sono… variegati, ecco. Io avrei saputo tenermelo. Avrei fatto di tutto per tenermelo.
Cristo, ho vent’anni. Avremmo già potuto essere sposati, in teoria.
E così ho pensato, “Sapete cosa? No che non è giusto stare così”. No, cazzo, no che non è giusto stare così male solo perché la mia atavica sfiga ha deciso di ficcarmi in un utero troppo piccolo per due persone eppure perfetto e accogliente in maniera quasi disperata.
Non potevo rimediare a tutti gli errori della Natura. Il mio sangue sarebbe rimasto il mio, così come il mio dannatissimo cognome. Ma potevo cambiare. Quel tanto che bastava per ammazzare Bill Kaulitz e rinascere come un’altra persona. Una persona più giusta. Una persona che avesse più possibilità. Una persona che avrebbe potuto essere felice.
Ci ho davvero creduto. E sì, lo so che sono stato uno stupido.
Ma non perché avrei dovuto trovare un modo per rimanere me stesso ed essere felice comunque.
No.
Solo perché avrei dovuto capire prima che la felicità è l’unica vera utopia dell’essere umano. E rinunciare.