In coppia con Nainai
Genere: Generale.
Pairing: BrianxMatthew
Personaggi: Placebo, Muse, Gerard Way, Chester Bennington e un po' di PG originali °_°
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Una storia dolce. Una storia a frammenti. Passato e presente. Fotografie che raccontano i momenti di un tour e di una storia d'amore.
Quella di Brian e Matthew. Del loro inizio. Del loro desiderio di stare insieme.
E della distanza.
Note: Io non è che abbia moltissimo, da dire XD Questa storia mi ha tenuto tanta compagnia, sia mentre la scrivevo che poi mentre andavamo pubblicandola. Sono stata molto contenta che l’abbiate apprezzata, perché secondo me è una storia molto bella. Posso dirlo senza vergogna perché non è stata tutto merito mio XD Spero che anche questo finale vi sia piaciuto come il resto. E spero tanto anche di potervi fornire presto il seguito, ma vedremo bene con Nai XD
Baci e grazie di tutto :*
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Come sempre l’Easily Forgotten Love ringrazia ^^

Un grazie speciale a Isult, Memuzz, Stregatta ed Erisachan per aver trovato il tempo di lasciarci una recensione. Grazie donnine ç*ç

They Have Trapped Me In A Bottle


Four

Mi sveglio. Fuori il sole è alto. Il bus è fermo da qualche parte e sento il rumore che fanno le persone che camminano di sotto. Mi tiro su sui gomiti e mi accorgo che Steve non è più nel letto e Stefan si è già alzato. Rotolo su me stesso per mettermi a pancia all’aria e girare intorno un’occhiata distratta, mentre cerco di riprendere appieno coscienza.
Sbadiglio. Sono le dieci del mattino, ho dormito cinque ore ed ho un mal di testa feroce.
-Caffè.- mi dice a voce alta la mia pancia. Ed il mio cervello concorda a sufficienza da obbligare i muscoli a muoversi ed uscire da lì.
Evito per un pelo di tirarmi dritto sul portatile e metto i piedi a terra proprio lì vicino, camminando scalzo per raggiungere la macchinetta sul piano della cucina.
Ci sono Alex e Stefan seduti al tavolo sotto i finestrini, fanno colazione e parlottano tra loro. Biascico un “buongiorno” che non capirei io per primo, ma loro sorridono e mi salutano: Alex mi risponde, Stef si limita a tirare su la mano. Mi indicano il caffè già nel bricco ed io scavo tra le tazze per individuare la mia e portarmela al tavolo. Spingo Stefan perché mi faccia spazio e lui mi ubbidisce docile, osservandomi in silenzio mentre mi lascio cadere accanto a lui e prendo a bere imbronciato. Sollevo una mano e la incastro tra i capelli per reggermi la testa quando mi abbatto sul tavolo.
-Non mi sento benissimo.- annuncio.
Stefan sospira, Alex ridacchia.
-Continua a fare le cinque ogni mattina e vedrai quanto ti sentirai bene.- mi dice lei, condiscendente.
Non ribatto, allungo appena il collo per spiare quello che succede fuori dal tour bus.
-Dove siamo?
-Alla nuova location.- risponde Stefan.
Sbuffo e mi accartoccio di nuovo su me stesso.
-Ho fame.- notifico ancora, voltandomi poi a guardarmi attorno, come se qualcosa di commestibile dovesse saltare fuori in una specie di evocazione.
E succede davvero.
Steve sale attraverso il portello del pullman, ha tra le mani una scatola di cartone rosa, con su stampigliato qualcosa in un colore acceso e con caratteri infantili, da giocattoli per bambini. Sorride soddisfatto e quando ci vede, seduti al tavolo, ci saluta a gran voce e ci viene incontro, posando la scatola tra noi sul ripiano.
-Cos’è?- chiedo curioso, sporgendomi ad aprirla.
-Un regalino per te.- mi spiega.
Litigo con l’adesivo che chiude la scatola e da dentro mi arriva un profumo delizioso che mi ricorda qualcosa.
-Cibo?!- esclamo speranzoso, infilando il naso dentro appena riesco a farmi spazio.- Donuts!- riconosco immediatamente, allungando subito una mano a prenderne una. Lo zucchero a velo mi riempie le dita, io non ci bado e tiro fuori il dolce fissandolo come se fosse incredibilmente bello.- Cavoli, erano secoli che non ne mangiavo una!- piagnucolo commosso prima di addentare la ciambella e concedermi un’espressione estatica. Socchiudo gli occhi, assaporando il burro sciogliersi sulla lingua e contro il palato. Sono appena fatte!- Steve, ti amo.- annuncio.
Lui ride divertito. Sento Alex borbottare, mentre tira via la scatola da sotto il mio naso.
-Non dovresti mangiare questa roba.- brontola ed io apro gli occhi e la guardo, continuando ad ingozzarmi incurante.- Sai quante calorie ha una di queste cose?- mi chiede.
M’imbroncio di nuovo.
-Faccio il cantante, non la modella!- protesto.
-Oh, tesoro! Per te, purtroppo, le due cose si equivalgono.- mi ricorda impietosa, porgendo le mie ciambelle a Stefan.
-Ti ringrazio, ma non ne vado pazzo.- declina lui.
Steve si siede accanto ad Alex e ne prende una.
-Andiamo, Stef, le ho comprate apposta per fare colazione tutti assieme.- lo invita.
-Pazienza! La sua la mangio io!- mi offro immediatamente, tentando di afferrare la scatola quando ripassa sotto il mio naso.
-No, Brian!- sbotta Alex, tirandomela via un’altra volta.- Tu no! E vai anche a farti la barba che sei… inaccettabile!
A questo punto so che dovrei offendermi. O protestare. O fare qualunque altra cosa che faccia intendere alla mia manager che il suo sottinteso – e nemmeno tanto – “sembri un uomo!”, mi ha quanto meno dato fastidio, visto che iosono un uomo. Anche se il resto del mondo stenta a crederlo e, quando lo rendo evidente, preferisce ignorarlo.
E vorrei anche ricordarle che, sebbene la mia casa discografica sia convinta che il modo migliore per vendere i nostri dischi sia quello di farmi sembrare sessualmente appetibile ad orde di ragazzini - e non - io sono un cantante e, come tale, non necessariamente soggetto alla “legge della taglia 38” che affligge il mondo della moda.
Ma siccome lei ha già chiarito, almeno su questo punto, che non ho un gran diritto di parola, sospiro e sto zitto, ma infilo comunque la mano nella scatola delle donuts e ne prendo una seconda, sfidandola con un’occhiata a contraddirmi quando apre la bocca per notificarmi il proprio dissenso. Ed Alex sta con noi da abbastanza tempo da sapere esattamente come gestirmi.
Quindi ci ripensa, chiude la bocca, si rimette comoda contro lo schienale del sedile e mi lascia mangiare in pace.
-Bene, oggi che abbiamo da fare?- chiede Steve oziosamente, ingurgitando anche l’ultimo pezzo di ciambella e reclamando caffè come tutti noi.
Glielo verso nella tazza che mi porge, Stefan abbassa la propria e risponde per Alex.
-Interviste.
Gli si legge in faccia quanto poco questo lo esalti. Io penso che avrei ragioni molto più valide di loro per scocciarmi all’idea di interminabili sequele di domande cretine e tutte uguali, che verteranno inevitabilmente sulla mia vita sentimentale, sulla mia sessualità, sulle mie antipatie ed, in misura residuale ed allo stesso modo, su vestiario, trucco, capelli e musica.
A volte mi chiedo se sia davvero un delitto avercela con la categoria dei – presunti – giornalisti…
Mi sto interrogando al riguardo - mettendoci anche una certa attenzione - quando qualcun altro fa la propria apparizione su per il portellone del tour bus. Approfitto del diversivo per riemergere dai miei pensieri e sollevare il mento, appoggiato distrattamente alla mano, ed il collo a spiare di chi si tratti.
La mia espressione curiosa muta istintivamente in fastidio palese quando riconosco Gerard Way, cantante – a sentir lui – di “non voglio nemmeno ricordare che razza di gruppo”, fare capolino sopra gli scalini, allargare la bocca in un sorriso immenso nel riconoscere Stefan accanto a me e lanciare una specie di richiamo gorgheggiante, assolutamente inappropriato al personaggio e decisamente irritante per le mie orecchie.
-Stef, hai da fare?- s’informa.
Registro che lo ha chiamato “Stef” e non “Signor Olsdal” come esigo e pretendo.
Registro che, ancora peggio, Stef sta prendendo in considerazione l’idea di rispondergli e che, se lo conosco…e decisamente io lo conosco! sta per scuotere la testa e dirgli che “no, non ha nulla d’importante da fare. Perché? Ha bisogno di qualcosa?”.
E registro che se questo dovesse avvenire io strangolerei Gerard Way con le mie mani, perché stamattina voglio che Stefan e Steve mi stiano attaccati addosso e non li dividerò di sicuro con quella specie di…moccioso darkettone che, dall’inizio del tour, continua a girare intorno al mio bassista.
Senza permesso.
Mi volto a fissare Stefan.
Lui abbassa lo sguardo ad incrociare il mio. Ha la bocca già aperta per rispondere, le spalle tese ed è concentrato su quello che sta per dire.
Ci ripensa appena mi vede.
-Scusami, Gerard,- cambia repentinamente risposta- abbiamo un paio di interviste e dobbiamo concordare tra noi cosa dire.
Lui è dispiaciuto, e non ha nemmeno il pudore di tenerselo per sé.
-Non importa.- mente goffamente.- Allora magari ci si becca dopo.
Lo osservo sparire oltre il portellone e mi rilasso, soddisfatto.
-Sbarazzatene.- ordino a Stef.
Lui non mi risponde subito. Analizza la mia presenza e le mie parole.
-No. Ne abbiamo già parlato.- mi ricorda pazientemente- Mi fa simpatia.
Sospiro. So che la vincerà lui, Stefan sa esattamente quando è il caso di assecondarmi e quando, invece, è necessario farmi sbattere i denti contro il muro. Stavolta mi tocca la capocciata.
-E’ ingombrante!- provo lo stesso.
E Chester Bennington ha ovviamente la strepitosa trovata di venire a togliermi quel poco di credibilità e di autorità che mi restano, imitando il nostro esimio collega appena dileguatosi e comparendo a sua volta sulla soglia del bus. Solo che lui cerca me, ed è invadente – con tutta la sua stima ed il suo affetto – quasi quanto l’Esimio Collega di cui sopra. Per cui devo ammettere che ho ben poche speranze di riuscire a convincere Stefan che non è il caso di creare intrusioni all’interno del gruppo, quando c’è un ragazzetto piuttosto ambiguo che mi saluta dalla porta e mi chiede se voglio andare con lui a fare un giro in città.
Ricambio l’occhiata che Stefan mi lancia, lo osservo inarcare un sopracciglio, riconosco che sono un coglione e poi rifilo al povero Chester la stessa balla che Stef ha rifilato a Gerard. Lui per lo meno ha più classe nell’uscire di scena con un “sarà per un altro momento, allora” ed un sorriso elegante.
-Brian…- esordisce Stefan appena restiamo noi quattro.
Steve ed Alex scoppiano a ridere, io mi metto buono ed aspetto la tirata d’orecchie.

***

Ricordo il film. Era Missione Tata. Lo ricordo perché Matt si presentò a casa mia tutto trafelato, come non avesse fatto altro che correre per tutta la giornata, agitando ossessivamente il dvd di Blockbuster e strillando “Brian, ma tu lo sapevi che Vin Diesel era anche un attore vero?!”. Io evitai di fargli notare che un film con quel titolo non poteva essere considerato un film vero, e che perciò nessuno degli attori che vi avevano preso parte potevano essere considerati degli attori veri – un po’ come il sottoscritto non può essere considerato un musicista vero… soprattutto di fronte a Matt – e crollai sul divano, scrollando le spalle e dicendo che ne avevo sentito parlare e sembrava non fosse poi così malaccio.
- No, ma tu hai visto XXX? – continuò lui, sempre più sconvolto, mettendo mano al lettore sotto la tv ed organizzandosi per far partire il film, - Cioè, quello è un film, ma Vin Diesel si limita a fare lo stunt-man, che poi è il suo lavoro, ed è accettabile! – si interruppe un attimo, annuendo con partecipazione nell’osservare il dvd che veniva inghiottito dal lettore, - Ma qui fa la tata! – riprese, scattando in piedi e raggiungendo il divano con pochi passi frenetici, per piombare al mio fianco, - Non lo trovi sconvolgente?
Avrei volentieri risposto che trovavo decisamente più sconvolgente che lui arrivasse a casa mia ad orari improbabili come quello – era quasi mezzanotte – soprattutto quando c’eravamo sentiti pochi minuti prima, concordando che era tardi ed avevamo entrambi bisogno di un sonno ristoratore, e perciò ci saremmo aggiornati all’indomani mattina e buonanotte.
Ovviamente tacqui.
Le immagini cominciarono a scorrere sullo schermo, ed io stavo veramente morendo di sonno.
Mi spinsi indietro, scivolando sul rivestimento del divano fino a raggiungere lo schienale e rovesciarmici sopra, esausto. Matt mi imitò, appoggiandosi un po’ sbilenco contro la mia spalla, fissando la tv con aria molto seria.
Qualcosa che sembrava un mini-plotone dell’esercito stava decidendo il da farsi. Vin Diesel dava gli ordini. C’erano gli scogli, un sole ghiacciato e lontanissimo ed il rumore delle onde del mare. La voce dell’attore andava affievolendosi sempre di più, secondo dopo secondo, e il respiro sereno di Matt accanto a me, oltre al debole calore che irradiava la sua guancia sulla mia spalla, attraverso il tessuto leggero della maglia che indossavo, mi rimandava un’idea di pace e tranquillità che… sì, rendeva il tutto decisamente soporifero.
Feci per chiudere gli occhi, ma Matt si riscosse lievemente, per cambiare appena posizione, ed io sentii un brivido di freddo affatto piacevole, che mi convinse a sollevarmi a mia volta e muovere qualche passo incerto – sentivo le gambe deboli – verso la camera da letto, alla ricerca di una coperta nella quale arrotolarmi.
Matt fece scattare un braccio e mi fermò, intrecciando le sue dita con le mie.
Come diavolo abbia fatto a prendere la mano al primo tentativo, contando il fatto che la stavo anche muovendo, resta un mistero.
- Dove vai? – mi chiese, un po’ stranito, costringendomi a voltarmi.
- A prendere una coperta… - risposi io, scrollando le spalle, - Ho freddo.
Lui arricciò le labbra in una smorfia e mi tirò a sé, mugugnando.
- Non ti serve… - sussurrò tranquillo, spalancando braccia e gambe ed obbligandomi a sedere nello spazio fra le sue cosce, prima di stringermi attorno alle spalle come… come se la coperta fosse lui.
Lo seguii nei movimenti, quando tornò a posizionarsi sul fondo del divano, aderente allo schienale, per stare più comodo.
Probabilmente era il sonno, ma quando, a fatica, riuscii a sollevare lo sguardo abbastanza da poterlo guardare senza muovere troppo il capo, per evitare di distruggere l’incastro perfetto dei nostri corpi in quel momento, mi sembrò luminoso e irreale come un sogno. Fissava il televisore, dritto davanti a sé, e le sue labbra sottili erano increspate in un piccolo sorriso soddisfatto. Gli occhi erano vigili e attenti, sembrava non avesse bisogno neanche di un secondo di riposo. Eppure era stanco, lo sapevo, perché me l’aveva detto e non poteva essere altrimenti. Ma tutto – lo sguardo limpido, il sorriso sereno, la stretta decisa e avvolgente – sembrava dire che non sarebbe mai esistito nient’altro che lui avrebbe desiderato come in quel momento desiderava restare lì con me a guardare uno stupido film per famiglie.
E questo era troppo bello per essere vero.
E quindi doveva essere un sogno.
Mi disincastrai dalla sua stretta, sollevando un braccio e sperando che lui tornasse a richiudersi su di me come un riccio non appena mi fossi fermato ancora. E lui lo fece. Accettò la nuova posizione con qualche piccola scossa di assestamento e non diede neanche segno di essere infastidito.
La mia mano raggiunse il suo mento, e prese a giocare con la sua fossetta. Mi divertii a far scivolare l’indice nel piccolo solco al centro, sorridendo appena mentre la lieve barbetta che portava strisciava sulla punta del dito senza farsi veramente sentire. Lui mi lanciò un’occhiata incerta e sorrise più apertamente, prima di tornare a guardare la tv.
Io sbottai una qualche disapprovazione e risalii con la mano lungo il profilo del suo viso, fino alla guancia, che pizzicai amorevolmente – rendendomi conto di quanto in realtà ci fosse poco da pizzicare – prima di ridiscendere lungo la superficie del collo, e infilare le dita nella scollatura della sua camicia, percependo il cambiamento di temperatura dall’esterno all’interno degli abiti e mordicchiandomi ansioso il labbro inferiore.
Avevo voglia di lui.
Avevo voglia di sentirlo.
E quando lui tornò a guardarmi, e spostò le braccia e la stretta verso il basso, infiltrandosi quasi timidamente per sfiorare il ventre sotto la maglietta, mentre con una mano cercava a tentoni il telecomando sul divano, capii che anche lui aveva voglia di me. Che non aveva alcuna intenzione di dissertare sulla possibilità o meno di dare a Vin Diesel dell’attore, o di stabilire se Missione Tata era un film che valesse la pena vedere o no.
Semplicemente, come me, aveva trovato inaccettabile essere, in fondo, così vicini – appena qualche isolato – e non vedersi. Non toccarsi. Non sentirsi respirare.
…in effetti, quel giorno c’eravamo solo sentiti per telefono…
Sentivo la mancanza del suo corpo come avrei potuto sentire quella di un arto se mi fosse stato improvvisamente mozzato, e me ne accorgevo in quel momento, solo allora che lui era lì e potevo sentire la sua forma premere contro di me. Il suo petto contro la mia schiena, le sue gambe attorno alle mie, il suo bacino contro il mio.
Si chinò, cercando le mie labbra con le proprie dopo aver ridotto la televisione al silenzio. Sentii il suo respiro affannoso, percepii il desiderio farsi strada fra le sue cosce e mi schiacciai contro di lui, offrendo la mia bocca dischiusa per un bacio umido e lento, quasi nostalgico. La lingua di Matt si mosse piano fra le mie labbra, prima di raggiungere la mia.
Gli ero mancato.
Gli ero mancato come lui era mancato a me.
Era incredibile avere gli stessi bisogni, muoversi in sincrono, pensare le stesse cose. Era incredibile intuire i desideri l’uno dell’altro, percepire la voglia d’essere sfiorati in un punto piuttosto che in un altro.
Girai su me stesso, quando me ne diede la possibilità, sedendomi a cavalcioni sul suo grembo e cingendogli il collo con le braccia, intrecciando le dita fra i suoi capelli. Matt mugolò soddisfatto, rendendo il bacio più profondo e attirandomi a sé con una mano sulla mia nuca, mentre con l’altra attaccava la fibbia dei pantaloni, provando a spogliarmi.
Non ci riuscì, perché la mia maglietta era troppo lunga e si ostinava ad arrotolarsi in sbuffi proprio sulla cerniera, e quando lo percepii sbottare infastidito e mordermi un labbro, affamato, frustrato, mi affrettai a staccarmi da lui e sfilare la maglietta dalla testa con un gesto veloce, prima di ritornare a baciarlo. Lui continuò a giocare con la mia lingua ancora per un po’, prima di decidere che non era abbastanza, che voleva di più, e che “di più” era il mio collo – lungo la vena pulsante e fino al solco fra le clavicole – e il mio petto, attorno ai capezzoli e lungo il profilo dei pettorali – giù fino al ventre – la linea appena accennata degli addominali e l’ombelico, all’interno del quale far scivolare la lingua come giocando ad acchiapparello con qualcosa che non c’era e che, perciò, non avrebbe preso mai.
Sospirai rumorosamente, infilando le mani fino ai polsi all’interno della sua camicia, lungo la spina dorsale, e accorgendomi appena dei bottoni a clip che si aprivano col suono di piccoli scoppi un po’ timidi, mentre saggiavo la consistenza della sua pelle sotto le dita, e contavo le vertebre una ad una, dandogli i brividi. Lui mi strinse un braccio attorno alla vita e con l’altro mi resse per il collo, e mi spostò, aiutandomi a distendermi sul divano come si fa con i bambini molto piccoli quando li si vuole rimettere nella culla.
Lo osservai, sorridendo teneramente. Era così premuroso, così gentile…
…così bello. In maniera devastante. Quando lo guardavo, quando lui guardava me, ogni volta che ci sfioravamo, anche solo quando aprivamo bocca per comunicarci qualcosa, o ci bastava un’occhiata di sfuggita per capire cosa stessimo per dire, ogni molecola del mio corpo sembrava in procinto di esplodere e farsi vapore. Volare via.
Mi sentivo leggero, ed era perché avevo il sangue alla testa.
La presenza di Matt mi dava il capogiro.
E anche un tremendo batticuore. Soprattutto quando pensavo che momenti come quello spesso riuscivano ad essere l’unico motivo per il quale potesse valer la pena affrontare un’altra dura giornata.
Lui mi si chinò addosso, armeggiando più facilmente con la chiusura dei miei pantaloni, mentre per fermare i pensieri io chiudevo le labbra attorno alla sua pelle, assaggiando il sapore del collo e godendo della sensazione dei muscoli tesi sotto la lingua. Matt mi liberò dei jeans. Io lo liberai della camicia. Poi lui si liberò dei propri pantaloni. E quando sentii la sua erezione premere contro la mia, fui io a sollevare il bacino. Fui io a sollevare le gambe e chiudergliele dietro la schiena come una tenaglia. Fui io ad aiutarlo a entrare, fui io a soffocare il suo primo gemito di piacere fra le mie labbra, mordicchiando le sue, distraendolo leccando lentamente la punta della sua lingua, mentre mi muovevo piano attorno a lui, accogliendolo dentro di me e discostandomi subito dopo, gioendo della sua fretta nello schiacciarmisi nuovamente addosso, irrequieto, impaziente, affondando con foga, veloce, ansioso.
Fuori controllo.
Quanto me, che mi spingevo contro di lui, che mi aggrappavo alle sue spalle, affondando le unghie e i denti nella sua pelle come volessi lasciargli addosso il segno indelebile della mia presenza, che continuavo a stringerlo, a stringerlo, quasi soffocandolo, e che mi soffocavo a mia volta, poggiando il viso sul suo petto, le narici sulla sua pelle, la bocca contro le sue mani.
Quella notte lui venne dentro di me, ed io ne fui estasiato. Al punto che neanche mi accorsi che il mio orgasmo era arrivato nello stesso momento. Quando aprii gli occhi, intontito dal piacere e dai residui di sonno e stanchezza che non riuscivo comunque a mandar via e che si mescolavano confusamente con l’odore un po’ ipnotico del suo profumo, lo trovai che mi fissava, gli occhi spalancati e luminosi di gioia.
Realizzai che avevamo avuto un orgasmo simultaneo, e questo mi spaventò.
Realizzai che la cosa l’aveva reso l’uomo più felice del mondo, e questo fece felice anche me.
Ridacchiai sbuffando, sistemandomi meglio sotto di lui perché potessimo entrambi distenderci sul divano, cercando di incastrarci per non cadere.
Se avesse detto anche solo una parola, avrebbe rovinato tutto. Se avesse detto “ti rendi conto…?”, sarebbe stata la fine. Se avesse espresso la propria soddisfazione con qualsiasi gesto che non fosse un abbraccio spontaneo e sentito, caldo, e stretto, e lievemente sudato, non ci saremmo più rivisti.
Ma non disse niente. Mi baciò lievemente su una guancia, lasciando una traccia impercettibile di saliva che non volli spazzar via con la mano, e chiuse gli occhi, stringendomi forte e addormentandosi in pochi minuti.
Non avevo affatto bisogno di una coperta. Aveva dannatamente ragione.

***

Ho fame.
So che è tardi, ma non ho la minima idea di che ore siano. So che sono andato a letto presto, perché domani abbiamo un’infinità di cose da fare e comunque ho già sentito Matt nel pomeriggio. So che ho mangiato praticamente solo un sandwich, oltre alle donuts che Steve mi ha portato stamattina.
So che ho proprio fame, sì.
Mi alzò lentamente, con circospezione, cercando di non svegliare nessuno. Stef russa nella cuccetta alla mia destra, mentre Steve dorme a pancia sotto, con la faccia affondata nel cuscino, alla mia sinistra.
Scivolo silenziosamente fuori della zona notte, zompettando in punta di piedi fino al cucinino in fondo al tour bus.
Arrivare di fronte al mini-frigo e spalancarlo sono praticamente un’unica cosa.
Scruto ansioso all’interno, fra i ripiani. Non che ci sia molto. Mi andrebbe della frutta fresca, ma valla a trovare in questa desertica confederazione di desertici stati. Dovremmo andare più vicino alle città. Dovremmo fermarci vicino alle fattorie. Dovrei parlarne con Alex.
Frattanto, davanti a me ci sono solo le orride merendine di Steve, quelle cose oscene ripiene di caramello e noccioline delle quali si rimpinza quando non ha tempo di mangiare altro e sa che sputerà l’anima sulla batteria per tre quarti d’ora durante l’esibizione. Ai fan dei Linkin Park non piace la musica melensa, vogliono sentire rock. È per questo che stiamo facendo qualche canzone anche dal primo album. Questa cosa stressa enormemente il mio batterista.
…sì, è del tutto giustificato, quando si riempie di questa roba.
Io non lo sono altrettanto, ma mi riempio lo stesso, fissando il deserto buio e silenzioso oltre il finestrino.
Mentre penso che in Inghilterra dovrebbe essere più o meno mezzogiorno, sto già afferrando il cellulare che ho abbandonato sul tavolo prima di andare a dormire, e sto già componendo a memoria il numero di Matt.
Lui risponde subito. Risponde sempre al primo squillo, è come se fosse sempre impaziente di risentirmi.
- Brian! – mi chiama felice, ma modula subito il proprio tono su una nota di rimprovero che stona da morire sulla sua voce, e che io non posso che trovare irrimediabilmente tenera. - Dovresti essere a letto! – dice, apprensivo, - Non voglio neanche immaginare che ore siano, lì da te.
Ridacchio un po’, a bassa voce.
- È tardi, in effetti. – ammetto, - Ma avevo voglia di sentirti.
Matt resta in silenzio per qualche secondo. Poi sento il rumore di fondo attorno a lui farsi sempre più debole, fino a sparire, e capisco che s’è appartato in qualche angolo per ascoltarmi più attentamente.
- Stai bene? – chiede in un soffio, preoccupato.
- Mmmh. Mi sento in colpa. – confesso a mezza voce, osservando il mucchietto di carta stagnola appallottolato in un angolo sul tavolo. – Ho divorato metà della scorta di merendine da adolescenti di Steve.
- …a quest’ora della notte, Brian? – si informa.
Posso sentire nella sua voce che se potesse piombare qui accanto a me con un salto lo farebbe.
- Avevo fame. – mi giustifico, stringendomi nelle spalle, - Ma sono uno stronzo lo stesso. Steve mi odierà.
- Non ti odierà… - mi rassicura ridendo, - Con te, se si arriva a superare una certa soglia, l’odio diventa un sentimento impossibile.
Steve e Stef l’hanno già passata da un pezzo, quella soglia, sai, Matt?
E tu?
- Farebbe bene ad odiarmi. – sbuffo contrariato, afferrando la pallotta di carta e cercando di far canestro nel cestino fissato alla parete oltre il corridoietto che attraversa il bus, - Stamattina mi ha portato le ciambelle. Appena fatte! – mugolo, mancando il bersaglio e protestando con una smorfia contro la sfiga, - Gli ho anche detto che lo amavo, sai? – lo aggiorno, mentre lui ride divertito, - E nottetempo vado a rubargli la merenda! Sono un essere umano veramente pessimo, non trovi?
- Non trovo. – risponde lui senza neanche prendersi un secondo per riflettere, - Trovo che tu sia adorabile. E se fossi lì con te, ti soffocherei di baci.
Ed io sarei felice di farmi soffocare.
Dio, in questi momenti mi manca come la terra sotto i piedi. Non riesco a reggermi dritto. Non riesco neanche a pensare, mi sento gonfio, ripieno di sentimenti e sensazioni di ogni tipo, sento la mia testa farsi rotonda ed enorme come un palloncino e temo potrebbe scoppiare da un momento all’altro.
- Un giorno lo faccio. – riprende lui, e io torno immediatamente a concentrarmi sulla sua voce, - Prendo il primo aereo e ti raggiungo. Tanto so sempre esattamente dove sei.
Rido divertito, perché so che magari non lo farebbe sul serio ma trovo estremamente carino che me lo dica. Anche perché so pure che se me lo sta dicendo è perché ci crede.
- Dove sono adesso? – lo sfido, ricordando che appena qualche giorno prima mi sono rifiutato di chiederlo per paura che lo dicesse sul serio.
- Toronto. – risponde lui, deciso, - Nell’Ontario. – e non fa affatto paura come pensavo. – È bello il Canada?
- L’avessi visto! – ironizzo, alzando gli occhi al cielo, - Ho appena il tempo di dare una rapida occhiata a qualche bar. Questo tour è una follia, ci muoviamo dappertutto in America del Nord. E non solo da nord a sud, pure da est a ovest! – sbotto contrariato, - Siamo come trottole impazzite, e Chester Bennington è un pazzo!
- Chester Bennington è solo il frontman dei Linkin Park. – corregge lui con un’altra risatina divertita, di quelle lievi che fa coprendo la bocca con una mano perché si vergogna di quell’adorabile incisivo storto, - Non credo abbia deciso lui date e location del tour.
- Ti stupirebbe scoprire quanto quel ragazzo riesce a tenere le redini della situazione, qui. Ora s’è messo in testa di fare uscire un book sul tour con foto e informazioni sulle band partecipanti… e rompe le palle agli sponsor perché si convincano ad utilizzare solo carta riciclata.
- Decisamente la frequentazione con Bono Vox l’ha segnato nel profondo… - lo prende in giro lui, con la consueta lieve crudeltà che si riserva sempre per gli assenti incapaci di difendersi.
- Oh, andiamo. – decido quindi di difenderlo io, visto che il ragazzo non è poi così male, - È una buona causa, in fondo.
- Già. – concorda Matt, annuendo. – Convinciamolo a una campagna per la promozione delle settimane di pausa fra una data del tour e l’altra. – butta lì, quasi casualmente, - Ho così tanta voglia di vederti che non mi stupirei davvero se nel bel mezzo della notte, in preda a un attacco di sonnambulismo, prenotassi un biglietto e ti facessi una sorpresa, spuntando quando meno te l’aspetti.
Rido, cercando di trattenermi per non fare troppo rumore.
- Ormai me l’hai detto, non sarebbe più una sorpresa.
Anche se questo non cambierebbe di una virgola il tono della mia risata, nel momento in cui ti vedessi sul serio.
- Mi sa che hai ragione. – concorda lui, dubbioso, - E adesso torna a nanna. Sei sazio, no?
Non si riferisce alle merendine.
Riguardo ciò di cui sta parlando sul serio, sì, sono sazio.
È incredibile come riesca sempre a dire la quantità esatta di parole che ho bisogno di sentire.
- Buonanotte. – dico dolcemente, mentre faccio scivolare un dito sul tasto per l’interruzione di chiamata, ignorando volutamente che per lui è solo la metà della giornata, perché preferisco parlargli come fosse qui, come stessimo facendo le stesse cose, come stessimo vivendo la stessa vita.
- Buonanotte. – risponde lui, la stessa nota dolce nella voce.
Un breve clic. Il tuu tuu rimbombante nelle orecchie.
Mi sollevo dalla panca, abbandonando il cellulare sul tavolo.
Tornando verso la mia cuccetta, mi chino a raccogliere la palla di carta scivolata per terra accanto al cestino e me ne sbarazzo, nascondendola sotto il cartone delle ciambelle ancora in cima.
Se sono fortunato, Steve se ne accorgerà solo dopo aver finito la prima bottiglia di birra, domani pomeriggio.

Nota di fine capitolo della Nai:
Periodo del cavolo!
Ma siccome non c’entra eviterò di tediarvi ^^
Invece do a tutti una buona notizia *_* (e se ci tenevi a farlo tu, Liz, ahah! Ti ho fregata!!!...o.k. la pianto).
“Trapped”, almeno per quel che mi riguarda direttamente, è terminata **
Ora non resta che pubblicarla e poi pensare a lavorare al seguito *ç*
Ma del seguito vi parlerà la Liz o io in una vita futura ù_ù
…oggi sono palesemente fuori.
A parte questo, notazione utile: il Project Revolution non è mai passato per il Canada, ma ci stava talmente bene come cosa che ce ne siamo fregate amabilmente ^^ Perdonateci, o Voi fan della precisione.
Un bacio a tutti.
Un grazie a Liz.
Un grazie a tutti i nostri lettori ç_ç Vi lovvo!!!

Nota della liz che non si accontenta di appestare già la fic ma vuole anche rompere le palle sul finale:
E’ vero, è un periodo del cavolo -___- Niente drammi esistenziali particolari, ma essere priva di internet già mi ammazza, soprattutto perché scrivo come una cretina e non tollero di non poter pubblicare >_< Poi la gente si convince che sono morta, non è bello >.<
Anyway anyway *O* E’ bellissimo che Trapped sia finalmente finita <3 (disse la donna che doveva ancora leggere il finale e scrivere l’epilogo -.-“) E poi vedrete quando cominceremo a lavorare al seguito… oh, lo amerete <3 Io lo amo già – e non è ancora scritto! *_*
Comunque adesso che è finita la pubblicheremo più regolarmente… si spera. Probabilmente no, le nostre vite sono casini ambulanti è____é Però ci amiamo, questo è bello <3
Grazie a tutte, vi amo :*****

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