Fandom: Originali
Genere: Generale.
Rating: R.
AVVISI: Het, Slash, Threesome, Angst. (In continua evoluzione.)
- "Nonostante gli sforzi congiunti dei più eminenti scienziati e dei governi della Terra riuniti in assemblea, nonostante gli svariati tentativi operati nei più disparati modi, attingendo a piene mani alle più varie risorse dell'intelletto umano, mettendo a punto le più sofisticate tecnologie che consentissero di risparmiare la maggior percentuale di risorse naturali e artificiali fornite dal pianeta, non è stato possibile evitare il collasso dell'ecosistema. [...] Oggi, primo gennaio 2161, il primo contingente militare terrestre, guidato dal generale Robert Carnival, muove i primi passi sul suolo di Minthe.
E qui comincia la nostra storia."

Note: Raccolta delle varie entry che ho scritto per le Chronicles of Minthe. Ogni capitolo è dedicato a un personaggio diverso, ed i capitoli (corrispondenti ognuno ad un'entry) sono ordinati cronologicamente.
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THE CHRONICLES OF MINTHE
GIORNO 13: DANIEL PORTMAN

HDR #535AS35B, in dotazione al soldato semplice Portman, D. N° matricola: 594726.
Registrazione #9.
Data: 13/01/2161
Ora: 22.12.34
Condizioni fisiche: CODICE VERDE.
Coordinate geografiche: 46°22'N, 2°21'E.

Naturalmente mi aspettavo che accadesse qualcosa del genere. Intendo, non sono così stupido da pensare che, una volta arrivato qui, sarei stato accolto a braccia aperte e trattato come un gentile ospite.
Io e il ragazzino siamo arrivati qui stamani, alle prime luci dell'alba. Abbiamo corso per tutta la notte, fermandoci solo ogni tanto per riprendere fiato e per assicurarci che la bambina fosse ancora viva. Non mi ha detto chi è per lui, ma dal momento che si assomigliano incredibilmente e che mi sembra improbabile che una bambina così piccola possa essere amica di un ragazzo della sua età, probabilmente è sua sorella. Nel momento in cui l'ho realizzato mi si è stretto il cuore in una morsa. Ho pensato a David - lo faccio sempre, quando la parola "fratello" o "sorella" mi scivola fra i pensieri per un qualsiasi motivo. Suppongo sia abbastanza normale, anche se sono passati sette anni dalla sua morte. Credo sia quel genere di perdita che non smette mai di far sentire il proprio peso, anche dopo dieci, venti, trent'anni. E' sempre lì, non ci pensi continuamente, impari di nuovo a sorridere, impari a vivere senza, ma il senso di mancanza, quello non passa mai.
Ieri notte, correndo dietro al ragazzino che mi mostrava la via per l'ospedale da campo, ho osservato il volto della bambina nella luce azzurrognola della notte, ed era così pallida, così leggera fra le mie braccia, ed il suo respiro era così sottile ed aritmico che più di una volta ho creduto davvero che non ce l'avesse fatta. Schiacciato dal senso di colpa - so perché siamo venuti fin qui, so che questa non è una missione di pace, so che abbiamo bisogno di questo pianeta, so che non possiamo permetterci di perderlo, so che dobbiamo essere disposti a tutto pur di conquistarlo, sapevo fin dall'inizio che delle persone sarebbero morte, alcune anche per mia mano, ma forse non sono mai stato davvero preparato al momento in cui il sangue di uno di loro avrebbe macchiato le mie mani, forse non avrei mai potuto esserlo -, esausto per la corsa, confuso dalla paura delle mie stesse azioni e delle loro conseguenze, ho pensato distrattamente che, anche se fosse morta, almeno il ragazzino e i suoi familiari, dovunque essi siano, avrebbero avuto un cadavere su cui piangere. A me, di David, non è rimasto nemmeno quello. L'esplosione della centrale ha cancellato tutto, perfino le tracce del suo passaggio. E' quasi come non fosse mai esistito, come se l'avessi solo sognato. Finché Trish era ancora viva potevo consolarmi con l'idea che anche lei l'avesse conosciuto, che avremmo sempre potuto piangerlo insieme, pur di fronte ad una croce anonima piantata nel terreno infertile di un cimitero pieno di tombe vuote. Da quando è scomparsa anche lei...
Ma scuoto il capo, chiudo gli occhi, stringo con forza le mani e poi cerco di sciogliere i muscoli delle spalle, indolenziti a causa della posizione in cui mi hanno legato quando mi hanno gettato in questa buca. Suppongo fosse la cosa più simile ad una cella che potessero procurarsi al mio arrivo.
Quando siamo arrivati, mi hanno tutti guardato come se fossi un enigma incomprensibile. Dietro la paura, primo istinto così evidente nei loro occhi spalancati, c'erano milioni di domande che non necessitavano di essere ferrato nelle lingue del luogo per essere decifrato.
Mi hanno immediatamente separato dalla ragazzina, un medico tremante me l'ha quasi strappata dalle braccia. Poi l'ha appoggiata su una barella e due uomini l'hanno celermente portata via. Il ragazzino si è immediatamente mosso dietro di loro, una mano su quella sempre più pallida e inerte della sorella. Si è voltato appena per lanciarmi uno sguardo - questo sì, impossibile da decifrare - e poi non l'ho più visto.
Sono qui da ore, ormai. Mi hanno dato da mangiare e da bere, e poco fa mi hanno portato anche delle coperte per la notte. Non accennano a slegarmi, anche se sarebbe del tutto impossibile per me scalare le pareti di questa buca per risalire in superficie senza una corda - ed anche se ne avessi una la scalata sarebbe un'impresa lunga e difficoltosa. Questo la dice lunga sulla paura che hanno di me, e su quanto poco conoscano le nostre capacità e la nostra forza. Prima che mi calassero nella buca, nell'ospedale, ho visto gente alta il doppio di me, con spalle larghe quanto le ante di un armadio. Ho visto gente praticare magie di guarigione, ho visto gente rimarginare ferite altrui con un paio di gocce del proprio sangue ed una formula recitata sottovoce. Ho come l'impressione che dovrei temere più io loro di quanto loro non abbiano necessità di temere me, innocuo senza un'arma, ma li comprendo.
Non so perché mi tengano in vita. O meglio, immagino che vogliano interrogarmi, ma mi chiedo come saranno in grado di farlo, a meno che qualcuno di loro non conosca la mia lingua, perché io di certo non conosco le loro. Spero che nessuno sia in grado di comunicare con me, perché di fronte ad una domanda specifica non so proprio cosa potrei fare. Non credo che potrei arrivare al punto di rivelare qualcosa di pericoloso per i ragazzi ancora sulla Freema, ma d'altronde ieri non credevo che sarei stato tanto stupido da disertare, ed ora eccomi qui.
A Trish piaceva arrampicarsi sugli alberi. Da ragazzina lo faceva sempre. Ce n'erano alcuni, intorno alla chiesa di campagna riconvertita a scuola dove abbiamo trascorso alcuni anni insieme come studenti, prima che io abbandonassi e cominciassi a lavorare, limitandomi ad assorbire di riflesso da lei ciò che lei imparava continuando a frequentare, e non c'era intervallo che lei non passasse appollaiata come una sorta di strano uccello esotico antisociale su qualche ramo troppo alto per essere anche sicuro.
Una volta - dovevo avere ancora quindici, massimo sedici anni, non ci conoscevamo da molto e lei si era appena trasferita coi Flagstone, in fondo alla strada -, vedendola lì in alto, così tranquilla, mi sono messo in testa di seguirla. Non avevo mai scalato un albero, né avevo mai avuto alcun interesse a farlo. Naturalmente, sono scivolato prima ancora di raggiungere il primo ramo, e sono caduto a terra, lussandomi una spalla. Lei è scesa da lì con un balzo, accovacciandosi sul terreno per limitare gli effetti dell'impatto, e mi si è avvicinata, guardandomi con sorpresa mentre io cercavo di nascondere il dolore.
"Ma che hai combinato...?" mi ha chiesto, "Non è in quel modo che ci si arrampica su un albero!"
"Non avevo mai provato, prima..." ho ammesso con un certo imbarazzo. Lei mi ha guardato per qualche secondo e poi è scoppiata a ridere, battendosi una mano contro la coscia lasciata scoperta dalla gonna corta della divisa.
"Si vede," mi ha preso in giro, e poi il suo sorriso si è addolcito appena. "Come hai fatto a sopravvivere a te stesso fino ad ora?" mi ha chiesto quindi.
Me lo chiedo ancora oggi, e non ho ancora trovato una risposta plausibile.

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