Scritta in coppia con Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."

Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
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Quando si sveglia il giorno dopo, le merendine sono ancora lì, chiuse nei loro pacchettini trasparenti, e Zlatan è ancora immobile nella posizione in cui l’ha lasciato, rannicchiato, il volto nascosto e le spalle al mondo intero. Il suo respiro è più calmo della sera prima, comunque. José si avvicina, sorridendo con una certa tenerezza mal dissimulata, pensando che è un bene che abbia dormito. Almeno lui.
Non si sente in colpa. Il senso di colpa è un lusso che non puoi permetterti, in una situazione come la sua. Anche arrabbiarsi, vorrebbe dire a Zlatan, è un lusso che non ci si può permettere, in una situazione come la loro; ma d’altronde, per qualche oscuro motivo, più che capirla, la rabbia di Zlatan lui la sente. E questo è strano, perché decisamente José non è mai stato un tipo empatico.
Lo scuote appena per una spalla e Zlatan si appallottola con più decisione, nascondendo il volto contro la fodera del divano, che ormai sa di lui.
«Svegliati, e piantala di fare il bambino» lo rimprovera, chinandosi a recuperare una delle merendine e scartandola, «Mangia.»
Zlatan non risponde. Inspira profondamente, però, ed il secondo dopo si volta a guardarlo, le sopracciglia aggrottate e gli occhi che brillano di fastidio.
«Non ho fame» dice quindi, adocchiando con aria disgustata la merendina che José gli porge, il braccio tanto proteso verso di lui da rasentare l’invadenza.
«Deperire non rientra fra le cose che ti è permesso fare» gli fa notare duramente José, ed all’appunto Zlatan risponde con un ghigno esasperato.
«Cos’è che rientrerebbe fra le cose che mi è permesso fare?» chiede ironico, stiracchiandosi sul divano col preciso scopo di far credere a José non gli interessi proprio niente di quanto sta per dire.
José, per tutta risposta, gli è addosso il secondo dopo. La merendina rotola lungo i cuscini del divano e si infrange contro la moquette, frantumandosi in una pioggia di pan di spagna asciutto e sicuramente poco gradevole. Mentre guarda José dritto negli occhi e prova a liberare i polsi che l’altro uomo tiene schiacciati con entrambe le mani al bracciolo appena sopra la sua testa, Zlatan pensa lucidamente che è contento di non averla mangiata, quella stupida merendina. E poi nel suo cervello si fa tutto bianco.
«Non ti è permesso deperire, non ti è permesso disobbedire, non ti è permesso farti ammazzare, non ti è permesso essere geloso» elenca José, ed è tanto vicino che Zlatan sente il suo respiro sulle labbra. «Non ti è permesso neanche dirmi di no.»
Lo svedese deglutisce e cerca di divincolarsi, ma lui e José sono troppo vicini, perciò ogni movimento si traduce solo in una carezza decisamente poco corretta: tutto il corpo di José scorre sopra il suo, o forse è il suo corpo che scorre sotto quello di José, e non è difficile, attraverso il tessuto sottilissimo dei boxer, intuire quanto questo movimento – dapprima irregolare, poi sempre più mirato – abbia su di lui un effetto devastante.
«Non ti ho chiesto…» prova ad accennare, mordendosi un labbro, «Non ti ho chiesto cosa non posso fare, ma cosa posso.»
José ghigna appena, spingendosi in basso verso di lui.
«Puoi fare tutto il resto» risponde quindi, stringendo la presa sui suoi polsi, «Almeno fino a quando non deciderò diversamente.»
La velocità con cui Zlatan spalanca le gambe sconvolge lui stesso per primo. Dovrebbe essere ancora arrabbiato, dovrebbe- dovrebbe prendere José, schiacciarlo contro un muro e – no, non scoparselo, no, Zlatan – prenderlo a cazzotti fino a fargli dimenticare come cazzo si chiama, fino a fargli dimenticare tutti, tutti i duemila nomi presumibilmente falsi che decorano la sua carta d’identità, e invece ecco che spalanca le gambe e se lo tira contro, per sentirlo addosso con più forza possibile, il più vicino possibile. E José non ha neanche avuto bisogno di chiedere.
La verità è che, per quanto possa dargli fastidio il tutto, José ha ragione. Non ha nessun diritto di essere geloso. José non gli ha mai fatto credere niente, non l’ha mai ingannato, non ci sono state dichiarazioni, fra di loro, di nessun tipo. Tutto ciò che Zlatan sa con certezza è che José lo vuole, ma questo non impedisce a José di volere anche altri. Questo non impedisce a José di usare il sesso per rincoglionirlo al punto da convincerlo a cambiare stato. A cominciare a giocare a calcio, Cristo.
José non ha fatto niente di così orribile. Lo stupido è stato lui. Lo stupido è lui, lo è adesso come mai prima, perché se fino a due giorni prima poteva avanzare una qualche pretesa d’ignoranza – “sì, vado con lui e credo proprio di essermi, cazzo, non voglio dirlo, però forse lo è anche lui” – oggi non può più farlo.
E continua a spalancare le gambe.
E questo è da coglioni.
José lo bacia – no: lo morde – con una fame che non ricorda di avergli mai sentito addosso. La giustifica con la rabbia, con l’astinenza forzata, con una serie infinita di cose, e smette di pensare solo quando il portoghese si spinge dentro di lui con furia, stringendolo ai fianchi per tenerlo fermo mentre si fa strada all’interno del suo corpo.
Smettere di pensare non lo aiuta.
«È stato così con tutti?» chiede, il fiato ridotto al minimo indispensabile per non morire d’asfissia, «L’hai fatto con tutti come l’hai fatto con me?»
«Zitto» ringhia José, affondando i denti nella sua spalla, «fai conversazione sempre nei momenti peggiori.»
«Voglio solo sapere» precisa Zlatan con un mugolio che si perde fra le labbra di José, «se è stato così anche con gli altri. O se io sono speciale.»
«Zlatan» lo chiama lui, e non aggiunge niente. Il tono è l’imitazione di un rimprovero, ma è una cosa che non può venirti bene quando spingi con una simile forza, quando baci con una simile fame, quando godi con un simile trasporto. E perciò la voce di José si spezza e sfuma sulla sua pelle, fra i baci e i morsi, e Zlatan gli va incontro con maggior sollecitudine.
«Per me, con te, non è stato come con tutti gli altri» gli dice, ed è tutto ciò che è disposto a concedergli finché non sarà José a voler sapere di più. Ma José non chiede. In realtà nemmeno risponde. Il grugnito soddisfatto col quale viene dentro di lui, cingendolo alla vita e stordendolo in un bacio lento e umido che sembra non debba finire mai, non può essere considerato una risposta. No, affatto.
Forse, però, il fatto che resti, che si rifiuti di allontanarsi da lui immediatamente, che continui a sfiorargli la spalla con le labbra – Zlatan può sentire quella morbidezza un po’ ruvida, quel contrasto un po’ gradevole e un po’ sgradevole, quella cosa che è tanto da José da fare quasi male, scivolargli addosso e passare lentamente sopra ogni singolo solco lasciato dalla chiostra dei denti – il fatto che rimanga steso su di lui, fra le sue gambe, dentro al suo corpo, forse è già una risposta sufficiente. Forse è l’unica risposta che Zlatan abbia mai voluto. Forse basta. Forse, per le due ore che lo separano dal primo allenamento del mattino, può crederci e riposare meglio di quanto non abbia fatto durante la notte, col profumo e il calore di José così lontani da dimenticare quasi di cosa sapessero.
Forse ha solo bisogno di tenerselo vicino per non dimenticare mai quei sapori e quelle sensazioni.
Forse questo José è disposto a concederglielo.

* * *


Quando arrivano insieme, l’indomani mattina, nessuno si stupisce granché. In realtà, è Zlatan a stupirsi per primo, e per un motivo assurdo: appena mette piede in campo, trova già tutti più che svegli e pimpanti, come non sentissero il peso di nessun tipo di fatica o tensione. Il capitano saltella sul posto a qualche metro da loro, Adriano sta facendo stretching appoggiato contro una panca di legno, i portieri provano prese e cadute aiutandosi l’un l’altro e José, per prima cosa, scompare. Zlatan ha appena avuto il tempo di voltare gli occhi in giro per individuare tutti che, quando è tornato a guardare al proprio fianco, non vi ha trovato più nessuno. Di José, nemmeno l’odore. In compenso, lì vicino, c’erano gli occhi scuri e divertiti di Adriano e il suo sorriso strafottente, perfettamente liberi di colpirlo in pieno viso come uno schiaffo.
Zlatan sbuffa ed aggrotta lievemente le sopracciglia, affiancandosi a lui e sollevando una gamba per piantare i tacchetti della scarpa fra un’asse e l’altra e cominciare a piegare e stendere il ginocchio.
«Ma fa sempre così schifo, qui, il tempo?» chiede disinteressato, alzando gli occhi sul cielo più plumbeo che abbia mai visto.
«È Milano» risponde Adriano con una scrollatina di spalle, piegandosi su entrambe le gambe e molleggiando appena, «Qui le belle giornate sono quelle in cui ogni tanto filtra un raggio di sole attraverso la cappa di nuvole e smog.» una mezza risatina amara, «Niente a che vedere col sole di Rio.»
Zlatan lo guarda con una certa curiosità, stringendo il nodo allentato della scarpa.
«Rio?» chiede, inarcando un sopracciglio inquisitore.
Adriano molleggia ancora un po’, mantenendosi in equilibrio sulle punte dei piedi.
«De Janeiro» precisa guardando il campo e i ragazzi che si allenano, «È da lì che vengo. Brasile.»
Zlatan cerca di immaginare l’America del Sud, la ridisegna nella propria testa e poi pensa al Brasile ed al nulla che sa di quel paese – sole, mare, belle donne, la foresta Amazzonica, cos’altro? – e si siede sulla panca, poggiando i gomiti sulle ginocchia ed intrecciando le dita delle mani che pendono nel vuoto fra le sue gambe lievemente divaricate.
«È un bel posto?»
Adriano ride di cuore, molleggiando sulle punte un’ultima volta prima di saltare in piedi e ricadere seduto lì al suo fianco.
«Dipende da che lato la guardi, immagino» risponde francamente, «Se l’hai visto solo in cartolina, il Brasile è stupendo. C’è tutto ciò che un uomo possa desiderare. Sesso, libertà, alcool, una vacanza continua. Se ci hai vissuto, se hai passato l’infanzia in una favela in mezzo ai criminali, spacciando droga per campare te e i tuoi fratelli e cercando di ignorare cosa faceva tua madre nella propria stanza con gli uomini sconosciuti che facevano avanti e indietro dalla catapecchia in cui vivevi da mezzanotte fino alle cinque del mattino, è un altro paio di maniche, ovviamente.»
Zlatan resta congelato sul posto e non ha il coraggio di alzare lo sguardo sul brasiliano seduto accanto a lui. Pensa che d’accordo, lui faceva la puttana, ma sua madre non ne aveva mai avuto il bisogno. Pensa che Malmö era un bel posto, prima che il mondo crollasse assieme al dannato tornante di quello stadio di merda. Pensa che invece pare che Adriano in un bel posto non ci abbia mai vissuto, e capisce anche – d’improvviso, è come una rivelazione, ma più stupida. Forse le rivelazioni sono stupide, comunque – che lì c’è gente decisamente più intelligente di lui. Gente che ha capito che ciò che José fa non è altro che darti l’opportunità di scegliere cosa fare della tua vita. Lui ti tira fuori da ciò che sei costretto a vedere da anni giorno dopo giorno dopo giorno, è tutto ciò che fa. A te decidere se accettarlo o mandarlo a ‘fanculo.
Zlatan si chiede cosa otterrebbe a mandare José a quel paese adesso. E stabilisce che non servirebbe a niente.
«Mi dispiace» dice quindi. Non è proprio sicuro di cosa intenda, ma Adriano sembra prenderla per ciò che in effetti probabilmente è – un attestato di simpatia e comprensione – e a Zlatan va bene così.
«Vale così un po’ per tutte le città, comunque» spiega il brasiliano con un’altra scrollata di spalle, «Anche Milano, se la guardi in cartolina, è stupenda. Ma smette di esserlo appena ci metti piede, vero?» chiede con un mezzo sorriso.
Zlatan annuisce appena, ne ha giusto il tempo, prima di venire catturato dalla voce di José che risuona per tutto il campo.
«Alla buon’ora!» strilla il portoghese, e riceve in risposta una sequela di scuse per il ritardo in una lingua che somiglia all’italiano ma che inizialmente Zlatan ha delle serie difficoltà a riconoscere.
«Ma come cazzo parla quel ragazzino…?» chiede ad Adriano, vagamente divertito, mentre il brasiliano scoppia in una mezza risata e si stira come un gatto, puntellandosi con le mani allo schienale della panchina.
«Emiliano puro. E comunque, uno che parla come parli tu non dovrebbe neanche pensarle, cose simili» lo rimbrotta quello, mentre Zlatan individua la figura di un giovane uomo palesemente minorenne che è molto probabile non abbia ancora nemmeno imparato a radersi e si fa strada in mezzo al campo, fra i calciatori che ridono della sua goffa fretta, trascinandosi alle spalle un ragazzo di colore che, dall’aria scazzata e borbottante, non si direbbe più maturo di sedici anni, ma che in compenso ha già raggiunto lo sviluppo fisico di un ultraventenne. «Be’, quello è Davide e la scimmia assonnata dietro di lui è Mario. Impara ad avere a che fare coi piccoli, Ibra. Il Mister non l’ha ancora fatto e rischia un esaurimento nervoso a settimana.»
Zlatan inarca nuovamente le sopracciglia ed incrocia le braccia sul petto.
«E com’è che si ha a che fare coi piccoli, Adriano?» dice una voce, ma non è la sua voce, anche se ha detto esattamente ciò che avrebbe voluto dire lui.
Quando solleva lo sguardo, individua subito la figura irritata di José che li guarda entrambi con aria insoddisfatta. Adriano ricambia l’occhiataccia dell’allenatore con un mezzo sorriso da impunito.
«Assecondando le loro inclinazioni, Mister» risponde, e José digrigna i denti.
«Alzate il culo e fate dieci giri di campo. Entrambi» ordina quindi seccamente, prima di allontanarsi.
Adriano prende a correre ridendo – sembra che niente, neanche il pensiero di dover correre per chilometri, possa togliergli dalla mente quanto divertente sia prendere in giro José. È qualcosa che Zlatan può arrivare a comprendere, per certi versi – e lo svedese gli si affianca istantaneamente, modulando il passo sul suo per continuare la chiacchierata.
«Le loro inclinazioni?» chiede infatti, ed Adriano risponde con un’altra mezza risata.
«Davide è un tipino a posto» risponde, «Sai, di quelli che non si ficcano mai nei guai, sempre ligi al dovere e tutto. Scopava con gli uomini per la storia più classica del mondo, genitori poveri ma gentili che non gli hanno mai chiesto niente e fratellino ammalato. Su un tipo così è anche troppo facile mettere su le mani. Il Mister c’è andato praticamente a nozze. E Davide probabilmente ancora ringrazia di essersi fatto scopare, perché coi soldi dello scorso campionato ha pagato l’operazione del fratello e il trapianto di midollo osseo e tutto. Sai come vanno queste cose, no? Basta avere la giusta quantità di soldi e anche le liste d’attesa diventano relative.»
No, Zlatan non ha la minima idea di come andassero in effetti queste cose, e sinceramente non sa nemmeno bene cosa voglia dire dare il culo per qualcun altro all’infuori di se stesso. Lui s’è sempre prostituito per un proprio tornaconto personale – restare in vita, gli agganci e via discorrendo. Max ed Helena, ecco, aiutare loro è sempre stata una conseguenza. Non il motore principale delle sue azioni. Perciò non annuisce, si limita a scrollare le spalle in un gesto vago che si perde nel movimento dei loro corpi in corsa. Adriano, comunque, lo prende per un assenso e riprende a parlare.
«Mario invece è uno che, se il Mister non l’avesse recuperato dall’angolo di strada in cui l’avevano messo a scopare solo con gente più cazzuta di lui, sarebbe finito parecchio male. È uno spiantato, un coglioncello ed uno stronzetto. Lui e Davide sono molto amici e suppongo sia perché Davide, adesso che non ha più il fratello e i genitori in giro, ha molto bisogno di prendersi cura di qualcuno. Mentre Mario ha molto bisogno che qualcuno si prenda cura di lui.»
Zlatan inarca il solito sopracciglio inquisitore e segue Adriano mentre taglia una curva della pista che gira attorno al campo, attirando immediatamente l’ira funesta di José che, non fosse trattenuto da un tizio smilzo, coi capelli grigiastri e un paio di occhiali da topo che lo rendono ridicolo, correrebbe volentieri dietro ad entrambi agitando un pugno con aria minacciosa.
«E sentiamo, com’è che si assecondano le inclinazioni di due ragazzini così?» chiede quindi, cercando di riportarsi verso il centro della pista per evitare che José perda la voce imprecando alle loro spalle.
Adriano si concede un sorrisino a dir poco malvagio.
«Semplicissimo. Ci si concede di viziarne uno per far sì che l’altro possa occuparsene. Così sono tutti contenti, no?»
Zlatan scuote il capo, vagamente poco convinto.
«E cos’è che si concede a Mario, in genere?»
Adriano ghigna ancora e comincia a correre all’indietro, guardandolo negli occhi con presunzione.
«Una passeggiatina in zona stazione Centrale fuori dagli orari consentiti, e si risolve tutto.»

È di nuovo la voce di José a riscuoterlo. Ha perso il conto dei giri di campo che ha fatto in compagnia di Adriano. Sono sicuramente più di dieci, ma nessuno li ha fermati mentre continuavano a ridere parlare e vorticare attorno al campo, perciò va bene anche così: ne ha guadagnato, oltre ad un insopportabile fiatone, anche un palese rinforzo dei polpacci e delle cosce, ed anche un sacco di informazioni sulla squadra e le sue dinamiche, roba che non avrebbe saputo a chi chiedere – a Javi non puoi mica chiedere come fare a sgattaiolare fuori dalla Pinetina per una birra, alla sera, in barba alla sorveglianza e in quei giorni in cui ti senti disposto a rischiare perfino la vita pur di avere un goccio d’alcool nel sangue – ed in più ha anche convinto il brasiliano a raccontargli com’è che è finito a scopare in giro, scoprendo tanto per cominciare che quando spacci arriva un momento in cui quello, da solo, non basta a tirar su i soldi per pagare la mafia e ciò che serve alla famiglia. E che andava con le donne, non con gli uomini. E che però José l’ha preteso, quando l’ha incontrato, ed alla fine lui s’è fatto tirare scemo dalle banconote da cento reais che si srotolavano sotto il suo naso con una disinvoltura quasi disturbante, e dall’insistenza di quel nano portoghese che sembrava non fermarsi davanti a niente, ed alla fine s’era ritrovato un paio di settimane dopo a Milano senza capire bene né come né perché, ed aveva solo un paio di scarpe da calcio, una vecchia tuta per gli allenamenti ed una divisa bella e lucida come non era mai stato nessuno dei suoi vestiti fra le mani. E José di nuovo in viaggio verso la prossima meta.
Zlatan riflette per un secondo su quanto sia stato più fortunato di Adriano, e poi porta gli occhi su José che, dal centro del campo, invita tutti ad avvicinarsi e stringersi a cerchio attorno a lui ed alla nuova figura incappottata che gli staziona accanto. È un uomo alto dall’aria distinta, porta un paio d’occhiali che devono valere all’incirca come una persona viva ed un’onda di capelli incerti fra il bianco, il grigio ed il castano ad incorniciare un viso anziano e stanco, sì, ma indubbiamente mai stato bello.
«Dal momento che per oggi avete perso abbastanza tempo» spiega José lanciando occhiatacce disapprovanti un po’ a tutti e soffermandosi in particolar modo su Mario, che per conto proprio sta divertendosi ad infastidire Davide con una serie di pacche sulla nuca alle quali il ragazzino risponde con degli sbuffi e dei “piantala” solo parzialmente convinti, «direi che adesso potete mettervi a lavorare seriamente senza lagnarvi. Il presidente è venuto apposta per controllare che i suoi soldi non siano stati spesi nel modo peggiore possibile. E se volete continuare a mangiare, vestirvi ed avere dei diritti nei prossimi mesi, sarà meglio che vi comportiate per bene.» Dopodiché, batte le mani e il capannello di calciatori si scioglie, e mentre l’omino magro dai capelli grigi divide tutti in due squadre ai quali affibbia maglie di colore diverso, Zlatan fa per seguire Adriano fino al centro del campo e si ritrova afferrato per un polso e strattonato indietro senza la minima delicatezza. «Non tu» lo informa José, accennando al presidente con il capo, «Tu vieni di là.»
“Di là” è una panchina vagamente defilata e riparata da una tettoia che, piovesse, sarebbe indubbiamente molto utile. Al momento, la sua unica utilità è avvolgere lo stretto ambiente in una cappa d’afa all’interno della quale Zlatan fatica a sopravvivere già seminudo per com’è. Si chiede come possa stare tranquillo – senza nemmeno una goccia di sudore ad imperlare la fronte – quell’uomo dal sorriso irremovibile che José ha presentato come il presidente. Si chiede cosa c’entri un presidente in quella situazione, peraltro: da quando una squadra di calcio fa stato a sé? A che diavolo serve un presidente?
«Zlatan» lo richiama José, «Questo è Massimo Moratti. Se ti sei mai chiesto chi abbia pagato per tutto quello che hai avuto sia a Malmö che qui a Milano, è lui che devi ringraziare.»
Zlatan annuisce e ringrazia a bassa voce, ma tutto ciò che fa il signor Moratti è ridere ancora ed agitare una mano come a scacciare le mosche.
«Non c’è per nulla bisogno di ringraziamenti» dice quindi l’uomo, sistemando gli occhiali sul naso, «Il modo migliore per ringraziarmi è mettere a frutto il mio investimento, Zlatan. Ho sentito delle ottime cose, su di te. Pensi di potermi fare osservare qualcosa anche adesso?»
Zlatan vorrebbe rispondere di no, perché sentirsi sotto esame non gli piace, ma lo sguardo con cui José lo raggela sul posto lo costringe a cambiare idea ed annuire ancora, prima di dirigersi verso l’omino dai capelli grigi, farsi affibbiare una maglia gialla – c’è l’otto e non il nove, ma pazienza, non è che gli interessi granché – indossarla ed andare a posizionarsi sul campo poco più avanti rispetto ad Adriano.
Il brasiliano dà il via alla prima azione della partita dopo un fischio di José, e la prima cosa che fa andando in attacco è passargli accanto e strillargli di darsi una mossa. Non è particolarmente veloce, anche se è potente. Zlatan lo recupera in pochissimi secondi e si ritrova senza capire nemmeno come nel dettaglio a dribblare i difensori dello schieramento avversario per intrufolarsi in area di rigore.
Poi si svolge tutto semplicemente. Anche troppo semplicemente. Il campo intorno quasi scompare, e lui è di nuovo nel cortile polveroso dietro casa. I giocatori sono diventati bambini coi vestiti sporchi e sdruciti, la palla è un globo accartocciato di pagine di giornale tenute insieme con lo scotch ed il cielo sopra la sua testa non è quello cupo e asfissiante di Milano ma quello terso e gelido di Malmö.
E la palla è fra i suoi piedi.
E subito dopo in rete.
L’urlo di José si alza imperioso e soddisfatto, dalla panchina. Zlatan si volta a guardarlo e sorride appena, riuscendo perfino a scorgere uno spicchio del sorriso del presidente, prima che Adriano gli piombi letteralmente alle spalle, mandandolo sdraiato a terra neanche avesse segnato il gol del secolo.
«In genere non mi sacrifico per gli altri» gli rivela il brasiliano fra una risata e l’altra, scompigliandogli energicamente i capelli mentre Zlatan riflette sulla possibilità di tenerli a posto con un elastico o qualcosa del genere, in futuro, «ma per un’azione del genere, ne vale eccome la pena. E bravo Ibra.»
È praticamente la prima volta in vita sua che gli fanno un complimento per qualcosa che non abbia niente a che fare col sesso. Mentirebbe se dovesse evitare di ammettere – per lo meno con se stesso – di esserne incredibilmente felice.
TBC...




Note della pucciosa coproduzione: da qui in avanti, gli aggiornamenti avranno una cadenza fissa, compatibilmente con il nostro culopesismo *annuiscono ritmicamente* e con le condizioni della nostra vita sociale *continuano ad annuire* i nuovi capitoli saranno postati di martedì, giovedì, sabato e domenica, così che abbiate sempre qualcosa da leggere *_*v.
Cogliamo l'occasione per dirvi che vi adoriamo in maniera indecente e che ogni commento è fonte di copiose lacrime di gioia, perché abbiamo amato tanto scriverla e sapere che voi state amando altrettanto (e in qualche caso di più) leggerla non può che ucciderci.


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