Scritta in coppia con Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
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Quando la macchina si ferma – le ruote che strisciano rumorosamente contro l’asfalto nel silenzio quasi assoluto della prima mattina milanese, fredda come Zlatan non ha mai sentito niente, nemmeno le notti rigide dell’inverno di Malmö, e non saprebbe dire se sia perché c’è freddo davvero o perché l’ansia e l’agitazione dei due ufficiali gli danno i brividi – Filippo non aspetta un secondo prima di scaraventarsi fuori dalla vettura e correre verso l’ingresso della Pinetina, a passo svelto.
«Muovi il culo, Zlatan.» lo apostrofa perfino Rosalia, e perciò Zlatan li segue entrambi mentre varcano i cancelli esterni, un po’ arrugginiti dall’umidità intollerabile di quella città, e solcano i corridoi come il piccolo e compatto esercito che in effetti sono, lasciando appena ondeggiare i pugni chiusi contro i fianchi e guardando fisso davanti a loro stessi come se in quel punto imprecisato fra i loro occhi e l’infinito fosse focalizzato l’obiettivo di tutta una vita.
José appare da un corridoio laterale, imprecando in una lingua che Zlatan non riesce a riconoscere, e va talmente veloce nel suo muoversi insensato che se lo ritrova addosso senza capire come né perché. José lo riconosce solo quando alza lo sguardo e trova i suoi occhi.
«Che ci fai qui?» gli chiede, il tono duro e vagamente stupito. Poi si volta a guardare Filippo e Rosalia, che adesso stazionano nel mezzo del corridoio, il fiato un po’ corto e gli occhi fissi su di lui. «Che ci fai con loro?»
Zlatan deglutisce e pensa che dovrebbe rispondere qualcosa. Prova anche a farlo – formula un pensiero, schiude le labbra e tutto – ma dimentica cosa dovrebbe dire nel momento in cui José smette di guardarlo e dimostra in un solo secondo di avere altro a cui pensare che non sia lui che va a dormire in casa d’altri e, già che c’è, tenta anche di infilare la lingua nelle loro gole.
«Due giocatori sono spariti» dice glaciale, ricambiando l’occhiata seria dei gendarmi. «Mi avete deluso profondamente.»
Filippo non abbassa lo sguardo, ma Zlatan può leggere nei suoi occhi che il rimprovero di José l’ha ferito davvero. Non è una cosa che possa capire, perché quel rimprovero – più che andare ad intaccare la relazione di fiducia che c’è fra il capitano ed il Mister – va a battere sulla sua serietà professionale. Zlatan non ne ha mai avuta una, non può immaginare cosa possa voler dire sentirla venire meno. Tutta la sua etica professionale si riduceva al far credere ai clienti di essere venuto nella maniera più convincente possibile – almeno quando capiva che loro sembravano tenerci, altrimenti si fottessero pure loro e tutto il resto – e può bene immaginare che nello sguardo mortificato di Filippo, in questo momento, non ci sia niente del genere, perciò si rassegna: quell’uomo lui non lo capisce e probabilmente continuerà a non capirlo in eterno.
Rosalia, invece, è preoccupata. E quello sguardo ansioso e brillante, quel lieve tremito sottopelle e l’incertezza appena accennata delle labbra dischiuse, ecco, quelli sono brividi che Zlatan può capire benissimo.
«Chi?» chiede, e nella sua voce non resta neanche una traccia di quello che invece è palese sul suo volto. José si accorge dello scarto fra la sua espressione e il suo tono ed inarca curiosamente un sopracciglio, ma non commenta.
«Adriano. E Mario.» Pronuncia entrambi i nomi con una nota di amarezza che ricorda quella di un padre tradito. Zlatan rabbrividisce vagamente e si tiene in disparte: quello che sta accadendo di fronte a lui non è qualcosa che dovrebbe vedere. Per un attimo, si trova perfino a rimpiangere di essere andato da Filippo a chiedergli aiuto per Helena; se non l’avesse fatto, adesso sarebbe nella propria scomoda branda a dormire – per la prima volta da quando è lì, peraltro, visto che, da quando si trova a Milano, fosse giusto o meno, ha quasi sempre dormito in camera con José.
Rosalia annuisce silenziosamente ed abbassa appena lo sguardo. Zlatan le vede passare di tutto, sotto le ciglia: c’è ancora della preoccupazione, c’è dell’indefinibile tristezza e, soprattutto, c’è la decisione di una donna adulta che si prepara a prendere saldamente in mano le redini della situazione. Per un attimo, si chiede quando abbia imparato a leggere così bene negli occhi della gente. Poi realizza che dev’essere una delle controindicazioni dell’avere costantemente a che fare con un uomo che devi imparare per forza a capire solo con gli sguardi. Se non riesci a stare dietro ai silenzi eloquenti di José, sei perduto. E quando impari a stare dietro ad un passo così serrato, i passi degli altri sembrano sempre anche troppo semplici.
Il primo a muoversi, comunque, è Filippo, che evidentemente non vedeva l’ora: Zlatan lo ascolta schiarirsi la voce e poi annunciare che andrà di là “dai ragazzi” a cercare di capire come sia stato possibile il verificarsi di questa incresciosa situazione. Quando gli passa accanto, fra gli innumerevoli e per lo più incomprensibili borbottii che gli sfuggono dalle labbra, Zlatan coglie anche un numero imprecisato di imprecazioni ed un minacciosissimo “ma io li ammazzo tutti uno per uno” che quasi lo fa sorridere. Sorriderebbe davvero se José non tornasse a guardarlo con aria di rimprovero.
«Be’?» gli chiede quindi, ed il tono è così incredibilmente supponente che a Zlatan viene voglia di prenderlo a cazzotti senza nemmeno lasciarsi il tempo di pentirsene dopo. «Sei ancora qui? Fila in camera tua. È evidente che oggi non combineremo un cazzo perché tutti i miei giocatori sono troppo impegnati a scopare in giro per ricordarsi che hanno un campionato da portare avanti in maniera decorosa.»
Zlatan vorrebbe che ci fosse ancora Filippo nei paraggi, perché basterebbero pochissime parole da parte di quell’uomo per zittire all’istante gli stupidi e insinuanti sospetti di José. Ma Filippo non c’è e Rosalia sta ancora facendo mente locale – gli occhi un po’ persi nel vuoto pieni di immagini di una città che Zlatan non conosce, e che quindi non riesce neanche ad immaginare per bene – perciò resta in silenzio. E due secondi dopo sta già dirigendosi verso la propria stanza, alla ricerca della propria brandina. Scomoda, sì, ma sicuramente meno dello sguardo indagatore di José piantato addosso.
* * *
José guarda a lungo Rosalia, dopo aver osservato Zlatan svanire dietro il primo angolo ed aver deciso di andarlo a trovare quella notte stessa, giusto per ribadirgli che “fare il cazzo che vuole” non rientra fra le cose che può permettersi. Gli sembrava di averlo chiarito per bene qualche settimana prima, ma evidentemente aveva sottovalutato – per l’ennesima volta – l’irritante cocciutaggine di Zlatan. Dovrà ripetergli la lezioncina finché non l’avrà imparata a memoria. Dovessero pure volerci anni, non si fermerà finché lui non avrà ben chiaro in testa chi è che comanda e come vadano le cose da quelle parti.
Comunque sia, ora il suo problema principale è ancora quel coglione di Adriano, in giro chissà dove. Per non parlare dell’altro coglione: ancora più problematico perché piccolo. E quindi, potenzialmente, perfino più pericoloso del brasiliano, che quanto meno a certe dinamiche è ormai abituato. Se l’idea di un Adriano a zonzo per Milano lo infastidisce – perché infrange le regole e lo fa consapevolmente e sfacciatamente – l’idea di un Mario che faccia la stessa cosa non solo lo irrita, ma lo preoccupa. E anche tanto.
Rosalia si mordicchia il labbro inferiore e, finalmente, si decide a ricambiargli lo sguardo.
«Andrò immediatamente a perlustrare la zona e le farò sapere quanto prima, Mister» lo avverte con un breve cenno del capo. José inarca entrambe le sopracciglia e scuote il capo.
«Vengo anch’io.»
La donna si irrigidisce e schiude le palpebre – i suoi occhi diventano improvvisamente enormi, e sul volto magro fanno quasi paura.
«Lei non è qualificato per condurre le indagini» gli fa notare spiccia, ma il suo tono tradisce un’irrequietezza di fondo che José non potrebbe notare neanche se fosse uno stupido. Essere dannatamente intelligente, perciò, tarpa le ali di qualsiasi bislacca idea di raggiro stia passando in quel momento per la mente del capitano, che abbassa lo sguardo quasi istantaneamente.
«Quando vorrò il suo parere, capitano Lisciandra» la apostrofa quindi, e con tanto astio che lei stringe i pugni, piccata, «glielo chiederò. Fino ad allora, si limiti ad obbedire.»
Il capitano non fa una piega – s’è già piegata fin troppo ed è stata anche troppo remissiva, in aperto contrasto con quelli che sono i suoi desideri di correre fuori dalla Pinetina mandandolo a ‘fanculo; José lo vede scritto nei suoi gesti nervosi e spicci, e vorrebbe ghignare. Lo farebbe davvero, se non fosse così decisamente inappropriato. Comunque, si ritrovano entrambi all’esterno dell’edificio, per strada, accanto all’Alfa, meno di due minuti dopo. Rosalia si guarda intorno con aria competente e poi prende posto al volante, invitando José a sedersi al suo fianco. Sanno entrambi che De Faveri sarà impegnato a minacciare di morte gli agenti del turno di notte almeno per le successive tre ore, perciò nessuno dei due si preoccupa quando la macchina comincia a sfilare veloce lungo le strade, verso il centro di Milano.
José tollera il girare insensato della macchina per le strade cittadine solo per tre quarti d’ora. È uno che sa essere decisamente paziente, quando ne riconosce l’utilità, ma non vede possibilità di ricavare alcun utile dal passare disinvoltamente attraverso zone che un tempo erano aree esclusivamente pedonali, perdendosi nel reticolo strettissimo delle strade centrali di una città già abbastanza confusa senza aggiungerci il rollio incerto di un’automobile che non sa dove andare. O che sta deliberatamente cercando di non andare da nessuna parte.
Il capitano Lisciandra palesemente non ha ancora capito con chi ha a che fare. O, molto più probabilmente, l’ha capito ma è troppo agitata per ricordarselo, e sta comunque cercando – invano – di prenderlo per il culo.
La realizzazione ha l’immediato effetto di irritare José oltre il limite consentito, ed è infatti con tono secco e risentito che l’uomo parla, sistemandosi nervosamente sul sedile e voltandosi a guardare la donna con un’occhiata raggelante.
«Parla.»
È tutto quello che dice e Rosalia non ha nemmeno modo di rendersi conto del fatto che lui le sta dando del tu per la prima volta da quando lo conosce, e che peraltro non ha nemmeno chiesto il permesso, prima di arrogarsene disinvoltamente il diritto.
«E cosa dovrei dire?» risponde a tono, stringendo le dita sottili attorno al volante. Cerca di mantenere il sangue freddo nonostante l’ansia e l’irritazione diffusa, ma il tono indisponente di José è di quelli che non lasciano scampo.
«La verità. Dove sono i due coglioni. Dove stiamo andando. O meglio» precisa con un ghigno, «dove non stiamo andando.»
Rosalia inspira ed espira profondamente, e si rifiuta di guardarlo, preferendo concentrarsi sulla strada di fronte a sé ed imboccando una traversa con tale risolutezza da far tirare a José un sospiro di sollievo: evidentemente ha deciso di mettere da parte le cazzate. Era anche ora.
«Piazzale Loreto» annuncia quindi, indicando con un cenno del capo lo spiazzo che in effetti si coglie al termine della strada che stanno percorrendo. Ad un primo sguardo si direbbe un luogo tranquillo e silenzioso: insomma, il classico luogo dal quale stare alla larga, perché ad azzardarsi a grattare appena sotto la superficie, sbirciando negli angoli, potrebbe venirne fuori di tutto.
E comunque José conosce Milano. Sa esattamente cosa voglia dire “piazzale Loreto”, soprattutto se associato ad Adriano.
«Ma bene» commenta quindi, con malcelato disgusto, «e tu lo sapevi.»
Rosalia non risponde, in un primo momento. Essere chiaramente dalla parte del torto non l’aiuta a raccogliere per bene le idee, e perciò per un lungo minuto resta in silenzio, voltando lo sguardo in giro alla ricerca di un parcheggio. È alla fine di quella riflessione, quando si decide a lasciare la macchina in doppia fila – dove nessuno andrà a disturbarla almeno fino alle sette e mezzo del mattino, almeno – che stabilisce che, per quanto Mourinho possa avere ragione, lei non è sua figlia e lui non la sta davvero rimproverando. O meglio, per quanto possa provarci, sta a lei lasciarglielo fare o meno. Fra le numerose cose che è o sarebbe disposta a concedere a quell’uomo, non rientra il lasciarsi trattare da ragazzina incompetente. Perciò, fa l’unica cosa che possa fare in un momento come quello senza perdere la faccia: ammettere la propria colpa.
«Sì» dice infatti, «lo sapevo. Sono consapevole del mio errore.»
José, come sempre quando si rende conto di star parlando con qualcuno che si relaziona alle cose dal suo stesso punto di vista – da quello degli esseri umani dotati di intelletto, cioè: quello in cui non è importante avere ragione o torto, ma sapere di avere ragione o torto ed agire di conseguenza – annuisce e si placa. Sa che la rabbia non serve, in una situazione come questa. Niente fa più di una moderata dose di sarcasmo, se la bomba viene lanciata nel punto giusto ed al momento giusto. Perciò si limita a ghignare, slacciando la cintura di sicurezza e schiudendo lo sportello per scendere in strada, prima di parlare ancora.
«Voi donne siete così facilmente raggirabili» commenta scrollando le spalle. «Non mi interessa se lui si infila nel tuo letto o tu t’infili nel suo. Fa’ solo in modo che questo non intralci il vostro lavoro. E, per riflesso, il mio.»
Rosalia incassa senza fare una piega, apre lo sportello e scende a propria volta dalla vettura, stringendosi nelle spalle per schermarsi contro gli ultimi spifferi del freddo vento notturno, che continuerà a spirare fino a che il sole, spingendosi frustrato contro le nuvole perenni di quel cielo, non sarà riuscito a fare capolino e sfiorare le strade.
I due cominciano a camminare affiancati, ma la situazione cambia repentinamente quando Rosalia comincia effettivamente a dirigersi verso un punto molto preciso. José la segue a qualche passo di distanza, osservandola aprire una porta malmessa con due spinte decise – non si direbbe dal suo fisico, ma è forte, provata dall’esperienza – ed introdursi all’interno di un palazzotto basso vecchio di mille anni, il cui androne ricorda un pozzo senza fondo visto dal basso: José guarda verso quello che dovrebbe essere il tetto, attraverso la tromba delle scale, ma per quanto quel palazzo conti al massimo quattro piani non se ne riesce a scorgere la fine.
«Questo sarebbe il bordello dove va?» chiede José, il tono schifato di chi preferirebbe essere altrove. Rosalia si lascia andare ad un sorriso per metà stanco e per metà genuinamente divertito.
«Al secondo piano c’è un appartamento che Adri ha comprato due anni fa,» rivela sospirando, «ci porta le ragazze.»
«Le ragazze» ride amaramente José, scuotendo il capo e seguendo la donna su per la rampa. «Ci ha portato anche te?»
Rosalia valuta per qualche secondo la risposta più conveniente da dare. Alla fine, stabilisce che non ne esiste una, ed opta per la verità.
«Io ho anche le chiavi.»
José rotea gli occhi, sibilando “ah, be’, allora!”, e si ferma alle spalle della donna mentre lei infila una mano in tasca e ne tira fuori un mazzo di chiavi col quale poi si affretta ad aprire la porta. Oltre l’uscio, José scorge un appartamento piccolo e spartano. Ci sono pochissimi mobili e si contano in tutto un ingresso, una stanza dalla porta socchiusa ed un bagno dalla porta spalancata. Rosalia si fa strada all’interno del locale e José la segue silenziosamente. La segue anche mentre spalanca la porta della stanza e la segue perfino quando sospira, trovando Adriano riverso sul letto con una mano sullo stomaco, completamente nudo, che russa rumorosamente mentre un’ucraina dall’aspetto vagamente emaciato rovista fra i suoi pantaloni gettati malamente per terra, alla ricerca del portafogli.
Lo sguardo di Rosalia e quello della prostituta collidono in un attimo che, nella mente di José, produce un suono stridente e fastidioso.
«Che minchia guardi?» è l’infastidita protesta del capitano quando la ragazza resta immobile a fissarla più del consentito.
«Niente… niente!» si lamenta la ragazza con una vocina piccola e pigolante – non deve avere molto più di diciott’anni, sempre ammesso che li abbia, «Per favore, non mi arrestate!»
Lisciandra rotea gli occhi esasperata e si scosta dalla soglia, rimproverando aspramente la ragazza e consigliandole di levarsi dalle palle quanto prima. E nel tempo che il capitano si prende per risolvere il primo problema, José si avvicina al letto e si appresta a risolvere il secondo che, ignaro di tutto, giace ancora dormiente fra le coperte.
«Allora» comincia quindi, alzando improvvisamente il tono di voce e tirando sulla pancia del brasiliano uno schiaffo tale che se ne sente il rimbombo per tutta la tromba delle scale. «Ce la diamo una svegliata o restiamo qua a godercela ancora a lungo?!»
Adriano balza in piedi così violentemente e repentinamente che batte la fronte contro la testata del letto. Rosalia e José lo osservano rendersi ridicolo, poi appallottolarsi su un fianco mugolando di dolore ed infine mettersi seduto in maniera più assennata, massaggiando il punto dolente e voltando all’interno della stanza uno sguardo confuso ed ancora un po’ annebbiato dal sonno.
«…oh.» è l’unico commento che riesce a produrre, quando realizza chi gli tiene compagnia nell’appartamento. È anche l’ultima parola che Rosalia riesca distintamente a sentire, prima che la stanza si riempia delle urla di José. Parla in una lingua che lei non capisce. Adriano, però, china il capo e sopporta colpevolmente, nonostante in genere sia l’ultima cosa che gli venga in mente di fare quando viene rimproverato. Per qualche strano motivo, la donna non può che ritenersi soddisfatta.
* * *
Nell’auto regna un silenzio surreale, almeno fino a quando José non solleva lo sguardo ed individua nello specchietto retrovisore la figura imbronciata e infastidita di Adriano – maglietta indossata al contrario, braccia strette sul petto e sguardo perso oltre il finestrino, sulla strada ancora silenziosa che scorre lenta sotto le ruote dell’Alfa – che, per quanto impossibile questo sia anche solo per concetto, essendo l’uomo alto e neanche sottile, cerca di farsi minuscola per estraniarsi da quanto sta accadendo.
«Dov’è?» chiede il Mister, la voce bassa e tranquilla. Adriano non ricambia la sua occhiata.
«Non ne ho idea» risponde, scrollando appena le spalle. «Non gli sto incollato al culo. Non gli piace, ne ha già visti abbastanza e preferisce sia libero di muoversi per inzuppare il biscotto altrove.»
José fa per rispondere a tono, ma Rosalia lo ferma con un sospiro.
«Adri» sussurra poi, «dobbiamo recuperarlo. È in pericolo, ormai è quasi mattina. Dobbiamo riportarlo in Pinetina. Per favore.»
Gli occhi scuri di Adriano saettano velocemente dalla strada allo specchietto, cercano quelli della donna, li trovano e lì restano per qualche secondo, prima di tornare a guardare fuori.
«D’accordo. Solo perché lo chiedi tu» e poi sospira, spostandosi a disagio sul sedile. «Provate a controllare dalle parti dell’Halley. Diceva di volere un posto tranquillo.»
Rosalia annuisce e dirige la macchina verso l’albergo indicato dal brasiliano. Quando arrivano e parcheggiano, non devono essere passati più di due minuti, e tutto è ancora immerso nel più religioso silenzio. Rosalia spegne il motore, la serratura dello sportello scatta e, nel momento esatto in cui la donna sta per uscire dall’autovettura – e José fa per imitarla – i due vengono attirati dal rumore un po’ gracchiante della suola di gomma di un paio di scarpe da tennis che scricchiola contro un pavimento liscio, e sollevano entrambi lo sguardo per osservare la porta dell’Halley spalancarsi all’improvviso ed una figura scura e familiare uscirne di gran corsa, scivolando un po’ qui e un po’ lì nella fretta di darsi alla fuga.
«Mario…» bisbiglia Adriano, appiccicando il naso al finestrino, e José aggrotta le sopracciglia e si tende tutto verso il ragazzino in fuga, con la precisa idea di apostrofarlo in qualche modo poco carino, bloccarlo sul posto e poi, possibilmente, pestarlo a sangue.
Non ne ha il tempo.
Mario scappa perché è inseguito. È inseguito da due tizi che, quando escono sulla strada e si rendono conto che il ragazzino è veloce, dannazione a lui, malgrado la stazza, pensano bene di risolvere il problema alla radice. Né Adriano, né José, né Rosalia, quando il rumore dello sparo risuona nell’aria immobile di quella stradina vuota, hanno la forza di emettere un fiato. L’aria non sente la mancanza delle loro voci, comunque: la voce della pistola non ha ancora smesso di rimbombare fra una parete e l’altra, che le si aggiunge quella di Mario, straziata e straziante, mentre il ragazzo crolla a terra e lì resta, il capo gettato indietro a sfiorare l’asfalto sporco ed una pozza di sangue ad allargarsi velocemente, poco sotto il ginocchio destro.
«Minchia» esala Rosalia quando si rende conto della situazione. Suda freddo e vorrebbe mettersi ad urlare ma non può, non è il momento, Adriano batte entrambi i pugni contro il finestrino e li batte così forte che lei ne sente le vibrazioni lungo la schiena anche se la macchina non la sta nemmeno sfiorando. E urla, “cazzo, cazzo, cazzo, no, Mario, cazzo!”. E José ha gli occhi enormi e non sa cosa guardare, le labbra dischiuse ed i lineamenti del viso sconvolti dallo sconcerto. Lei non sa che fare. Non ha la minima idea di cosa fare, e resta a brancolare nel buio incerto della propria confusione mentale finché non ricorda chi è, qual è il proprio mestiere e cosa questo comporta. Nello specifico, una fondina che pesa come il piombo attaccata alla cintura della divisa.
Scatta a sfilare la pistola e, per prima cosa, spara un colpo al cielo.
«Fermi!» strilla, e José urla qualcosa in portoghese, girando attorno alla macchina e correndo con evidente sprezzo del pericolo – o con la classica incoscienza di chi è troppo sicuro di sé per pensare alla possibilità di mettersi nei guai – verso il corpo di Mario, che nel mentre s’è raggomitolato in un angolo accanto al marciapiedi e sta piangendo rumorosamente, sfiorando appena la gamba – che, Dio, è poco meno di un macello, cazzo – per poi ritrarre la mano in preda al dolore.
I due tizi, spaventati dallo sparo ed improvvisamente consci di non essere soli, se la danno a gambe, ed Adriano si decide finalmente a recuperare abbastanza sanità mentale per afferrare la maniglia dello sportello con entrambe le mani e spalancarlo con violenza. Non travolge Rosalia, nell’uscire e raggiungere José accanto a Mario, solo perché anche lei, appena ha visto scappare i due mafiosi, è scattata verso il ragazzino, ed ora lo sta guardando da ogni lato, agitandosi silenziosamente attorno al suo corpo nel tentativo – infruttuoso – di capire cosa sia successo.
«’Fanculo» ringhia José, chinandosi sulla ferita per guardarla da vicino. Non osa toccarla, cerca solo di capire quanto grave sia il danno, ma non è così semplice. Nella sua vita ne ha viste di tutti i colori, ma la sua laurea in scienze motorie non è decisamente paragonabile ad una laurea in medicina, perciò tutto ciò che vede è un buco all’altezza della tibia e una quantità indecente di sangue. «’Fanculo» borbotta ancora, e poi si alza in piedi, mette mano al cellulare e chiama un’ambulanza. Mentre attende che, dall’altro lato, qualcuno risponda, guarda Lisciandra e la trafigge con un’occhiata glaciale. «Riportalo alla Pinetina» ordina, indicando con un cenno del capo Adriano ancora in ginocchio e in lacrime al fianco di Mario, «Toglimelo dalle palle, prima che mi decida a farlo io una volta per tutte.»
Il capitano annuisce e, per quanto Adriano si dibatta e si ostini per rimanere piantato esattamente dov’è, fra una rassicurazione, una carezza ed uno strattone bene assestato, riesce in qualche modo a trascinarlo lontano da lì. Adriano la stringe tanto forte che lei si sente mancare il respiro, poco prima di rientrare nell’Alfa. Per un attimo pensa che non era così che sarebbe dovuta accadere una cosa simile. Per quell’unico attimo, si concede di tornare ad essere semplicemente una donna, e piange silenziosamente contro la spalla forte del brasiliano. Poi torna se stessa, e l’Alfa riprende a muoversi nel silenzio sconvolto della Milano che comincia a svegliarsi.
TBC...