Scritta in coppia con Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."
Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
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Non c’è più nessuno che osi respirare, neanche dopo l’eco degli spari che si spegne nella notte. Alle spalle della criminale, che crolla in ginocchio e poi a faccia in giù nel terreno, c’è una figura a braccia tese che si staglia nel buio. Rosalia non abbassa l’arma, e anzi spara per la terza volta su quello che è già un cadavere, anche se non può esserne certa del tutto. E poi punta la pistola contro il suo compagno, che non si fa scrupoli e a sua volta mira con il suo fucile.
«Ti porto con me all’inferno, puttana. Vi porto tutti all’inferno!» grida, premendo il grilletto mezzo secondo dopo aver urlato di dolore, e mancando clamorosamente il bersaglio. Il fucile cade a terra e Filippo lo calcia lontano, dopo aver sferrato quella pedata rabbiosa nelle reni del mafioso, e ora lo ammanetta tranquillamente come se si fosse appena arreso alle forze dell’ordine.
«Prima o poi vi acchiappiamo tutti, in famiglia. Goran Gabelić, sei in arresto» dichiara Rosalia, riponendo la Beretta nel fodero con mani tremanti e fissando apatica una faccia ringhiosa e maligna che sembra venuta dal passato, mentre altri carabinieri, membri del servizio d’ordine e calciatori si accostano alla scena, spinti chi dalla curiosità, chi dalla necessità di aiutare. Helena striscia fino al corpo di Zlatan, che ha smesso di agitarsi e ora respira tranquillo, ed è la prima a notare – con immenso sollievo – che non ci sono fiumi di sangue, o buchi nella carne od ossa spezzate.
«Sei vivo» piange, chiedendosi la motivazione di quella smorfia dolorante.
«Fa un male cane» ringhia Zlatan a sua volta, indicandosi la caviglia – che già comincia a gonfiarsi in maniera indecente – e poi il torace; Helena solleva la maglia con cautela, scoprendo un'abrasione notevole ma certamente non grave, e subito la ricopre. «Devo aver centrato una pietra, cadendo» dice a voce più alta, a beneficio anche di José – che però lo ignora e preferisce star lì impalato, con le braccia conserte a fissare tutto e nulla: se Rosalia non piange è solo perché tenta disperatamente di mostrarsi forte anche così, tra le braccia di Filippo; e se Davide non piange è solo perché Mario se lo stringe forte addosso, anche se la terra è dura e scomoda e se tutti e due sono usciti vivi per miracolo da una sparatoria. Gli infermieri sono quasi costretti a portarseli via trascinandoli sul terreno, e non possono un po’ per evitare di far danni quando non dovrebbero e un po’ perché, per quanto siano abituati a catastrofi peggiori, non sanno che fare – è un problema soltanto loro, ovviamente: agli altri presenti non può fregare di meno – quando vedono i propri pazienti che stanno lì a pomiciare come neanche nella stanza più riservata di un Grand Hotel, le mani che vagano ovunque e Davide che si lascia sfuggire un gemito ogni volta che Mario gli accarezza rudemente l’interno della coscia.
Quando finalmente restano in quattro, la folla che si disperde intorno a loro per i più disparati motivi, cala un silenzio denso come pece.
«Ha la cerniera abbassata.»
Si voltano tutti verso Rosalia, che indica i pantaloni di José con una faccia assolutamente seria.
«Capitano Lisciandra, lei è seminuda» ribatte sarcastico, tirando su la zip. «E anche lei non è l’esempio perfetto di vestiario tenuto in ordine, De Faveri.»
Filippo ghigna, fissando un punto imprecisato all’orizzonte e non tentando in alcun modo di riallacciarsi i bottoni della camicia come Dio comanda.
«Nessuno che si occupi di me?» è il tentativo di Zlatan di attirare l’attenzione, indicando la caviglia. Filippo lo aiuta ad alzarsi con un sospiro esasperato.
«Vieni di là in infermeria» butta lì, senza rendersi immediatamente conto della faccia di José, che sembra pronto a spaccare tutto, e di quella di Rosalia, semplicemente istupidita. Lo svedese e il capitano si guardano, con un lampo d’intesa.
«D’accordo» ride, «prendo la cassetta del pronto soccorso e la porto qui.»
«Bene» concede José, con una smorfia furbetta.
«Oppure può accompagnarlo lei, signore.»
«Ancora meglio» e tutti e due sono già a venti metri da loro, Zlatan che si appoggia con un sospiro esasperato a lui e che accentua la sua andatura zoppicante in un modo che Filippo – e probabilmente anche José e Rosalia, se non fossero altrove con la testa – non può mancare di notare.
«Ho avuto paura» mormora.
«È normale.»
«No, no» lo interrompe, con una voce così sottile e tremolante da preoccuparlo. «Ho avuto davvero paura. Ho avuto paura di non farcela. Ho avuto paura di sparare. Ho avuto paura quando l’ho vista morire. Ho avuto paura quando… mi ha puntato il fucile contro, e non ti ho visto per un attimo.»
Filippo le accarezza i capelli, e si stupisce di come riesca a percepirne le sfumature anche nella penombra. «È finita.»
«Davvero?»
«No» rabbrividisce. «Non finisce mai.»
Rosalia annuisce, stretta al suo petto, strofinando la guancia contro i bottoni storti della camicia. «Tu come fai?»
«Cosa?»
«È successo pochi minuti fa e continuo a vedermela davanti agli occhi. Non credo che riuscirò a dimenticare, sai.»
Filippo resta in silenzio, limitandosi a respirare profondamente, e le risponde solo dopo un po’.
«Io non dimentico nulla.»
Rosalia lo fissa, e anche nel buio può vedere i suoi occhi brillare – lui lo sa, e si affretta a chiuderli, nel tentativo di farle credere di star raccogliendo i pensieri per riflettere meglio.
«Non ho rimorsi. Ho sempre ucciso per difendermi. O per difendere altri.»
«Lo so.»
«Sì?»
Annuisce ancora, stringendosi più forte a lui. «Hai difeso anche me.»
«Non ero stato un minchione che aveva tentato di far passare una scemenza per cavalleria?» ghigna, sentendo il corpo di lei rilassarsi un poco.
«Non dimentichi nulla.»
«Esattamente» sospira, avviandosi con lei verso il centro illuminato a giorno. «Neanche che ci hanno interrotto due volte.»
Quei divani gli ricordano un sacco di cose.
A Zlatan sembra che sia passata una vita, non soltanto qualche mese, da quando un signore stronzo dall’accento strano si è presentato in uno dei tanti bordelli svedesi per chiedere di Nio, che ormai è soltanto un nome del cazzo affiancato a un periodo della sua vita ugualmente del cazzo. Si sente cambiato, e non sa dire né se sia colpa o merito di José, o del mondo che comincia a girare, se non nel verso giusto, almeno in una maniera che sia possibile seguire, in qualche modo.
Quando la mano di José si posa leggerissima sul suo collo, Zlatan non può fare a meno di rabbrividire. Si volta a guardarlo con aria un po’ stanca, ma il sorriso che affiora naturalmente alle labbra non può proprio nasconderlo, e in realtà non ha nemmeno voglia di farlo.
«Come stai?» gli chiede piano José.
«Che domanda stupida» gli fa il verso lui, «Mi vedi ogni giorno.»
José sospira pesantemente.
«Non è abbastanza per sapere cosa ti gira per la testa.»
Zlatan riesce a trattenere la risata solo per pochissimi secondi. Sono abbastanza, comunque, per alzarsi in piedi e tirarsi contro José. Non cerca neanche un bacio, questo dovrebbe essere strano e invece non lo è. Cerca il suo collo, lo sfiora con le labbra, inspira a fondo il suo odore e lo abbraccia. Una stretta anche un po’ infantile. Un po’ spaventata. Un po’ qualcosa che in genere Zlatan non è.
Quando José solleva le braccia e lo stringe alla vita, lo fa soprattutto per rassicurarlo. Per riportarlo alla tranquillità. Per riappropriarsi dello Zlatan che conosce meglio.
Lo bacia lievemente sulla spalla lasciata scoperta dalla canottiera scollata in cui s’è infilato – assieme ad un paio di pantaloni larghi e morbidi all’interno dei quali il suo culo gioca a nascondino, palesemente per il suo divertimento – non appena è entrato in casa, e Zlatan risponde con un mugolio piccolissimo, piegando il collo in attesa del resto.
«Abbiamo una questione da chiudere, noi» gli fa notare il portoghese, sorridendogli addosso e lambendo appena la pelle con le labbra.
Zlatan risponde con un borbottio frustrato.
«Ti prego… tu e la tua dannata ossessione per la conversazione… possiamo parlarne dopo, qualsiasi cosa sia?»
«No» risponde seccamente José, scivolando con la lingua fino al suo mento, mentre lo spinge contro lo schienale del divano, al quale Zlatan si arpiona subito – perché le gambe cominciano a cedere, ed è stupendo che continui a succedere nonostante tutto, è stupendo che succeda anche se ormai José lo conosce a memoria, è stupendo che José non riesca proprio in alcun modo a venirgli a noia. «Ci sono dei punti che devo chiarire.»
«Ti prego, per favore» la voce di Zlatan è ridotta a un mugolio che gronda voglia ed impazienza, «No, non ci torno da Filippo, Cristo, non andrò più con nessun altro, ora ti scongiuro, cazzo, scopami, perché-»
«Io ti amo.»
Zlatan spalanca gli occhi e lo guarda, per un secondo, come si fosse appena svegliato trovandoselo già fra le braccia senza capire bene né come né perché.
«Come scusa?» chiede, e si aspetta che José risponda “non te lo ripeterò un’altra volta”.
«Io ti amo.»
E invece no.
«Cristo, togliti quell’espressione del cazzo dalla faccia, almeno» protesta José, vagamente irritato – imbarazzato? «Ti ho appena-»
«Appunto» lo ferma Zlatan, baciandolo lievemente sulle labbra. «Credevo che non l’avresti mai fatto. In realtà non credevo nemmeno che fosse così. Credevo un sacco di cose di-»
«Sbagliate.»
«Diverse.»
José resta in silenzio. Smette anche di muoversi contro di lui, ma la cosa assume improvvisamente una sfumatura di un’importanza nettamente minore. Soprattutto quando Zlatan schiude le labbra per parlare ancora.
«Ti amo anch’io» confessa a mezza voce.
«Questo lo so già» risponde José, impietoso. «Quello che voglio sapere è-»
«Sono tuo. E di nessun altro. Dalla prima fottuta volta che mi hai messo le mani addosso e nonostante tutto quello che è successo dopo quel giorno e prima di oggi. Sono tuo. Non mi serve più nemmeno un collare, per dirtelo» si china su di lui, gli sfiora il collo con le labbra e lo risale tutto fino al suo orecchio, sussurrando piano. «Ti sento dentro anche quando non ci sei» sorride, e José sente quel sorriso scivolare in brividi lungo la schiena, «Ci riesco davvero, mi basta chiudere gli occhi e ti sento dentro. Ridi pure, ma non credevo mi sarebbe mai successo con qualcuno, e-»
José non ride. Lo interrompe per l’ennesima volta, però a questo giro usa un metodo così piacevole che Zlatan rifiuta il diritto di protestare.
Non passa molto prima di sentire il tavolo premere contro il fianco con tanta insistenza da risultare quasi doloroso. Passa ancora meno tempo prima di sentirsi premere contro le sue mani – ovunque – le sue labbra – umide e calde – il suo cazzo – e Cristo, non c’è più niente da dire e non c’è più niente neanche da capire, quando si solleva appena issandosi sulla superficie in legno ruvido e sporge il bacino in cerca di soddisfazione per la propria erezione tanto tesa e frustrata da risultare più fastidiosa che piacevole.
José entra dentro di lui e sa farsi sentire con pochissimo, come sempre. Zlatan gli si stringe attorno ed è tutto quello che deve fare per costringerlo a chiudere gli occhi e perdersi nel movimento ritmico e perfettamente collaudato delle loro spinte e controspinte, un equilibrio perfetto che hanno tirato su a forza di gomitate e spintoni, una cosa che hanno ottenuto soltanto perché l’hanno pretesa. Una cosa talmente loro che all’improvviso le dichiarazioni d’amore – per quanto intense, per quanto necessarie – perdono d’importanza, diventano banali. Il corpo di José dice più della sua voce. Ed è lo stesso per Zlatan.
Quando José viene dentro di lui, Zlatan serra con forza le gambe attorno ai suoi fianchi e mugola di piacere, seguendo il movimento della sua mano sul suo cazzo con movimenti brevi e svelti, perdendosi sulle sue labbra e nel sapore del suo respiro finché non viene a propria volta fra le sue dita. José resta nascosto contro la sua spalla mentre riprende fiato, e le dita di Zlatan lo accarezzano sul collo, sulla nuca e fra i capelli. La stanza è piena solo di loro. Ci sono loro ovunque.
«…domani sveglia alle sette e mezza» è tutto ciò che dice José uscendo da lui pochi secondi dopo, «Abbiamo ancora un campionato da vincere» precisa, muovendosi verso il bagno.
Zlatan ride, rimettendo i piedi per terra.
«Ma l’abbiamo già vinto a quattro giornate dalla fine» gli fa notare con un certo orgoglio. José scrolla le spalle.
«Se avessi dato per scontato tutto ciò su cui mi sembrava di aver già messo le mani, adesso non avrei niente.»
E Zlatan annuisce e si riveste, perché pensa che José abbia ragione. Ed anche se non ce l’ha, sinceramente non gli importa.
Note finali (da leggere assolutamente fino in fondo): Cari fanatici (soprattutto fanatiche, dubitiamo che qualche uomo sia sopravvissuto al punto da leggere fin qui) *_* innanzitutto ci scusiamo per avervi costretto a leggere di una squadra di troieanche se poi ciò si è rivelato canon.
Secondariamente, vi ringraziamo per averci seguito con tanta devozione e tanto affetto amodiandoci con passione ç_ç sommergendoci di parole bellissime, sopportando i nostri allucinanti ritmi di postaggio (perfettamente rispecchianti quelli di scrittura, comunque, ve lo assicuriamo) e via amoreggiando amykettosamente e non su svariati lidi del web (nonché, in barba ai puristi, in chat).
Non avete idea di quanto ci rattristi essere arrivati alla fine ç_ç in condizioni normali vi avremmo tenuti sotto scacco per mesi, cominciando a postare d'estate e finendo all'inverno dell'anno successivo, ma Temporal-mente ci ha impedito di dare fondo alla nostra barbara crudeltà, perciò così è e così si conclude quest'avventura (più o meno).
Vorremmo ringraziare un sacco di gente, ma tra recensori fedeli, lettori ninja, sostenitori esterni e supporti morali, ci sarebbe un elenco lungo una schermata ad alta risoluzione. Sappiate che vi amiamo. Tantissimo. E non ci dimenticheremo mai di voi, anche perché non vi sarà possibile dimenticare le nostre amorevoli e leggiadre personcine (sì, è una minaccia).
Grazie per tutto.
Nota dell'autore maschio: So già che, quando dovrà leggere queste note prima di postare questo capitolo, la donna vorrà replicare e dire la sua al contrario XD spero di impedirglielo per quanto possibile.
Scrivere con Liz è stata un'esperienza molto al di là dal poter essere definita mistica. Ricordo delle circostanze ignobili in cui è nata POALS (di notte, partendo da delle scene che sei mesi fa mi sarei vergognato come un cane a scrivere), ricordo delle nottate passate ad aggiungere pezzetti, paragrafi, intere pagine, capitoli. Ricordo ogni particolare plottato (benché non riesca più a distinguere cosa sia mio e cosa no... è una buona notizia, credo XD), le frasi che più l'hanno imbarazzata/divertita/illuminata e, viceversa, i paragrafi che più mi hanno appassionato.
È stata un'impresa titanica e ne vado fiero. Grazie, alla donna che ha reso divertenti, commoventi e appaganti tutti i momenti passati a scrivere questo… mostro. Siamo sopravvissuti, guardando con amore le vicende che si compivano. E tanto mi basta.
Nota dell'autrice femmina: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
«Ti porto con me all’inferno, puttana. Vi porto tutti all’inferno!» grida, premendo il grilletto mezzo secondo dopo aver urlato di dolore, e mancando clamorosamente il bersaglio. Il fucile cade a terra e Filippo lo calcia lontano, dopo aver sferrato quella pedata rabbiosa nelle reni del mafioso, e ora lo ammanetta tranquillamente come se si fosse appena arreso alle forze dell’ordine.
«Prima o poi vi acchiappiamo tutti, in famiglia. Goran Gabelić, sei in arresto» dichiara Rosalia, riponendo la Beretta nel fodero con mani tremanti e fissando apatica una faccia ringhiosa e maligna che sembra venuta dal passato, mentre altri carabinieri, membri del servizio d’ordine e calciatori si accostano alla scena, spinti chi dalla curiosità, chi dalla necessità di aiutare. Helena striscia fino al corpo di Zlatan, che ha smesso di agitarsi e ora respira tranquillo, ed è la prima a notare – con immenso sollievo – che non ci sono fiumi di sangue, o buchi nella carne od ossa spezzate.
«Sei vivo» piange, chiedendosi la motivazione di quella smorfia dolorante.
«Fa un male cane» ringhia Zlatan a sua volta, indicandosi la caviglia – che già comincia a gonfiarsi in maniera indecente – e poi il torace; Helena solleva la maglia con cautela, scoprendo un'abrasione notevole ma certamente non grave, e subito la ricopre. «Devo aver centrato una pietra, cadendo» dice a voce più alta, a beneficio anche di José – che però lo ignora e preferisce star lì impalato, con le braccia conserte a fissare tutto e nulla: se Rosalia non piange è solo perché tenta disperatamente di mostrarsi forte anche così, tra le braccia di Filippo; e se Davide non piange è solo perché Mario se lo stringe forte addosso, anche se la terra è dura e scomoda e se tutti e due sono usciti vivi per miracolo da una sparatoria. Gli infermieri sono quasi costretti a portarseli via trascinandoli sul terreno, e non possono un po’ per evitare di far danni quando non dovrebbero e un po’ perché, per quanto siano abituati a catastrofi peggiori, non sanno che fare – è un problema soltanto loro, ovviamente: agli altri presenti non può fregare di meno – quando vedono i propri pazienti che stanno lì a pomiciare come neanche nella stanza più riservata di un Grand Hotel, le mani che vagano ovunque e Davide che si lascia sfuggire un gemito ogni volta che Mario gli accarezza rudemente l’interno della coscia.
Quando finalmente restano in quattro, la folla che si disperde intorno a loro per i più disparati motivi, cala un silenzio denso come pece.
«Ha la cerniera abbassata.»
Si voltano tutti verso Rosalia, che indica i pantaloni di José con una faccia assolutamente seria.
«Capitano Lisciandra, lei è seminuda» ribatte sarcastico, tirando su la zip. «E anche lei non è l’esempio perfetto di vestiario tenuto in ordine, De Faveri.»
Filippo ghigna, fissando un punto imprecisato all’orizzonte e non tentando in alcun modo di riallacciarsi i bottoni della camicia come Dio comanda.
«Nessuno che si occupi di me?» è il tentativo di Zlatan di attirare l’attenzione, indicando la caviglia. Filippo lo aiuta ad alzarsi con un sospiro esasperato.
«Vieni di là in infermeria» butta lì, senza rendersi immediatamente conto della faccia di José, che sembra pronto a spaccare tutto, e di quella di Rosalia, semplicemente istupidita. Lo svedese e il capitano si guardano, con un lampo d’intesa.
«D’accordo» ride, «prendo la cassetta del pronto soccorso e la porto qui.»
«Bene» concede José, con una smorfia furbetta.
«Oppure può accompagnarlo lei, signore.»
«Ancora meglio» e tutti e due sono già a venti metri da loro, Zlatan che si appoggia con un sospiro esasperato a lui e che accentua la sua andatura zoppicante in un modo che Filippo – e probabilmente anche José e Rosalia, se non fossero altrove con la testa – non può mancare di notare.
«Ho avuto paura» mormora.
«È normale.»
«No, no» lo interrompe, con una voce così sottile e tremolante da preoccuparlo. «Ho avuto davvero paura. Ho avuto paura di non farcela. Ho avuto paura di sparare. Ho avuto paura quando l’ho vista morire. Ho avuto paura quando… mi ha puntato il fucile contro, e non ti ho visto per un attimo.»
Filippo le accarezza i capelli, e si stupisce di come riesca a percepirne le sfumature anche nella penombra. «È finita.»
«Davvero?»
«No» rabbrividisce. «Non finisce mai.»
Rosalia annuisce, stretta al suo petto, strofinando la guancia contro i bottoni storti della camicia. «Tu come fai?»
«Cosa?»
«È successo pochi minuti fa e continuo a vedermela davanti agli occhi. Non credo che riuscirò a dimenticare, sai.»
Filippo resta in silenzio, limitandosi a respirare profondamente, e le risponde solo dopo un po’.
«Io non dimentico nulla.»
Rosalia lo fissa, e anche nel buio può vedere i suoi occhi brillare – lui lo sa, e si affretta a chiuderli, nel tentativo di farle credere di star raccogliendo i pensieri per riflettere meglio.
«Non ho rimorsi. Ho sempre ucciso per difendermi. O per difendere altri.»
«Lo so.»
«Sì?»
Annuisce ancora, stringendosi più forte a lui. «Hai difeso anche me.»
«Non ero stato un minchione che aveva tentato di far passare una scemenza per cavalleria?» ghigna, sentendo il corpo di lei rilassarsi un poco.
«Non dimentichi nulla.»
«Esattamente» sospira, avviandosi con lei verso il centro illuminato a giorno. «Neanche che ci hanno interrotto due volte.»
* * *
Quei divani gli ricordano un sacco di cose.
A Zlatan sembra che sia passata una vita, non soltanto qualche mese, da quando un signore stronzo dall’accento strano si è presentato in uno dei tanti bordelli svedesi per chiedere di Nio, che ormai è soltanto un nome del cazzo affiancato a un periodo della sua vita ugualmente del cazzo. Si sente cambiato, e non sa dire né se sia colpa o merito di José, o del mondo che comincia a girare, se non nel verso giusto, almeno in una maniera che sia possibile seguire, in qualche modo.
Quando la mano di José si posa leggerissima sul suo collo, Zlatan non può fare a meno di rabbrividire. Si volta a guardarlo con aria un po’ stanca, ma il sorriso che affiora naturalmente alle labbra non può proprio nasconderlo, e in realtà non ha nemmeno voglia di farlo.
«Come stai?» gli chiede piano José.
«Che domanda stupida» gli fa il verso lui, «Mi vedi ogni giorno.»
José sospira pesantemente.
«Non è abbastanza per sapere cosa ti gira per la testa.»
Zlatan riesce a trattenere la risata solo per pochissimi secondi. Sono abbastanza, comunque, per alzarsi in piedi e tirarsi contro José. Non cerca neanche un bacio, questo dovrebbe essere strano e invece non lo è. Cerca il suo collo, lo sfiora con le labbra, inspira a fondo il suo odore e lo abbraccia. Una stretta anche un po’ infantile. Un po’ spaventata. Un po’ qualcosa che in genere Zlatan non è.
Quando José solleva le braccia e lo stringe alla vita, lo fa soprattutto per rassicurarlo. Per riportarlo alla tranquillità. Per riappropriarsi dello Zlatan che conosce meglio.
Lo bacia lievemente sulla spalla lasciata scoperta dalla canottiera scollata in cui s’è infilato – assieme ad un paio di pantaloni larghi e morbidi all’interno dei quali il suo culo gioca a nascondino, palesemente per il suo divertimento – non appena è entrato in casa, e Zlatan risponde con un mugolio piccolissimo, piegando il collo in attesa del resto.
«Abbiamo una questione da chiudere, noi» gli fa notare il portoghese, sorridendogli addosso e lambendo appena la pelle con le labbra.
Zlatan risponde con un borbottio frustrato.
«Ti prego… tu e la tua dannata ossessione per la conversazione… possiamo parlarne dopo, qualsiasi cosa sia?»
«No» risponde seccamente José, scivolando con la lingua fino al suo mento, mentre lo spinge contro lo schienale del divano, al quale Zlatan si arpiona subito – perché le gambe cominciano a cedere, ed è stupendo che continui a succedere nonostante tutto, è stupendo che succeda anche se ormai José lo conosce a memoria, è stupendo che José non riesca proprio in alcun modo a venirgli a noia. «Ci sono dei punti che devo chiarire.»
«Ti prego, per favore» la voce di Zlatan è ridotta a un mugolio che gronda voglia ed impazienza, «No, non ci torno da Filippo, Cristo, non andrò più con nessun altro, ora ti scongiuro, cazzo, scopami, perché-»
«Io ti amo.»
Zlatan spalanca gli occhi e lo guarda, per un secondo, come si fosse appena svegliato trovandoselo già fra le braccia senza capire bene né come né perché.
«Come scusa?» chiede, e si aspetta che José risponda “non te lo ripeterò un’altra volta”.
«Io ti amo.»
E invece no.
«Cristo, togliti quell’espressione del cazzo dalla faccia, almeno» protesta José, vagamente irritato – imbarazzato? «Ti ho appena-»
«Appunto» lo ferma Zlatan, baciandolo lievemente sulle labbra. «Credevo che non l’avresti mai fatto. In realtà non credevo nemmeno che fosse così. Credevo un sacco di cose di-»
«Sbagliate.»
«Diverse.»
José resta in silenzio. Smette anche di muoversi contro di lui, ma la cosa assume improvvisamente una sfumatura di un’importanza nettamente minore. Soprattutto quando Zlatan schiude le labbra per parlare ancora.
«Ti amo anch’io» confessa a mezza voce.
«Questo lo so già» risponde José, impietoso. «Quello che voglio sapere è-»
«Sono tuo. E di nessun altro. Dalla prima fottuta volta che mi hai messo le mani addosso e nonostante tutto quello che è successo dopo quel giorno e prima di oggi. Sono tuo. Non mi serve più nemmeno un collare, per dirtelo» si china su di lui, gli sfiora il collo con le labbra e lo risale tutto fino al suo orecchio, sussurrando piano. «Ti sento dentro anche quando non ci sei» sorride, e José sente quel sorriso scivolare in brividi lungo la schiena, «Ci riesco davvero, mi basta chiudere gli occhi e ti sento dentro. Ridi pure, ma non credevo mi sarebbe mai successo con qualcuno, e-»
José non ride. Lo interrompe per l’ennesima volta, però a questo giro usa un metodo così piacevole che Zlatan rifiuta il diritto di protestare.
Non passa molto prima di sentire il tavolo premere contro il fianco con tanta insistenza da risultare quasi doloroso. Passa ancora meno tempo prima di sentirsi premere contro le sue mani – ovunque – le sue labbra – umide e calde – il suo cazzo – e Cristo, non c’è più niente da dire e non c’è più niente neanche da capire, quando si solleva appena issandosi sulla superficie in legno ruvido e sporge il bacino in cerca di soddisfazione per la propria erezione tanto tesa e frustrata da risultare più fastidiosa che piacevole.
José entra dentro di lui e sa farsi sentire con pochissimo, come sempre. Zlatan gli si stringe attorno ed è tutto quello che deve fare per costringerlo a chiudere gli occhi e perdersi nel movimento ritmico e perfettamente collaudato delle loro spinte e controspinte, un equilibrio perfetto che hanno tirato su a forza di gomitate e spintoni, una cosa che hanno ottenuto soltanto perché l’hanno pretesa. Una cosa talmente loro che all’improvviso le dichiarazioni d’amore – per quanto intense, per quanto necessarie – perdono d’importanza, diventano banali. Il corpo di José dice più della sua voce. Ed è lo stesso per Zlatan.
Quando José viene dentro di lui, Zlatan serra con forza le gambe attorno ai suoi fianchi e mugola di piacere, seguendo il movimento della sua mano sul suo cazzo con movimenti brevi e svelti, perdendosi sulle sue labbra e nel sapore del suo respiro finché non viene a propria volta fra le sue dita. José resta nascosto contro la sua spalla mentre riprende fiato, e le dita di Zlatan lo accarezzano sul collo, sulla nuca e fra i capelli. La stanza è piena solo di loro. Ci sono loro ovunque.
«…domani sveglia alle sette e mezza» è tutto ciò che dice José uscendo da lui pochi secondi dopo, «Abbiamo ancora un campionato da vincere» precisa, muovendosi verso il bagno.
Zlatan ride, rimettendo i piedi per terra.
«Ma l’abbiamo già vinto a quattro giornate dalla fine» gli fa notare con un certo orgoglio. José scrolla le spalle.
«Se avessi dato per scontato tutto ciò su cui mi sembrava di aver già messo le mani, adesso non avrei niente.»
E Zlatan annuisce e si riveste, perché pensa che José abbia ragione. Ed anche se non ce l’ha, sinceramente non gli importa.
Note finali (da leggere assolutamente fino in fondo): Cari fanatici (soprattutto fanatiche, dubitiamo che qualche uomo sia sopravvissuto al punto da leggere fin qui) *_* innanzitutto ci scusiamo per avervi costretto a leggere di una squadra di troie
Secondariamente, vi ringraziamo per averci seguito con tanta devozione e tanto affetto amodiandoci con passione ç_ç sommergendoci di parole bellissime, sopportando i nostri allucinanti ritmi di postaggio (perfettamente rispecchianti quelli di scrittura, comunque, ve lo assicuriamo) e via amoreggiando amykettosamente e non su svariati lidi del web (nonché, in barba ai puristi, in chat).
Non avete idea di quanto ci rattristi essere arrivati alla fine ç_ç in condizioni normali vi avremmo tenuti sotto scacco per mesi, cominciando a postare d'estate e finendo all'inverno dell'anno successivo, ma Temporal-mente ci ha impedito di dare fondo alla nostra barbara crudeltà, perciò così è e così si conclude quest'avventura (più o meno).
Vorremmo ringraziare un sacco di gente, ma tra recensori fedeli, lettori ninja, sostenitori esterni e supporti morali, ci sarebbe un elenco lungo una schermata ad alta risoluzione. Sappiate che vi amiamo. Tantissimo. E non ci dimenticheremo mai di voi, anche perché non vi sarà possibile dimenticare le nostre amorevoli e leggiadre personcine (sì, è una minaccia).
Grazie per tutto.
Nota dell'autore maschio: So già che, quando dovrà leggere queste note prima di postare questo capitolo, la donna vorrà replicare e dire la sua al contrario XD spero di impedirglielo per quanto possibile.
Scrivere con Liz è stata un'esperienza molto al di là dal poter essere definita mistica. Ricordo delle circostanze ignobili in cui è nata POALS (di notte, partendo da delle scene che sei mesi fa mi sarei vergognato come un cane a scrivere), ricordo delle nottate passate ad aggiungere pezzetti, paragrafi, intere pagine, capitoli. Ricordo ogni particolare plottato (benché non riesca più a distinguere cosa sia mio e cosa no... è una buona notizia, credo XD), le frasi che più l'hanno imbarazzata/divertita/illuminata e, viceversa, i paragrafi che più mi hanno appassionato.
È stata un'impresa titanica e ne vado fiero. Grazie, alla donna che ha reso divertenti, commoventi e appaganti tutti i momenti passati a scrivere questo… mostro. Siamo sopravvissuti, guardando con amore le vicende che si compivano. E tanto mi basta.
Nota dell'autrice femmina: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fan
FINE?