Scritta in coppia con Def.
Genere: Drammatico, Erotico, Generale.
Pairing: Copiosi.
Rating: NC-17.
AVVISI: Hurt/Comfort, Language, Slash, Ucronia, Underage, Violence, OC.
- "Bruxelles, 29 maggio 1985.
Durante la finale di Coppa dei Campioni (ora UEFA Champions' League) tra Juventus e Liverpool, scoppiarono dei disordini all'interno dello stadio a causa di alcuni gruppi di facinorosi inglesi, che sfondarono le reti divisorie tra il proprio settore e quello che ospitava tifosi neutrali e italiani. A causa della ressa di gente impaurita, alcuni si gettarono nel vuoto per evitare di essere travolti, altri si ferirono contro le recinzioni divisorie. Il muro su cui tentavano di arrampicarsi alcuni tifosi crollò, forse a causa della scarsa manutenzione o del peso eccessivo, seppellendo numerose persone.
Trentanove morti, più di seicento feriti, in gran parte italiani. La UEFA squalificò a tempo indeterminato tutti i club inglesi dalle competizioni europee, molti tifosi del Liverpool furono accusati di omicidio e strage colposa. I disordini, purtroppo, non si fermarono qui."

Note: La parte femminile di questo duo di criminali in carriera, in tutto ciò, vorrebbe tanto ringraziare la sua controparte maschile, nonché l’uomo che molti vorrebbero fosse suo marito, nonché – a quanto pare – il padre di due sue figlie. Tutto ciò in pochissimi mesi, eh, va reso merito a quest’uomo. Egli l’ha seguita senza sfancularla nemmeno una volta (anche quando a buon diritto avrebbe potuto farlo), è stato fonte di grande fangirlingmanning, è stato di grande supporto morale ed è stato soprattutto un compagno di scrittura e plottaggio veramente piacevolissimo. Ed un sacco asservito *O* Mi mancherà scrivere con te >_< E comunque siamo stati fiQuissimi, Def.
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Scivolando veloce lungo la fascia destra, Davide si guarda intorno e cerca qualcuno cui passare la palla. Mancano così pochi minuti alla fine della partita che ha deciso di smettere di contarli: si renderà conto di tutto solo quando sentirà il fischietto dell’arbitro annunciare a gran voce la chiusura dei giochi. Fino ad allora, non importa di quanto si parli, c’è ancora tempo.
Il problema è che non c’è più fiato. Quello che è successo negli ultimi giorni non è stato d’aiuto a nessuno, Zlatan ed il Mister hanno faticato ad entrare in sintonia durante il riscaldamento prima della partita – e Dio solo sa se questo non sia un gravissimo problema: quando Zlatan e José non entrano in sintonia, scattano immediatamente dei malumori che Zlatan chiama “mal di pancia”, probabilmente perché non ha ancora imparato il modo corretto per tradurre in italiano educato quello che, in italiano spiccio, sarebbe “sono incazzato al punto che vorrei farti fuori a cazzotti”.
Lo svedese è svagato, non riesce a concretizzare, Mario è ancora in panchina, del tutto inutilizzabile – e Davide non riesce nemmeno a guardarlo, tanto gli fa male vederlo in quelle condizioni – e gli sforzi di Adriano servono a poco se non c’è un talento a guidarli ed incanalarli nella giusta direzione.
Per questo, quando solleva lo sguardo e si ritrova improvvisamente smarcato, con una prateria fra se stesso e il portiere della squadra avversaria, fa un rapido calcolo, tende i muscoli delle cosce e, quando si rende conto che reggono, scatta in avanti, portando palla in un modo che spera renda orgogliosi tutti. Compreso il Mister, anche se è convinto che lui sia solo un’inutile puttana.
José si alza in piedi e lo guarda, gli occhi resi enormi dallo stupore e dall’aspettativa. Mario lo fissa con la stessa intensità, anzi, forse è addirittura superiore. Per un secondo, Davide riesce a sentirsi addosso tutti, proprio tutti quegli sguardi. Gli unici che proprio non gli riesce di sentire sono quelli degli angeli che si augurano che cada, che sbagli, che qualcuno – perdio! – lo gambizzi, in qualche modo.
Non succede. La lotta, fra la sua voglia di segnare e la voglia di parare del portiere della Fiorentina, è del tutto impari. E la palla compie un arco precisissimo dal suo piede destro all’angolo sinistro della porta. E a Davide in quel momento non interessa che la sua squadra dovesse essere destinata alla sconfitta: l’ha insaccata, l’ha mandata dritta in rete, è la prima volta che succede in un dannatissimo anno e l’adrenalina, la gioia, l’orgoglio, l’urlo soddisfatto di José dalla panchina ed i sorrisi increduli e felici dei compagni di squadra gli impediscono di sentire il peso di quell’errore. Perciò niente, chissenefrega di tutto, chissenefrega del mondo, Davide comincia a saltare e correre in giro e urlare “sì, cazzo, sì!”, e mentre fa il giro del campo, mentre i tifosi urlano felici, mentre i suoi compagni lo inseguono e cercano di placcarlo per gettarlo a terra, abbracciarlo, scompigliargli i capelli, complimentarsi e tutto il resto, un sibilo fastidioso si solleva dalla curva avversaria e vena l’aria, dapprima solo parzialmente, poi in maniera sempre più convincente. Finché il boato conquista tutto lo stadio, finché non si sente altro. Voci cupe di uomini risentiti ed un urlo unanime. “Troia! Troia! Sei solo una troia!”.
Si ferma dov’è, praticamente a centrocampo. I suoi compagni di squadra rallentano il passo e smettono di inseguirlo. Alcuni sollevano lo sguardo a cercare di individuare i colpevoli di quelle ingiurie, Adriano e Zlatan prendono subito tutto male e, essendo gli spiantati che sono, cominciano a correre verso la curva e raccogliere qualsiasi cosa da terra per lanciarla a caso sui tifosi che ancora urlano – “Troia! Troia!” – e non è la prima volta che succede – “Troia! Troia!” – la loro, in effetti, è una squadra di troie – “Troia! Troia!” – ma non era mai successo durante una partita – “Troia!” – non era mai successo solo perché qualcuno aveva osato segnare – “Troia!” – non era mai successo a lui. Dannazione. Non era mai successo a lui.
«Porca puttana» è il commento risentito di José dalla panchina. L’uomo si morde un labbro e muove qualche passo nervoso attorno agli scalini che, se solo si decidesse a solcarli, lo porterebbero in campo. A rischiare un’espulsione, probabilmente, ma d’altronde i suoi giocatori migliori stanno già facendo la rivoluzione dall’altro lato del campo, e dovrà ritenersi fortunato se non si ritroverà con mezza squadra fuori causa dopo la giornata di oggi. Peggiorare ulteriormente la situazione sarebbe quasi ridicolo, ma qualcuno dovrà pure fermare quei due idioti di Zlatan e Adriano, quindi alla fine il portoghese vince le ultime ritrosie e fa per avviarsi verso il centro del campo.
E si ferma subito.
Mario – che non sta ancora perfettamente bene ma ha recuperato abbastanza da poter trascinare il culo in panchina durante le partite e godersi così la giustificata serie di improperi che José gli riversa addosso ogni volta che “quell’azione sarebbe andata meglio se ci fossi stato tu in mezzo al campo! E invece sei un cazzone, perciò niente!” – s’è alzato e, reggendosi con aria un po’ incerta sulle gambe, spostando il peso il più possibile su quella sana, sta muovendo qualche passo verso gli scalini. José lo osserva fermarsi un attimo e guardare le stampelle, chiedendosi probabilmente se sia il caso di afferrarle ed aiutarsi con loro. Poi però lascia perdere, e riprende a muoversi. Gli chiede spazio con un’occhiata silenziosa, e José si scosta, lasciandogli campo libero. A tutti gli effetti.
«Davide!» lo chiama Mario, ma non ottiene risposta. Ringhia – il dolore comincia a farsi sentire – e lo afferra prepotentemente per le spalle, costringendolo a voltarsi verso di lui con uno scatto imperioso. «Davide» lo richiama, più dolcemente, ed il ragazzino solleva gli occhi a cercare i suoi. Si guardano solo per un po’, Davide sembra sull’orlo delle lacrime e le mani di Mario, avvolte in un paio di guanti neri e leggeri, scivolano sulle sue guance ridisegnandone i lineamenti dritti e fieri, mentre un pollice scende ad accarezzargli il labbro inferiore.
Davide fa per dire qualcosa, ci mette tutte le buone intenzioni, ma gli sfugge dalle labbra solo un singhiozzo strozzato. Perciò Mario sorride, e visto che ha comunque sentito tutto ciò che doveva si china a baciarlo lentamente. Così, di fronte a tutti, e fregandosene abbondantemente del mondo intero che li sta guardando e non ha più neanche il coraggio di aprire bocca. Zlatan, da qualche parte ancora sotto la curva, sorride. Adriano sbotta un “ragazzini” che finge solo di essere risentito ed esasperato. Marco ride, buona parte della squadra lo segue, ma non sono risate sguaiate ed offensive, somigliano più che altro a una sfacciata presa di posizione: “troie, eh? Già. Non sapete nemmeno quanto”. José, dalla panchina, ghigna soddisfatto. Voleva degli uomini sicuri, responsabili ed orgogliosi, d’altronde. E li ha. Eccome.
Quando Mario si separa da lui, Davide ha ancora il suo sapore sulla lingua e le labbra umide e un po’ arrossate. Sorride arreso, appoggia la fronte contro la sua. Mario lo stringe appena e gli sussurra “fottitene” contro un orecchio, sfiorandolo lentamente.
La partita finisce così. Quei pochi minuti di recupero che l’arbitro avrebbe probabilmente voluto concedere finiscono nel dimenticatoio. Davide e Mario devono portarli fuori dal campo insieme. Loro, di loro spontanea iniziativa, non si staccano neanche morti.

* * *


Dire che Rosalia sia allarmata non rende abbastanza l’idea. Il fremito continuo della sua pelle ambrata, le ciglia che sbattono al rallentatore e il respiro che, al contrario, appare come accelerato, sono gli effetti dell’adrenalina che le va in circolo. Filippo, al contrario, è più calmo e controllato che mai: resta seduto con le gambe allungate contro un tavolo, un occhio ai monitor e uno alla compagna, e canticchia qualcosa di estremamente ritmico e poco accattivante per tentare di tranquillizzarla. Senza successo, visto che un paio di volte lo manda a ‘fanculo – e se lui non le risponde per le rime è solo perché è estremamente paziente, o estremamente innamorato, o entrambe le cose.
«La smetti di fare avanti e indietro?»
«Filì, la situazione è grave, non fare battute del cazzo» ringhia lei, in un tono così intimidatorio da zittire chiunque o quasi. E lui fa parte del quasi, naturalmente.
«Calmati» le dice, cingendole la vita con un braccio e costringendola ad arretrare fino a farla sedere sulle sue ginocchia. «Non c’è nulla di cui preoccuparsi.»
«Che minchia dici» obietta, senza però scattare e tornare a passeggiare nervosamente per tutto lo stanzino. «Quelli là vogliono la testa di Davide. E quella del Mou con lui, ci scommetto.»
«Io Davide lo bacerei» ghigna.
«Scusa?!» esclama irritata, voltandosi verso di lui in preda al dubbio. Lui appoggia la propria fronte alla sua, ridendo sconsideratamente.
«Diecimila euro e un po’ di tensione preserale mi sembrano un ottimo bottino. E tutto grazie a un gol e a un po’ di spettacolo post-partita.»
«Ti odio» sorride, baciandolo rapidamente sulle labbra e accarezzandogli una guancia con leggerezza. «Ma dobbiamo stare attenti.»
«È per questo che abbiamo cambiato tutto, stasera, no?»
Rosalia annuisce, più convinta, respirando al ritmo imposto dalla vicinanza di lui: i sacchi a pelo e le brande disposte nelle due palestre le sono sembrati subito un’ottima idea – non per niente è un’idea di Filippo – e la concentrazione di uomini armati fa pensare a tutt’altra sistemazione per i loro protetti.
«Ingresso Nord a De Faveri, ingresso Nord a De Faveri. Tutto tranquillo» gracchia la trasmittente sul tavolino, che viene prontamente afferrata da Filippo. «De Faveri a ingresso Nord, ricevuto; mantenete la posizione» dice tranquillo, per poi cambiare frequenza un po’ di volte e interpellare, in rapida successione, gli stazionamenti agli altri due varchi, i due guardiani vicino al campo di allenamento e la sorveglianza all’interno delle due palestre: la voce sarcastica di José – che non è dove dovrebbe essere, e chissà perché la cosa non stupisce nessuno – risuona limpida all’ultimo controllo.
«Mister Mourinho, lei è nel suo ufficio» commenta Filippo, una vena ironica destinata a lui e a lui soltanto.
«Ma non mi dica, capitano» ribatte tagliente. «Non me ne sarei mai accorto.»
«Signore, non ci renda le cose più complicate di quanto non siano già. Dovrebbe essere nella palestra grande a riposare.»
José risponde loro una sfilza di parole incomprensibili in portoghese, e poi aggiunge beffardo «Volevo solo assicurarmi che foste al vostro posto a lavorare, stasera. Chiudo.»
Filippo sbuffa sonoramente, posando con malagrazia la trasmittente sul tavolo e restando a guardare prima l’aggeggio, poi i monitor, e poi la donna ancora seduta sulle sue ginocchia.
«È uno stronzo.»
«Errore, erano due stronzi» lo corregge Rosalia con una risatina, passandogli una mano tra i capelli.
«Eh?»
«Ma dai, non hai sentito nulla in sottofondo?»
Filippo non riesce a seguirla. «Avrei dovuto?»
«Aha» sospira Rosalia con finta delusione, baciandogli il collo. «Dovresti essere più attento a chi ti respira addosso.»
Le permette di sistemarsi più comodamente e di intrecciare le gambe contro i suoi fianchi. «E tu dovresti stare meno attenta a chi mi respira addosso» commenta caustico. «O forse no.»
«O forse no» conviene a sua volta, allungando le mani per slacciargli il primo bottone della camicia.
«Rosalia?» dice a voce bassa, perplesso. «Sei…»
«Sta’ zitto» risponde, scostando i lembi della stoffa e accarezzandogli il torace, languida.
«Ma-» balbetta, prima di ritrovarsi le sue labbra contro le proprie. Filippo fa scivolare le mani all’interno della divisa di Rosalia, baciandola con più passione. E, alla buon’ora, resta in silenzio.

* * *


Sì, José è in ufficio. Se non resta un solo fottutissimo posto dove scopare, deve arrangiarsi con quello che c’è. Se c’è la necessità di far piazza pulita di tutte le interferenze che si stanno frapponendo tra loro due, non si fa problemi – una è sicuramente Adriano, l’altra andrebbe scelta a caso tra i due ufficiali, e per quanto la sicurezza venga prima di ogni cosa non gli piace il sorriso soddisfatto con cui torna al campo con loro da un po’ di tempo a questa parte. Se c’è bisogno di ribadire a Zlatan che, anche se Helena è di nuovo una parte opinabile della sua vita, deve tutto quanto o quasi a lui, ancora, deve accontentarsi di quello studio – e nella fattispecie, significa accontentarsi di un tavolo che ha sgombrato con un movimento brusco del braccio, di una lingua che, chissà perché, ha il vago sapore di qualcun altro, e di un ghigno che spunta ogni volta che José fa esattamente quello che Zlatan si aspetta – e no, quello è il ghigno di quell’altro coglione di De Faveri: se è davvero arrivato al punto da doversi scopare o farsi scopare da lui, allora il mondo è messo ancora peggio di quel che ricordava.
José e Zlatan si sono incontrati in corridoio meno di un quarto d’ora fa. Zlatan usciva dal bagno – i capelli arruffati sulla testa e gli occhi pesanti di sonno, avvolta in una maglietta ed un paio di pantaloni bianchi che sembravano quasi azzurrini alla luce della luna che filtrava fra le tende dell’unica finestra del corridoio – e José, invece, stava cercando lui. Senza un perché – o forse solo per vederlo – comunque lo stava cercando e basta. E ritrovarselo quasi addosso, così all’improvviso, gli è sembrato così assurdo da costringerlo quasi ad una mezza risata – trattenuta a stento, e per fortuna: ha avuto come l’impressione che, al primo accenno di presa in giro, anche minima, Zlatan non gli avrebbe risparmiato il paio di cazzotti che sogna di rifilargli da tempo immemore.
«Non dormi ancora?» s’è sentito chiedere in uno sbuffo falsamente infastidito, mentre Zlatan distoglieva lo sguardo per non ricambiare il suo.
«Mi vedi, sono sveglio» ha risposto, «Lo sei anche tu.»
«Dovevo pisciare» ha ringhiato Zlatan, «Ora me ne torno a letto.» e s’è allontanato di un paio di passi, dandogli le spalle senza neanche un ripensamento.
José l’ha bloccato nell’unico modo possibile senza dovergli correre dietro come una liceale.
«Solo?» ha insinuato a bassa voce.
Zlatan s’è bloccato all’istante e s’è voltato a guardarlo.
«Solo» ha risposto, «Non sono te, io. Potrò essere una puttana, ma tu ed io ce la giochiamo, quanto ad esperienza sul campo. E tu non ti fai nemmeno pagare, il più delle volte.»
José ha abbassato solo impercettibilmente lo sguardo.
«Non serve ricevere dei soldi, per essere stati pagati» gli ha spiegato quindi, pacatamente. La sua voce è scivolata morbida e calda, tranquilla, quasi rilassante, fra le sue labbra. Ha attraversato l’aria fra loro due ed ha avvolto Zlatan in un abbraccio che lui ha solo finto di avere dimenticato. E che però sta comunque cominciando a diventare un ricordo sbiadito. La cosa lo ha confuso, soprattutto al pensiero che tutto questo – proprio tutto – è cominciato con le mani di José sopra, sotto e ovunque attorno a lui. E gli manca quel tocco. Gli manca quasi il periodo in cui lui era solo una puttana e José solo un ottimo cliente: perché allora non avevano niente da chiedersi l’un l’altro; a parte, ovviamente, se stessi.
«Come stai?» ha chiesto in un soffio. Quasi neanche se n’è reso conto, quando l’ha detto. Non ha capito nemmeno perché se ne fosse interessato. José è uno stronzo e lui dovrebbe già essersi annoiato abbastanza. Dovrebbe già aver capito che non cambierà. Dovrebbe già anche avere accettato che non vuole davvero che cambi, sta solo cercando di opporsi strenuamente all’idea che potrebbe piacergli anche così, stronzo per com’è, proprio perché è stronzo per com’è.
José ha sorriso appena.
«Che domanda stupida» ha risposto, «Mi vedi ogni giorno.»
Zlatan ha sospirato pesantemente, socchiudendo gli occhi.
«Non è abbastanza per sapere cosa ti gira per la testa.»
E questo è successo appena un quarto d’ora fa ed ora Zlatan sta appoggiato contro la scrivania dell’ufficio di José – la prima stanza utile nel raggio di metri – e tutto questo è stato possibile solo perché José ha risposto alla sua richiesta muta, in quel corridoio buio: riporta tutto com’era; baciami.
«Cazzo» sibila lo svedese, allargando istintivamente le gambe quando José cerca spazio. I loro bacini collidono all’improvviso e Zlatan si inarca, gettando indietro il capo e piantando le punte dei piedi sul pavimento per sollevarsi il più possibile, «Le mani, le mani!» chiede imperioso, e José gli sorride divertito sul collo, nascondendo l’immotivata allegria che prova nel poterlo toccare di nuovo così in una scia di baci umidi che scorrono languidi giù fino alla clavicola e lì si fermano, mordendo e leccando la pelle già arrossata e lievemente sudata, alla ricerca delle vecchie tracce di loro due insieme.
Devono esserci ancora, da qualche parte. Devono esserci ancora ed in effetti José le ritrova: nel ritmo perfetto col quale Zlatan prende a strusciarsi contro di lui – un ritmo che è il loro, è inconfondibile – nelle carezze che gli passano lente fra i capelli – che stanno finalmente cominciando ad allungare, con grande gioia di Zlatan – e nei mugolii soddisfatti che sfuggono dalle labbra dell’altro uomo quando José comincia ad usare le mani invocate con tanta impazienza prima, lasciandole scorrere lentamente sotto la maglietta, sul petto, sulla pancia, seguendo la linea definita degli addominali, e poi oltre l’orlo dei pantaloncini, fra le natiche, attorno e dentro di lui.
È allora che ci si interrompe la prima volta – proprio lì, proprio mentre Zlatan lo bacia e gli chiede di farsi sentire dentro, dannazione – con quello stronzo di De Faveri che fa il giro notturno via trasmittente per assicurarsi che sia tutto a posto, e José ha appena il tempo di mandarlo a ‘fanculo come merita e poi schienare Zlatan sulla scrivania – fra le sue risatine vagamente divertite – e salirgli a cavalcioni addosso con impeto, più che atletico, dettato dalla voglia assoluta che ha di sentirlo muoversi e gemere e stringersi e mugolare sotto di lui, che una scarica elettrica scaturisce dalla trasmittente, senza preavviso.
«Palestra donne a tutte le unità, palestra donne a tutte le unità. Miss Seger si è allontanata e non riusciamo a ritrovarla, non è nei bagni e ci sono persone in giro per i locali. Ripeto, a tutte le unità…»
«Ma io lo sapevo» bofonchia José, fermandosi a metà di una spinta particolarmente violenta. «Io me lo sentivo che quella stronza portava solo guai» mugugna ancora, uscendo da Zlatan con un colpo secco e rivestendosi in fretta insieme a lui.
Un grido strozzato risuona a poca distanza dall’ufficio. Un grido che Zlatan riconoscerebbe ovunque.
«Hel-» comincia a gridare, ma José gli pianta una gomitata nello sterno per zittirlo: mentre crolla a terra per la fitta di dolore, il portoghese corre fuori e si premura di sbattersi dietro tutte le porte che trova lungo la strada.
Segue le scie di imprecazioni e un altro grido straziante, scavalcando Davide che si contorce a terra tenendosi il fianco e che grida «Sto bene, sto bene, hanno la donna!» e corre fino a trovarseli davanti, di nuovo.
Soltanto quando gli angeli gli puntano contro i fucili capisce il suo errore madornale. Una serie di immagini troppo confuse per essere colte singolarmente, una sensazione opprimente di impotenza.
«È così che finisce tutto, Special One» ghigna perfidamente la criminale, puntando rapidamente la canna del fucile d’assalto contro il fianco di Helena. «Prima lei, poi te.»
José spalanca gli occhi fissando il vuoto dietro le due donne, la faccia rigida per quello che, per una volta, è puro terrore. «No!» è l’urlo che viene prima da dietro di lui e poi da una furia scatenata che lo spintona e tenta di superarlo con uno scatto.
Il dito, minaccioso, si contrae. Due spari. Un grido. Zlatan perde l’equilibrio e si schianta sulla terra battuta, due fitte di dolore in rapida successione all’altezza della caviglia e del torace.

TBC…



Note della pucciosa produzione: avvisiamo che il prossimo aggiornamento potrebbe subire ritardi al solo scopo di causare infarti a profusione. ^O^


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