Genere: Generale.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José, Davide/José (onesided).
Rating: R
AVVISI: AU, Slash.
- Mario fa entra ed esci dall'orfanotrofio da quando aveva due anni. Nessuna famiglia sembra riuscire ad accoglierlo nel giusto modo, e perciò non vede perché dovrebbe essere diverso, stavolta. Solo che lo sarà. Lo sarà eccome.
Note: ;___; Commozione, è finita!!! Voi non potete capire cosa vuol dire per una donna come me – una che le storie sa (quasi) sempre quando le comincia ma mai quando (e se!) le finisce – riuscire a concludere una fic a capitoli. In un tempo prestabilito, poi, e senza sbavature! Sette settimane, ci ho messo, e mai un ritardo. E amo oggi questa famiglia di disastrati esattamente quanto l’amavo il primo giorno, perché piano piano ho imparato a conoscerli assieme a Mario. E nonostante il finale tremendo (me lo dico da sola ._. Odiatemi) mi resteranno sempre nel cuore. *sparge affetto*
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
NEW COLORS TO PAINT THE WORLD
turbulent indigo

Il cielo sopra la sua testa è di un colore bellissimo. Un misto di blu e violetto e una spruzzata di grigio che Mario non saprebbe battezzare. Ma è un colore bellissimo, non riesce a staccare gli occhi dalla volta punteggiata qua e là da stelline minuscole mentre Venere brilla così forte da dare l’idea di voler provare a fare ciò che la mezzaluna sbiadita che sorge a ovest non riesce a fare, portare un po’ di luce a quel principio di sera che annuncia la notte più scura dell’anno. E chi se ne frega se è agosto e non può essere davvero la notte più scura dell’anno. Anche se in cielo non ci sono nuvole, anche se le stelle sbocceranno come fiori per altre due o tre ore, riempiendo la volta celeste col loro chiarore, anche se presto si accenderanno perfino i lampioni di Villa Ratti e il buio sarà solo un ricordo che si spegne nella luce fosforescente del neon, sarà comunque la notte più scura dell’anno.
José non riesce a piangere, Zlatan non riesce a toccarlo. Mario guarda il cielo e Davide resta accanto a lui.
*
Se avesse avuto anche solo un sentore del fatto che quella sarebbe stata la giornata più orrenda della sua esistenza – la più drammatica, la più confusa, la più triste eppure per certi versi anche la più necessaria della sua intera vita – Mario probabilmente sarebbe rimasto a letto. L’aveva fatto spesso, d’altronde, in svariate occasioni, fin da quando era piccolino. Il suo primo ricordo risale a quando aveva due anni circa. È confuso e sbiadito, ma può essere abbastanza certo della datazione perché stava in ospedale e non c’è più stato, da quando i medici l’hanno rimesso a posto, prima di spedirlo in orfanotrofio dal direttore Moratti.
Aveva la febbre, sicuramente a causa di una qualche complicazione post-operatoria – dopo una delle millemila operazioni che ha subito del corso di quei due anni in cui stava cominciando a credere non esistesse la vita oltre le mura bianche e linde dell’ospedale – e ricorda distintamente un’infermiera, il cui viso si è perso negli anni ma che sa essere stata sicuramente carinissima, avvicinarglisi piano e scostargli gentilmente i capelli ricci e crespi dalla fronte umida e appiccicosa di sudore.
- Non ti va di provare ad alzarti? – lo ricorda con una precisione disturbante, potrebbe perfino riprodurre il tono esatto della sua voce, premuroso e apprensivo, - Non ti va mai di alzarti, Mario…
La prassi del non venire fuori dalle lenzuola dopo l’annuncio di una giornata di merda era cominciata lì – e d’altronde, come dargli torto? Se a due anni apri gli occhi e come prima cosa li senti bruciare allo stesso modo di come senti bruciare tutto il resto del tuo corpo e in particolare un punto preciso ma indefinibile del ventre, dove la trovi la voglia di alzarti, trascinarti in bagno per farti lavare e provare a giocare con gli altri bambini? Non la trovi, quella forza, non ce l’hai. Il tuo corpo è troppo piccolo e pieno fino all’orlo di dolore per poter contenere altro.
Era diventata un’abitudine, si era comportato così anche quando era andata male con le due famiglie adottive che l’avevano preso in custodia per poi buttarlo fuori di casa dopo due settimane. Le motivazioni erano sempre le stesse: la prima volta, i genitori si erano accorti che Mario non andava d’accordo coi fratellini e con le sorelline, e la seconda volta, quando non c’erano fratellini né sorelline, era con mamma e papà stessi che Mario non riusciva a legare. “Troppo strano, questo bambino,” dicevano, “è nato sbagliato”, e Mario sapeva che era vero, perché nessun bambino esce dalla pancia di sua madre per entrare nella pancia di un ospedale e non uscirne più per i successivi ventiquattro mesi. Una disfunzione dell’apparato digerente, secondo i medici, ma Mario sapeva che non era quello, il problema. Non era la sua pancia a funzionare male, era tutto lui ad essere completamente al contrario.
E così, quando le cose cominciavano ad andare male e girare per il verso sbagliato, la reazione di Mario era sempre la stessa: non usciva più dal letto. La prima volta che era successo, lui era molto piccolo – sei anni, sette, forse appena di più – e i suoi genitori adottivi avevano chiamato il direttore perché lo venisse a riprendere – Mario ricorda molto distintamente il suo “Vuoi tornare a casa, Mario?” ed il “sì” singhiozzato a stento in risposta, e anche il modo in cui le braccia del direttore si sono strette con forza attorno a lui, issandolo in braccio per portarlo via. Alla volta successiva, e lui aveva già più di quindici anni, erano cambiate le modalità del gioco ma non le regole: i genitori di turno non avevano aspettato che fosse il direttore a tornare a riprenderselo, ma l’avevano buttato fuori di casa aspettandosi che lui sapesse ritrovare la strada dell’orfanotrofio da solo. L’unica sua fortuna era stata aver ripercorso quella manciata di vie abbastanza volte, in un senso e nell’altro, da ricordarle tutte a memoria.
Quando ci aveva riprovato la terza volta, con José e la sua famiglia, prima di conoscerli aveva pensato che non avrebbe mai potuto funzionare. Non aveva funzionato con le altre due normalissime famiglie che li avevano preceduti, perché questo nuovo ambiente avrebbe dovuto essere diverso?
La risposta era arrivata da sola col tempo, e Mario se la ripete mentre schiude gli occhi nel buio ancora pesto della stanza e sente il profumo di Davide così vicino da confondersi: la risposta è che a lui, per stare bene, serviva gente altrettanto spostata, gente altrettanto sbagliata. Gente più simile a se stesso.
La cosa più importante che ha capito durante il mese che ha già passato in casa Mourinho, è che per le prime settimane non è riuscito ad ambientarsi in primo luogo perché non riusciva a riconoscere la sensazione di benessere e naturalezza che lo circondava – bella storia: non avendola mai provata, era ovvio che non riuscisse a riconoscerla – e in secondo luogo perché aveva effettivamente difficoltà ad abituarsi all’idea per cui potesse stare bene soltanto con gente assurda. Si è chiesto spesso se fosse giusto sentirsi bene anche se in compagnia di una persona come José – uno che si tiene una moglie fuori di testa e le lascia fare tutto quello che vuole chissà perché. Uno che sta col figlio adottivo – o di uno come Zlatan – uno che ama un altro ma lo tradisce e poi scompare per mesi interi in virtù del proprio indomabile animo zingaro, insomma, un coglione – e ancora di uno come Davide – uno che i suoi problemi li risolve col sesso, e non capisce che è da quella stessa cosa che i suoi problemi vengono tutti.
E poi semplicemente l’ha capito. Lui non è diverso da loro. Lui è esattamente uno di loro. Uno che mette il broncio e non esce più dal letto se le cose non girano bene. Uno che si tiene alla larga, non si apre mai, uno che di se stesso non dice mai niente – ha preteso che Zlatan, Davide e José gli dicessero quasi ogni cosa, ma di sé non ha mai rivelato un segreto. Nessuno sa i particolari del suo abbandono, nessuno sa dell’ospedale, perfino José sa solo che le altre famiglie attraverso le quali è passato erano due.
Lui è uno di loro. Stare bene, così, è normale. E Mario può accettarlo.
Davide mugugna e si rigira contro il suo fianco.
- Non ti azzardare ad alzarti. – gli sussurra, la voce ancora impastata dal sonno, - Sei troppo mattiniero.
- Sei tu il dormiglione. – risponde Mario ridendo e tirandoselo addosso con un braccio, - E comunque saranno almeno le undici.
- E noi saremmo almeno in vacanza. – continua a borbottare Davide, stringendolo possessivo, - Resta un po’. – chiede poi, - Lo zingaro non si sconvolgerà, anche se ci becca così.
Mario ride ancora e lo stringe forte, coinvolgendolo in una mezza danza ondeggiante che ha gli unici risultati di scatenare ulteriori lamentele da parte di Davide, scombinare tutte le lenzuola strappandole dagli angoli del materasso e infine ribaltare le loro posizioni in modo che sia Davide a stare sotto di lui mentre Mario si stende sul suo corpo cercando di non pesargli troppo addosso.
Solleva lo sguardo – la vista ormai abituata al buio – e cerca gli occhi di Davide. Quando li trova, lo bacia, guardandolo fisso, senza un’esitazione. Un bacio a fior di labbra, ma impresso con forza. Davide regge il suo sguardo e, quando lui si allontana, si inumidisce le labbra.
- Questo perché? – chiede infine, - Era diverso dagli altri.
Mario scrolla le spalle.
- Me ne sono accorto anch’io. – ammette, - Ma non so spiegarti perché.
Davide inarca le sopracciglia e poi ride, divertito.
- Sei assurdo. – lo spintona un po’. Mario si lascia ricadere al suo fianco e Davide si mette seduto, sbadiglia, si stiracchia e poi si alza in piedi. – È dopodomani il tuo compleanno, no?
Mario annuisce e Davide prende nota.
- D’accordo. Ora alza il culo, dai, andiamo a vedere se di sotto c’è la colazione.
Mario si alza con un saltello e il modo in cui lui e Davide escono dalla camera non può che essere descritto come “rocambolesco”: abbracciati, ondeggiano qua e là cercando l’uno le labbra dell’altro, girando come trottole e ridendo come cretini finché, giunti davanti alle scale, non stabiliscono che non è tanto il caso di continuare il giochetto idiota anche mentre scendono al piano di sotto. E poi Tami potrebbe vederli.
- ‘Giorno. – saluta Mario con un mezzo sbadiglio, entrando in cucina, e impiega meno di un secondo per rendersi conto che qualcosa non va come dovrebbe. Il fatto che José non ci sia non è indicativo – José non c’è quasi mai se non per apparizioni fugaci e ancor più fugaci sorrisi – ma il sorriso mancato di Zlatan – quella specie di smorfietta nervosa con cui cerca di far sembrare tutto a posto – parla da solo. – Che succede?
Tami sta preparando i biscotti – quindi Beppe sta preparando i biscotti e Tami sta ridendo e infastidendolo in tutti i modi che riesce a pensare – e Mario si siede a tavola mentre Davide prende posto al suo fianco e, come prima cosa, cerca gli occhi di Zlatan. Gli occhi sfuggono, se ne accorge anche Mario e perciò ripete la domanda, “che succede?”, le sopracciglia aggrottate e i lineamenti del volto tesi e immobili come quelli di una statua.
Zlatan si morde il labbro inferiore, i suoi occhi saettano svelti da Davide a Mario e poi di nuovo a Davide. Mario è infastidito dal suo silenzio, dalle sue esitazioni e anche dai suoi occhi opachi e confusi, perciò smette di guardarlo e sposta la propria attenzione su Beppe, aspettandosi di trovarlo scherzoso e tranquillo com’è sempre e sentendosi mancare il fiato quando invece lo vede pensieroso e cupo. Solo Tami ride, ma Tami ride sempre e non si accorge di nulla, perciò non può certo fidarsi della sua capacità di giudizio per tornare tranquillo.
- Zlatan… - la voce di Davide si insinua morbida fra le pieghe di quel silenzio inquietante. Mario la sente appena e Zlatan si irrigidisce come un pezzo di legno, prima di mettersi a giocare distrattamente con alcune mollichine di pane sparpagliate sul tavolo.
- Fate colazione. – ordina alzandosi in piedi ed indicando le loro tazze colme di caffellatte con un cenno del capo, - È già tardi.
- Ma qual è il problema? – insiste Davide, i pugni stretti appoggiati distrattamente sul tavolo.
Zlatan lo guarda e schiude le labbra, e Mario ha l’impressione che voglia parlare ma non ci riesca. O non sappia cosa dire. O non sappia come dirlo. Poi abbandona la stanza, accompagnato da un’imprecazione sottovoce che Davide sputa fra i denti con rabbia malcelata.
- Odio quando fa così. – commenta, e Mario gli accarezza discretamente le nocche della mano destra, - Avrà litigato col suo Zay.
Mario sospira ma non dice niente. Lascia subito perdere ed ascolta solo distrattamente il rumore della porta d’ingresso che si apre e si richiude, mentre i passi stanchi e un po’ strascicati di José avanzano all’ingresso, seguiti poco dopo dal suono delle chiavi che vengono riposte con cura sulla consolle in vetro proprio accanto all’attaccapanni. I sensi di Davide si tendono tutti all’improvviso e Mario glieli sente scorrere tutti addosso in un brivido che gli si trasmette, scuotendolo fin nello stomaco.
- Zay. – la voce di Zlatan è un sussurro, lo schiocco delle loro labbra si sente appena, - Cos’è successo?
Davide chiude gli occhi e resta immobile, evita perfino di respirare, e Mario lo imita, escludendo tutti i suoni che non riconosce come le voci di Zlatan e José. Sparisce la risata di Tami, il suono morbido dell’impasto dei biscotti che Beppe rimesta a mano nella terrina, spariscono gli uccellini da fuori e sparisce Andrea che dirige le operazioni di pulizia con il battaglione di camerieri che si muove svelto ed efficiente per la casa.
- Devo parlarti. – dice José, la voce contratta e incerta come fosse sotto sforzo, - Adesso.
Zlatan non dice una parola – Mario e Davide lo immaginano annuire – e poi si sente solo il suono scricchiolante delle sue suole di gomma contro le piastrelle in marmo misto sul pavimento, e la porta dello studio che si apre e velocemente si richiude alle loro spalle.
Mario riapre gli occhi e scopre che Davide l’ha fatto prima di lui, e ora sta fissando con aria persa la superficie del latte immobile nella tazza.
- Qualche idea? – chiede a mezza voce, e Davide scrolla le spalle.
- Forse sta andando via. – ipotizza.
Mario sospira. Qualsiasi sia il problema, restare lì ad arrovellarsi senza sapere niente non ha senso. Potrebbe torchiare Zlatan, più tardi, ma se davvero il punto di tutta la questione è che Zlatan va via e José non vuole, c’è poco da chiedere. Anche se come motivazione sembra un po’ debole, tenendo conto di tutte quelle belle parole sul rispettare l’indole delle persone amate e bla bla bla. Certo, c’è sempre la possibilità che fossero tutte cazzate e José non le pensasse davvero. E c’è anche la possibilità che, pur pensando tutto ciò che ha detto, non riesca a impedirsi di stare male nel momento del distacco.
Ma sono solo congetture, e Mario s’è un po’ rotto le palle di lavorare solo sulle ipotesi. Perciò butta giù tutto il proprio latte – troppo velocemente, finirà per star male di stomaco – e si alza in piedi, e proprio in quel momento Zlatan torna ad affacciarsi alla porta della cucina. I suoi lineamenti sembrano più distesi, anche se i suoi occhi sono ancora cupi.
- Dade? – Davide solleva lo sguardo su di lui e non risponde, - Volevi andare a Milano, vero? – Davide annuisce, - Coraggio, diamoci una mossa. – e Zlatan scompare in corridoio.
Mario guarda il suo ragazzo, suo fratello, il suo più grande errore e il suo sogno. La persona perfetta al momento sbagliato. Lo guarda, lo osserva alzarsi in piedi con un sospiro muto e lo stringe per un polso. Tami ride, infila un dito nell’impasto denso e cremoso e poi lo lecca via, squittendo di piacere mentre Beppe, con sua somma gioia, si rifiuta di rimproverarla.
Si alza in piedi a propria volta e lo bacia lievissimo sulle labbra. Meno di un secondo, nessuno se ne accorge, Tami sta ancora ridendo.
- Divertiti. – gli augura con un sorriso. Davide ha un paio d’occhi enormi che chissà perché si riempiono di lacrime. Scatta in avanti e lo stringe forte, allacciandolo al collo con un’urgenza che preoccupa Mario, ma non abbastanza da impedirgli di ricambiare quella stretta con un abbraccio altrettanto forte, all’altezza della vita. Dondola e lo culla un po’, sperando di rassicurarlo. – È tutto a posto. – gli sussurra, - Non sta succedendo niente. – e cerca di ignorare il minuscolo e fastidioso “non ancora” che bussa insistente da qualche parte nel retro del suo cervello, mischiando quella vocina acuta alla voce tonante di Zlatan che chiama Davide dall’ingresso. E poi lo lascia andare.
*
Tami lo guarda come una gattina curiosa, e Mario non può che ricambiarle l’occhiata con una certa curiosità, piantandola di fare zapping da un canale all’altro e lasciando il televisore su un noiosissimo programma di cucina.
- Fra poco c’è Beautiful! – annuncia Tami, gli occhi che luccicano d’impazienza, e Mario ride.
- Ti lascio subito il posto. – annuisce, facendo per alzarsi in piedi, ma lei, leggera per com’è, gli si getta addosso come una bambina in vena di giochi, e lui ricade sui cuscini con un tonfo morbido e uno sbuffo di fiato mozzato dal suo corpicino che gli si pressa contro lo stomaco.
- Resta! – gli chiede, stendendosi a metà fra il divano e le sue gambe. Mario annuisce, aiutandola a sistemarsi più comodamente e prendendo quasi subito, in un gesto istintivo e naturale, ad accarezzarle i capelli. Sono molto simili a quelli di Davide, peraltro, dello stesso castano che diventa quasi biondo sotto il picchiare insistente del sole estivo. Sono solo appena più sottili e lisci e morbidi, ma è una differenza talmente minuscola che, se non sapesse con certezza che Davide è stato adottato, lo porterebbe a dirli legati da una qualche parentela.
Tami fa le fusa sotto le sue carezze, si accoccola e sorride e sta già dormendo molto prima che la telenovela inizi.
- Cosa c’è dentro la tua testa? – sussurra Mario, scostandole i capelli dal viso e dal collo, mentre lei respira quieta e serena, - Cos’è che mi manca?
Resta lì ad accarezzarla per un tempo indefinito. Sono almeno venti minuti, e lui capisce che ne sono passati tanti solo quando la telenovela finisce e lascia spazio alla pubblicità e poi alla sigla del telegiornale, che risuona forte nella stanza e sveglia Tami.
- Accidenti… - borbotta Mario mentre, mugolando, Tami si solleva e si stropiccia un occhio. Il ragazzo si piega a cercare il telecomando, ma chissà dov’è finito quando Tami gli si è gettata addosso, e quel divano enorme è capace di nascondere qualsiasi cosa negli spazi fra i suoi cuscini, perciò Mario sbuffa e ficca le mani ovunque. Il volume è troppo alto e Tami ne è infastidita, anche se non lo dice lo si capisce dalla piega delle sue sopracciglia, che forma una ruga decisa nel mezzo della sua fronte.
La voce della giornalista è atona e incolore, quando comincia ad elencare le notizie del giorno.
- Ritrovati i corpi dei figli… - dice, ma Mario cerca il telecomando, non le presta attenzione e non la sente. E come non sente lei non nota Tami irrigidirsi e guardare fisso davanti a sé, gli occhi sgranati e il respiro pesante, le mani in grembo strette come da uno spasmo isterico che tremano appena sull’orlo spiegazzato della gonna in lino rosso.
Le notizie vanno avanti, Mario sta odiando quello stupido telegiornale – politica, attualità, sport, chissenefrega se l’Inter ha vinto il millemillesimo scudetto per il millemillesimo anno consecutivo? – e tutto ciò che vuole è recuperare il telecomando, abbassare il volume, cambiare canale e guardare Spongebob mentre Tami torna a stenderglisi tranquilla sulle ginocchia per il secondo riposino pomeridiano, visto che il primo s’è interrotto tanto bruscamente.
Ma Tami si alza e si allontana con passo leggero verso il giardino – forse s’è stufata di guardare la tv?
- Dove vai? – le chiede Mario, un po’ stupito, mentre finalmente il dannato telecomando salta fuori e lui può abbassare il volume.
- Dalle rose. – risponde Tami, la voce lieve come la brezza marina e altrettanto impalpabile. Mario aggrotta le sopracciglia, deluso, e torna ad accasciarsi sul divano. Adesso non ha più senso cambiare canale, perciò dopo aver abbassato il volume getta lateralmente il telecomando, sperando che quello non decida di perdersi di nuovo sotto due chili e mezzo di cuscini, e resta lì, le braccia allargate sullo schienale a fissare la giornalista che presenta i servizi del primo tg pomeridiano.
- Come accennavamo in apertura, - dice la signorina, una collana enorme che luccica all’altezza del collo, - sono stati ritrovati i corpi dei due figli di José Mourinho, ambasciatore portoghese in Italia.
Il tempo si ferma e l’aria diventa un blocco di cemento. Dev’essere questo il motivo per cui Mario non riesce più a respirare.
- La sparizione dei due bambini, ormai più di dieci anni fa, aveva suscitato rabbia e tristezza nei cuori di tutti gli italiani, e fino all’ultimo le autorità hanno sperato nella possibilità di riuscire a recuperare vivi i due ragazzini. Le possibilità si sono azzerate quando questa mattina i due corpicini sono stati ritrovati sepolti in una radura nei dintorni di Milano. I dettagli del ritrovamento e dell’autopsia verranno rivelati in seguito, e nel frattempo Mourinho ha rifiutato di commentare l’accaduto. La nostra redazione esprime il suo più sincero cordoglio e…
E Mario non avrebbe mai pensato di poter piangere così per degli sconosciuti. Resta lì mentre la giornalista esprime cordoglio, mentre i politici esprimono cordoglio, mentre la gente comune esprime cordoglio, e la televisione rimanda le immagini registrati di José, distrutto, che evita microfoni e curiosi nell’uscire dall’obitorio per infilarsi risolutamente in macchina, senza mai alzare lo sguardo sulle telecamere.
Le lacrime gli bagnano la maglietta. Non sa cosa vuole fare, non sa cosa dovrebbe fare in una situazione come questa. Ha voglia di un abbraccio ma non capisce se vuole darlo o riceverlo, perciò si alza in piedi e si dirige verso lo studio di José, perché lui le risposte le ha sempre, anche se non vuole darle, anche se ne rivela solo la metà.
Solo che si ferma a metà corridoio, perché in una situazione come quella è ovvio pensare a Tami. A Tami e alle rose. A Tami e al giardino. A Tami e a una piscina troppo grande e senza nessuna protezione attorno. Si volta di scatto, correndo verso l’esterno.
- Cazzocazzocazzo! – urla passando di fretta accanto alla cucina. Beppe si affaccia, lo chiama, gli chiede qualcosa, lui non lo sente. Il giardino fuori è silenzioso, fringuelli a parte. Riempiono l’aria del loro canto e la piscina è vuota, l’acqua immobile, non tira un fiato di vento. Mario lascia girare lo sguardo tutto intorno al giardino. Lo guardo gira a lungo. A lungo. E poi si ferma.
*
Il cielo sopra la sua testa è di un colore bellissimo. Un misto di blu e violetto e una spruzzata di grigio che Mario non saprebbe battezzare. Ma è un colore bellissimo, non riesce a staccare gli occhi dalla volta punteggiata qua e là da stelline minuscole mentre Venere brilla così forte da dare l’idea di voler provare a fare ciò che la mezzaluna sbiadita che sorge a ovest non riesce a fare, portare un po’ di luce a quel principio di sera che annuncia la notte più scura dell’anno. E chi se ne frega se è agosto e non può essere davvero la notte più scura dell’anno. Anche se in cielo non ci sono nuvole, anche se le stelle sbocceranno come fiori per altre due o tre ore, riempiendo la volta celeste col loro chiarore, anche se presto si accenderanno perfino i lampioni di Villa Ratti e il buio sarà solo un ricordo che si spegne nella luce fosforescente del neon, sarà comunque la notte più scura dell’anno.
José non riesce a piangere, Zlatan non riesce a toccarlo. Mario guarda il cielo e Davide resta accanto a lui. Tami è immobile in mezzo all’aiuola delle rose e Mario non capisce perché, fra tutti i modi che avrebbe potuto scegliere per morire, ne abbia scelto uno tanto chiassoso – le cesoie gocciolano silenziose sull’erba accanto al suo corpo ormai pallido ed esangue, macchie rosse ovunque, lo stesso rosso dei suoi vestiti sgorga lentissimo da ciò che resta dei suoi avambracci martoriati da due tagli netti, verticali, decisi, quasi chirurgici. È impensabile che non abbia urlato. Eppure non l’ha fatto.
Beppe ha chiamato José dopo averlo seguito fuori in giardino. “Oh mio Dio” ha esalato sconvolto. E poi è tornato in casa a chiamarlo. José è arrivato correndo come una furia, s’è avvicinato al corpo di Tami e s’è accasciato in terra accanto a lei, sporcandosi tutti i pantaloni. Ma non l’ha toccata e non ha pianto ed è rimasto immobile a guardarla apparentemente senza nemmeno respirare per ore. Beppe ha chiuso in casa i camerieri, ha dato ordine ad Andrea di non farne uscire nemmeno uno, di chiuderli in soffitta, se proprio non trovava più pretesti per tenerli a lavoro, e poi è tornato in giardino a tenere d’occhio la situazione. Solo quello, solo tenerla d’occhio.
Davide e Zlatan sono tornati a casa senza che nessuno li avvertisse di farlo. Sono tornati al tramonto, che il cielo era ancora aranciato e non aveva assunto la sfumatura stupenda che sta spaccando in due il cuore di Mario in questo momento, tanto è bella e intrisa di dolore. Zlatan s’è avvicinato a José, senza fiato, gli si è inginocchiato a fianco. Ha sollevato una mano, Mario è certo che volesse abbracciarlo, ma non è riuscito a farlo proprio come José non è riuscito a piangere. Davide, invece, non s’è avvicinato. S’è fermato accanto a lui, ha cercato la sua mano con uno scatto nervoso e Mario l’ha stretta con forza, riprendendo a respirare davvero solo quando l’ha sentito scuotersi in singhiozzi sottili e discreti, come non volesse disturbare il cordoglio di José a qualche metro da loro.
- Di che colore è il cielo, Dà? – chiede Mario, gli occhi ancora puntati in alto. Sa che sta piangendo. Non vuole, ma lo sta facendo.
Davide alza gli occhi come lui, inghiotte un singhiozzo e tira su col naso. Si prende un po’ di tempo, prima di rispondere.
- Non lo so. – dice infine, a fiato corto, - Non riesco a vederlo.

back to poly

Vuoi commentare? »

your_ip_is_blacklisted_by sbl.spamhaus.org