Genere: Generale.
Pairing: Davide/Mario, Zlatan/José, Davide/José (onesided).
Rating: R
AVVISI: AU, Slash.
- Mario fa entra ed esci dall'orfanotrofio da quando aveva due anni. Nessuna famiglia sembra riuscire ad accoglierlo nel giusto modo, e perciò non vede perché dovrebbe essere diverso, stavolta. Solo che lo sarà. Lo sarà eccome.
Note: ;___; Commozione, è finita!!! Voi non potete capire cosa vuol dire per una donna come me – una che le storie sa (quasi) sempre quando le comincia ma mai quando (e se!) le finisce – riuscire a concludere una fic a capitoli. In un tempo prestabilito, poi, e senza sbavature! Sette settimane, ci ho messo, e mai un ritardo. E amo oggi questa famiglia di disastrati esattamente quanto l’amavo il primo giorno, perché piano piano ho imparato a conoscerli assieme a Mario. E nonostante il finale tremendo (me lo dico da sola ._. Odiatemi) mi resteranno sempre nel cuore. *sparge affetto*
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Mario si gratta pigramente la pancia, sollevando la maglietta azzurra fino al petto per cercare di adocchiare la puntura di zanzara che lo sta mandando lentamente ai pazzi già da un paio di giorni. Fra le varie cose che non riuscirà mai a perdonare a José – tipo essere fuori di testa ed averlo coinvolto in una follia più grande di entrambi messi assieme – la più grave è certamente l’averlo portato a vivere in una specie di palude. Villa Ratti è bellissima ed è bellissimo pure il lago, anche se l’ha visto solo una volta e solo perché Zlatan una settimana fa ha preteso ed ottenuto da lui e Davide che accompagnassero lui e Adricoso – che si chiama Adriano, dopotutto – in una nuova sessione di flirting notturno. Mario s’è pure un po’ sentito preso per il culo, soprattutto dopo la conversazione che avevano avuto in macchina riguardo la persona perfetta e menate varie, ma quando ha chiesto chiarimenti a Zlatan lui è stato così sincero e chiaro nelle risposte che, punto primo: se stava dicendo cazzate Mario non se n’è accorto, punto secondo: anche fossero state cazzate, Mario gli avrebbe creduto lo stesso, e punto terzo: in ogni caso, cazzate o meno e credendoci o meno, gli avrebbe dato perfino ragione.
- Non capisco il tuo modo di essere innamorato. – gli ha detto mentre, seduti entrambi al tavolo della cucina, sbucciavano patate per il purè che Tami sembrava intenzionata a preparare, almeno a quanto aveva detto prima di uscire in giardino per giocare con Davide in mezzo alle rose.
Zlatan ha sollevato gli occhi nei suoi e l’ha guardato con una certa curiosità, quasi faticasse a riallacciare i fili dei suoi pensieri e non riuscisse a seguirlo per niente.
- Parli del fatto che scopo con altri che non siano José? – ha chiesto Zlatan, mettendo da parte una patata sbucciata e prendendone immediatamente un’altra dal mucchio.
- Be’, sì! – ha annuito Mario, borbottando, - Mi sembra sufficiente.
Zlatan ha scrollato le spalle.
- Non cambia ciò che provo per lui, se mi faccio una scopata random ogni tanto. – ha spiegato, - Lui lo farebbe, se non provasse tanto rispetto quanto ne prova per la mamma.
- Continuo a non capire. – ha sospirato Mario, asciugandosi la fronte lievemente sudata con una manica, - E poi perché ti trascini dietro me e Davide? Cos’è, pietà?
- Ma no, assolutamente! – ha riso Zlatan, scuotendo il capo. E poi i suoi occhi si sono illuminati ed il suo sorriso s’è fatto più sincero. – Ecco, so come spiegartelo. Mettiamola così: se dico ad una ragazza che dopo devo subito riaccompagnare i miei fratellini a casa, ho la scusa per mollarla lì anche se lei vorrebbe passare tutta la notte insieme, mi spiego? Così ho anche più possibilità di non rivederla più.
Mario s’è grattato una tempia, pensoso.
- Sarebbe a dire?
- Sarebbe a dire, - ha annuito Zlatan, posando di lato l’ennesima patata sbucciata, - che questo è il mio modo di essere innamorato. Intendo, questo è il modo in cui amo José: per quanto possa allontanarmi, la costante è che torno sempre da lui. L’amore ne ha bisogno.
- Di costanti? – ha chiesto ancora Mario, curioso, e Zlatan ha riso di nuovo.
- Di ritorni. – ha risposto. E poi sono tornati a sbucciare patate in silenzio.
Per qualche motivo che non è riuscito ad afferrare appieno, comunque, la questione delle costanti e dei ritorni gli ha riportato alla mente Davide. E la piscina, naturalmente, la stessa piscina davanti alla quale si sta annoiando in questo momento, mentre il prurito alla pancia non gli dà tregua e il sole picchia forte sopra la sua testa, sull’acqua, sull’erba e anche sul roseto di Tami, che è dentro casa per il riposino pre-pranzo. L’unica conversazione rilevante che abbia avuto recentemente sull’argomento – l’argomento riposini, ma anche l’argomento Tami – l’ha avuta con Beppe. Il maggiordomo gli ha chiesto per quale motivo gli piaccia tanto starsene lì sotto il sole come una lucertola anche a mezzogiorno e Mario non ha risposto – perché una risposta non ce l’aveva – però ha colto l’occasione per chiedere per quale motivo invece Tami verso quell’orario dormisse quasi sempre, e perché, in effetti, molto spesso si appisolasse ovunque durante il giorno, costringendo a turno lui, Davide, Zlatan e José a portarla in camera in braccio.
La risposta, un po’ buffa, è stata che Tami, di notte, dorme molto poco o non dorme affatto.
- Non so perché, - ha scrollato le spalle Beppe, - o meglio, so perché ma non so esattamente in che modo questo perché si colleghi alla sua insonnia. Nessuno sa cosa c’è dentro la testa di quella donna. – ha aggiunto con un sospiro. – In ogni modo, non chiude quasi mai occhio da quando cala il sole in poi.
- E chi sta con lei? – ha chiesto Mario, stupito, - Non andrà mica in giro da sola?
- No, no. – l’ha rassicurato Beppe, scuotendo il capo, - José dorme solo quando è certo che anche Tami lo stia facendo.
Fissando lo sguardo sui riflessi dorati dell’acqua in piscina, Mario si chiede quanto dorma José e quanto debba essere generalmente stancante la sua intera esistenza, fra il lavoro, Tami, le responsabilità, i figli e Zlatan. Poi sospira e si passa una mano sugli occhi per proteggersi dalla luce quasi eccessiva del sole.
Stare in piscina – starci da solo, in silenzio, quando nessun altro avrebbe il coraggio di sottoporsi alla tortura di un tale calore – lo aiuta per il semplice motivo che solo a queste condizioni riesce a pensare, o a illudersi di riuscire a farcela, per ricomporre le troppe tessere del puzzle scombinato che è diventata la sua esistenza. Quando è in casa c’è sicuramente più fresco, d’accordo, ma ci sono anche troppi elementi di disturbo. C’è Tami a cui pensare, quando gira per casa con quella sua aria svampita e perennemente felice dalla quale non sai mai cosa aspettarti, e ci sono José e Zlatan che si lanciano sguardi di fuoco che, ora che sa cosa c’è dietro, lui non riesce più ad ignorare – e davvero non vede come potrebbe ignorarle, certe cose, come José che si morde un labbro dando l’impressione di cercare di illudere i propri sensi fino a far loro credere che stia mordendo quello di  Zlatan, o Zlatan che, dopo essere uscito dalla doccia, andando in giro avvolto solo in un asciugamano retto da un nodo precario attorno alla vita, si passa una mano sul ventre, giù fino alle ossa sporgenti dei fianchi, apparentemente per scacciare le ultime goccioline d’acqua moleste che gli fanno il solletico, quando in realtà sta anche lui cercando di prendersi in giro perché vorrebbe che quelle stesse goccioline le scacciasse ben altra mano e in ben altri modi.
È difficile non notare tutti questi piccoli particolari, così come è difficile ignorare loro due quando scivolano silenziosi in corridoio e si chiudono nella prima stanza disponibile, e da oltre le porte dietro alle quali si nascondono non si sente provenire più un fiato. Nel segreto di quei tre metri per quattro che riescono a strappare via a forza dalla realtà, si consuma la loro storia di ritorni e costanti. Un po’ come tutta la storia di lui e Davide, invece, riflette Mario con un mezzo sorriso ironico sul volto, si consuma a bordo vasca.
- Azzurro su nero. – commenta appunto la voce di Davide, neanche l’avesse invocato solo visualizzandolo nella mente, mentre Mario schiude gli occhi e cerca di identificarlo in un qualche punto intorno a sé, nonostante il sole. – Ti sta bene.
Sorride quando alla fine lo vede. Indossa il costume da bagno ed è fresco di doccia, i capelli bagnati grondano gocce d’acqua lungo il suo viso il suo collo il suo petto e lui sembra luccicare, e per una volta non è solo colpa dell’acqua ma anche del sorriso che gli schiude le labbra su una fila di denti un po’ larghi ma carini.
- È di Zlatan. – scrolla le spalle, indicando la maglietta con un cenno del capo. Davide ride, sollevando una gamba e sedendoglisi in grembo come fosse ormai una pratica consolidata.
- Infatti mi sembrava di ricordarla. – si china lento su di lui, stringendo le dita attorno al colletto e strattonandolo un po’. – Toglila.
- Da- no! – cerca di fermarlo lui, afferrandolo per i polsi, - Non qui!
- Non voglio fare niente. – ridacchia a bassa voce Davide, sfiorandogli la punta del naso con la propria, - Un bacio? – chiede poi, sollevando gli occhi castani nei suoi.
- No! – insiste Mario, che potrebbe tranquillamente afferrarlo per la vita e ribaltarlo sul prato per poi fuggire in camera propria, ma non è davvero certo che, una volta stretti i suoi fianchi fra le mani, poi sarebbe anche in grado di scrollarselo di dosso e scappare via, perciò resta fermo sotto di lui, mentre Davide si china ancora e il suo respiro comincia ad accarezzargli le labbra, lievissimo e caldo. – Davide, non qui. José-
- Di lui me ne frego, in questo momento. – taglia corto Davide, seguendo con la punta del naso il profilo della sua mascella, - Non puoi fregartene anche tu?
- Ragazzini! – li interrompe Zlatan, con una risata tonante che viene dritta dritta dalle loro spalle, - Un po’ di decenza!
Davide solleva lo sguardo su di lui e Mario, invece, resta pietrificato. Da un certo punto di vista è contento, perché a beccarli è stato Zlatan e non José ed anche perché, beccandoli, gli ha dato una scusa perfetta per fermarsi. Dal punto di vista opposto, comunque, non riesce a fare a meno di chiedersi perché chiunque in quella casa sembri divertirsi tanto nel mettere il naso nelle faccende altrui. Tra l’altro, nel caso di Zlatan si tratta pure di un naso di una certa importanza, e per molti motivi diversi.
Lancia un’occhiata preoccupata a Davide, chiedendosi se scatterà in piedi imbarazzato biascicando una scusa a caso prima di sparire verso la casa, ma naturalmente Davide non fa niente del genere. Resta lì seduto sul suo grembo, le mani strette attorno al colletto della sua maglia – anche se più morbidamente di quanto non si potesse dire prima – e guarda Zlatan con aria di sfida venata da un pizzico di disappunto.
- Farti gli affari tuoi? – chiede velenoso, esprimendo ad alta voce la lamentela che, in effetti, scalpita con una certa forza anche nel petto di Mario.
Zlatan scrolla le spalle.
- Poteva beccarvi José. Sarebbe stato peggio.
- È già successo. – lo rimbecca Davide, sbuffando.
- Poteva beccarvi di nuovo. – insiste Zlatan con un mezzo sorriso, ravviandosi una ciocca della lunga frangia dietro un orecchio, - E sarebbe stato un disastro.
Davide si alza in piedi con uno sbuffo rassegnato ed uno scatto irritato.
- Vieni su con me? – gli chiede, guardandolo con rabbia. Mario non sa che dire, perché vorrebbe dire sì ma non è proprio sicuro che sarebbe la risposta migliore. Fortunatamente, Zlatan lo salva dall’impaccio dell’indecisione, intromettendosi di malagrazia.
- Lui resta qui. – asserisce tranquillo, sedendosi sulla sdraio accanto a Mario e sfilando in un gesto la t-shirt, lasciandola ricadere sull’erbetta ai suoi piedi, - Devo parlargli. E tu mi fai il favore di tenere a freno gli ormoni, perché Zay non è per niente contento di questa storia.
- Non dovresti chiamarlo Zay. – borbotta Davide, rabbrividendo un po’, - È disturbante.
- Non mi interessa. – risponde Zlatan, chiudendo gli occhi sotto il sole, il profilo che si staglia contro la macchia verde scuro degli alberi che circondano la proprietà, - Lo chiamo come mi pare e piace. Dade, fa’ il favore, comportati come il ragazzino che sei, okay?
Davide si offende indicibilmente e ringhia di gola, prima di afferrare l’accappatoio ai piedi della sedia a sdraio, avvolgercisi dentro e dirigersi come una furia verso la villa, all’interno della quale scompare in pochissimi secondi. Mario si ferma a lungo a guardare il profilo sereno e serio di Zlatan, senza proferire parola. Ed è lui il primo a parlare, qualche minuto dopo.
- Davide è un ragazzo incasinato. – dice a bassa voce, - Vorrebbe dire molto di più di quanto non si lasci sfuggire, e allo stesso tempo c’è così poco di lui in ciò che rivela da non lasciarsi mai comprendere del tutto. – schiude gli occhi e fissa un punto imprecisato di fronte a sé, inumidendosi le labbra. – Se ti innamori di lui fai un errore enorme. Ma io sono esattamente l’ultimo che possa consigliarti di non farlo, visto che nel mio errore più grande continuo a credere neanche fosse una benedizione. – sospira profondamente, mentre Mario deglutisce, non sa dove guardare e finisce per osservare il dragone che ha tatuato sul fianco, e che si alza e si abbassa al ritmo del suo respiro lento e cadenzato. – A questo proposito, - riprende Zlatan dopo un po’, - Zay vuole parlarti. Ti sta aspettando.
Mario annuisce lentamente, un po’ incerto. Si alza in piedi, guardandosi intorno con aria persa. Non si sente granché sicuro sulle gambe. Per una volta, la prospettiva di andare a sedersi sulla scomoda poltroncina in pelle dello studio di José non sembra così traumatica. Almeno è un posto in cui si può stare senza doversi necessariamente reggere in piedi contando solo sulle proprie forze – cosa che decisamente Mario non si sente in grado di fare.
- Perché lo chiami Zay? – chiede, adocchiando la finestra sbarrata della camera di Davide.
Zlatan sogghigna.
- Perché gli dà sui nervi sentirsi chiamare così da una voce che ama più di quanto ami quella di Tami. – risponde. È la prima risposta veramente criptica che Zlatan gli dà da quando si conoscono. Mario ha l’impressione di doverne cavare una qualche informazione, ma non ci riesce, perciò lascia perdere ed entra in casa, trovando subito la strada per lo studio di José ed entrando senza nemmeno bussare, visto che sa di essere atteso. Lui sta sfogliando con attenzione chissà che carte sulla propria scrivania, e gli fa cenno di accomodarsi con un gesto sbrigativo, lasciandolo lì in attesa di qualsiasi cosa per almeno un paio di minuti, prima di decidersi finalmente a sollevare gli occhi dalle scartoffie e dedicargli un briciolo d’attenzione.
- Ho bisogno di parlarti, Mario. – comincia, e Mario si siede automaticamente al proprio posto, osservandolo alzarsi in piedi e sedersi sulla scrivania proprio come l’ultima volta che hanno parlato in quella stanza.
- Di… Tami? – azzarda, un po’ incerto e un po’ speranzoso. José fomenta le sue incertezze ed uccide le sue speranze con un unico sorriso disilluso, scuotendo serenamente il capo.
- Di Zlatan. – risponde, annuendo compitamente, - So che sai tutto, Zlatan me l’ha detto. Perciò, visto che questa è una cosa alla quale posso rispondere senza problemi, chiedimi quello che vuoi.
Incerto fra la possibilità di riversargli addosso tutte le domande sulle quali si arrovella da settimane e quella, altrettanto allettante, di restare lì a boccheggiare come un pesce fuori dalla propria boccia, Mario resta immobile per svariati secondi, prima di riuscire a tirare fuori un pensiero sensato dalla massa fangosa che gli ingolfa il cervello.
- Credevo… - balbetta a fiato corto, - la cosa fra voi due mi ha spiazzato, okay?, perché credevo che amassi Tami. E Zlatan-
- Zlatan – lo interrompe lui, sospirando profondamente, - è davvero convinto che io l’ami ancora. Il problema, Mario, è il seguente: quando io ho sposato Tami, ovviamente lei non era così. Era una donna forte, in gamba, indipendente. Non aveva bisogno di niente e di nessuno. Era la donna perfetta per me, perché vedi, a me piacciono i rapporti paritari. L’unica dipendenza che legava me e Tami era il bisogno che avevamo di amarci a vicenda. E questa è una dipendenza necessaria, quando si vuole stare con qualcuno.
- E poi? – chiede, avido di notizie, un po’ sperando che José si faccia fregare e gli spiattelli tutto sotto il naso. Ovviamente José non si lascia fregare proprio per niente.
- E poi – ridacchia, - sono successe cose, e Tami è diventata così. Una persona nelle sue condizioni… - sospira stancamente, - non si può veramente amare. Sarebbe come amare un bambino, o desiderare di avere una relazione con lui. Voglio dire, non è amore. Puoi volerlo proteggere, puoi provare dell’affetto, anche enorme, immenso, smisurato, ma non è amore. L’amore è una cosa molto più complessa, ha bisogno d’altro.
- Ritorni. – soffia Mario in un fiato, e José, dopo un attimo di stupore iniziale, annuisce.
- Esatto. Ha bisogno di ritorni perché non basta stare accanto a qualcuno per poter dire di amarlo. Devi provare cosa vuol dire stargli lontano, devi comprendere se davvero senti il desiderio di tornare, una, due, dieci, mille volte. Quando, dopo milleuno volte, sarai tornato ancora, ecco, quello sarà amore, e saprai riconoscerlo.
- E Zlatan? – chiede subito lui, quasi senza aspettare che abbia finito di parlare, - Era amore? E l’hai riconosciuto?
José ride un po’, annuendo quasi con entusiasmo.
- Zlatan l’ho conosciuto che aveva già vent’anni, era poco più grande di te. E Tami era già nelle condizioni in cui è ora, da un bel po’ di tempo. Perciò io mi prendevo cura di lei, ma non riuscivo più ad amarla come un tempo- non sarebbe stato neanche giusto che io continuassi ad amarla come un tempo. Capisci cosa intendo?
Mario annuisce, pensoso.  
- Quello che non capisco è… - accenna a fatica, - se lo ami così tanto, perché non lo tieni con te? Perché lo lasci andare?
- Perché la prima cosa che si impara quando si ama qualcuno è il rispetto per la sua indole. – risponde subito José, sicuro. – Zlatan è uno spirito libero. È nato in Svezia ma è di origine zingara, ed anche se non lo dice il bisogno che ha di spostarsi costantemente è quello che ha sempre guidato la sua vita. È anche quello che l’ha portato in Italia, è quello che mi ha permesso di conoscerlo. Non lo vorrei mai diverso da com’è. – si prende una pausa per raccogliere le idee, e quando parla ancora lo fa come stesse parlando al vento, a se stesso o a Zlatan che non può nemmeno sentirlo. – Zlatan è una persona particolare. È un giramondo. È il nord, il sud, l’est, l’ovest. È Zlatan. Se lo costringessi a restare contro la sua volontà, ucciderei ciò che di lui amo di più.
Mario annuisce. Lo fa quasi meccanicamente, ma in realtà è sincero. Adesso le cose sono più chiare. Non sa ancora perché Tami sia nelle condizioni in cui è, ma José si è aperto, e per qualche motivo ha l’impressione che questo, per ora, sia sufficiente. I misteri non gli piacciono, meno ce ne sono nella sua vita più lui può dirsi soddisfatto, perciò quando José gli chiede se al momento possa bastare lui annuisce e lo fa con convinzione, ringraziandolo deciso.
Fuori dallo studio di José, l’aria ha un’altra consistenza e un altro sapore. Perfino un altro odore, e se ne accorge quando Zlatan gli passa davanti diretto in cucina, e gli sente addosso un odore che conosce, e capisce che quello è il profumo della colonia di José. Sorride, perché a volte le cose complicate sono semplici, ed è bello ricordarselo in questi modi un po’ sciocchi – è bello ricordarlo grazie ad un profumo o al canto ritmato e allegro di Tami che combina chissà cosa in cucina con Beppe, costringendolo a rimproverarla bonariamente come fosse una bambina di cinque anni.
Mario sale velocemente le scale, raggiungendo la camera di Davide e bussando discretamente alla porta prima di dischiuderla e sbirciare all’interno. È tutto buio, ma la luce fioca che viene dal lettore mp3 acceso in risparmio energetico rischiara appena una zona minuscola del petto di Davide, e dal modo in cui si alza e si abbassa con regolarità ma in respiri brevi Mario capisce che non sta dormendo.
- Dà? – lo chiama per scrupolo, e Davide grugnisce, spostandosi lento fra le lenzuola.
- Sì. – scolla, la voce un po’ impastata, - Entra. Che ti ha detto lo zingaro?
- Niente di importante. – butta lì entrando e chiudendosi la porta alle spalle, cercando a tentoni nel buio la via per il letto di Davide. – Che sei incasinato.
- È vero. – ammette Davide con una mezza risata. – Sono qui, riesci a trovarmi? – gli chiede poi, più dolcemente, e stende un braccio in avanti a cercare il suo corpo. Lo trova quasi subito, Mario si lascia stringere due dita e trascinare fino al materasso, sul quale si siede, restando in attesa del resto. – Non vuoi sapere perché sono incasinato?
- Vorrei sapere tante cose… - ride Mario, tirandosi un po’ più indietro sul letto, fino ad occuparne una buona metà e costringere Davide a premersi addosso a lui, anche se la cosa non sembra infastidirlo poi tanto. – ma nessuno me le dice, perciò facciamo che lascio decidere a te.
Davide ride a propria volta, poggiando il capo contro la sua spalla in un sospiro rassegnato.
- A me piace José. – gli soffia sul collo, - Mi piace nel senso che vorrei baciarlo e toccarlo e fare l’amore con lui, Mario. È così da tanto tempo, da molto prima che arrivassi tu, è stato lui il motivo delle incertezze che lo zingaro mi ha aiutato a risolvere, ed anche se tu ora… - sospira ancora, lasciandogli scivolare una mano sul petto, - anche se tu ora mi distrai un sacco, questa cosa non cambia. Capisci cosa voglio dire? È dentro di me da troppo tempo.
Mario annuisce, mordendosi il labbro inferiore ed aggrottando le sopracciglia.
- Mi sta bene. – esala sbrigativamente, prima di cambiare idea.
Davide cerca i suoi occhi nel buio. Lui non glieli concede, ma in cambio gli concede un bacio lento e umido che lo stordisce.
- Ti sta bene…? – chiede Davide, confuso, cercando di infilare la mano oltre l’orlo della sua maglietta.
- Sì. – annuisce ancora Mario, sicuro, - Non voglio cambiarti. Mi piaci così.
Davide si ferma un secondo, interrompendo l’esplorazione della linea dei suoi addominali, e poi gli lascia andare sul collo una risatina calda e tenera.
- Hai parlato con lui. – indovina, allungandosi a baciarlo su una guancia, - Che scemo sei. – aggiunge, sollevandosi a sedersi a cavalcioni su di lui, come sempre. Lo guarda intensamente negli occhi, e questo è uno sguardo che Mario non riesce ad evitare di ricambiare, mentre lo stringe ai fianchi, possessivo. – Sono tuo. – gli dice Davide, ad un centimetro dalle labbra, - Se puoi accettarmi così come sono, allora così come sono ti appartengo. Tutto.
Poi si china a baciarlo davvero, e Mario perde il senso di se stesso per ritrovarlo in Davide, nei tocchi lievissimi che lui gli fa scivolare addosso mentre lo accarezza e nell’incertezza un po’ infantile con la quale lo libera dalla maglietta azzurra – che gli stava bene, ma in fondo anche senza non è male – lasciandola ricadere distrattamente per terra.
Quando si ritrovano l’uno sull’altro, pochi secondi dopo, Mario non ha idea di cosa fare. Guarda Davide in cerca di una risposta e si stupisce di trovare nei suoi occhi soltanto la sua stessa incertezza, la sua stessa confusione, la sua stessa paura. Davide arrossisce, sbuffando e annuendo sbrigativamente.
- Prima volta, sì. – conferma, - La mia verginità la stavo conservando.
- Per José. – ipotizza Mario, mordendogli piano un labbro, come in una piccola vendetta.
- Per quello giusto. – lo corregge Davide, accarezzandogli le labbra con la lingua in cerca dell’ennesimo bacio, - Che fosse José o l’unico in grado di togliermelo dalla testa.
Mario ride sulla sua pelle, tornando ad assaggiare il suo sapore direttamente dalle sue labbra.
- Che impresa. – commenta ironico, e Davide gli tira uno schiaffetto contro la spalla, allargando le gambe per fargli spazio.
- Già. – annuisce. Poi Mario lo bacia e lo accarezza, e quando riescono a capire come sistemarsi più o meno perché il tutto non sia completamente disastroso, quando Davide – fra una risatina e l’altra – tira fuori vecchi consigli dispensati da Zlatan in un momento di particolare generosità, quando Mario è dentro di lui, quando Davide gli si stringe attorno, quando gemono con una sincronia tale da fare perfino paura e quando vengono senza rendersi conto del tempo che passa fra un orgasmo e l’altro – perché il tempo non conta, perché il tempo sono loro – si perdono, e smettono di cercare di ritrovarsi. Per provarci ancora, aspetteranno la luce del giorno, domani mattina.
 
*
 
Note. Tutti i riferimenti alla persona di Zlatan che è un giramondo e tutto ciò che è vagamente identificabile come collegabile a ciò che è successo recentemente in casa Inter, è esattamente voluto u.u Ci tengo a precisarlo perché adoro quando le AU mi danno la possibilità di fare mischioni simili. Resto nel mondo che ho creato ma ammicco a quello che esiste nella realtà, e ciò è soddisfacentissimo <3 E il richiamo al nerazzurro era obbligato, prima della fine della fic XD
Poi, uhm *riflette* Quando José va in trance e fa l’elenco dei punti cardinali, in realtà sto citando Zlatan, che una cosa del genere pare l’abbia detta nell’intervista rilasciata alla Smemoranda per la nuova agenda (io l’ho sentita durante un servizio su di lui, Def poi mi ha detto della Smemo). Frase vagamente megalomane, se te la dici da solo XD ma in realtà anche in questa megalomania rispecchia Zlatan, l’essere umano più egocentrico dell’universo creato <3 Ibra, ti amo ancora come il primo giorno, nonostante tutto <3
Infine! Il titolo, preso dall’omonima canzone dei Placebo. E per il resto spero che abbiate gradito <3<3<3

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