Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME
CHAPTER SIX
ESCAPE
Embrace the wind and fall into
Another time and space
Another time and space
Se c’era una cosa che l’aveva sempre fatto ridere – nel modo cattivo e risentito in cui può farti ridere una sciocchezza che ti distrugge la vita, certo – erano le circostanze stupidissime grazie alle quali il Destino – o la Sfiga, o Dio, a voler credere in una qualsiasi di queste cose – aveva deciso di chiudere il 2006 dei Tokio Hotel. Approfittandone, già che c’era, per chiudere definitivamente anche i Tokio Hotel stessi.
Il 2006, in effetti, era stato un anno talmente bello da non sembrare neanche vero. Per quanto abusato e stereotipato potesse essere un concetto simile, era anche l’unico si adattasse abbastanza da non suonare stonato: a Bill sembrava di guardare un film, quando pensava al proprio passato.
Non era neanche una sensazione da sogno, perché i sogni, in qualche modo, ti appartengono. Sono tuoi. Li crei tu, a partire da quello che c’è nella tua testa. Magari ne modifichi un po’ il contenuto, magari ci aggiungi un elefante viola o un leone ballerino, ma restano né più né meno che l’espressione di un sentimento o di un’emozione tutti tuoi. Nessuno te li può togliere.
Il suo passato no, invece. Pensava al passato e la sensazione era proprio quella di un film: qualcosa di totalmente estraneo ed irreale, che al più poteva istillargli una qualche sensazione triste o allegra – e nel caso specifico faceva un male cane – ma niente oltre questo.
Nel 2006, i Tokio Hotel erano sbarcati in Francia. Era stata una visita breve e più preparatoria che altro, ma era stata la Francia, dannazione. E tutti, proprio tutti – Germania compresa – erano stati costretti a prendere atto della loro esistenza. Costretti, sì. Suonava bene metterla così, soprattutto parlando di una madre patria che, nei loro confronti, soffriva più debiti di quanti crediti potesse vantare.
La Germania non li voleva. Non li aveva mai voluti. Alla Germania, per dire, bastavano i Rammstein, non le interessava poter essere conosciuta per qualcosa di diverso, perché già Lindermann e soci diffondevano nel mondo musicale quanto bastava per renderla rispettata su tutti i fronti: un rock duro, cattivo, riconoscibile e ben fatto. E basta.
La Germania non sapeva che farsene, dei Tokio Hotel. Non sapeva che farsene di un gruppo di adolescenti che, oltre ad un’irriducibile voglia di fare ed un sacco di schifo da sfogare, non avevano poi molto altro. Non sapeva che farsene di un ragazzino troppo truccato del quale non riuscivi a capire il sesso, a meno di andare per tentativi o toccare con mano. Non sapeva che farsene di un fratello clonato appena più decoroso dello stampo di partenza, ma che sicuramente doveva essere portatore sano di rogna, come minimo, visto il cespuglio pulcioso che aveva sulla testa. Non sapeva che farsene neanche di due ragazzi pazienti, onesti e pieni di talento fin quasi a scoppiare ma con l’innegabile sfiga di non essere due adoni e neanche particolarmente carismatici – almeno, non abbastanza da guadagnare il fronte del palco.
Già. La Germania non sapeva cosa farsene, di loro. E non li aveva mai voluti, tant’è che aveva provato a farli fuori fin da subito. Con le botte, con le prese in giro, con le sconfitte plateali in diretta TV. E, siccome non c’era riuscita, ci aveva riprovato nel 2006.
Per un po’ di tempo, in effetti, Bill aveva pure pensato ad una sorta di teoria del complotto tanto assurda quanto consolatoria. La base delle teorie del complotto, in fondo, è questa, no? Si prende una realtà incomprensibile ed atroce e la si rivolta al contrario per darle un motivo, renderla più semplice, più digeribile. Per cercare di farti credere dietro ci sia un perché, ci sia la razionalità umana. Una razionalità magari terribile e spaventosa, ma che almeno ti mette davanti un colpevole unico con cui prendertela.
Anche per lui era stato così: quando era stato costretto a lasciare tutta la propria vita per il motivo più stupido del mondo – davvero: rapimenti! Per piacere! Quanti artisti al mondo potevano vantare in carriera qualcosa di altrettanto assurdo? Quanti sedicenni? – aveva cercato un colpevole. E, visto che gli stronzi che avevano cercato di rubargli Tom – Dio: Tom – una faccia non ce l’avevano, lui aveva dato la colpa alla Germania. Perché la Germania una faccia ce l’aveva eccome. La Germania aveva la faccia dei bulli che lo perseguitavano al Gymnasium, aveva la faccia del pubblico stronzo di Star Search, aveva la faccia di ogni merdoso critico musicale gli fosse capitato anche solo d’incrociare in vita sua ed aveva la faccia di tutti coloro che s’erano permessi di giudicare e bocciare i Tokio Hotel senza nemmeno conoscerli o provare a comprenderli.
La Germania era facile da colpevolizzare. Facile al punto che, quando David se n’era uscito con quella strampalata idea dell’espatrio, lui era stato anche dannatamente felice.
È la volta buona che mollo tutto. Che io e Tomi riusciamo a fuggire dalla merda che sembra perseguitarci, e ci facciamo una nuova vita. Basta Germania. Basta fottutissima Germania. Basta anche casa. Io, Tomi ed un mondo nuovo.
David aveva specificato solo più tardi che il suo meraviglioso piano non comprendeva affatto alcun tipo di Tomi.
“Insieme siete ancora troppo riconoscibili, Bill”. Questa era stata la giustificazione. Sacrosanta e veritiera, per carità, ma lui a sedici anni non poteva accettarla lo stesso.
E d’altronde, cos’altro avrebbe dovuto fare? Lottare non sembrava neanche un’eventualità da prendere in considerazione. E David insisteva. E sua madre cercava di tirarselo appresso neanche fosse stato una bambola. Ed Andi non commentava. E Gustav e Georg sembravano chiusi in una specie di bolla di silenzio – quella che le loro famiglie avevano loro imposto.
Per non parlare di Tom. Tom che si mordeva le labbra e basta.
Tom che, nel mentre, aveva smesso di dormire la notte. Tom che fissava la finestra di casa – adesso accuratamente sbarrata – come se dovesse improvvisamente implodere, trasformarsi in un buco nero ed inghiottirlo.
Bill stava con lui. Si accoccolava contro il suo corpo immobile sotto le coperte e lo stringeva alla vita, gli accarezzava i capelli, cercava di dargli un po’ di conforto. Tom sorrideva appena. “Sto bene”, diceva, ma l’incertezza della sua voce tradiva tutta la sua paura.
Non stai bene.
Ed io non so più come aiutarti.
La Germania era stata il suo incubo, per tutte le lunghe settimane di stallo in cui era stato costretto a vivere prima della partenza. “Appena metto piede fuori di qui”, s’era ripetuto continuamente mentre cercava senza speranza di costringere Tom al sonno, “non ci ritorno neanche da morto”. Era diventato quasi un traguardo. Il suolo americano sembrava una specie di elisir contro ogni male. A volte, pensandoci, quasi immaginava momenti magici in cui, appena sceso dall’aereo, avrebbe dimenticato ogni cosa. Tutto il proprio passato. Nella sua interezza.
Perfino ciò che più amava.
E che per questo lo faceva soffrire.
Avrebbe dimenticato tutto e cominciato una nuova vita.
Ma avrebbe dovuto immaginarlo, che era un desiderio irrealizzabile: la vita concessa è sempre una sola. Non puoi cambiare le carte in tavola a metà del gioco. Non puoi neanche pretendere di rimescolare il mazzo per un capriccio.
Ciò che hai, ti resta.
Ciò che scarti, lo perdi.
Ciò che vinci, farai meglio a tenertelo stretto, o al prossimo giro potrebbero portartelo via.
Il punto era che lui la sua vincita doveva averla dimenticata da qualche parte. Perché decisamente non l’aveva riscossa. E, fra le sue mani, a parte un piercing ed uno stupido cappello rubato di nascosto da una valigia ancora aperta, non restava proprio più niente.
In camera sua c’era questa finestra enorme e bellissima, molto femminile, molto alla Wendy. Con le tende bianche ed arricciate e leggerissime che si scuotevano anche con un filo di vento, gonfiandosi come vele. Il davanzale era basso – gli arrivava circa a metà stinco – ampio e bene incassato all’interno della stanza. Michelle – che ci aveva tenuto tantissimo ad arredare il tutto perché fosse comodo e carino – l’aveva perfino fatto imbottire e rivestire di raso celeste, in tinta con le pareti. Era tanto comodo che ci si poteva seder sopra senza neanche accorgersi della differenza rispetto ad una poltrona qualunque.
La finestra si apriva sul giardinetto sul retro della casa. Bill adorava Long Island proprio per quello, e proprio per quello era stato tanto felice di trasferirsi lì, dopo il matrimonio: le abitazioni rustiche, un po’ spoglie, non particolarmente gradevoli da guardare dall’esterno – niente di neanche lontanamente paragonabile alle mega-ville che immaginava prima di mettere davvero piede sul suolo americano – ma accoglienti e calde all’interno, spaziose, ben disegnate, comode.
Bill adorava l’idea di potersi sedere sul davanzale – i piedi dondolanti giù nel vuoto dal secondo piano – per poi passare ore in contemplazione del roseto di Michelle.
Michelle gli piaceva. Non era la classica europea americanizzata al punto da aver dimenticato del tutto le proprie origini. Era posata ed elegante, riservata e bellissima. Non era appariscente, soprattutto. Le sue rose – delle rose da premio, grandi e colorate, curate fino all’ossessività – le teneva sul retro. Per il piccolo giardino sul frontespizio della casa non aveva scelto niente di particolarmente vistoso – c’era giusto un’alta e longilinea pianta di gelsomino in un grande vaso di pietra che ricordava un po’ un’antica anfora romana – ma sul retro quel tappeto ora rosso ora bianco ora giallo era uno spettacolo da mozzarti il fiato. Solo, era uno spettacolo privato.
Bill invidiava da morire Michelle. Perché lei il proprio espatrio l’aveva scelto da sé. Ed aveva scelto di conservarsi francese dentro, nonostante tutto. A lui, invece, questa possibilità non era stata concessa. Lui aveva dovuto rinnegare per intero la propria nazionalità. Indipendentemente dall’odiarla o meno, non era stato bello estirparsi la Germania dal cuore.
Britney, comunque, era molto grata alla sua mamma adottiva. Perché la faceva sentire a proprio agio e meno sola. E tanto le bastava.
Era Bill, quello che aveva problemi con tutto. Bill che ogni tanto si risvegliava, veniva fuori dall’angolino in fondo al petto in cui l’aveva relegato, e cercava di ritornare in superficie, provando a riappropriarsi di ciò che considerava suo. Britney ci provava, a tenerlo dentro. Ci provava davvero. È solo che a volte non riusciva proprio a frenarlo, quel vecchio fantasma sbiadito e spossato.
Alle volte, davvero, aveva solo voglia di ridere. S’accucciava sul davanzale, fissando le rose fuori, chiedendosi per quale motivo ci si ostinasse a chiamare “rosa” perfino un fiore che somigliava più a una margherita che ad altro, e ci provava anche, a lasciare uscire questa benedetta risata. Stava fermo per delle ore, schiacciando con forza l’anellino di Tom fra le dita e contro il raso, come a volerlo nascondere ma senza riuscire a liberarsi della sensazione fisica del metallo contro i polpastrelli, e si mordeva le labbra.
Provava a ridere e si ritrovava d’un tratto con le lacrime agli occhi ed un disperato bisogno di buttarle fuori. Senza volere davvero, però.
Io voglio ridere. Non voglio piangere.
A cosa è servito tutto questo, se voglio ridere ed invece piango?
Tomi? Tu ridi o piangi?
C’erano giorni in cui ridere gli sembrava una possibilità irraggiungibile. Altri in cui riusciva, ma si rendeva conto da sé fosse un lusso. Era grato a David, era grato a Michelle, era grato ad Anna Molly, era grato perfino ad Eric – nonostante fosse una piattola – per ogni risata che riuscivano a strappargli. Per ogni battuta, per ogni scherzo, per ogni tentativo di farlo comunque sentire parte di qualcosa.
Anche se non era davvero a lui che si stavano rivolgendo.
Anche se il suo qualcosa s’era perso sull’oceano, assieme a Tom. Che era rimasto indietro.
- Ti prenderai un accidente.
Abbassò lo sguardo senza scomporsi, perché ormai nulla poteva più stupirlo – soprattutto non una routine che si ripeteva uguale da settimane – e, d’altronde, se era riuscito ad abituarsi all’inglese, all’America, all’Oceano, agli uragani e perfino ai reggiseni imbottiti, non c’era proprio niente di strano se, dopotutto, riusciva anche ad abituarsi alle regolari visite di Eric ogni notte dopo l’una.
Lo fissò con aria infastidita. A parte l’acconciatura tipicamente femminile, non c’era niente del proprio aspetto potesse essere veramente identificato con quello di una donna. Fortunatamente, certe mancanze nelle curve erano nascoste in maniera più che efficace dall’ampia maglietta che aveva preteso Michelle gli comprasse durante una delle sedute di shopping sfrenato alle quali ogni tanto lo costringeva – terrorizzandolo e sfiancandolo volta dopo volta coi suoi tentativi di infilarsi nello spogliatoio nei momenti meno opportuni, di fronte ai quali lui doveva per forza opporre resistenza quasi fisica.
- Già finito il giro dei locali? – ghignò infastidito, sporgendosi un po’ verso l’esterno.
La reazione di Eric lo divertì: si sporse in avanti, tenendosi pronto sulle gambe in caso dovesse scattare per recuperarlo, se fosse caduto.
Bill sorrise e continuò a dondolarsi.
- Piantala di fare così! – lo rimproverò il ragazzo, un cipiglio serio quanto divertente ad increspargli le sopracciglia, - Puoi cadere!
Bill si concesse un sorrisetto stanco, prima di stringere le ginocchia al petto e smettere di giocare.
- Tanto ci saresti tu sotto, no? – chiese con aria trasognata, mentre Eric portava le mani ai fianchi e lo guardava con manifesta preoccupazione. – Mi riprenderesti?
Odiava flirtare in questo modo. Gli ricordava la maniera vergognosa in cui a volte si ritrovava senza davvero volere a flirtare con Tom. Solo che, fra loro, non si trattava veramente di un flirt. Era solo il suo personalissimo modo di chiedere una conferma, una qualsiasi.
- No, Bill, non ti dimenticherò dopo due giorni. Dubito fortemente che le inglesi, per quanto fighe, potrebbero distogliermi dal pensiero che tu non ci sarai più.
- Quindi io continuerò ad essere il tuo primo pensiero? E mi amerai per sempre?
Un mezzo sorriso. Forse qualcosa di più, nascosto nella piega morbida delle sue labbra. Nell’ombra del piccolo foro al quale fino a pochi minuti prima stava appeso un anellino che avrebbe tanto voluto sfiorare quando si trovava ancora al proprio posto, e che adesso invece giaceva senz’anima e senza lucentezza fra le sue dita strette e nervose.
- Sei il mio unico vero amore.
Ricordava ancora quello strano dolore nel centro del petto, quel senso di soffocamento al quale sembrava impossibile sfuggire, con una nettezza tale da averne paura.
Cos’era quello? Era amore? Amore vero? Quello dei film e dei grandi classici della letteratura romantica che non avrebbe mai letto?
Suonava così strano, da realizzare.
Amava Tom.
Tom amava lui.
Ti amo.
Che razza di dichiarazione era, per due che erano una cosa sola?
- Certo che ti riprenderei. – rispose Eric con un sorriso. – Scendi un po’? Ti va di fare quattro chiacchiere?
Bill scrollò le spalle e rientrò in camera, uscendone subito dopo ed attraversando silenziosamente il corridoio per non svegliare David e Michelle. Giunto a metà delle scale, però, venne attirato dalla luce accesa nello studio di David. Doveva averla lasciata così prima di andare a dormire.
Scuotendo il capo, si avvicinò piano alla stanza e fece per spegnerla.
Dalla propria poltrona in pelle marrone, David lo guardò con aria sorpresa.
- …che ci fai sveglio a quest’ora? – gli chiese, la mano ancora sull’interruttore.
David inclinò il capo.
- Potrei chiederti la stessa cosa. – rispose con un mezzo sorriso.
Bill ridacchiò a propria volta ed abbassò il braccio.
- C’è Eric qua fuori. È passato a trovarmi.
- …ed esci in pigiama?
- Non mi porta mica a visitare Lady Liberty, David! – borbottò, vagamente irritato, - Stiamo in giardino.
David annuì coscienziosamente, da bravo papà, intrecciando le dita sotto il mento.
- Dovrei proibirti di uscire con lui, vero? – chiese a bassa voce, come soprapensiero.
Bill ridacchiò ancora.
- Suppongo di sì.
David annuì ancora.
- In realtà mi fa piacere che tra voi ci sia questo rapporto così… intimo. – commentò.
- Non è un rapporto. – precisò Bill, - E di sicuro non è intimo, grazie a te.
David sospirò, gettando stancamente indietro il capo.
- Non smetterò mai di pagare per questo, vero?
Bill sorrise amaramente, intrecciando le braccia sul petto.
- Già. Come me. – rispose seccamente.
David imitò il suo sorriso. Bill sospirò e fece per andar via, ma si sentì richiamare a metà del primo passo.
- Quando hai finito con Eric, fuori… dobbiamo assolutamente parlare. – gli disse.
Bill immaginò dovesse trattarsi dell’ennesima paternale su quanto fosse sbagliato il suo modo di approcciarsi alla loro nuova vita e su quanto avrebbe dovuto sforzarsi di più, molto di più per essere grato e comportarsi bene. Avrebbe dovuto fare di più per essere una splendida Britney con una splendida vita in una splendida villa su una splendida terra travolta continuamente da uragani di ogni tipo. Il problema di quegli uragani era che non sarebbero comunque mai stati paragonabili all’unico enorme e sconvolgente monsone che aveva cambiato per sempre Bill Kaulitz. Ed era un monsone che gli mancava troppo, per non sentirlo rombare nel petto ogni notte, in mezzo al silenzio della sua perfetta stanza da primogenita viziata.
- È tardi, David. Ne parliamo domani? – chiese stancamente, quasi implorante.
David scosse il capo.
- Ne parliamo stanotte. – disse con un sorriso conciliante, - Comunque vai. Eric ti starà aspettando.
Bill sospirò.
- Whatever… - biascicò, usando apposta l’inglese per tagliare di netto la conversazione tutta in tedesco appena conclusa. – Later.
David sbuffò una risata impaziente ed accavallò le gambe sulla poltrona.
- A dopo.
- Non ci crede nessuna perché non è vero. – puntualizzò, accavallando le gambe ed appoggiandosi ad una cassa di terra piuttosto alta, - Tu non sei proprietà privata.
Eric fece una smorfia contrariata.
- Senti, - disse riottoso, - non è importante se tu non mi consideri tale. Sono io che mi considero così. D’accordo?
Bill rise sonoramente.
- No. – rispose, - Ma è una cosa carina, da parte tua. – aggiunse poi con un sorriso tenero, - Inutile e stupida, ma carina. Dovresti farti una vita.
- Ce l’ho, una vita. – protestò lui, rotolandogli addosso ed abbracciandolo alla vita come faceva spesso, tanto spesso che Bill ormai aveva smesso di cercare di impedirglielo. – Tu?
Anche io. È solo dalla parte sbagliata del mondo.
Eric lo strinse con più forza, affondando il naso tra il collo e la maglietta, nella parte lasciata nuda dalla scollatura. Bill gli si irrigidì fra le braccia.
- Brit… - disse il ragazzo con tono lamentoso, - cosa devo fare per piacerti? Cosa devo dire?
- Eric… - sospirò Bill, facendogli il verso e scuotendo il capo, - Non devi fare niente. Tu mi piaci già, davvero-
- Non m’interessa che mi trovi piacevole come persona! – protestò lui, stringendo un po’ la presa, - Io voglio diventare il tuo ragazzo! Voglio baciarti e toccarti e scopare fino all’alba e portarti in giro e tenerti per mano e presentarti ai miei e tutto il resto, cazzo, perché non lo capisci?
- Lo capisco. – annuì amaramente Bill, stringendo le proprie mani su quelle di Eric, saldamente intrecciate sulla sua pancia, - Solo che non è possibile.
- Lo sarebbe, se solo tu non fossi così…
- …
- …sincera.
Gli si rivoltò fra le braccia, lanciandogli un’occhiata stupita.
- Come, scusa?
Eric annuì, evitando il suo sguardo.
- Lo so che non sei innamorata di me. Ma potresti magari… fingere. All’inizio. Poi sono sicuro che ti abitueresti, perché io ti amo da morire, Brit, non so com’è che non lo vedi, ma io-
- Tu sei ossessionato. – sospirò Bill, girandosi del tutto e stringendogli le braccia attorno al collo, - Io non so cosa tu veda in me, Eric. Dev’essere qualcosa di molto bello, – gli sorrise, - e ti ringrazio per questo, ma non stai vedendo chi sono. Perciò non puoi amarmi davvero. – si interruppe e rifletté, - O meglio, tu magari sei innamorato, ma non ami me.
Eric scosse il capo e si sollevò un po’ sulle punte per sfiorargli la fronte con la propria. Bill ridacchiò: era davvero tenero, a volte. Il più delle volte, ecco. Smetteva di essere una piattola quando…
…forse non era mai veramente una piattola. Certe volte, quando pensava a lui, si ritrovava a pensare Eric fosse esattamente ciò di cui aveva bisogno per riuscire a sopportare quell’adattamento forzato.
Poi capiva che in realtà non era di Eric, che aveva bisogno.
Era l’amore, che gli mancava. Sentirsi amato. Amare a propria volta. Era quella, l’assenza che lo uccideva.
- Non ti capisco. – mormorò il ragazzo contro le sue labbra, senza però azzardarsi a baciarlo, - Non ti capisco mai.
- Non puoi amare a comando. – spiegò Bill, abbracciandolo un po’ più stretto, - Io amo già qualcun altro.
Bill non credeva nelle illuminazioni improvvise.
Ma dovette trattenersi per non cominciare ad urlare di gioia.
L’aveva detto.
Era la prima volta che lo diceva a qualcuno.
Era innamorato. Innamorato. Cristo, innamorato. Nonostante gli anni passati e la mancanza e le novità alle quali s’era abituato. Nonostante l’Oceano, nonostante Eric, nonostante David, nonostante Britney, nonostante gli uragani, a dispetto perfino del primo monsone che aveva sconvolto la sua esistenza, perché Tom era stato suo anche prima di quello.
Lui era innamorato.
Il suo posto non era quello.
Il suo posto era accanto a Tom. Come prima di nascere. Come sempre.
- Eric, io ti ho mentito.
Si separò da lui, lasciando scivolare la giacca lungo il braccio per riconsegnargliela.
- Che? – chiese lui, un po’ stordito.
- Non sono la persona che credi. Mi dispiace di non avertelo detto prima.
- Brit, - ridacchiò lui, palesemente a disagio, - mi stai spaventando.
Bill scosse il capo e prese le sue mani fra le proprie.
- Adesso… sta’ tranquillo e non dare di matto, okay? Io devo assolutamente dirti una cosa. – si fermò e cercò di prendere abbastanza fiato per buttare fuori tutto senza pause. Il coraggio non era più un problema: la decisione che doveva prendere, l’unica che avrebbe dovuto prendere anni prima, era già lì nel centro della sua mente. – Non mi chiamo Britney. Mi chiamo Bill. Sono un maschio.
L’espressione di Eric si fece d’improvviso scura e confusa.
Bill si sarebbe aspettato un minimo di disgusto ed una raffica di domande, ma non arrivò niente del genere. Solo silenzio per moltissimi secondi. Le mani di Eric non abbandonarono mai le sue.
- …be’? – chiese Bill quando il silenzio cominciò a farsi troppo strano per poter essere sopportato ancora, - Non dici niente?
Eric deglutì appena, inarcando le sopracciglia.
- Scusa, che dovrei dire?! – protestò poi con tono piuttosto infantile, stringendo la presa sulle sue dita, - Sei tu che hai tirato fuori l’argomento! Parla!
- Che diamine dovrei dire ancora?!
- Non lo so!!! – strillò il ragazzo, stridulo. Poi prese un gran respiro e, finalmente, lo lasciò andare. Solo una mano, solo per scostare la frangetta dalla fronte con un sospiro stremato. – Perché?
Bill scosse energicamente il capo.
- Non mi va di parlarne. – forzò un sorriso, - È complicato ed inutile. Sono dovuto andare via dalla mia nazione e-
- Di dov’eri?
- …tedesco, e-
- La tua età è la stessa che mi hai detto?
- Sì, ma-
- Il pop-rock ti piace davvero?
- Eric-
- Studi psicologia perché ti piace? Sei davvero riservato come ti mostri? Sei sempre stato così magro? E i tuoi capelli com’erano?
- Eric! – lo fermò Bill, pressandogli una mano sulle labbra, - Adesso fermati! Stai facendo le domande sbagliate!
Il ragazzo si scrollò di dosso la sua mano.
- Sto facendo le domande giuste. – si alzò sulle punte e finalmente lo baciò sulle labbra, esitando solo un attimo prima di tirarsi indietro. – È tutto quello che mi interessa sapere.
Bill rimase immobile, pietrificato e completamente sgomento.
Eric era sempre stato forte. Forse, più che forte, imperturbabile.
Probabilmente era questa la caratteristica di lui che più lo attraeva. Che lo obbligava a trovarlo così piacevole. Che gli impediva di liberarsene.
Eric aveva molto di ciò che avrebbe voluto lui.
Sorrise.
- Tu sei incredibile. – disse, scuotendo il capo, - Non sai quanto mi piacerebbe essere innamorato di te. Non sei neanche sconvolto perché ti ho detto che sono maschio, guardati!
- Oh, probabilmente non l’ho ancora realizzato. – rispose lui, annuendo freneticamente, - Vedrai domani mattina, quando mi renderò conto di averti pure baciato. – rise, e Bill rise con lui. Le loro mani tornarono ad incontrarsi con una naturalezza agrodolce e quasi nostalgica. Bill non era più neanche lì. D’improvviso, tutto ciò che aveva chiamato casa fino a quel momento – il tappeto di rose, le mura grezze della villetta, la finestra spalancata al secondo piano e le tende svolazzanti nel venticello notturno – non significava più niente. Aveva un obiettivo. Aveva ancora Tom. Da qualche parte nel mondo, Tom c’era ancora.
Da qualche parte dentro di lui, Tom c’era sempre stato.
- Be’… - sospirò Bill, sciogliendo il nodo delle sue dita con quelle di Eric, - Adesso torno dentro. Mio padre… mi doveva parlare.
- Ehi, ehi. – lo fermò Eric, afferrandolo per un lembo della maglietta, - Non mi piace il tono in cui l’hai detto. Sembrava… un addio.
Bill si lasciò andare ad un mezzo sorriso un po’ stanco. Aveva ancora David da affrontare, ed un addio, in quel momento, sembrava la cosa meno spaventosa che gli si prospettasse.
- Forse lo è. – rispose, - È probabile che… torni a casa. Presto.
- È già deciso?
- Dipendesse da me, sarei già lì. – rise Bill, stringendosi nelle spalle.
Eric lo lasciò andare.
- D’accordo, Bill. – disse, chiamando per nome per la prima e probabilmente anche unica volta, - Dovesse andarti buca con… ehi, ma è maschio o femmina? – domandò curiosamente, sgranando gli occhi.
- Ma ti pare una domanda da fare?! – rise Bill, cercando di nascondersi dietro una mano.
- No, ma m’interessa! – insistette Eric, tornando ad avvicinarglisi, - Cioè, è importante!
- Maschio, maschio, ok? – rispose lui, scuotendo il capo con aria rassegnata.
- Okay sì. – annuì il ragazzo, sorridendo soddisfatto, - Almeno adesso so di avere qualche possibilità. Se ti va buca con l’altro, sai dove tornare.
Bill rise ancora e sospirò, salutandolo con un cenno della mano. Eric rimase lì ad osservarlo rientrare, e mentre varcava la soglia, un lieve sorriso ad increspare ancora le labbra ed il cuore a martellare furioso nel petto, Bill pensò distrattamente che non sarebbe più tornato. Perché andare buca con Tom era impossibile.
“Quindi io continuerò ad essere il tuo primo pensiero? E mi amerai per sempre?”
“Sei il mio unico e vero amore.”
David lo aspettava ancora immobile dietro la scrivania, le labbra piegate in una smorfia pensosa e parzialmente nascoste dall’intreccio delle dita proprio davanti al mento.
- David. – richiamò la sua attenzione entrando nello studio e richiudendosi la porta alle spalle, - Lo so che mi devi parlare, ma io devo assolutamente dirti una cosa.
Un po’ interdetto, David aggrottò le sopracciglia e gli fece cenno di sedersi su una delle sedie di fronte al tavolo.
Bill obbedì, adottando una posa composta che gli apparteneva solo nelle uscite pubbliche ed in presenza di Michelle, e che in genere smetteva del tutto quando si trovava da solo con lui.
- Parla. – lo invitò l’uomo con un breve cenno.
Bill si mordicchiò un labbro ed abbassò lo sguardo sulle mani che teneva intrecciate sopra le ginocchia.
- Credo che dovremmo andare via da qui. – mormorò, vagamente inquieto, senza sollevare gli occhi.
David rimase perfettamente silenzioso di fronte a lui. Bill cercò di spiare la sua espressione, aspettandosi almeno un sopracciglio inarcato in segno di risentita protesta, ma non avvenne niente del genere. Quella sera tutti si divertivano ad agire come non si sarebbe mai aspettato. Questo lo destabilizzava. Non era una sensazione piacevole.
- Come mai? – si limitò a chiedere l’uomo, senza fare una piega.
Bill deglutì.
- So che non avrei dovuto, ma ho detto tutto ad Eric. – tornò a guardarlo. David non mosse un muscolo. – Non poteva più continuare in quel modo… - si sforzò di spiegare Bill, per quanto anche ad ascoltarsi da sé si sentisse uno stupido: erano cose che aveva ripetuto fino allo sfinimento, durante il suo primo anno di permanenza negli Stati Uniti; erano andate scemando col tempo fino a sparire, ed anche se dentro di lui quell’urlo non si era mai esaurito, aveva comunque smesso di farsi sentire da David. Era strano tornare a parlargliene dopo così tanto. Faceva quasi male. Per un secondo, forse più di un secondo, lasciando scorrere gli occhi sull’espressione impassibile di David, Bill desiderò di non aver mai smesso di urlare. Forse in quel modo David l’avrebbe capito. Forse l’avrebbe aiutato. – David, io lo so che tu- - cominciò, ma l’uomo lo interruppe con un breve colpo di tosse.
Bill lo osservò accavallare nuovamente le gambe e gonfiare il petto in un sospiro appesantito, prima di tornare a guardarlo con una sincerità disarmante.
- Certe volte mi sembra di essere un burattino. – disse David, stendendo le braccia in grembo, - Ci hai mai fatto caso, Bill? Provi a dare una direzione precisa alla tua vita ma lei se ne va per i fatti propri. – ridacchiò, - È divertente, perché viene proprio da chiedersi cosa ne resti del libero arbitrio e dell’autodeterminazione dei popoli.
- …non ti capisco. – borbottò il ragazzo, incrociando le braccia sul petto ed inclinando il capo.
David sorrise brevemente.
- Un paio di mesi fa ho ricevuto una telefonata da Ernst Uhrlau. Tu probabilmente non ne hai neanche idea, ma è l’uomo che dobbiamo ringraziare per essere riusciti a far perdere le nostre tracce nel 2006.
Bill si lasciò andare ad un sorrisetto amaro.
- Ah, bene. – commentò sarcastico, - Mi premurerò di ringraziarlo personalmente come merita, allora.
Quando tornò a guardare David, vide che lui lo stava scrutando a propria volta con un misto di sospetto e risentimento. Sospirò.
- Sì, scusa. – si affrettò ad aggiungere, scrollando le spalle, - I servizi segreti, quindi. No?
David annuì compitamente, cambiando posizione sulla poltrona per l’ennesima volta in dieci minuti. Era quasi divertente vederlo così nervoso. Per certi versi l’intera situazione era davvero comica. Aveva quasi voglia di concedersela, davvero e finalmente, quella benedetta risata che conservava nel petto da troppo tempo. Ma forse dipendeva soltanto dalla peso di cui si era liberato con Eric.
- Esatto. – annuì lui, - Sembra che… insomma, pare che abbiano preso il gruppo di persone che ha provato ad organizzare i rapimenti.
Interdetto, Bill inarcò le sopracciglia ed indietreggiò lievemente.
- …spiega.
- Non è difficile, Bill. – borbottò David, socchiudendo gli occhi e grattandosi nervosamente una guancia, - Li hanno presi. Arrestati. Erano un gruppo criminale organizzato specializzato in rapimenti per riscatto. Li hanno beccati nel mezzo di qualcos’altro ed è venuta fuori una responsabilità anche per quello. Ecco tutto.
- …mesi fa. E tu non me l’hai detto.
David si lasciò andare ad un mugolio particolarmente addolorato.
- Sapevo che non me l’avresti fatta passare liscia.
- No. – commentò, aggrottando le sopracciglia, - Infatti. Perché non me l’hai detto subito?
David sospirò ancora, passandosi una mano sulla fronte. Bill non si sentiva particolarmente felice, nel vederlo in quelle condizioni. Era strano: proprio adesso che avrebbe potuto riversargli addosso enormi quantità di rabbia e rimpianto e rimorso, fino a farlo sentire schiacciato dal senso di colpa al punto da non potersene più liberare, non voleva farlo. Si sentiva solo un po’ stanco. Forse, al più, un po’ risentito. Ma non era davvero con David, che ce l’aveva.
- Io ci ho creduto, sai, Bill? – mormorò l’uomo con un sorriso amaro, - Ho davvero sperato che questa nuova vita potesse essere la soluzione migliore. Ho sperato fino all’ultimo che tu dimenticassi, che magari Eric potesse… - i loro occhi s’incontrarono e David scosse il capo, abbattuto. - Sbagliavo, suppongo.
Bill sospirò platealmente, sollevandosi dalla sedia ed abbandonando la stanza, per tornare qualche minuto dopo con un paio di forbici in mano. Tornò a sedersi compostamente e lasciò scivolare l’oggetto sul piano rivestito in plexiglass, fino a sfiorare con le punte acuminate le dita dell’uomo.
- Vuoi darci un taglio, Bill? – chiese lui, curioso.
Bill annuì e sorrise.
- Esattamente.
David lo fissò, un po’ incredulo, e lui sospirò, costringendosi a spiegare.
- Io non so te, David, ma non c’è niente che mi tenga ancorato a questo posto. Non c’è niente che mi tenga ancorato a Britney e non c’è niente che mi tenga ancorato proprio ad un bel nulla. Io non ce l’ho con te. Molto probabilmente tu ed il signor Uhrqualcosa ci avete salvato la vita. Non posso che essertene grato. Ma David… - sospirò ancora, spingendo nuovamente le forbici verso di lui, - non puoi più fermarmi. Io torno a casa. – ristette qualche secondo, mordendosi il labbro inferiore, prima di continuare, - E mi piacerebbe che tornassi con me. Papà.
David espirò dal naso con una certa forza e rinunciò a mantenere il broncio insoddisfatto che aveva pianificato di tener su fino alla fine, scuotendo il capo con aria, più che amareggiata, dolcemente rassegnata.
D’altronde, fermare gli uragani era impossibile. E Bill, dannazione, lo era.
- E le forbici erano solo un astuto simbolismo o che? – chiese ironicamente, tornando ad accavallare le gambe.
Bill ridacchiò a bassa voce, coprendosi le labbra con una mano.
- Vorrei che mi tagliassi i capelli. – spiegò poi con aria furba, - Non posso mica tornare a casa conciato in questo modo.
Era stato come rivivere uno delle centinaia di pomeriggi prima che suo padre e sua madre divorziassero. Ma il posto era diverso e così anche le voci, e soprattutto non c’era Tomi al suo fianco a dire cretinate per cercare di farlo star meglio.
David lo aveva raggiunto una mezz’ora dopo, stanco, esasperato e scarmigliato come l’avessero preso a botte – ipotesi della cui falsità non poteva neanche essere tanto certo.
“Tu, Bill, sarai la mia morte.”, gli aveva detto con un mezzo sorriso veramente esausto. Bill s’era sentito in colpa, ma aveva provato a consolarlo al meglio delle proprie possibilità. Un abbraccio ed un grazie. La risatina di David, mentre gli diceva che coi capelli così corti sembrava di nuovo piccolissimo e gli pizzicava il naso lo rassicurò sulle sue condizioni emotive.
David si sarebbe ripreso.
Sarebbero stati comunque insieme.
Tutti quanti.
Sarebbe stato grandioso.
Grandioso e basta.
Appollaiato su uno degli scomodi sedili della sala d’attesa dell’aeroporto Mac Arthur, Bill non faceva che ripeterselo, torturando la visiera del berretto di Tom che non aveva voluto indossare per non scompigliare i capelli ma non aveva potuto fare a meno di tenere in mano per tutto il tempo.
Il suo cellulare, stretto saldamente fra le dita della mano libera, conteneva in rubrica solo numeri sbagliati.
David gli si affiancò con un enorme sospiro desolato, abbattendosi su una sedia al suo fianco e rimproverandolo animatamente per la sua posizione scomposta.
- Sembra che non potremo portare liquidi a bordo, anche se li abbiamo comprati qui dentro. – sospirò ancora l’uomo, - Sbrigati a finire la coca-cola e… chi diavolo stai pensando di chiamare?
Bill si strinse nelle spalle, distogliendo imbarazzato lo sguardo.
- Pensavo di avvertire mamma…
- …e non hai più il numero.
Bill annuì sconsolato, mordicchiandosi un labbro. S’era truccato, aveva sparato i capelli in aria con una quantità enorme di gel ed aveva indossato una maglietta ed un paio di vecchi jeans di David.
Sembrava più Bill che mai.
L’uomo sorrise brevemente e gli porse il proprio cellulare.
- Cerca come Trümper.
Il volto di Bill s’illuminò, mentre lasciava andare il cappello e prendeva fra le dita il cellulare, cominciando a pressare i pulsanti della tastiera con la furia di un nevrotico.
- Quante diavolo di altre cose mi nascondi, David?! – chiese, incapace di trattenere un urletto stridulo di puro giubilio mentre individuava finalmente il tanto sospirato numero di telefono.
- Il segreto del mestiere di un buon manager è non cancellare mai la rubrica del proprio telefonino. – asserì lui, comicamente serio.
Bill rise, portando il cellulare all’orecchio. Poi attese. Deglutì. Ed infine parlò.
- …mamma? – chiese, dopo un attimo di esitazione, - Hai programmi per domani sera?
David sentì Simone scoppiare a piangere dall’altro lato dell’Oceano e per la prima volta dopo due dannatissimi anni si sentì contento di se stesso.