Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME
CHAPTER THREE
LA GRAVITÉ DE L'AMOUR

Bits and pieces from your storm
Rain upon me as they form
Melt into my skin and I feel warm

Se c’era una cosa della quale Gustav era quasi certo, era che, se in quel luglio del duemilasei lontano secoli e passato da poco meno di due anni, non avesse conosciuto Annette Saint-Pierre, sarebbe morto. Per una serie svariata di fattori.
Primo: sarebbe stato solo come un cane. E lui non era mai stato solo come un cane. Non riusciva neanche a concepire la solitudine come condizione possibile in cui vivere, figurarsi accettarla come un dato effettivo.
Secondo: non avrebbe più avuto occasione di suonare la batteria. Che era un’altra condizione semplicemente intollerabile anche solo da immaginare, figurarsi metterla in atto.
Terzo: non avrebbe mai avuto qualcuno con cui parlare di quello che stava vivendo. E lui era un ragazzo tendenzialmente silenzioso e capacissimo di affrontare un disastro a muso duro senza per questo doversene per forza lamentare, ma… be’, quello che stava vivendo non era “un disastro”. Era una tragedia. La distruzione totale e coatta della sua vita. Non poteva immaginare di farla passare sotto silenzio, e parlarne da solo davanti allo specchio, aveva constatato, non era soddisfacente come sfogarsi con un essere umano vivo e pensante, in grado di consolare con un abbraccio e parole gentili.
Quando David aveva deciso di ribattezzarlo Serge Monod e di mandarlo in Francia, per un momento – più di un momento, a dire la verità – aveva pensato che fosse completamente impazzito.
“In Francia?!”, aveva domandato, sgomento, mentre anche gli altri si voltavano a guardare il manager con aria inquisitoria, “David, conosci perfettamente le dimensioni del fanbase che abbiamo in Francia! È un suicidio!”.
“Starai in un paesino molto piccolo.”, lo aveva quindi rassicurato lui, incrociando le braccia sul petto ed abbassando lo sguardo, “Un borgo rurale. Credimi, è molto meglio questo che altrove, non possiamo rischiare tu abbia a che fare con ragazzi della tua età.”, aveva sospirato, lasciando ricadere lievemente le spalle, “Dovrai darti da fare, Gustav, mi dispiace. Ma non sarà diverso per tutti gli altri, credetemi. In questa situazione non ci saranno privilegiati.”
“Voi però andate a stare a New York.”, s’era intromesso Georg, sarcastico, guardando altrove.
“Sì. Ed io dovrò riciclarmi commercialista, e Bill dovrà fingersi donna. Ti sembra una condizione privilegiata?”, aveva replicato Jost, fulminandolo con lo sguardo, “Pensi che andrei a stare in una città così grande, se non avessi la certezza fosse la soluzione migliore?”, aveva continuato l’uomo, critico.
Georg non aveva trovato una risposta – probabilmente perché, da qualche parte all’interno delle loro teste, oltre la coltre di lamentele che avevano messo su da bravi adolescenti delusi ed infuriati, sapevano tutti che non c’erano altre soluzioni al problema – e perciò il discorso era caduto nel silenzio.
Due settimane dopo, Gustav aveva già preso possesso del minuscolo appartamentino di Loudun.
Per la verità, non stava neanche a Loudun. Loudun sarebbe stata quantomeno vivibile. O interessante. Giravano voci pazzesche, attorno a quella cittadina. Ma no, lui non poteva stare in una cittadina, soprattutto se era una cittadina con la nomea di “casa del Diavolo”. Troppo alta la possibilità di incontrare ragazzi, troppo alta la possibilità d’incontrare turisti.
Perciò s’era stabilito in uno dei minuscoli agglomerati rurali che attorno a Loudun avevano preso forma. E c’era rimasto due mesi, con l’unica compagnia di qualche gatto randagio e dei vecchietti cui portava il latte e il giornale al mattino per guadagnarsi da vivere.
In quel paese non c’era nessuno avesse meno di quarant'anni o più di sei. E allo scadere del secondo mese, molto semplicemente, aveva percepito sottopelle che se non fosse fuggito da lì sarebbe impazzito. Perciò aveva sollevato il materasso, contato i soldi che aveva risparmiato e comprato un biglietto di sola andata per il treno per Parigi che passava di lì una volta a settimana.
Non aveva organizzato niente, aveva semplicemente messo in valigia le poche cose che possedeva ed i soldi che era riuscito a guadagnare ed era salito su quel treno, senza pensare al dopo, senza pensare alle conseguenze di quel gesto, senza la minima idea di dove andare a sbattere la testa una volta che fosse stato lì. Aveva comunque dalla propria la terribile – eppure, in qualche modo, consolante – consapevolezza che perfino vivere sotto un ponte sarebbe stato meglio di quello che aveva dovuto sopportare fino a quel momento. Probabilmente l’alloggio sarebbe stato pure meno umido.
Da qui, tutto in discesa.
Era stato quel giorno che aveva conosciuto Annette. Lui veniva da Loudun col regionale delle ventitre e quindici, lei partiva per Nantes con l’espresso delle ventitre e cinquantacinque.
In quel periodo portava già i capelli piuttosto lunghi – abbastanza per un modesto codino dietro la nuca, almeno – e con gli occhiali da sole a mascherare parzialmente il viso non era per niente riconoscibile.
Ciononostante, Annette l’aveva riconosciuto. Lui l’aveva capito perché l’aveva osservata fissarlo insistentemente per molti minuti, prima di avvicinarsi, schiudere le labbra e prendere fiato come per sputar fuori di prepotenza qualcosa di terribilmente difficile da masticare.
S’era fatto prendere dal panico. Aveva fatto l’unica cosa cui potesse pensare per fermarla. Le aveva pressato una mano sulle labbra e l’aveva trascinata di peso nel bagno degli uomini. Intimorita, lei l’aveva lasciato fare. S’era lasciata chiudere in uno dei gabinetti e s’era lasciata stringere la mascella in una morsa che, se non fosse stata già sicura del fatto lui fosse proprio Gustav Schäfer, le avrebbe dato la prova definitiva lui fosse almeno un batterista. O un manovale di decennale esperienza, in alternativa.
- Ti prego. – aveva detto, incerto e anche vagamente spaventato, - Non dire niente. Adesso ti lascio, ma tu non dire niente. Ok?
Lei aveva annuito freneticamente, riuscendo comunque a muoversi a stento, schiacciata com’era contro la fredda parete metallica del bagno.
Lui era stato di parola. L’aveva liberata e s’era lasciato ricadere sul gabinetto chiuso, prendendosi la testa fra le mani per un secondo prima di sfilare gli occhiali da sole e massaggiarsi gli occhi, sospirando stancamente.
- Credevo che vi foste trasferiti in America, sai? – erano state le prime parole di lei, alle quali lui aveva reagito ridacchiando ironicamente. Quando s’era sollevato a guardarla, anche lei stava ridendo.
- Diciamo che una parte di noi in effetti s’è trasferita in America. – disse lui, rilasciando le parole con tale facilità e tale piacere che gli sembrò d’essersi appena liberato di un boccone avvelenato.
Ed era così, ma era anche un atteggiamento molto pericoloso.
S’era interrotto, stringendosi nelle spalle.
- In realtà non posso parlarne. – aveva confessato, parzialmente deluso.
- Oh! – aveva gorgogliato lei, agitando convulsamente le mani davanti al visetto pallido e tondo, ricoperto di lentiggini chiarissime, appena percettibili, - Io non lo direi mai a nessuno, se tu ti confidassi con me! – aveva cercato di rassicurarlo, forzando un sorriso rilassato.
Si vedeva che era emozionata, si vedeva lontano un miglio. Era una cosa tenera.
- Io sono stato mandato qui. – aveva ripreso a parlare infine, pur decidendo di mantenere segreta qualsiasi informazione riguardo gli altri suoi compagni, - Per la verità non qui. Parigi in teoria sarebbe off-limits. Ma non ce la facevo proprio a restare ancora a Loudun…
- Vieni da Loudun?! – era stata l’immediata e concitata risposta di lei, che aveva spalancato gli occhi e s’era sporta nella sua direzione, completamente incredula. – Non ci sono mai stata! Ci sono delle storie allucinanti che circolano, su quel paese! – poi s’era fermata qualche secondo, come riflettendo attentamente. – Ti chiederei di raccontarmi tutto, ma questo non mi sembra il luogo più adatto… - aveva considerato con una smorfia.
Lui aveva ridacchiato.
- Non è che abitassi proprio a Loudun, comunque. Stavo nei dintorni.
Anche lei aveva riso, socchiudendo gli occhi e scuotendo teneramente il capo.
- Mi riferivo a tutto il resto. – aveva confessato, stringendosi nelle spalle. – Senti, in teoria io dovrei andare a Nantes. Una gita con degli amici, sai, una cosa per il week-end…
- Oh. – aveva annuito Gustav, recuperando la propria valigia da terra, - Ma certo, vai. Vorrei solo pregarti di non dire a nessuno che sono qui, perché sarebbe un vero e proprio disastro.
Lei, però, non era sembrata convinta. S’era mordicchiata il labbro inferiore, riflettendo seriamente, una piccola ruga ad incresparsi fra le sopracciglia aggrottate.
- Hai detto che Parigi è off-limits… - aveva considerato, - Significa che non hai dove andare?
Lui s’era ritratto appena, vagamente imbarazzato. Doveva sembrare proprio un idiota, in quel momento.
- Be’. Se la vuoi mettere in questi termini… intendo, se non consideri gli angoli delle strade come luoghi dove andare… - aveva ironizzato. E lei aveva riso.
- Lo so che può sembrare assurdo, - aveva suggerito, arrossendo ed abbassando lo sguardo, - e forse anche sfacciato, ma ti andrebbe di venire a casa mia? Non ho un appartamento molto grande e vivo assieme a mio fratello, ma lui per ora non c’è, anche se torna presto, e i miei genitori stanno a Siviglia e noi stiamo qui per l’università, quindi non avremmo problemi ad ospitarti, e-
- Ma… - aveva cercato di interromperla lui, incredulo, - …e Nantes…?
Lei l’aveva fissato per qualche secondo, interdetta.
- Eh. – aveva sillabato, scrollando le spalle, - Sarà per un’altra volta. Comunque mi chiamo Annette. – aveva concluso, sorridendo, - È un piacere conoscerti.
*
Annette non era una fan. Era una fanatica.
Era stata questa la sua prima impressione, entrando in camera sua. Le pareti erano letteralmente tappezzate di poster. Le ante dell’armadio erano colonizzate da santini di Bill. C’erano due colonnine porta-cd in ferro battuto, in un angolo, che si elevavano orgogliose verso l’alto per circa un metro e mezzo, e sebbene una potesse anche passare per la normale colonnina porta-cd di un’adolescente media – Avril Lavigne, 30 Seconds To Mars, Placebo, Iron Maiden, Killers e chi più ne ha più ne metta, classico esempio di quanto possano essere confusi i gusti dei ragazzi a diciott’anni – l’altra aveva tutto l’aspetto di una monografia. C’era l’album – in entrambe le sue manifestazioni. C’erano i singoli. C’era il dvd. Non era moltissimo, ma solo perché loro non avevano avuto il tempo di produrre di più. Perché ciò che suggeriva quella camera, della sua padrona, era che se i Tokio Hotel avessero avuto modo di realizzare altri quindici album coi rispettivi sessanta singoli, su quella colonnina avrebbero trovato tutti un posto.
D’altronde, come Annette stessa s’era premurata di fargli sapere immediatamente, quasi mettendo le mani avanti contro ogni possibile fastidio da parte sua, postava sull’Unendlichkeit. Il forum commemorativo che era stato aperto all’indomani dello scioglimento dei Tokio Hotel.
L’utilità di quel forum gli era sempre sembrata in effetti poco chiara. Era fondamentalmente composto da ragazzine nostalgiche che, in un inglese sgangherato e pure poco comprensibile, esprimevano ad intervalli alterni la propria enorme sofferenza per la perdita di qualcosa che, per un certo periodo di tempo, avevano ritenuto fosse di loro proprietà.
Gustav ne era effettivamente infastidito.
Perché a lui non era mai stato dato il permesso di lamentarsi.
Lamentarsi non era mai stata un’opzione.
Aveva dovuto tenere tutto dentro e lasciare la propria famiglia, i propri amici e la propria patria.
In perfettissimo silenzio.
Lo infastidiva che Annette non lo capisse, ma non poteva fargliene davvero una colpa. D’altro canto, non era mai stato granché da lui mettersi lì ad ordinare alle persone cosa fare o non fare per non dargli fastidio, se non altro perché era pure abbastanza convinto che fastidi come quelli fossero passeggeri e del tutto dimenticabili. Perciò, aveva lasciato che Annette continuasse a frequentare quel forum – ricordandole giornalmente il giuramento di discrezione che aveva fatto prendendoselo in casa – e non ci aveva dato più peso di tanto.
Mentre lui fissava il tutto con aria profondamente sconvolta, lei aveva ridacchiato nervosamente ed aveva confessato di sentirsi molto in imbarazzo per tutto quello sfoggio d’amore. E quando lui aveva cercato di tranquillizzarla dicendo che era una cosa normale – mentendo, perché col cavolo che lo trovava normale – lei aveva annuito ed aveva risposto che, se voleva mantenere di lei quell’idea di normalità, avrebbe fatto meglio a stare lontano dal suo computer. E qui la discussione s’era chiusa, perché, sinceramente, se la sua salvatrice era anche una fangirl, lui non voleva saperlo.
Dopodichè, la conversazione s’era tragicamente spenta nel silenzio. E lì sarebbe rimasta, se ad un certo punto lui, voltando un ulteriore sguardo sulla stanza, non avesse visto un paio di bacchette dentro una cornice di vetro di media grandezza, appesa al muro.
- Anche quelle sono nostre? – aveva chiesto, indicandole.
- Oh, no! – aveva risposto lei, con entusiasmo, - Quelle sono di Lars Ulrich! – aveva confessato, con aria sognante. E poi aveva aggiunto: - Durante l’ultimo concerto che hanno fatto qui ho dovuto uccidere molti uomini per guadagnarmele! – ridendo divertita.
Gustav aveva sorriso. Ed aveva capito che da lì sarebbe stata davvero tutta in discesa.
*
Il giro panoramico del trilocale in cui Annette abitava col suo fantomatico fratello assente, era continuato con la stanza del succitato fratello.
- Dovrebbe tornare la settimana prossima. – aveva confessato la ragazza con un lieve sbuffo annoiato, aprendo la porta della camera, - Sta facendo l’Erasmus. A Barcellona! Ma ti rendi conto?! E dire che è un idiota… Agli scemi non dovrebbero essere permesse cose simili, sono palesi opportunità sprecate per altri che invece se le meriterebbero.
Entrando in quella camera, Gustav aveva capito tante cose di quell’eccentrico duo di fratelli – e non poteva essere che tale, a giudicare dalla metà femminile che lo componeva. Come per esempio il fatto la propensione verso l’ossessività fosse assolutamente genetica. Ne aveva avuto già una mezza prova con Bill e Tom, ma la quantità abnorme di poster dei Muse che ostruivano le pareti di quella camera gli diedero la conferma definitiva.
- Amiamo con passione. – aveva commentato Annette, ridacchiando maliziosa.
Aveva anche capito per quale motivo in camera della ragazza non ci fossero cd dei Metallica, nonostante lei li amasse tanto. La ragione era molto semplice: anche suo fratello aveva due colonnine. Due monografie, per la precisione. Muse da un lato, Metallica dall’altro.
- Mathieu non si rassegna a darmela! – s’era lamentata lei, accarezzando l’enorme dispiegamento di album con un gesto incredibilmente tenero, - Non gli basta pretendere tutti i cd dei Muse, no! Lui vuole tutto!
Mathieu Brian Saint-Pierre, l’uomo che voleva tutto, fece rocambolescamente irruzione nella sua vita un paio di giorni più tardi. Quei giorni, lui li aveva passati cercando di abituarsi al nuovo ambiente, agli strani rituali quotidiani di Annette – gargarismi di acqua e alloro ogni mattina compresi, perché “la voce doveva essere sempre perfetta per il coro della chiesa” del quale, a quanto diceva, era un’entusiasta componente – ed a dormire in una stanza in cui una ventina di occhi incredibilmente azzurri lo fissavano da ogni poster, stordendolo ed intimidendolo. Ma anche a parlare di musica con una ragazza che, a suo modesto parere, ne sapeva fin troppo della materia per amare i Tokio Hotel al punto in cui li amava – e non che a lui non piacesse la musica che facevano prima di sciogliersi, ma… insomma, non puoi uccidere uomini per accaparrarti le bacchette di Lars Ulrich e poi dire di amare i Tokio Hotel più della tua vita, senza neanche avere la scusante di esserne parte!
Tutto sommato, nonostante gli enormi sensi di colpa, il disagio in cui si trovava e le discrete ma mirate domande di Annette – che l’avevano portato ad un certo punto a svegliarsi come d’improvviso e realizzare di averle spiattellato praticamente tutto quello che era successo loro prima che si sciogliessero – erano stati due giorni perfino belli. Era piacevole avere di nuovo qualcuno con cui parlare. Una persona con la quale, peraltro, fortunatamente si trovava anche in sintonia. Ed in pace.
Pace che però venne bruscamente interrotta dall’arrivo notturno di Mathieu. Aveva dato la buonanotte ad Annette già da un paio d’ore, e ora si ritrovava a cercare di evitare lo sguardo inquietante del Matthew Bellamy appeso sulla parete proprio di fronte al letto, quando all’improvviso il campanello organizzò una rivolta. Non squillò e basta, no. Trillò così tante volte, così velocemente e così spesso nel giro di trenta secondi, che Gustav ne fu seriamente stordito. E, giustamente terrorizzato, scattò in piedi.
Annette aveva più o meno avuto la stessa reazione, e quando lui si affacciò alla porta della camera lei stava già all’ingresso, una mano a stringere convulsamente la maglietta di cotone all’altezza del cuore e l’altra ad arpionare il citofono, cercando di capire chi fosse.
Il mistero fu prontamente svelato dalla stessa voce metallica dell’apparecchio. Che borbottò “Sono io, strega! È mezz’ora che suono, apri ‘sta cazzo di porta!”.
- Mathieu… - mugugnò Annette con una smorfia disgustata, aprendo il portone e schiacciando la cornetta del citofono al suo posto con forza inaudita. – Avevi le chiavi! – strillò poi, quando, meno di un minuto più tardi, una sagoma allampanata apparve ad ingombrare la soglia.
- Non più. – rispose tranquillamente il nuovo arrivato. – Perse a Barcellona.
Annette rimase immobile per un’altra manciata di secondi, fissando l’ombra scura, sbigottita.
- …dovremo cambiare di nuovo la serratura?! – strillò infine, sollevando un braccio con la chiara intenzione di scaraventare il pugno chiuso contro il volto del fratello. Lui la fermò senza difficoltà, afferrandole saldamente il polso con una mano ed entrando trionfante in casa.
- Non essere ridicola. – sbottò, lasciandola solo per riavviarsi i capelli, - Chi vuoi che venga fin qui da Barcellona solo per svaligiarci la casa? Piuttosto, portami dentro le valigie. Sono stanco. – ordinò quindi, lanciando lontano le scarpe con un calcio.
- Non ti meriti neanche una risposta. – borbottò ferocemente Annette, digrignando i denti e dirigendosi controvoglia verso le valigie.
- Aspetta… - mormorò quindi Gustav, facendo la sua apparizione all’ingresso, - Ti aiuto io.
La sagoma – che ormai non era più una sagoma ma una persona in carne ed ossa – gli sollevò addosso uno sguardo vagamente allarmato, e rimase in silenzio per qualche secondo. Poi gli si avvicinò, lo squadrò più attentamente – bloccandolo poco distante dalle valigie e condannando Annette a trascinarle dentro tutta da sola – e sbottò “Ma è quello!”. Dopodiché fece mente locale, rifletté un po’, tornò a guardare la sorella e le chiese “’Cazzo è successo?”.
Fu una notte lunga e difficile.
Prima di tutto, a Gustav toccò rivedere totalmente quelli che erano i suoi canoni di definizione dell’androginia. Teoricamente, avrebbe dovuto essere abituato all’ambiguità sessuale, per via di Bill. Ma Bill, una volta struccato e rimestato in un bagno d’acqua calda sufficientemente a lungo, smetteva subito di essere femmina e tornava maschio. Maschio tanto quanto Tom. Senza trucco, non avresti mai potuto scambiarlo per una donna. Punto.
Invece, il tizio che gli stava davanti in quel momento – incarnato incredibilmente rosa, occhi castani profondi da far paura e cortissimi capelli biondi platinati, palesemente tinti, un po’ più lunghi sulla fronte, acconciati in una strana frangetta sghemba e spettinata – addosso non aveva neanche un filo di trucco. E non avresti potuto dargli con certezza della femmina, del maschio.
Bill poteva essere effeminato, a volte.
Ma quel ragazzo no. Quel ragazzo era diverso. Quel ragazzo non aveva sesso.
L’androginia doveva essere quella. Perché Gustav si rifiutava di credere che la cosa fosse dovuta soltanto al suo abbigliamento da tipico figlio del periodo più emo degli anni ottanta – ovvero, ampia camicia bianca sbottonata più che abbottonata, strettissimi pantaloni neri dal tessuto indecifrabile, stivaletti lucidi e tondi in punta e giacca grigia unisex distrattamente buttata sulle spalle. Semplicemente, se non avesse tenuto così tanto ad annunciare il proprio sesso parlando, Gustav non avrebbe saputo come rivolgerglisi.
- Lui è Mathieu Brian. – l’aveva presentato Annette, indicandolo con un cenno del capo.
- Mathieu. – l’aveva corretta lui, acido. – E tu sei il batterista dei cosi che piacciono tanto alla strega, ti riconosco. – aveva continuato indicandolo, per poi lanciare uno sguardo alla porta della sua camera, - E stavi dormendo nel mio letto, cosa che non deve più ripetersi. – dopodiché, senza lasciargli nemmeno il tempo di pensare ad una replica, s’era voltato verso la sorella, ricominciando ad inveire. – E tu, se decidi di diventare una zoccola e portarti le rockstar a casa, sei liberissima di farlo. Ma la mia stanza è sacra, quindi, quantomeno, se devi fare la zoccola falla fino in fondo e portatelo a dormire con te. – gli aveva lanciato un’occhiata veloce, quasi preoccupante, e poi aveva ripreso a blaterare. – Peraltro, sono stupito di quanto tu sia caduta in basso nell’ultimo anno. Questo tizio non è assolutamente scopabile! E guarda che io a Barcellona mi sono fatto veramente di tutto, quindi se te lo dico lo faccio con una certa competenza.
Annette rimase qualche minuto inerme sotto il fuoco incrociato delle sue affermazioni allucinanti, probabilmente mentre aspettava di recuperare dal sonno abbastanza lucidità per replicare. Quando Mathieu ebbe concluso, comunque, andò in cucina, recuperò un lunghissimo rotolo di marshmallow e glielo tirò addosso. E non sarebbe stato esagerato affermare che Mathieu l’avesse recuperato direttamente con la bocca. Ciò lo rese troppo impegnato a masticare per poter parlare ancora, e diede modo ad Annette di recuperare i pensieri perduti e spiegare.
- Tanto per cominciare, non è che siccome tu sei una squillo di prima categoria io devo necessariamente seguire le tue orme. – precisò, dando un colpo all’estremità inferiore del marshmallow, che pendeva felice fra le braccia di Mathieu, costringendola a fare un salto in alto e colpirlo sul naso, - Secondo poi, nella tua stanza, quando non ci sei, ci faccio quello che voglio. Rassegnati. E infine, io e lui non stiamo insieme. – e qui aveva lanciato un breve sguardo imbarazzatissimo al batterista, sillabando poi una scusa senza voce e rilasciando le spalle tese, sollevata, solo nel momento in cui lui sorrise per rassicurarla sul fatto che non s’era offeso.
Il passo successivo fu raccontargli cos’era successo e per quale motivo Gustav adesso si trovasse lì.
Visto il tipo, il minimo che lui potesse aspettarsi sarebbe stato, chissà, magari ritrovarsi appeso al contrario sopra il water per scontare pene delle quali non aveva nemmeno capito la natura.
Invece, non avvenne niente di tutto questo. Mathieu ascoltò tutto, divorando felice il suo marshmallow, e poi si limitò a scrollare le spalle.
- Senti, sono stanchissimo. – disse alla sorella quando ebbe la bocca libera, - Per me puoi fare quello che vuoi. Mi basta che la mia stanza resti libera dalla vostra presenza.
In seguito a quella che, visto l’urlo di gioia nel quale proruppe Annette quando sentì quelle parole, sembrava una concessione di proporzioni stratosferiche, Gustav si lasciò andare ad un sospiro sollevato, massaggiandosi confusamente la fronte mentre la ragazza cercava di spiegargli come si sarebbero organizzati per il resto della notte – salvo trovare poi una sistemazione più comoda l’indomani – e lo rassicurava sul fatto che sì, era sempre così stronzo, quindi di sicuro stando con loro non avrebbe trovato modo di annoiarsi.
In fondo, non sapeva se avrebbe davvero dovuto essere così sollevato. Era palesemente finito in una famiglia di pazzi. Forse ritrovarsi rapito a diciott’anni sarebbe stata una sorte migliore.
O forse no.
*
In realtà, la persona che davvero gli salvò la vita, in maniera definitiva ed inappellabile – o almeno, che così sarebbe stata se Andreas non avesse poi deciso di punto in bianco che la cosa non gli andava – fu proprio Mathieu, l’uomo che voleva tutto. E lo fece proprio grazie al fatto che voleva tutto.
Mathieu era in sostanza uno stronzo viziato, stupido, superficiale ed enormemente maleducato, che maltrattava gli altri come niente se le cose non andavano nel modo che lui aveva prestabilito e con una straordinaria predisposizione a trovare scopabile qualsiasi cosa si muovesse nel raggio di tre metri da lui – Gustav escluso, forse perché proprio non gli piaceva o forse perché aveva intuito a pelle che sarebbe presto diventato zona vietata in quanto proprietà di sua sorella.
Ciononostante, Mathieu aveva un enorme pregio: suonava la chitarra e cantava. Divinamente. Gustav aveva un’esperienza piuttosto ampia quanto a chitarristi amatoriali – e non solo perché, durante il corso della sua vita, ne aveva frequentati due: uno – Andreas – che tale era rimasto, per ovvie ragioni di mancanza di un gemello da sfruttare per diventare famoso, e l’altro – Tom – che, invece, aveva fatto il salto di posizione senza fare anche quello di qualità, perché, contrariamente al primo, un gemello da sfruttare per farsi figo agli occhi del mondo ce l’aveva eccome. Insomma, conosceva perfettamente il livello cui arrivavano in genere i ragazzi abituati semplicemente a suonare nella loro stanzetta e basta.
Mathieu non era niente del genere. Tutto il talento che sembrava difettargli quanto a capacità di relazionarsi col prossimo, era stato incanalato nella musica. E perciò Mathieu suonava e cantava da dio.
Questo non sarebbe bastato a salvare la vita di Gustav, ma Mathieu fortunatamente non era solo un angelo della chitarra: era soprattutto uno stronzo egocentrico ed ostinato, e perciò, una volta tornato da Barcellona, il suo primo pensiero – dopo dormire e mangiare, s’intende – fu quello di riformare la band che aveva sciolto prima di partire.
Gli Anal Prolaps avevano un nome incommentabile che già di per sé diceva molte cose del loro fondatore, signore e padrone, e spiegava anche il motivo per il quale Annette fosse così restia a parlarne – e propensa, invece, a malsopportare il fratello: insomma, Annette era una ragazza di chiesa. Era ovvio vedesse Mathieu come la cosa più simile all’Anticristo esistesse sulla terra.
Comunque sia, gli Anal Prolaps s’erano pure sciolti. E, a quanto pareva, nonostante l’ostinazione del ragazzo, sembravano anche fermamente intenzionati a non riunirsi affatto.
Mathieu passò tre giorni al telefono. Non per modo di dire. Non fece una telefonata lunga un paio d’ore ogni giorno per tre giorni, no. Impiegò sei ore per convincere la bassista, Jennifer – sei ore di seguito – e le restanti sessantasei per rintracciare e minacciare Alex, il batterista. Alex, però, doveva essere ancora più stronzo ed ostinato di lui – ed Annette lo confermò, in effetti, quando lui glielo chiese – perché resistette stoicamente all’attacco – a tutti gli attacchi – e vinse la guerra, annunciando che stava per cambiare paese e che non era colpa di Mathieu ma per quanto lo riguardava avrebbe potuto tranquillamente esserlo. La qual cosa aveva in effetti fatto vacillare anche lui.
Privo di un batterista e con una bassista che non sembrava affatto intenzionata a mettersi a lavorare sul serio – in quanto, nel lungo anno che lui aveva passato fuori, aveva preso l’abitudine di uscire con tutta una serie di camionisti trentenni, nonostante la cosa a Mathieu sembrasse assurda perché “quella tipa era stata anche con lui ed era impensabile che, dopo essere stato con lui, uno desiderasse di stare con cose tanto diverse” – il povero ragazzo si ritrovava in una pessima situazione di stasi.
E fu probabilmente per disperazione che, circa una settimana dopo il forfait di Alex, Mathieu irruppe in camera da letto di Annette mentre lei e Gustav stavano giocando a carte, e gli disse senza peli sulla lingua che “in fondo anche lui non era malaccio e lo voleva nel suo gruppo”.
Gustav non aveva neanche la minima idea di che musica facessero. A quel punto, nessuno l’avrebbe preso per pazzo se si fosse sentito preso per il culo e fosse scattato in piedi, strillando che erano due folli e dovevano lasciarlo in pace ed avrebbe abbandonato quella casa il prima possibile.
Ma non fu così. Nell’esatto momento in cui Mathieu gli prospettò la possibilità di ricominciare a suonare la batteria, nella sua mente esplose un coro di angeli. Campanellini a festa ed arpe comprese. Si alzò in piedi, annuì con convinzione e chiese semplicemente “Quando cominciamo?”.
La consapevolezza che fossero un gruppo cover dei Muse, che suonare ordinatamente con loro fosse praticamente impossibile per via dell’assoluto menefreghismo che Jennifer dimostrava e dell’isteria galoppante di Mathieu, e che, per contro, quando si riusciva ad ingranare si ottenevano delle cose veramente strabilianti, arrivò dopo. Dopo aver lasciato crescere i capelli più o meno fino a sotto le scapole – su suggerimento di Annette – ed averli tinti di castano scuro – sempre grazie a lei. Perché era il miglior modo per non lasciarsi riconoscere. Per non distruggere tutto. Perché lei non voleva lui andasse più via.
E neanche lui ci teneva più tanto, in effetti.
La consapevolezza di poter effettivamente dare un nuovo corso alla sua vita, arrivò assieme a quella di avere finalmente preso la via giusta. Una via sulla quale essere felice. Una via sulla quale camminare con la sicurezza e l’orgoglio di essere stati fortunati, sì, ma bravi a cogliere l’occasione e trattenerla fra le mani come un tesoro prezioso.
Come imparò a trattenere fra le mani Annette, quando lei timidamente confessò che lui le piaceva, e lui, prima ancora di pensare a qualsiasi altra cosa, la strinse fra le braccia e la baciò.

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