Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME
CHAPTER ONE
THE CYCLE OF SEASONS

I'm Sturz durch Raum und Zeit
Richtung Unendlichkeit
Fliegen Motten in das Licht
Genau wie du und ich

Da tutto quello che era capitato loro negli ultimi due anni, Tom aveva imparato due cose molto semplici. La prima era qualcosa di pratico ed utile: ovvero, se pure ti sembra che preferiresti strapparti un braccio, piuttosto che permettere a qualcuno di tagliarti i capelli, nel momento in cui dalla scomparsa di quei fottuti dread potrebbe dipendere la vita tua e delle persone che ami, sarai il primo a chiedere un paio di forbici e un rasoio elettrico.
La seconda era qualcosa di meno pratico ma decisamente più utile, se non altro perché le ammissioni che da quella consapevolezza erano scivolate fuori, come inevitabili corollari, s’erano dimostrate in grado di cambiare senso e sapore alla sua vita. Attuale, precedente e futura.
In poche parole: ci sono delle sensazioni, degli stati d’animo, che sono così intimamente tuoi, da tanto di quel tempo, che neanche ti accorgi di viverli. Sono sentimenti che non definisci, che non chiami col loro nome. Che lasci a languire sul fondo del tuo stomaco finché non sedimentano, e quando questo accade ti sembra di stare in quel modo da sempre.
Poi, la tua vita si ribalta – che la scelta sia tua o altrui non ha la benché minima importanza – ed è allora che, perdendo ciò che avevi, impari a chiamare ogni cosa col proprio nome.
Aveva imparato a chiamare felicità quell’elettrizzante mistura di eccitazione, ansia ed allegria che lo coglieva ogni mattina quando metteva i piedi sul pavimento, nonostante avesse davanti una giornata drammaticamente piena di impegni.
Aveva imparato a chiamare soddisfazione il sentimento di placida pienezza di cui traboccava quando pensava al proprio lavoro, a quello che lui, suo fratello e i suoi migliori amici erano riusciti a fare, agli obiettivi che erano stati in grado di raggiungere ed alle possibilità enormi e splendenti che si aprivano davanti a loro se solo provava ad immaginarsi fra qualche anno.
Queste definizioni le aveva imparate quando questi sentimenti erano scomparsi. Quando la felicità e la soddisfazione s’erano perse fra le pieghe di una vita monotona e noiosa, alla quale aveva trovato impossibile abituarsi per un sacco di tempo, prima di scoprire che in effetti l’essere umano ha potenzialità davvero infinite, e lo dimostrava già da solo il fatto lui fosse riuscito ad imparare l’inglese e capire effettivamente cosa un inglese gli stesse dicendo quando gli parlava.
Allo stesso modo, aveva imparato a chiamare amore quel sentimento conturbante ed impetuoso che sembrava spingerlo continuamente verso qualsiasi luogo in cui suo fratello Bill si trovasse. E l’aveva imparato soltanto quando Bill gli era stato strappato via.
*
- Timothy, per carità, mangia un po’ d’insalata.
La vecchia Marjorie Blossom, detta Marge, viveva nella propria metà di quella villetta bifamiliare più o meno da quando era stata costruita. Quindi, a giudicare dallo stato pietoso in cui vertevano mura e tubature, più o meno da un migliaio d’anni. E, dal momento che lì non c’era neanche nata, in quanto orgogliosa figlia di padre irlandese che aveva preteso di tenere tutta la famiglia entro i confini della Madre Patria fino a quando non fosse morto, doveva essere in realtà ancora più vecchia.
- Odio la lattuga, odio il radicchio, odio il pomodoro ed odio anche le carote. – sbottò disinteressato, limitandosi ad azzannare la gommosa bistecca al sangue che languiva sul suo piatto da una ventina di minuti. – Non vedo perché dovrei mangiare qualcosa che mi fa vomitare.
- Sei uno stronzo. – commentò dunque Cherry Blossom, unica, adorata e stronzissima nipote della vecchia Marge, scoccandogli un’occhiataccia dal fondo della tavola.
Oltre ad avere un nome che suonasse palesemente come una presa in giro, Cherry Blossom vantava pochi altri particolari degni di nota. Un paio di tette, per dire. E basta.
Secondariamente, era ad occhio e croce quanto di più simile a Tom potesse trovarsi in tutta Europa. Aveva i suoi stessi atteggiamenti, intendeva la vita allo stesso modo, era chiusa in sé stessa ed aggressiva nei confronti del resto del mondo, ascoltava solo un certo tipo di musica – unica caratteristica che da Tom la rendesse diversa: se per lui erano hip hop ed R&B, per lei niente oltre al metal era degno d’essere preso in considerazione – scopava come un coniglio, portava i rasta dei quali lui era stato privato e suonava la chitarra nel proprio gruppetto thrash tutto al femminile.
In terzo luogo, era anche la ragazza di Georg, ma questo era un dettaglio del tutto trascurabile, visto che non si amavano e neanche trattenevano l’esclusiva sui visitatori occasionali dei loro rispettivi letti.
Ovviamente, Tom non la tollerava.
- Nonna, quando inviti a cena pure questa vipera, ricordati di avvertirmi, così me ne sto a casa. – apostrofò Marge, la quale, ben lungi dall’essere la nonnina dolce e remissiva che lui avrebbe preferito, si limitò a sollevare il medio nella sua direzione. Tom l’ignorò e continuò a parlare. – A parte il fatto che Blitz sarebbe sicuramente stato una compagnia migliore, è già abbastanza frustrante dovermela tenere in casa quando lei e Frank decidono di onorare il loro contratto matrimoniale. Nessuno può veramente obbligarmi a subirla anche a cena.
- Il tuo cane è un abominevole, puzzolente e sbavante ammasso di pulci. Il più brutto pastore tedesco mai visto a memoria d’uomo. Non potrebbe mai essere una compagnia più piacevole di me, neanche se io fossi Adolf Hitler. – argomentò dunque Cherry, addentando una foglia di radicchio, - E, a parte questo, la mia presenza in casa tua è frustrante solo perché vuoi scoparmi da quando mi conosci e non ci sei ancora riuscito.
- Siete due mocciosi sboccati. – commentò Marge alzandosi in piedi e cominciando a raccogliere i piatti sporchi dalla tavola, impilandoli in una precaria colonna di olio, ceramica e rimasugli di cibo.
- Se io avessi voluto scoparti, - rispose Tom, aggrottando le sopracciglia, - stai pure certa che l’avrei già fatto. E ora, invece di stare con lui, - precisò indicando Georg, - staresti bussando alla mia porta, coprendo il pavimento di bava e implorandomi di prenderti con me.
- Fottiti.
- Anche tu.
- Andate entrambi a fanculo. Marge, ti do una mano a sparecchiare.
*
L’unico lato positivo dell’avere in casa due maiali di portata astronomica come Georg e Cherry, era la possibilità di origliare mentre facevano sesso, in tutta comodità, dal calduccio del proprio letto nella propria camera. La voce da micetta in calore che Cherry tirava fuori in quelle occasioni, sommata al fatto che, quando lei lo chiamava, lo chiamasse Frank, aiutava Tom a trovare il tutto vagamente eccitante senza necessariamente vedersi spuntare come in un ologramma la faccia del proprio ex-bassista davanti al viso, proprio nel momento culminante.
Poteva fingere di stare ascoltando un film porno, ecco. Non era abbastanza per provare meno disgusto nei propri confronti, ma era abbastanza per una sega.
Sì, avrebbe potuto trovarsi una ragazza. Le amiche di Cherry sembravano promettenti, in quel senso. E gli sbavavano tutte addosso. Il che era anche abbastanza ovvio, visto che il cambio di look non sembrava aver prodotto effetti particolarmente devastanti, sul suo fascino innato. Che diamine, anche Cherry aveva una palese cotta per lui.
Avrebbe potuto farsele tutte, una ad una o anche in gruppo, gli sarebbe bastato schioccare le dita o comportarsi semplicemente come Tom Kaulitz avrebbe fatto. Sorrisi ammiccanti, occhiate sottili, mani svelte a correre sotto gli abiti, sulla pelle. Avesse ancora avuto il piercing, avrebbe potuto usare anche lui.
Ma niente. Ebbene sì. Tom Kaulitz che non scopa. Peggio: Tom Kaulitz che non scopa perché sente la mancanza di suo fratello. Il desiderio sessuale non era qualcosa di direttamente collegato all’immagine o al ricordo di Bill. Non è che non scopasse con nessun altro perché avesse voglia di scopare solo con lui. Non scopava perché si sentiva mancare un pezzo di sé. E non è così automatico avere voglia di far sesso quando ti manca un pezzo di corpo. Non è così automatico avere voglia di un orgasmo, quando per la maggior parte del tempo tutto ciò di cui hai voglia è arrotolarti fra le coperte con una stupida foto ed una pallina di metallo fra le dita.
Scivolò fuori dalle coperte, lasciando perdere l’estenuante lavoro che la sua mano stava svolgendo all’interno dei pantaloni del pigiama. Evidentemente, non era serata. Lo consolava soltanto il fatto che in quel frangente non si chiamasse Tom Kaulitz ma Timothy Duncan. Almeno il suo prezioso nome non sarebbe stato infangato da quel disonorevole calo di potenza sessuale.
Si diresse verso il giardino sul retro, premurandosi di fare più rumore possibile sbattendo ogni porta al suo passaggio e strisciando anche un paio di sedie che gli ostruivano la strada in cucina. Aprì la porticina in legno ammuffito che lo separava dal giardinetto, scorgendo la sagoma scura di Blitz placidamente accoccolato ai piedi di un albero, fuori dalla sua cuccia. Non c’era stato verso di insegnargli a dormire dentro.
Il cane sollevò il capo e drizzò le orecchie nel momento in cui lo sentì poggiare i piedi sull’erba fresca e tenera, resa un po’ umida dall’aria notturna.
- Blitz… Komm. – mormorò, ed il cane ubbidì docilmente, trotterellando felice fino al suo fianco e accoccolandosi accanto a lui, riprendendo immediatamente a ronfare nel momento esatto in cui Tom prese a grattargli le orecchie. – Sarebbe bello poter fare così con tutto, vero? Ordinare a qualcuno di avvicinarsi e restarti fermo accanto senza andarsene mai più… proprio come fai tu.
- Certo che, quando soffri d’insonnia, ne spari di cazzate, tu.
Georg si stagliava orgoglioso contro il buio della casa, la pelle bianca resa quasi luminosa dalla luce della luna. Aveva indossato alla buona solo un paio di jeans, che non s’era neanche premurato di affibbiare, ed i suoi capelli erano tremendamente arruffati. Costretto com’era a portarli così corti, non poteva certo piastrarli un giorno sì e l’altro pure per mantenerli lisci ed ordinati, perciò loro tendevano a fare di testa propria, rendendosi crespi, ricci e definitivamente impossibili da gestire. Ormai, il povero ragazzo era arrivato ad un punto di esasperazione tale che li lasciava crescere come preferivano senza più curarsene particolarmente. Tra l’altro, le donne sembravano anche trovarlo più attraente, adesso che non doveva necessariamente usare più lacca di loro.
- Frankie. – lo apostrofò duramente, indispettito da quell’invasione indesiderata, - Già finito?
Georg sospirò, scuotendo il capo.
- Un uomo, un cane, una luna. Manca solo una chitarra. Vuoi che vada a prenderti quella di Cherry?
- Non fare ironia su questa cosa.
- Perché? Perché no, Tom? – insistette lui, mani sui fianchi, squadrandolo dall’alto. – Ti stai ostinando come se dovessi combattere una guerra santa. Ma non c’è niente di sacro in quello che facevamo prima. Neanche in quello che eravamo prima. È il passato, non c’è più, devi ficcartelo in quella testa di cazzo e andare avanti!
- Oh, andiamo! – sbottò lui, alzandosi in piedi di scatto e percorrendo il giardino a grandi falcate, mettendo in agitazione il cane, che prese a seguirlo con aria inquieta, - Non prendermi per il culo, Listing! Non dirmi che è… questo, tutto quello che vuoi dalla vita! – scoccò allibito, accompagnando le parole con un ampio gesto delle braccia, ad indicare il giardino pieno di erbacce intorno a loro, la vecchia bifamiliare davanti e, alle spalle, l’enormità di fabbriche per le quali loro –ed altre centinaia di giovani uomini mai laureati e nel fiore degli anni – si spaccavano la schiena dalla mattina alla sera, lavorando come schiavi. – Tornare a casa alle nove di sera, affamato come un lupo, chiuderti in un appartamento che puzza di muffa e in cui ti senti solo come un fottuto cane, mentre ti… ti distruggi le dita saldando paraurti ai cofani delle macchine e i tuoi migliori amici sono dispersi chissà dove nel mondo e tutto quello che hai di più caro in assoluto-
- Al momento… - lo interruppe lui calmissimo, quasi serafico, - la cosa che mi è più cara in assoluto è la tua salute mentale, Tom.
Lui si fermò, serrando le labbra, e prese fiato.
- Sono lucido, Georg. Te lo assicuro.
- Lo so che sei lucido. E questa cosa mi terrorizza. Io non so se tu ti ascolti parlare, Tom, ma quello che sento io non mi piace affatto. Sei… ossessionato. Non dico che tu abbia torto, non dico che non dovresti sentire la mancanza di Bill, dei Tokio Hotel, dei tuoi genitori, dei tuoi amici… dico solo che quello che è stato non può tornare. E lo sai, che non può tornare, e… Tom! – lo fermò, arpionandolo per le spalle quando lui gli passò accanto scuotendo il capo, deciso a rientrare in casa e rintanarsi in camera propria, - Tom, devi smetterla di comportarti come un superuomo, non lo sei. E devi smetterla di credere in questa fantomatica soluzione di tutti i nostri problemi, non c’è. Lo so che è orribile da dire, ma devi arrenderti, Tom, o ti distruggerai.
- Vaffanculo, Georg! – strillò lui, spingendolo lontano da sé in uno scatto d’ira, mentre il cane cominciava ad abbaiare furiosamente saltando loro intorno, - Quale sarebbe l’alternativa, eh? Smettere di crederci, per fare cosa esattamente? Per fare come te? Mettermi con una troia e fare i conti in tasca ogni santo giorno per vedere se si arriva a fine mese senza dover per forza attingere alla pensione di nonna Marge?!
Il pugno che lo colpì allo zigomo sinistro lo vide solo distrattamente. Ebbe appena il tempo di spalancare gli occhi per la sorpresa, soppesare le ultime parole che aveva pronunciato e rendersi conto che sì, forse aveva esagerato. E forse quel cazzotto se lo meritava.
Poi venne sbalzato indietro e caracollò verso il tronco dell’albero rinsecchito al quale era legata la cuccia di Blitz, incerto sulle gambe, reggendosi la guancia fra le mani.
Il cane non ebbe bisogno d’altro per scagliarsi all’attacco di Georg.
- Blitz! – strillò lui, prima che il pastore tedesco facesse qualche danno irreparabile, - Platz!
Ubbidiente, l’animale si stese ventre a terra, fissando Georg con astio e ringhiandogli contro in una minaccia continua.
- ‘Cazzo state facendo qui? – scoccò laconica Cherry, apparendo alle spalle di Georg avvolta in un lenzuolo.
- Io non attingo alla pensione di Marge, brutto stronzo psicopatico che non sei altro! I soldi che ci presta, li restituisco! – gridò Georg, rivolgendosi a Tom ed ignorando platealmente la propria donna, che, spaventata dallo scatto improvviso e dal tono di voce imperioso del ragazzo, si fece un po’ indietro, nascondendosi nel buio riparato della cucina, - E almeno faccio qualcosa. Sia pure stare con una troia e contare i soldi sperando di arrivare a fine mese. Almeno vado avanti, Timothy.
*
Avrebbe fatto male per un po’, quel taglio sullo zigomo. Avrebbe fatto male per un bel po’.
- Fanculo… - biascicò Tom, sfiorando appena la ferita con le dita e fissandosi riflesso nello specchio che riempiva una delle ante interne dell’armadio.
Tom Kaulitz non era uno stupido e non era un ingrato. Tom Kaulitz sapeva perfettamente perché Georg Listing ci tenesse tanto, a riempirlo di stronzate fino a convincerlo a mettersi l’anima in pace.
Il problema non era Tom Kaulitz, il problema erano Frank e Timothy Duncan.
Perché Tom Kaulitz non accettava consigli da Frank Duncan.
E perché Timothy Duncan, invece, non era niente, eppure in due anni era diventato il tutto della vita di Tom Kaulitz. E non è bello svegliarti un giorno e scoprire che la tua vita è in realtà un’enorme, ingarbugliata e lurida accozzaglia di nulla, vuoto e rimpianto.
Le cose non erano facili neanche quando era Tom Kaulitz e basta. C’era la fatica, lo stress, gli impegni, l’impossibilità fisica di fare esattamente ciò che voleva quando voleva per nessuna ragione particolare che non fosse appunto un suo capriccio. Poi, soprattutto nell’ultimo periodo, c’erano le orde di guardie del corpo che non li lasciavano in pace neanche un secondo, c’era quella paura assurda e paralizzante di vedersi spuntare davanti all’improvviso un uomo col volto coperto e un coltello in mano che gli dicesse di seguirlo, minacciando di ammazzarlo sul posto se non avesse ubbidito.
Non era facile, ma quello che faceva aveva un perché. E il suo perché lo trovava facilmente, quando scavava nella memoria e vedeva quattro mocciosi presuntuosi e totalmente scemi provare in un garage sotto lo sguardo severo e compiaciuto di un patrigno orgoglioso e fiero. Il suo perché erano tutte le promesse di fama e gloria che si erano fatti l’un l’altro. Tutti i miraggi di ricchezza e rispetto che erano balenati loro davanti agli occhi mentre fantasticavano in cucina, fissando la pioggia scorrere sui vetri e masticando marshmallow fino ad avere mal di stomaco.
Tutte le cose che aveva detto a Bill. Quando saremo famosi tutti ti adoreranno, faranno la fila per un’intervista, sarai circondato da ragazze che per te saranno disposte a fare di tutto. Sarai forte, sarai deciso, sarai un figo, Bill. Saremo perfetti, e saremo insieme.
Insieme.
Quando era solo Tom Kaulitz, non si rendeva conto di avere un tutto molto pieno. Si lamentava di ogni singolo aspetto della sua vita, ma era così ottusamente felice che neanche se ne accorgeva.
Quando era solo Tom Kaulitz, se stava uno schifo aveva un sogno che lo spingeva a rialzarsi.
Adesso non avrebbe voluto, ma era Timothy Duncan.
Timothy Duncan non aveva niente del genere.
Timothy Duncan si stiracchiava fra le lenzuola, sentiva freddo e si raggomitolava su se stesso, lanciando un’occhiata fugace alla finestra della propria camera, meditando se fosse il caso di far entrare Blitz, per godere almeno un po’ del suo calore vivo e pulsante sotto le mani. Timothy Duncan rinunciava a far entrare il cane in casa per pigrizia, ripetendosi “È solo un momento, passerà”, e poi si allungava verso il comodino, apriva il cassetto e ne tirava fuori la famosa stupida foto, piegata in quattro. La apriva, ed osservava rotolare giù dalle pieghe della carta, fino in grembo, una pallina di metallo lucido che era quanto di più fisico gli fosse rimasto dell’unico vero grande amore della sua vita precedente.

- Voglio qualcosa di tuo.
- I dread li ho già buttati tutti nella spazzatura, se pensavi a qualcosa di simile.
- …non di tanto tuo, Tomi, che schifo. Dove hai messo il piercing?
- David ha detto di toglierlo. Pensavo di buttare via anche quello.
- …è questo, quello che voglio! Voglio il tuo piercing! Posso portarlo con me?
- Uh… okay. Ma voglio anche io qualcosa di tuo. Mi dai un piercing anche tu? Quello del sopracciglio…?
- Mmmh, no. Non sarebbe giusto. Tu mi hai dato qualcosa che viene dalla tua bocca. È giusto che anche tu abbia qualcosa che viene dalla mia bocca.
- …se non sapessi che stai parlando del piercing alla lingua, direi che vorresti regalarmi un’otturazione.


Poi s’erano salutati e, molto semplicemente, non s’erano mai più rivisti.
In qualche modo, entrambi sapevano quello non fosse un arrivederci, ma un addio. Ma nessuno voleva affrontare quel discorso. Nessuno voleva vedere quella realtà. Non puoi vivere una vita con due braccia e due gambe e poi ritrovarti a dover dire loro addio così all’improvviso. Anche se la cosa ti viene posta in termini di vita o di morte – se non amputiamo, se non recidete il contatto, siete finiti, Tomi, tutti quanti – non puoi realmente prendere coscienza del fatto che ora hai quattro arti e dal prossimo minuto non ne avrai più neanche uno. È una cosa che metabolizzi poco a poco. Di cui ti rendi pienamente conto solo in seguito.
È quando succede, che cominci ad urlare.
Ma nessuno ti dà mai indietro niente.
Ciò che è perso è perso per sempre. Ciò che lasci, non lo ritroverai mai più.
*
Superare la prima primavera era stato molto semplice. Lui e Bill non s’erano più sentiti, ma Tom sapeva che pensavano ancora l’uno all’altro. Lo sapeva di sé stesso, perché Bill era la stella fissa in mezzo a ogni suo pensiero, e qualsiasi decisione dovesse prendere la prendeva di modo che Bill potesse essere fiero di lui quando, un giorno, si sarebbero ritrovati e si sarebbero raccontati tutto del tempo che avevano passato separati. Lo sapeva anche di Bill, però, perché c’erano dei momenti in cui si sentiva addosso la sua presenza. Fisica come i vestiti, o come una coperta. Sapeva che quelli erano i ricordi di Bill, che era la sua nostalgia, che solcava gli oceani e scalava le montagne e lo raggiungeva, dovunque si trovassero.
E poi c’erano tante cose da fare, tante cose cui pensare. C’era da sistemare quella sottospecie di casa disgustosa, riverniciare le pareti, rassettare i vecchi mobili che vi avevano trovato dentro per risparmiare un po’ sulle spese, visto che erano decisamente a corto di quattrini. C’era da sfottere Georg, perché in salopette e maglietta, con le macchie di vernice sulle mani e sulle braccia, era una perfetta fantasia gay. C’era da abituarsi ai nuovi nomi, e c’era da farlo in fretta, perché farsi sfuggire un Tom ed un Georg in pubblico sarebbe stato un disastro. C’era da abituarsi all’idea di Georg come fratello. C’era da abituarsi ai vicini, c’era la vecchia Marge che li accoglieva sparando colpi a salve dal fucile se tornavano troppo tardi la sera, c’era da imparare a sopportare quella stronza di Cherry Blossom che veniva a rompergli le palle per il puro piacere di farlo fra una scopata col suo uomo e l’altra. Poi s’erano ritrovati un cucciolo di pastore tedesco fra le sterpaglie, nel giardino sul retro, e c’era stato da abituarsi a lui, al pensiero di dover badare ad un altro essere vivente che non fosse se stesso né l’altra metà di se stesso. Poi, una volta, mentre mangiava una torta dura come il marmo in casa della nonnina, s’era ritrovato davanti uno di quegli stupidi programmi del mezzo pomeriggio in cui un tizio intervista altri tizi per il puro piacere di annoiare il prossimo suo, ed aveva beccato un’intervista ad un addestratore di cani, ed allora gli era saltata in mente quell’idea stupida per passare il tempo, e da quel momento in poi aveva dovuto pensare all’addestramento di Blitz. E poi i soldi che David aveva dato loro prima di spedirli in Inghilterra erano finiti, era finita la pacchia ed avevano dovuto trovarsi entrambi un lavoro, ed i primi tempi era stato perfino eccitante, una cosa mai provata, Tom era diventato il re della saldatura nella sua fabbrica e Georg aveva preso a raccontare di continuo di “quella volta che quasi gli saltava un dito” come un vecchio nonno che sciorinava memorie di guerra.
Non aveva davvero avuto tempo per deprimersi.
Poi era arrivata l’estate, ed era stato facile superare anche lei. Più che altro perché aveva dovuto continuare a lavorare, e poi nella settimana di ferie che gli avevano concesso ad agosto aveva il cervello troppo affaticato per continuare a pensare a qualcosa, al punto che, quando Cherry aveva proposto a lui e Georg un paio di giorni al mare con le altre del suo gruppo, aveva accettato entusiasticamente e senza fare neanche un commento sarcastico.
E poi era arrivato il primo autunno. Ed a seguito il primo inverno.
Agli inizi di dicembre già ogni cosa aveva perso in novità. Il lavoro s’era fatto routine, e questo l’aveva reso perfino meno stancante, mentalmente parlando. Prendere per il culo Cherry s’era fatto meno divertente, così come fare imbestialire Marge. Le amiche di Cherry avevano capito che per quanto potessero provarci lui non ci sarebbe stato, e pertanto avevano semplicemente smesso. Georg s’era fatto più distante e più occupato. Lui e Cherry non sembravano amarsi granché e si tradivano a vicenda ma, a quanto pareva, erano comunque impegnati in una relazione. Perfino piuttosto stabile.
E perciò Timothy Duncan si sbatteva dalla mattina alla sera e poi arrivava alle dieci e mezza sfatto e sfinito sul letto, tornava Tom Kaulitz e realizzava che della sua vita non c’era un accidenti che avesse un minimo di senso, e gli veniva da piangere.
Il venticinque dicembre l’aveva perfino fatto. Lui, Georg e Cherry erano riusciti a regalare alla vecchia Marge un nuovo forno, e quella era stata la prima volta l’avesse vista commossa, lei, quella nonnina che più che di carne ed ossa sembrava fatta di chiodi e metallo. Tom aveva adocchiato le sue lacrime e, guardandosi intorno, s’era reso conto che era quella la sua famiglia adesso. E che tutto sommato poteva esserne contento, perché avrebbe potuto andargli decisamente peggio.
Ma che, Cristo, gli mancava la sua famiglia vera. Gli mancava da morire sua madre, che probabilmente in quel momento stava provando esattamente i suoi stessi sentimenti, gli mancava Gordon, chissà se aveva trovato degli altri protetti cui badare, ora che lui e Bill non c’erano più?, e gli mancava a morte, Dio, gli mancava a morte Bill. Gli mancava a morte il suo modo stupido di girellare attorno all’albero cercando di sbirciare dentro i pacchetti o di indovinare quali fossero i regali per lui a giudicare da grandezza peso e forma. Gli mancavano a morte i suoi sorrisi e i suoi occhi limpidi. Il suo profumo dolce e il suo calore confortante. Gli mancava a morte la sua presenza, il modo in cui riusciva a farlo sentire meglio, meno solo, più completo, anche solo restando immobile al suo fianco.
E invece era già passato quasi un anno dall’ultima volta che erano stati insieme, e Tom non riusciva neanche ad immaginare cosa potesse stare facendo, dove fosse, a cosa stesse pensando, se stesse bene, che problemi avesse, se si sentisse solo, se stesse pensando a lui nello stesso modo in cui lui stava facendo…
Di nuovo primavera, estate, autunno, inverno.
Quella era ormai la terza primavera. Non c’era più nient’altro cui pensare oltre Bill. Quando andava a letto, la sera, ormai tutte le altre parti della sua vita erano diventate così ovvie e ripetitive che solo Bill valeva la pena d’essere riportato alla memoria.
Ecco. A conti fatti, alla fine della giornata, sia per Tom Kaulitz che per Timothy Duncan, Bill era l’unica cosa per la quale valesse la pena continuare a vivere.

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