Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME
CHAPTER FOUR
HEY, OH! LET’S GO!

Im Sturz durch Zeit und Raum
Erwacht aus einem Traum
Nur ein kurzer Augenblick
Dann kehrt die Nacht zurck

Tom sollevò la testa dall’enorme apparecchio che aveva dissezionato fino a quel momento, e ad incontrare i suoi occhi trovò quelli contriti e preoccupati della vecchia Marge, che lo fissava come fosse stato uno di quegli antichi medici di paese nelle cui mani metti la vita della tua unica e sfigatissima nipotina malata, e che poi provvederà a terminarla con una cura a base di sanguisughe, a suo dire, infallibile.
- Aggiustarla è impossibile! – disse, grattandosi il capo, - Dev’essere risalente a qualcosa tipo la prima guerra mondiale!
- È un cimelio di famiglia. – protestò Marge, burbera, sottraendogli da sotto il naso il piatto di biscotti alle nocciole che aveva preparato per loro, e cominciando a sbriciolarli uno ad uno per darli a Blitz, come per punirlo della sua sfacciataggine.
Cherry roteò gli occhi, accavallando le gambe e sistemando la gonna sfrangiata – a mano, come ci teneva a precisare sempre – perché non le scoprisse troppo le cosce.
- Zia, questo cretino non sarebbe in grado neanche di assemblare un’abat-jour dell’IKEA con le istruzioni sotto il naso, figurati se sa dove mettere le mani per quanto riguarda la tua radio.
Georg accompagnò la battuta della propria ragazza con una serie di risatine divertite, scivolandole con le mani sulle spalle lasciate nude dal maglioncino con scollatura a barca che – unito a gonna, autoreggenti a rete nere e stivaloni da Avril Lavigne alti fin sopra al ginocchio – le dava un’aria da zoccola niente male. Il tutto mentre Blitz, accucciato sul pavimento al suo fianco, affondava il muso nella sua nuova ciotola improvvisata alla nocciola e ne divorava avidamente il contenuto, in un tripudio di bave volanti e guaiti soddisfatti.
Quel giorno, il mondo doveva avercela con lui.
- Non sono io, il problema. – puntualizzò Tom, lasciando cadere il cacciavite all’interno della carcassa scoperchiata dell’enorme radio, - È che questo coso è fatto a cazzo di cane!
- Ah-ha, Timmy, attento. – lo avvertì Georg, scuotendo accusatorio un dito, - Il tuo botolo potrebbe offendersi.
- Scusa, Blitz. – concesse Tom, con un gesto distratto, - “A pene di segugio” va meglio?
Georg e Cherry risposero con una smorfia schifata praticamente simultanea, mentre Marge andava in cucina sputacchiando improperi e Blitz leccava il fondo del piattino per non lasciarsi sfuggire nemmeno una briciola di biscotto.
- Be’, che avete tutti da raggelare?! – protestò Tom, acido, - Blitz non è un segugio!
- Quello per cui dovremmo protestare – precisò Cherry, - è che nessuno ti ha mai dato il permesso di portare quell’enorme scarafaggio peloso in questa casa, ma tu lo fai comunque.
- Non potevo lasciarlo da solo. – motivò, recuperando il cacciavite dalla carcassa della radio e richiudendola, - Ha bisogno di molto affetto.
Cherry roteò gli occhi e si alzò in piedi, raggiungendo sua zia in cucina, e Georg prese il suo posto, intrecciando le braccia sul petto ed accavallando le gambe, per poi restare a guardarlo con aria divertita mentre impazziva rincorrendo una vite minuscola che le sue dita callose non sembravano in grado di recuperare.
- Ti scuserai mai per quello che mi hai detto ieri? – chiese infine il suo ex bassista, interrompendo il silenzio e condendo la frase anche con un sospiro stremato.
Tom agitò una mano davanti al viso.
- Seh. – concesse, spalmandosi sulla sedia ed abbandonando il cacciavite sul tavolo, mentre con una mano cercava la testa di Blitz per qualche carezza distratta, - Sono stato una merda. Non volevo prendermela con te. Ma che questo non ti faccia pensare-
- Che tu abbia cambiato idea, giusto?
Tom annuì sbrigativamente, sentendosi all’improvviso in imbarazzo.
- Figurati. – borbottò Georg, ridacchiando ironico, - Lo so che eri e resti un cretino.
- Oh! – sbottò il biondo, risollevando il capo, - Oggi vi è proprio presa male a tutti, eh? Basta, nessuno mi capisce. – concluse, alzandosi in piedi. – Blitz, Fuss.
- Dove diavolo stai andando? – chiese Georg, continuando a ridacchiare divertito, dalla propria postazione sulla sedia.
- In un posto dove continua a non capirmi nessuno, ma almeno mi lasciano in pace. – rispose Tom con una linguaccia, afferrando la giacca e gettandosela addosso, mentre il cane gli si affiancava scodinzolando, - La City mi aspetta!
*
Come tutti i ragazzi della sua età, geograficamente parlando s’era sempre nutrito di luoghi comuni. E quindi non era affatto incredibile che, prima di andarci ad abitare, per lui Londra fosse sinonimo principalmente di nebbia e pioggia, o al limite di Hard Rock Cafè storici – se proprio le si voleva trovare un lato positivo.
Londra, in realtà, era molto più carina di quanto non si potesse pensare. Avesse ancora potuto usare il tedesco, l’avrebbe definita sympathisch. Era una città grande – per la verità enorme – ma affatto fredda. Eppure particolarmente dotata per farti sentire un illustre signor Nessuno: uno che poteva pure camminare per strada per chilometri senza mai essere notato, ma che se si rivolgeva a qualcuno in cerca di un’indicazione perché magari s’era completamente perso e non aveva la più pallida idea di dove si trovasse, quello un aiuto glielo dava. Non lo lasciava lì a morire nell’angoscia di non poter più ritrovare la strada di casa.
Sì, era premurosa, Londra.
Era premurosa soprattutto quando avevi bisogno soltanto di un po’ di colore, un po’ di baldoria e tanto sano disinteresse da parte del mondo intero rispetto a quanto ti gironzolava per la mente.
Camden Town era perfetta per lo scopo. Era colorata. Incasinata. Gremita di ragazzi. Rumorosa. Profondamente adolescente, se si riusciva ad ignorare il vecchio mercato ortofrutticolo che riforniva i ristoranti della zona.
Camden era il suo posto. Una delle pochissime cose per le quali dovesse proprio ringraziare Cherry, che lì viveva praticamente l’interezza della propria esistenza. Lei e Georg stavano insieme da pochissimo, quando ci aveva messo piede per la prima volta. Né lui né Georg erano quasi mai usciti dalla zona entro la quale vivevano e lavoravano, ma, come aveva detto la stessa Cherry trascinandoli sul bus per il centro, “arriva sabato pure per gli sfigati”. E perciò sabato aveva significato immettersi in quel caotico quartiere alternativeggiante. Una volta, due volte, tre volte, fino a farne un rituale.
Camden lo faceva sentire protetto, perché lì a nessuno importava se il tuo enorme cagnaccio, in preda all’euforia da passeggiata, si gettava dentro una fontana e decideva di spezzare l’equilibrio dell’ecosistema ambientale circostante, inondandolo. A nessuno importava se a un certo punto ti fermavi come imbambolato a fissare un gruppetto di ragazzi armato di bonghetti, chitarre e bassi acustici, e mentre stavano suonando qualche cagata tipo “Upside Down” tu ti commuovevi pure. A nessuno importava se ti fermavi davanti ad un negozio di vestiti ed osservavi ammaliato una maglia a rete semidistrutta, buttando giù magoni di proporzioni tali da sentirti soffocare ogni volta.
Bill avrebbe adorato Camden Town.
Tom prendeva appunti per quando ce l’avrebbe portato.
Per quando l’avrebbe portato lungo il Regent’s Canal, e gli avrebbe stretto forte la mano accompagnandolo lungo tutto il corso d’acqua. Per quando l’avrebbe portato al Blow-Up Bridge, e gliene avrebbe narrato la storia, che Cherry gli aveva raccontato una volta passandoci accanto; e quando Bill avrebbe detto “Dio, Tomi, è una storia orribile!”, col tono stridulo che usava sempre quando apprendeva qualcosa di triste, lui avrebbe riso, perché l’avrebbe trovato tenero. Prendeva appunti per quando l’avrebbe portato al Regent’s Park, sapeva che Bill sarebbe impazzito per il lago, le oche, le anatre, il giochi per bambini e soprattutto lo zoo…
…ogni tanto ne parlava con Georg. Erano gli unici momenti in cui lui gli desse davvero corda. Quando sapevano di non avere nessuno tra i piedi – perché magari Cherry provava con le ragazze, e magari la vecchia era in chiesa ad ostinarsi nel chiedere perdono per i maltrattamenti da campo di concentramento che faceva subire loro quando non si comportavano bene – si mettevano seduti sulle scale del giardinetto sul retro ed osservavano Blitz giocare con qualche schifezza, ed allora le parole gli uscivano di bocca da sole. E cominciava a dire “Quando rivedremo Bill voglio portarlo in quel posto, voglio fargli vedere quella cosa, voglio fargli conoscere quella persona”. E Georg rideva e giocava con lui, “Potremmo vivere tutti in questa mezza topaia, staremmo un po’ stretti ma almeno d’inverno non dovremmo combattere contro i termosifoni malfunzionanti: basterebbe il nostro fiato a scaldarsi, come nella stalla di Gesù Cristo!”. Ed erano quelli i momenti in cui era così dannatamente felice e pieno di speranza che a volte aveva voglia di fermarsi d’improvviso e dire a Georg di piantarla e ricominciare a rimproverarlo come avrebbe meritato, perché da quel pugno di fantasie romantiche non sarebbe mai uscito niente di concreto, e dovevano metterselo in testa entrambi, soprattutto lui.
Georg non lo fermava mai, quando fantasticava.
Georg lo fermava solo quando le sue fantasticherie sembravano dichiarazioni d’intenti o minacce di fuga. Allora sì. Allora Georg smetteva di tollerarlo ed aboliva qualsiasi forma di condiscendenza.
A Georg le fantasie piacevano proprio perché erano innocue.
A Tom, invece, per quello stesso motivo, facevano male da morire.
*
Io devo essere del tutto pazzo.

Non aveva mai avuto la presunzione di mettersi a fare autoanalisi. D’altronde, se esistevano quantità pressoché infinite di efficientissimi psicologi e psichiatri pronti a spalare diagnosi ogni tre parole che pronunciavi, che autorità poteva mai avere lui, che aveva studiato il minimo indispensabile e pure svogliatamente, per provare anche solo ad intuire i meandri della propria coscienza e del proprio inconscio?

Però so con certezza che io devo proprio essere del tutto pazzo.

Blitz stava giocando con qualcuno, da qualche parte alla sua destra. Riconosceva il suo abbaiare convulso e festoso, e il rumore particolarmente pesante delle sue enormi zampe sul ciottolato del marciapiedi. Non era preoccupato: il suo cane era indubbiamente più famoso di lui. Ed anche più amato. Non correva alcun rischio.

L’unico che sta rischiando qualcosa, qui, sono io.
Che sono del tutto pazzo.


Era immobile davanti al 4-Play già da qualcosa come dieci minuti. Il mondo esterno continuava a tintinnare ridere e correre attorno a lui, ma dentro la sua testa la cosa non aveva la minima rilevanza. Le uniche cose che percepiva erano l’abbaiare di Blitz e la perfetta sfericità della pallina di metallo di Bill stretta fra le sue dita, nel fondo della tasca.
E il 4-Play. Camden Piercing & Tattoo Studio.
Deglutì profondamente, cercando di prendersi una pausa dall’ansia incredibile che l’aveva colto quando i suoi polpastrelli avevano incontrato la resistenza fresca del piercing di suo fratello nel momento esatto in cui lui aveva alzato gli occhi su quel negozio.
C’erano decine di ragazzi e ragazze che ne entravano ed uscivano a velocità sconcertanti. Compravano di tutto: dai vestiti agli accessori ai soprammobili.
Ma le cose importanti stavano dietro. Nella stanza dietro il bancone.
Una delle amiche di Cherry s’era fatta un tatuaggio enorme sulla schiena, il mese prima, ed aveva preteso sostegno totale da tutto “il gruppo”, durante il processo. Non ricordava nemmeno più a quante sedute era stato costretto a presenziare. Trattenendo il respiro ed anche tanta di quella tristezza che ci si sentiva quasi affogare dentro.

Non puoi guardare un tatuaggio qualsiasi e sentirti male.
Non puoi toccare un piercing sul fondo di una tasca e volerlo addosso.
Non puoi, se non sei del tutto pazzo.
Io devo essere del tutto pazzo, già.


- Blitz. – chiamò piano, ed il cane smise immediatamente di intrattenersi con chiunque fosse la persona che lo stava facendo giocare, per avvicinarsi a lui e rimanere in adorante attesa di ordini, come sempre. Tom sfilò la mano dalla tasca e gli concesse qualche carezza affettuosa, sorridendogli un po’ tristemente. – Platz. – ordinò, ed il cane si accucciò subito ai suoi piedi, restando lì immobile. – Bravo botolo. – commentò lui con una mezza risata, decidendosi finalmente ad entrare nel locale.

Io devo davvero essere del tutto pazzo.

Bill… il mio piercing che fine ha fatto? Lo conservi ancora? L’hai gettato via? Oppure l’hai voluto addosso anche tu?

Io l’ho capito solo adesso. Mi ci sono voluti due anni.
Quando ti vedrò, avrai il permesso di rimproverarmi. Io ti chiederò scusa per il ritardo.
Spero che possa valere ancora qualcosa.

*
- Cosa? – chiese Georg, esprimendo tutta la propria perplessità e guardandolo incuriosito dai fornelli.
Tom stirò nervosamente le labbra, cercando di evitare qualsiasi contatto fra la lingua e il palato e qualsiasi altra dannatissima parte della sua bocca.

Certo che sono pazzo.
Sapevo pure a cosa andavo incontro, e l’ho fatto lo stesso!


- Shasera… - borbottò, con aria dolorante, - hiehesceha
La spiegazione non convinse particolarmente Georg, il quale posò con cura il cucchiaio di legno sul bordo del pentolino e gli si avvicinò, cercando di capire quale fosse il problema.
- Se non parli come gli esseri umani, non ti capisco. – lo prese in giro, - Che cavolo hai?
Spiegarlo a parole sarebbe stato del tutto impossibile. Ce ne volevano troppe, tanto per cominciare. E dirlo avrebbe implicato la necessità di dire anche altro, di svelare i passaggi del suo pensiero contorto, di mettere Georg nella posizione di accettarlo e di porsi davanti al problema anche in prima persona, ecco.
Meglio passare ai fatti.
Tirò fuori la lingua in un movimento esasperato eppure stranamente naturale, che ricordò perfino a se stesso quello di Bill durante certi servizi fotografici in cui erano ancora poco più che poppanti e giocavano già a fare le rockstar fighe.
Georg non si stupì, no. Stupore è un termine piuttosto blando, in fondo. Georg era terrorizzato. Fece un passo indietro, lo guardò come fosse stato una bestia feroce da temere e di fronte alla quale fuggire, e storse le labbra in una smorfia di disapprovazione così profonda che a Tom fece quasi male.
- Ma ti sei rincoglionito del tutto…? – esalò, tornando ad avvicinarsi a lui dopo il primo momento di smarrimento, - …Tom!!! Dio!!!
Lui non trovò di meglio da fare che non abbassare lo sguardo e stringersi nelle spalle, mentre Georg lo afferrava per il mento e lo costringeva a spalancare la bocca, scrutando all’interno per verificare che la ferita fosse in via di rimarginamento e che la sua lingua non fosse gonfia al punto da soffocarlo.
Cercò di divincolarsi dalla sua stretta, ma Georg era sempre ovviamente stato molto più forte di lui, e riuscì a tenerlo immobile fra le proprie dita, continuando a guardarlo furibondo.
- Non… - argomentò faticosamente, - …non sono… lasciami…
Georg lo lasciò andare bruscamente, facendogli male. Tom si passò una mano sulla mandibola e lo guardò a propria volta. Avrebbe voluto essere arrabbiato con lui, ma non ci riusciva. Sapeva di essere in torto. Sapeva perché Georg era così furioso. Lo era anche lui.
- Io ci rinuncio. – borbottò lui, scuotendo rassegnato il capo, - In questo momento non riesco nemmeno a capire se sei più stupido o stronzo.

Ho paura di essere solo innamorato.

- Per quanto dovrai stare in queste condizioni?
Si strinse nelle spalle, mimando un tre ed un quattro con le dita.
- Giorni?
Scosse il capo.
- Settimane?!
Annuì.
- Sei stupido e sei stronzo.
Roteò gli occhi e si lasciò andare all’unica espressione sonora che si sentisse in grado di portare a termine senza lamentarsi, ovvero uno sbuffo esasperato.
Anche Georg fece praticamente la stessa cosa, aggiungendoci una scossa del capo che era solo un ulteriore attestato di disapprovazione. Gli ricordava un po’ David quando lo rimproverava per essersi espresso in una qualche cazzata random delle proprie. Era quasi divertente.
Gli si avvicinò con fare sottomesso. Malgrado fosse decisamente più alto di lui, in quel momento si sentiva talmente in soggezione da avere l’impressione di essersi pure rimpicciolito.
Georg era accanto al tavolo della cucina. Aveva le braccia incrociate sul petto e batteva nervosamente un piede per terra. Tom infilò una mano in tasca, e quando la estrasse tratteneva una foto di lui e Bill da piccoli – tredici anni al massimo – davanti alla porta di casa a Loitsche.
La poggiò sul ripiano in legno. Georg distolse lo sguardo e Tom batté forte un dito contro la fotografia.
- Non posso portarti da Bill, Tom. – scollò alla fine, chiudendo gli occhi, - Non so nemmeno dov’è.
Tom scosse vigorosamente il capo, battendo ancora una volta il dito contro la foto.
Georg abbassò lo sguardo e prese in considerazione un particolare che inizialmente aveva trovato stupido. Ovvero, Tom non stava indicando Bill. Tom stava indicando casa propria.
Sollevò gli occhi su di lui, fissandolo perplesso.
- Ma che ti sei messo in testa?
Il biondo deglutì forzatamente e prese un respiro profondo.
- Da lì… - mugugnò alla fine, - sarà più facile.
Non c’era bisogno che dicesse altro.
Georg lo guardò davvero come fosse un pazzo. Dischiuse le labbra per dire qualcosa, ma non riuscì a dire niente per moltissimo tempo. Ed anche quando riuscì a vocalizzare i propri pensieri, ciò che risultò probabilmente non fu che una pallida imitazione di ciò che doveva veramente esserci nella sua testa. Un bisbiglio stremato ed un “sei un pazzo”, cioè, non potevano in alcun modo rappresentare i suoi pensieri nella loro completezza.
- Tom, non puoi chiedermelo. – disse poco dopo. E lo guardava come lo stesse implorando. Nei suoi occhi c’era lo stesso smarrimento di un genitore di fronte alla consapevolezza di dover deludere il proprio amatissimo figlio.
Non ci fosse stato Georg, con lui, Tom si sarebbe perso tanto tempo prima. Forse non avrebbe nemmeno superato il primo anno. Georg era stato forte per entrambi quando Tom non si sentiva in grado nemmeno di reggersi in piedi senza Bill a fianco. Georg era stato forte per entrambi tutte le volte in cui Tom aveva provato a scappare, ed anche tutte le volte in cui ci aveva appena pensato. Georg era stato forte per entrambi e, a parte il diritto di esprimersi in una protesta un tantino più volgare ed animata ogni tanto, non aveva mai preteso niente in cambio.

A me dispiace costringerti a questo.
Ma è solo un piccolo sforzo. Credimi, Georg, staremo molto meglio quando Frank e Timothy Duncan saranno morti e sepolti, e noi saremo tornati semplicemente noi stessi.


- Ti prego… - sussurrò senza guardarlo.
Georg stirò le labbra, che diventarono sottilissime, quasi invisibili, tese com’erano.
Georg non rispose mai a quella supplica. Non a parole, almeno. Piuttosto gli si avvicinò, gli poggiò una mano sulla spalla e cercò di sorridere. Gli riuscì perfino bene.
Probabilmente, alla fine s’era arreso anche lui all’evidenza. Non che quella fosse la cosa giusta da fare. Ma che Tom non avrebbe più vissuto finché non l’avesse fatto.
- Cerca di rimetterti presto, con questa lingua. Altrimenti, sarà un viaggio piuttosto noioso.
*
- Certo che sei proprio stronzo. – borbottò Georg, girando la chiave nella serratura e seguendolo lungo il breve vialetto che li avrebbe condotti a casa di Marge per la consueta sessione di teledipendenza serale prima di andare a dormire, - Dovevi per forza fotterti la lingua oggi, eh? Così dovrò dirglielo per forza io. Non ho parole.
Tom non rispose. Perché la lingua faceva ancora male e perché Georg aveva ragione. Ed erano più o meno gli stessi due motivi per i quali era rimasto in silenzio fondamentalmente da quando Georg gli aveva dato l’assenso in poi.
In quel preciso istante, non riusciva neanche a capire se considerarsi un grande eroe o un colossale vigliacchissimo cretino.
E quel piercing lo stava facendo impazzire. Dio, i suoi non erano stati così dolorosi. Dentro la bocca era tutto incredibilmente caldo, umido, e bruciava da impazzire.
Non riusciva proprio a capire come Bill fosse riuscito a sopportarlo.
Anche se, in effetti, Bill era sempre stato molto più forte di lui. In tutti quegli anni, di sicuro Bill non aveva pianto. Di sicuro s’era fatto una nuova vita. Di sicuro non aveva mai fatto arrabbiare David. Era stato al gioco, ne aveva interiorizzato le regole – era sempre stato bravissimo a far propri canoni che non condivideva per rivoltarli a proprio favore – e sicuramente adesso neanche più ricordava di aver avuto un gemello.

Perfetto. Pensieri simili proprio quando riesci ad ottenere quello per cui spasimi da due anni.
Georg ha ragione, sei un cretino, Tom Kaulitz.


Fecero il loro ingresso in casa di Marge che Cherry era già sprofondata per metà fra i cuscini del divano. L’altra metà del suo corpo – ovvero buona parte delle sue gambe – sporgeva oltre il bracciolo, dondolando stancamente a mezz’aria. Tom intuì il sorriso tenerissimo che si affacciò appena sulle labbra di Georg nell’osservarla, e si sentì in colpa al punto che gli venne voglia di piangere. Schiacciò la lingua contro il palato e si diede un buon motivo per farlo.
- Timmy? – lo chiamò Marge, entrando in cucina con una pezza fra le mani, - Che hai? Piangi?
Tom sollevò il capo e vide che Georg lo stava guardando con aria preoccupata, perciò scosse il capo e sorrise, ricacciando le lacrime a fondo nella gola. Cherry non l’aveva degnato di uno sguardo. Fissava il televisore con aria annoiata, massaggiandosi distrattamente il collo.
- Meglio così. – commentò Marge, prendendo posto sulla propria poltrona trapuntata a mano, - Piangere è da checche.

Ed io probabilmente lo sono. Ma non posso piangere lo stesso.

Una volta, lui e Bill avevano avuto uno scambio di battute stranissimo. Erano piccoli in maniera indecente: e per le situazioni che si trovavano a vivere – perché quattordici anni sono pochi per stare ad Amburgo a registrare un album con un ex boybander che sembra essere stato illuminato dalla luce di Dio nel momento esatto in cui vi ha visti provare nel garage dietro casa a Loitsche – e per il discorso che stavano affrontando – perché quattordici anni sono pochi pure per parlare di orientamento sessuale col tuo gemello infoiato. Soprattutto quando sei tanto sensibile e il suddetto gemello potrebbe ferirti a morte con una qualsiasi cazzata delle proprie senza nemmeno accorgersene.
Comunque sia. Non avevano ancora neanche una camera loro. Dormivano arrampicati sui numerosissimi divani della sala unica di casa Jost.
Gustav non aveva mai compreso l’utilità di quel luogo. “Un monolocale per cinque persone, assurdo.”, ripeteva spesso, con aria rassegnata e superiore. “Trecento metri quadri di monolocale!”, faceva notare David, ogni volta più incredulo.
Dormivano sui divani, e lui e Bill neanche ne condividevano uno: sarebbero stati abbastanza magri per farlo, ma il concetto di “divano” evidentemente corrispondeva anche al concetto di “pigmeo”, perché su quei cosetti da un metro e cinquanta non c’era proprio verso di stare ben distesi. D’altronde, come Jost teneva sempre a rimarcare, quei mobili non erano stati progettati per fare da cuccetta a delle pertiche ingrate, perciò a loro toccava raggomitolarsi come ricci, e stare in due su quaranta centimetri di ampiezza, a quelle condizioni, minacciava di essere difficoltoso perfino per le stecche che erano ai tempi – e che comunque erano sempre rimasti.
Tom dormiva sul divano più vicino alla strettoia che conduceva al bagno. Il che significava che, anche ad avere il sonno pesante, ogni volta che qualcuno si alzava per liberare vescica o intestino, in primo luogo muoveva l’aria tutta attorno a lui, facendogli sentire freddo, ed in secondo luogo gli sparava negli occhi il flash improvviso, penetrante e fastidiosissimo degli alogeni della specchiera e del lampadario.
Uno strazio, praticamente.
Anche quella notte non era andata diversamente. Con la differenza che, invece di aprire gli occhi sul pallidissimo culo di Georg che non chiudeva mai la porta quando andava a pisciare, li aveva aperti sul proprio gemello che si fissava nello specchio con l’aria di uno che volesse ammazzarsi il prima possibile.
- Oh… - aveva mugugnato, un po’ impensierito da un presentimento difficilmente spiegabile ma anche piuttosto fastidioso, - Che?
Bill s’era voltato a guardarlo, stupito, e s’era stretto colpevolmente nelle spalle. Tom aveva sospirato e s’era rassegnato ad espletare i propri doveri di fratello maggiore, nonostante fossero le – rapida occhiata all’orologio a muro – quattro del mattino passate, cazzo fottuto.
- Bill, è tardi per farti le seghe mentali. – aveva scoccato, entrando in bagno e chiudendosi istintivamente la porta alle spalle, se non altro perché in quel marasma di casa gli capitava davvero raramente di potersi concedere un minuto d’intimità con lui, - Anche per quelle vere e proprie, in effetti. Torna a dormire…
- Pensavo… - aveva mugolato Bill, senza staccare gli occhi dal proprio riflesso ed ignorando del tutto il suo accorato appello, - Uno com’è che dovrebbe accorgersi di essere gay?
Per un eterno secondo, Tom aveva fissato i propri occhi sul riflesso di Bill. E quando gli occhi del riflesso gli avevano risposto, piantandosi nei suoi ed accompagnando con un sopracciglio inquisitore il successivo “’cazzo guardi?” di suo fratello, lui s’era sentito anche vagamente preso per i fondelli.
- Perché non puoi essere come tutti gli adolescenti normali? – domandò al nulla con fare esasperato, - Guardare un porno, masturbarti, dormire ed essere felice?
Bill aveva aggrottato le sopracciglia e l’aveva guardato come volesse sputargli in faccia.
- I porno sono sopravvalutati. – aveva detto poi, con aria competente, - Tutti quei disgustosi primi piani e quegli schizzi esagerati… sono uno schifo. Mi fanno venire da vomitare.
Non riusciva a capire come fosse possibile, ma nonostante lo stupore che l’aveva invaso a seguito della dichiarazione, Tom aveva ancora sonno. E quella discussione avrebbe potuto diventare veramente disturbante da un momento all’altro. Meglio terminarla.
- Mi fa piacere sapere che anche tu guardi porno come tutte le persone normali, ma-
- Io sono normalissimo! – ringhiò Bill, a voce un po’ troppo alta perché Tom non trovasse quell’improvvisa impennata un motivo per cui preoccuparsi.
Lo afferrò saldamente per le spalle, costringendolo a voltarsi. Bill obbedì senza fare resistenza, abbattendosi poi di schiena contro la struttura in cemento armato e piastrelle candidissime che reggeva in piedi il lavabo, e fissando il pavimento con aria contrita.
- Mi dici che sono tutte queste stranezze? Tu non sei gay. – l’aveva rassicurato con una breve quanto tenera carezza sulla guancia. E ricordava pure di essersi detto spesso, successivamente, che quello doveva essere stato un modo ben strano di rassicurarlo su un’eventualità simile.
- E se lo fossi? – aveva chiesto Bill con aria scazzata, senza sollevare lo sguardo.
- Se lo fossi, amen. – aveva sospirato lui, - Ma, voglio dire, uno è gay quando scoperebbe con chiunque purché maschio. Non mi pare tu rientri nella categoria.
Bill gli aveva alzato addosso un’occhiataccia disgustata, e l’aveva accompagnata arricciando le labbra in una smorfia di puro disappunto.
- Quando scoperesti con chiunque purché maschio non sei gay, sei una troia, scusa! – aveva scoccato malefico, guadagnandosi in premio una risata divertita, - E comunque no, non rientro nella categoria… né per come l’hai messa tu, né per come l’ho messa io.
Tom aveva sorriso bonario, annuendo tranquillo.
- E allora cos’è che ti preoccupa?
Bill l’aveva guardato ancora. Un’occhiata sfuggente ed obliqua, incredibilmente sfaccettata. Lui, di solito, gli sguardi di suo fratello li capiva al volo. Lo capiva meglio quando non si parlavano, rispetto a quando Bill pretendeva di spiegargli le cose a modo proprio. Perché Bill aveva un modo incredibilmente complesso di osservare la vita, e questo si rifletteva spesso nelle sue parole, ma i suoi occhi erano limpidi e cristallini. In quelli, Tom non aveva mai avuto alcuna difficoltà nel cercare e trovare ciò che gli serviva.
Quella volta, però, no. Sugli occhi di suo fratello era calato un velo di malizia che impediva una visuale perfetta.
- Forse mi piace qualcuno… - aveva sussurrato incerto Bill, mordicchiandosi un labbro.
Tom aveva deglutito ansioso, senza per questo lasciare la presa sulle sue spalle.
- Un ragazzo? – aveva scollato a fatica, cercando di decifrare lo sguardo di suo fratello senza riuscirci.
Bill aveva annuito lentamente, sfuggendo i suoi occhi per poi ritrovarli pochi istanti dopo.
- Ogni tanto… - gli aveva detto pianissimo, senza però usare toni melodrammatici o terrorizzati, come se in fondo fosse stata una cosa del tutto normale, - …mi piaci tu. Un po’. – s’era interrotto, sondando le sue reazioni. Tom non aveva detto nulla né mosso un muscolo. – Forse è solo perché siamo così uguali! – aveva quindi aggiunto Bill, arrossendo come un pomodoro, - Sono sempre stato un po’ narcisista, no?

No.
O forse sì.
Ma non in quel caso.


Tom sospirò e ricacciò quel ricordo sul fondo della propria mente.

Sono una checca da allora, mi sa, anche se quella notte non ho affatto pianto.
Come la mettiamo?


Per la verità sul momento non l’aveva colpito nulla, di quelle parole. Sì, era stata una dichiarazione un po’ strana, ma Bill non aveva detto proprio nulla di sensato in assoluto in quel bagno, perciò avrebbe tranquillamente potuto prendere il tutto, arrotolarlo in una pallina di ricordi repressi e rimuoverlo felicemente.
Non l’aveva fatto, perché, perché…
Chissà perché.
Era una cosa strana, sì. Però era anche una cosa loro.
A quattordici anni, a letto, lui aveva in mente solo tette e figa.
Fuori dal letto, però, aveva in mente solo Bill. E questo forse significava qualcosa.
Ma lui non aveva mai avuto particolare talento per le riflessioni in generale.
Sul televisore scorrevano le immagini di una vecchia commedia per famiglie. Il millesimo episodio della saga di Beethoven, probabilmente. Qualcosa con i cani, comunque. Si complimentò con se stesso per non aver portato Blitz, quella sera: lui di solito per roba come quella impazziva. Bastava sentisse abbaiare una cosa qualsiasi perché si mettesse a saltare come un pazzo – ed essendo praticamente una specie di cingolato la cosa poteva farsi pericolosa, soprattutto per i soprammobili di Marge.
- Sei troppo silenzioso, stasera. – aveva commentato ad un certo punto Cherry, affondata come stava fra il divano e Georg, sopra il quale s’era distesa appena aveva preso posto accanto a lei.
Cherry aveva uno strano modo di mostrarsi interessata. Ti vomitava addosso sarcasmo, perché quello era – sfacciata e stronza per come si mostrava – il linguaggio a lei più congeniale.
Georg, per contro, aveva uno strano modo di mostrarsi geloso. Invece di arrotolarsi attorno alla propria donna come un boa constrictor, come sarebbe stato buono e giusto, se ne allontanava.
Aveva sempre pensato che prima o poi Georg avrebbe dovuto affrontare la questione spinosa del “la mia donna, a quanto pare, mi ama abbastanza, ma vorrebbe pure farsi il mio migliore amico”. Invece, probabilmente, quella questione non sarebbe più stata un problema, da quel giorno in poi. Quella questione non sarebbe più stata, punto.
Si limitò a sollevare il medio, giusto per rimarcare che lui, invece, non aveva alcuno strano modo di esternare i propri pensieri.
- Che c’è? Il tuo scarafaggio gigante ti si è rivoltato contro e ti ha mangiato la lingua? – continuò imperterrita Cherry, sarcastica, mandando definitivamente a puttane la pazienza di Georg, il quale, irritato, requisì il telecomando e si lanciò in una nervosissima sessione di zapping sfrenato.
Tom roteò gli occhi, e gli venne spontaneo ripetere quanto aveva già fatto con Georg: tirare fuori la lingua e mostrare il piercing, sostenendo orgoglioso e sfacciato lo sguardo stupito di lei.
- Cristo. – commentò la ragazza, tornando a pretendere come cuscino vivente le gambe del proprio uomo, - Ma questa roba da froci non era passata di moda?
- Signorina. – aveva scoccato acida Marge, accantonando per un attimo l’uncinetto, - Modera il linguaggio.
- Tu l’hai chiamato checca, poco fa. – fece notare Cherry, scettica.
- Io ho lavorato duramente per tutta la mia vita e mi sono guadagnata il diritto di essere sboccata. – giustificò la vecchina, tornando serafica al centrotavola che stava finendo.
Cherry inarcò le sopracciglia e si abbatté definitivamente su Georg, mentre Tom, per proprio conto, si limitò ad alzare due eloquentissimi medi simultanei in direzione delle donne di casa, guadagnando in cambio da Cherry un mezzo calcio nelle palle e da Marge uno scappellotto tanto forte che ebbe l’impressione gli stesse uscendo il cervello dal naso. Dopodichè, decise saggiamente di restarsene in silenzio, stropicciandosi l’orlo della maglietta in attesa che Georg trovasse il momento giusto per sganciare la bomba.
Ed accadde solo molti minuti dopo. Molti minuti di programmi del tutto privi d’interesse a pubblicità se possibile ancora più noiose, anche se mai quanto gli inutili commenti di Cherry e gli insensati borbottii di Marge; lunghi minuti di ansia in cui Tom imparò ad odiare il mondo intero, le due donne che avevano contribuito a salvargli il culo dalla depressione, se stesso, la titubanza di Georg e perfino l’essenza stessa dello scorrere del tempo.
E poi Georg spense la tv.
Marge alzò lo sguardo e lo apostrofò malamente, dicendogli che stava seguendo.
La stessa cosa fece Cherry, che però non si limitò ad apostrofarlo e si sentì pure in diritto di scoccargli un dolorosissimo pizzicotto sul fianco, al quale Georg resistette stoicamente.
- Io e Timothy domani o al più tardi dopodomani partiremo. – disse con assoluta freddezza, senza guardare altro che non lo schermo scuro del televisore.
- Begli stronzi. – sbottò Cherry, incrociando le braccia sul petto, - Andate in vacanza e non mi chiedete neanche se voglio venire? Non che m’interessi, ma-
- Non andiamo in vacanza. – aggiunse lui, deglutendo appena, - Torniamo a casa.
Marge tornò a concentrarsi sul ricamo, dondolando lievemente sulla sedia.
- A casa…? – sussurrò confusa Cherry, sollevando lo sguardo su di lui, - Che vorrebbe dire?
- In passato, ti ho già detto che non siamo originari di qui. Noi siamo tedeschi. – confessò Georg con un sospiro. Era palese non gli andasse affatto di affrontare quel discorso, ma continuò. Tom invidiò il suo coraggio. Ed anche la sua dedizione. Si sentì in colpa per l’ennesima volta, ma cercò comunque di farsela passare. – Torniamo in Germania. Abbiamo delle cose da sistemare. – un altro sospiro, e finalmente guardò la sua donna. Anche Tom, seduto accanto a Cherry, poté vedere il suo sguardo.
Il senso di colpa per quello non sarebbe proprio riuscito a farselo passare mai, comunque.
- Non sappiamo quando torneremo.
Cherry si voltò verso di lui e lo fissò per un istante lunghissimo. Nei suoi occhi non c’era neanche incredulità: solo una quantità incredibile di rabbia. Ed una tristezza di fondo che era identica a quella che invece invadeva completamente gli occhi di Georg.

Sto facendo il meglio per me, ma non sono più tanto sicuro di star facendo il meglio anche per lui.
Ma il danno è fatto, Tomi. Quando il danno è fatto ci si rassegna.
Anche se questo tu non sei mai stato in grado di accettarlo, eh…?


Cherry non disse una parola. Spostò lo sguardo da Georg a lui e poi di nuovo a Georg ed uscì di casa senza fiatare. Georg la seguì immediatamente. D’altronde, sapeva esattamente dove sarebbe andata. Anche perché Cherry aveva le chiavi di casa loro.
Rimasto solo sul divano, consolato solo dal lento cigolare della sedia di Marge, Tom si lasciò andare esausto contro lo schienale e socchiuse gli occhi.
Marge si alzò dalla sedia e rimase immobile davanti a lui.
- Vado a prenderti una coperta. – disse poco dopo, - Stanotte rimani qui. – ed era un ordine piuttosto incontrovertibile. – E poi vado a fare un po’ di biscotti. – aggiunse, nella voce una nota di tenerezza talmente inusuale da sembrare quasi stonata. – Ne avrete bisogno per il viaggio.
*
Cherry e Georg dovevano essersi salutati durante la notte, perché nel momento in cui il moro fece girare le chiavi nella toppa della ragazza non c’era nessuna traccia. Tom si guardò intorno, contò gli zaini e richiamò Blitz, che stava già cominciando a saltellare verso la strada incurante dei pericoli che poteva correre.
Comunque sia, l’analgesico di cui Marge l’aveva imbottito assieme al latte ed ai biscotti della notte prima sembrava cominciare a funzionare.
- Preso tutto? – chiese, trattenendo il cane a sé per il collare.
- Tutto. – rispose Georg atono.
- La casa?
- Chiusa.
- Per le chiavi che facciamo?
- Le lasciamo da Marge al passaggio.
Tom deglutì.
- Salutato tutti?
Georg sospirò.
- Tutti. Anche se non è che ci fossero esattamente le file, fuori dalla porta.
- Georg, limitati a rispondere alle domande. – sorrise sarcastico, - Non ho fiato per rispondere all’ironia. Quanti soldi abbiamo?
Anche Georg sorrise un po’, sistemandosi lo zaino sulle spalle.
- Troppo pochi perché tutto questo non sembri un complicato ed originale tentativo di suicidio.
- Mh. Quindi andiamo?
Solo mezzo sguardo alla casa e al giardino. Solo mezzo.
- Andiamo.
Faceva caldo. La lingua non doleva. Ma non si sentiva neanche. Il che poteva essere preoccupante, per certi versi, ma almeno non era troppo fastidioso.
Tirò fuori la borraccia dalla tasca laterale dello zaino e prese un lungo sorso, prima di cominciare a camminare.

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