Genere: Introspettivo, Malinconico, Romantico.
Pairing: Bill/Tom, Georg/OFC, Gustav/OFC, Andreas/OMC, Bill/OMC.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Incest, Het, What If?, OC, WIP.
- I protagonisti di questa storia non sono i Tokio Hotel, o forse sì. Non stiamo parlando del gruppo che conosciamo, o forse sì. Le relazioni che li legano non sono le solite, o forse sì. Forse sì, dopotutto. Perché i protagonisti di questa storia sono Timothy e Frank Duncan, Britney Kemp e Serge Monod. Che non sono i Tokio Hotel. Ma forse sì.
Note: WIP.
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ANYPLACE, ANYWHERE, ANYTIME
CHAPTER TWO
TAKE OFF YOUR DISGUISE

You don't speak my dialect
But our images reflect
Drawn together by the flame
We are just the same

Il suo nome era Britney Kemp, aveva compiuto diciotto anni nel settembre dell’anno precedente e ai diciannove mancavano ancora tre mesi. Era figlia di Victor Kemp e figliastra di Michelle Garraud, splendida parigina di nascita e newyorchese d’adozione. Frequentava la facoltà di psicologia senza particolare interesse, e con la stessa distrazione frequentava anche una comitiva di amici coi quali usciva il sabato sera e andava a fare shopping di tanto in tanto. Portava i capelli acconciati in un caschetto lungo fino a sfiorare le spalle, liscio e biondo come il grano. Struccata, era una ragazza come tante, dai lineamenti affilati e un tantino mascolina. Truccata, era di una bellezza devastante. Indossava solo pantaloni e magliette a collo alto. Anche d’estate. Gli unici centimetri di pelle si vedessero del suo corpo erano rappresentati dal viso e dalle braccia.
- Arrivate. – disse una ragazza dai capelli rossicci, frenando davanti casa sua, - Brit, sicura di non voler uscire con noi, stasera? C’è anche Eric…
Anna Molly Matthews diciannove anni li aveva compiuti qualche mese prima e, oltre ad avere un nome bellissimo, era quanto di più simile a un’amica Britney Kemp avesse nell’emisfero del mondo in cui viveva.
Il particolare avesse compiuto diciannove anni qualche mese prima, non era del tutto irrilevante. Era stato infatti durante la festa organizzata per l’occasione che Britney aveva conosciuto Eric Matthews, suo fratello, di ben due anni più giovane, brillante quarterback del Williamson, uno dei licei più rinomati dello stato.
Britney Kemp era nota per essere simpatica ma totalmente frigida dal punto di vista sessuale. La cosa non la infastidiva: riteneva piuttosto ovvio essere additata come la frigida del gruppo, se pure alle avanches dei più belli rispondevi un gentile, pacato, ma secchissimo e irremovibile no.
Eric Matthews, comunque, sembrava l’unico ragazzo in tutto il mondo al quale la cosa non importasse granché. Quella sera e durante i giorni successivi, Britney aveva sciorinato una tale sequela di no da annoiarsi da sola, ma non era servito a niente. Forse perché Eric aveva sedici anni, forse perché ai rifiuti non era abituato, forse per via della sua ostinata sicurezza da ragazzino che dalla propria vita ha tutto e che perciò pretende di avere tutto anche dalla vita degli altri, aveva semplicemente continuato ad insistere senza sentire ragioni.
Per quel motivo, Britney aveva smesso di uscire con la comitiva. Non aveva più pazienza di sopportare quell’assalto continuo. Non ne aveva più la forza. Si sentiva sempre più tentata di rispondere “d’accordo, vediamo che sai fare”. Per il solo piacere di osservare il suo viso quando poi l’avesse spogliata ed avesse scoperto che…
Be’.
Che lei non era Britney Kemp. Perché Britney Kemp avrebbe dovuto essere una donna. E lei era tutto tranne che una donna.
*
Il suo vero nome era Bill Kaulitz. Era un dannatissimo ragazzo. Un dannatissimo, stramaledettissimo, fottutissimo maschio, anche se nessuno lo sapeva e quelli che avrebbero dovuto saperlo sembravano averlo dimenticato completamente.
Come suo “padre”, Victor Kemp. Suo padre non era Victor Kemp. Victor Kemp neanche esisteva. Victor Kemp in realtà si chiamava David Jost ed era tutto ciò che rimaneva a Bill per ricordargli che sì, un tempo era stato davvero quel Bill Kaulitz, una stella della musica pop-rock europea, il frontman dei Tokio Hotel.
Quando – ormai più di due anni prima – erano stati protagonisti di una serie di “incidenti” che poi avevano rivelato non avere proprio niente di incidentale, David, per la prima volta in tutta la sua vita, aveva visto i propri protetti in pericolo. Gli era capitato altre volte di temere per la loro incolumità – quando una ragazzina spagnola aveva quasi fatto lo scalpo a Tom, per esempio, o quando lui aveva vissuto quell’interminabile periodo di tracheiti che continuavano ad andare e venire ogni volta che cambiava il vento – ma mai il pericolo era sembrato tanto fondato, tanto esplicito, tanto evidente come nella primavera di quell’incredibile duemilasei che pure era stato per loro un anno talmente felice che al solo ripensarci Bill avrebbe potuto impazzire di nostalgia.
Messo alle strette dal senso di responsabilità – erano ancora minorenni, dopotutto – aveva fatto l’unica cosa che si sentisse in dovere di fare: aveva chiamato i loro genitori – tutti – ed aveva parlato loro molto apertamente. Non possono più continuare ad esibirsi. Ed era stato un coro d’assensi. Devono ritirarsi dalla vita pubblica. Perfino qualche sorriso entusiasta. E voi non potrete mai più rivederli.
Era prevedibilmente scoppiata una guerra. I loro genitori erano tutti impazziti di rabbia. Quelli di Georg avevano perfino minacciato ritorsioni legali. Chi diavolo era, in fondo, quell’estraneo, quello sconosciuto che aveva portato via i loro piccoli, ne aveva fatto star internazionali e adesso sembrava avere tutte le intenzioni di farglieli sparire per sempre da sotto il naso?
Il braccio di ferro non era durato molto a lungo, perché loro, di tempo, ne avevano poco.
Erano comunque stati i due mesi più intensi della loro vita. Sballottati fra Amburgo e le loro case paterne, non avevano fatto che osservare David sputare motivazioni su motivazioni, con piglio sempre più isterico di giorno in giorno, ed i loro genitori rispondere con sempre più fermezza in una negazione totale e senza via di scampo. Era la prima volta Bill e Tom vedessero lottare Simone, Gordon e Jörg, uniti come mai neanche avevano avuto l’occasione, a quel punto di ostinazione. Come avessero i paraocchi.
A loro, di vedere David non era neanche permesso.
E poi era successo che, nel giro di una settimana, non solo avevano provato a rapire Gustav, ma ci avevano riprovato anche con Tom.
Se quello non era stato il momento di crollo di tutte le loro pretese – e i loro sogni – in quanto genitori, c’era di sicuro mancato pochissimo.
Non erano stati in grado di proteggerli. Per salvare Gustav era dovuta intervenire la polizia, che si trovava fortunosamente a poca distanza dalla strada silenziosa lungo la quale il ragazzo era stato avvicinato. Per salvare Tom, invece, c’era stato bisogno che Bill irrompesse in camera sua e cominciasse a strillare come un vitello sgozzato, mettendo in fuga il rapitore.
No, forse David Jost non possedeva le chiavi della fortezza corazzata che avrebbe salvato i loro figli.
Ma neanche loro.
Anzi, con loro erano perfino più esposti. Tutti sapevano dove abitassero, quali fossero i locali che frequentavano, chi erano i loro amici, i nomi dei loro parenti. Era solo questione di tempo. Prima o poi, la polizia non avrebbe fatto in tempo, ed anche gli strilli di un ragazzino terrorizzato dall’immagine del proprio fratello imbavagliato che si dimena cercando di sfuggire dalla stretta potente di un uomo col volto coperto, non sarebbero stati abbastanza per impedire alcunché.
Perciò le famiglie avevano deposto le armi.
Ed aveva vinto lui. Il loro manager.
Che aveva proposto un piano di fuga degno di un film d’azione. Talmente ridicolo che avrebbe potuto fallire senza la minima difficoltà. E, per lo stesso motivo, rivelarsi la soluzione vincente.
Cambiare identità. Eliminare ognuno dei loro segni distintivi, quelli che avrebbero portato qualsiasi ragazzina a distinguerli anche a duecento metri in mezzo alla folla. Niente vestiti eccentrici, niente capigliature particolari. Ritornare ad una normalità che non era mai stata veramente loro. Cambiare nome, cambiare cognome, cambiare stato, cambiare occupazione.
Nel suo caso, perfino cambiare sesso.
Ovviamente, David s’era premurato di non farglielo sapere fino a quando il processo non fosse stato irreversibile.
“Statisticamente, è molto meno facile essere rintracciati quando si cambia sesso. Credimi, sono meno preoccupato per te che non per quegli altri tre, che non potrei far passare per donne neanche se li mettessi al contrario e li rivoltassi da dentro a fuori”.
Alla sua occhiata perplessa, David aveva risposto con un altrettanto perplesso “Non intendo sottoporti a un intervento chirurgico, Bill. Sono faccende burocratiche. Roba da anagrafe. Ci aiuteranno i servizi segreti”.
Ci erano voluti due mesi per raggiungere quel compromesso. Due mesi, per convincere i loro genitori a lasciarli andare. Due mesi per convincere loro stessi che quella fosse la soluzione migliore, l’unica possibile.
E poi era finito tutto nel giro di una settimana. Aveva un che d’ironico.
Nel giro di una settimana, della sua vita precedente non era rimasto neanche un brandello. Il suo nome s’era perduto nei ricordi, nel passato. Tutta la sua identità l’aveva seguito. Non era rimasto niente.
Era legalmente diventato, anzi, diventata, figlia di Victor Kemp. S’era trasferita negli Stati Uniti con suo padre, e lui lì aveva immediatamente sposato una donna che non amava ma che in compenso possedeva una delle cose cui lui ambisse con più bramosia: un permesso di soggiorno.
Imparare la lingua era stato un disastro. Per il primo anno non aveva potuto fare praticamente niente. Perfino entrare in un bar per la colazione rappresentava una sfida ai confini dell’umano.
L’unica cosa sembrasse andare per il verso giusto era stato quel fantomatico cambio di sesso. Nessuno l’aveva mai preso per un maschio.
A sedici anni, i suoi lineamenti erano ancora piuttosto delicati e femminili. Anche truccandosi il minimo indispensabile, riusciva comunque ad addolcire la propria forma abbastanza da non impensierire nessuno.
Adesso di anni ne aveva diciotto, e la cosa stava cominciando a farsi difficile. Il trucco aveva dovuto cominciare a farsi meno esteticamente pesante ma più compatto, più coprente. Doveva riuscire a sembrare femmina anche con un ombretto chiaro, non poteva semplicemente mascherare ogni cosa col make-up di una diva rock anni ottanta e sperare che tutto andasse bene. Non poteva semplicemente apparire femmina ad una cinquantina di metri di distanza. Doveva essere donna anche sulla distanza ravvicinata.
Entrò in casa con le chiavi, sospirando pesantemente e grattandosi distratto la schiena, dove sentiva pungere la chiusura del reggiseno.
Il reggiseno imbottito era uno degli spiacevoli accessori cui era obbligato, se non voleva destare sospetti. A sedici anni poteva ancora dire di non essersi del tutto sviluppata, ma a diciotto non avrebbe mai retto, come scusa.
- Brit? – lo chiamò Michelle dalla cucina, il tono dolce che riusciva appena a superare lo sciabordio dell’acqua contro i piatti nel lavello, - Ha appena chiamato Eric, gli ho detto che l’avresti richiamato tu.
- Sì, certo. – concesse senza pensarci più di tanto, scrollando le spalle ed attraversando l’ingresso, raggiungendola davanti al lavabo per salutarla con un bacio sulla guancia, - Ciao.
- Ciao. – rispose lei teneramente, socchiudendo gli occhi mentre sporgeva il viso, - Ma chiamalo, però! – insistette poi, allungando il collo mentre lo osservava sparire lungo il corridoio, verso la propria camera, - Lo stai facendo impazzire, quel povero ragazzo!
- Ah-ha. – mugugnò guardandosi intorno, mentre schiudeva la porta della propria stanza lanciando occhiate oblique al resto dell’appartamento, - Papà?
- Ancora a lavoro. – rispose per lui Michelle, chiudendo il rubinetto ed accendendo il fornello per preparare la cena, - Sarà qui a momenti. Io mi metto a cucinare, perché non ne approfitti per fare la doccia?
- Mh. – borbottò lui, richiudendosi la porta alla spalle e lasciandosi immediatamente ricadere sul letto con un gesto stremato. Cercò a tentoni sul copriletto il telecomando dello stereo, e quando lo ritrovò azionò il lettore, ascoltando diffondersi nell’aria le note di una canzone che non avrebbe più dovuto ascoltare ma che continuava a rimbombargli nella mente senza che lui potesse fare niente per fermarla.
- Du stehst auf… - cominciò a canticchiare, ma fu costretto ad interrompersi prima della fine della prima strofa, a causa del cellulare che aveva preso a trillare e vibrare incessantemente sul suo comodino.
Sollevò lo sguardo dal cuscino nel quale aveva affondato il viso, adocchiando critico il display luminoso.
Eric.
Sospirò pesantemente, allungando una mano ed afferrando il cellulare con malagrazia, per rispondere con un sospiro irritato.
- Michelle mi aveva detto che avresti aspettato che ti chiamassi io. – disse infastidito, mettendosi a sedere sul materasso ed interrompendo la canzone.
Dall’altro lato della cornetta, Eric rise in quel modo stupido che aveva reso una leggenda la sua ilarità. Eric rideva di qualsiasi cosa. Non c’era argomento o situazione dal quale non potesse tirare fuori una buona dose di ironia. Sia che questo fosse stato necessario, sia che non lo fosse stato affatto.
- Sapevo che non l’avresti fatto! – rispose dopo un po’, supponente. – Comunque come va? – chiese, senza aspettare che lui potesse fare mente locale e rispondergli con una parolaccia, come avrebbe meritato.
- Sono stanca. – rispose seccamente, - Sto in facoltà dalla mattina alla sera, io.
- Oh, povera. – scherzò lui, ridacchiando ancora, - Io invece oggi ho saltato gli allenamenti, quindi sono fresco come una rosa.
- Un applauso al tuo senso di responsabilità. – lo prese in giro, rivoltandosi sul materasso e passandosi una mano fra i capelli, - E come mai il tuo allenatore ti ha lasciato libero senza prima pretendere un tributo in vite umane?
- Chi ti dice che non l’abbia preteso?
- Eric!
Lui sghignazzò gioioso, bevendo una sorsata d’acqua ed interrompendosi un secondo per deglutire.
- Gli ho detto che dovevo uscire con la mia ragazza. Visto che sono palesemente un genio del football, il signor Robson mi lascia piuttosto libero, quando non ci sono partite importanti in avvicinamento.
- Certo…
- Perciò ho pensato di chiamare, per vedere se alla mia ragazza andava di stare al gioco o no.
- Bravo. – ritorse Bill, annuendo distrattamente, - Allora chiamala, che si sta facendo tardi.
- Sei tu, scema! – rispose prevedibilmente lui, ridendo felice come un bambino.
Bill sospirò, roteando gli occhi.
- Io non sono la tua ragazza. E non usciamo neanche insieme.
- Come sei pignola… - borbottò Eric, deluso, - Ma si può sapere perché continui a rifiutarmi come avessi una strana malattia?! Ti assicuro che sto bene!
- Magari non sei il mio tipo? – ipotizzò lui, senza darsi per vinto.
- Ma questo è impossibile!
- Oh, be’!
- Non intendevo questo! – si corresse, mugugnando deluso, - È che ti conosco da quasi tre mesi e non ho ancora capito quale sarebbe, “il tuo tipo”.
Bill ridacchiò, coprendosi le labbra con una mano.
- Alto, magro, stupido e preferibilmente con una passione per la musica rap.
- Dì, la verità, quando avevi quindici anni sbavavi per Snoop Dogg?
- Qualcosa del genere! – ammise Bill, ridendo apertamente, senza più curarsi di trattenersi.
Eric gli andò dietro, per un po’, ma poi la sua risata inevitabilmente si smorzò, e caddero entrambi nel silenzio.
- Be’, io sono stupido, in effetti. – mugugnò con quel tono da cucciolo che faceva impazzire le sue coetanee, e anche buona parte delle ragazze più piccole e più grandi di lui, - Se non fossi stupido non continuerei a venirti dietro, suppongo.
- Vero. – concesse lui, annuendo distrattamente, - Ma resti un barilotto di muscoli concentrato in un metro e sessantacinque che ascolta i System Of A Down dalla mattina alla sera.
- Be’, ammetterai siano meglio di, per dire, Kanye West!
Bill rise ancora, scuotendo il capo e rivoltandosi di fianco sul letto.
- Nessuno dei due è il mio genere.
- Il tuo genere sarebbe cosa? Qualche boyband estinta da un secolo tipo i Five?
Aggrottò le sopracciglia, arricciando le labbra.
- Anche se fosse?
Eric sospirò.
- È un po’ triste avere per gruppo preferito un gruppo che non esiste più.
Bill sbuffò un sorriso.
- Hai tremendamente ragione. Vedi? Non sei neanche stupido.
*
Quando sentì bussare alla porta della sua camera, la conversazione con Eric s’era già interrotta da un pezzo. S’era interrotta male – come sempre – perché lui aveva cominciato ad insistere perché uscissero insieme quella sera stessa e Bill a un certo punto aveva dovuto sbattergli il telefono in faccia.
Per ripicca nei confronti del mondo, e per cercare di rafforzare un po’ il proprio spirito di sacrificio, tremendamente sgonfio dopo l’estenuante sessione di flirt telefonico con un sedicenne che non lo avrebbe interessato neanche se fosse stato la riproduzione maschile e compatta di Nena, aveva ricominciato ad ascoltare Schrei che, quanto a testo, poteva anche non essere la migliore delle sue canzoni che incitassero a chinare il capo e subire, ma almeno era energica. E poi lui non aveva mai veramente scritto canzoni che incitassero a chinare il capo e subire.
- Avanti. – rispose a mezza voce, sperando che, oltre la porta, chi aveva bussato non lo sentisse e desse per assodato lui stesse già dormendo.
Ma, se c’era una cosa che i lunghi anni di management dei Tokio Hotel avevano insegnato a David Jost, quella era la capacità di percepire le voci dei propri protetti anche quando ridotte a striminziti sibili.
- Papi. – rispose sarcastico, quando vide la slanciata e compatta figura di David apparire nel rettangolo luminoso della porta.
Lui allargò le braccia in un gesto esasperato e poi attraversò la soglia, entrando in camera e richiudendosi la porta alle spalle.
- Bill… - lo chiamò lamentoso, - che diavolo stai combinando…? Spegni quell’affare…
- Guarda che non è strano io ascolti i Tokio Hotel. – si limitò a commentare, sarcastico, - Sono sempre un’adolescente cretina. Magari quando avevo quindici anni ero perfino una fangirl, tu che dici?
- Dico che sei un coglione, uno stronzo e che devi spegnere questa fottuta musica.
Sospirando, Bill allungò un braccio dietro la testa, per recuperare il telecomando finito nell’intercapedine fra il materasso e la testata del letto, dove l’aveva abbandonato dopo aver pressato il pulsante “repeat”.
Spense lo stereo, e quando David andò a sedersi in punta sul materasso lui lo seguì nel movimento, appoggiandosi di schiena contro il muro e stringendo al corpo il cuscino.
- Giornata dura? – gli chiese l’uomo, accarezzandogli teneramente una spalla.
- Grazie, una figata. – rispose lui, enigmatico, guardando altrove.
- Piantala di auto-citarti. – lo rimproverò David, sospirando pesantemente, - Michelle mi ha detto che Eric ti ha cercato ancora…
- Non demorde, è una piattola. – annuì lui, angosciato, - Ci hai salvato da un manipolo di rapitori pazzi e poi mi hai buttato fra le braccia di un sedicenne allupato. Non so se ci ho guadagnato, sai?
David roteò gli occhi.
- Come sei lagnoso. E poi, scusa, perché non ci esci un po’? Magari è simpatico.
Bill spalancò gli occhi, sconvolto.
- Magari dopo avermi fatto ubriacare mi trascina a casa sua e poi sorpresa, David?!
- Oh, avanti! – borbottò lui, incrociando le braccia sul petto, - Non ti ho mica detto di andarci a letto! – proseguì, osservando la smorfia di Bill farsi da sconvolta inorridita.
- Ci mancherebbe altro! – si lamentò lui, tornando a distendersi drammaticamente sul letto, - Hai praticamente rovinato per sempre la mia vita sessuale! Almeno, fossi effettivamente maschio o effettivamente femmina, potrei fare qualcosa… invece per tutto il resto della mia vita sarò costretto a rimanere casto e puro! Stai pensando di immolarmi per qualche sacrificio umano?
- Non straparlare, cretino che non sei altro. – sospirò David, stremato, - E poi, fra un paio d’anni sarà comunque impossibile continuare a far credere al mondo tu sia una ragazza.
Bill annuì lentamente, scivolando piano sul cuscino che aveva risistemato dietro il capo.
- E allora cosa succederà, David?
Il manager sospirò, scrollando le spalle.
- Allora ci inventeremo qualcosa.
*
C’era una cosa che lo irritava, lo irritava a morte. E non era trovarsi in America, in una città che odiava, circondato da persone di cui non gli interessava un accidenti, lontano dai propri cari e costretto ad una vita disgustosa. Quella che lo irritava era la presunzione di David.
David era stato per loro una specie di angelo. Quando quell’uomo aveva cercato di rapire Tom proprio quando gli era così vicino, David era stato l’unico a mantenere la mente abbastanza lucida da pensare ad un sistema per metterli tutti al sicuro – e che fosse strampalato e destinato a rovinare per sempre tutte le loro vite, al momento, era sembrato un problema del tutto secondario.
Quello che sfugge sempre, dei problemi secondari, è che prima o poi il momento “primario” passa. Arriva il momento secondario e con lui il problema. Che non è mai di intensità minore soltanto perché è passato più tempo da quando si sono presentate le prime avvisaglie di quello che sarebbe stato. Anzi, è anche peggio, perché sul momento ti eri illuso che, in quanto problema secondario, potesse essere più facilmente risolvibile. Così quando arriva sei totalmente impreparato. In balia degli eventi.
Fottuto.
Quella che lo irritava a morte era la presunzione di David. La sfrontatezza con la quale aveva affrontato la questione del loro futuro, prendendolo fra le mani e plasmandolo come pongo, senza il minimo riguardo per ciò che erano stati e che avrebbero potuto essere.
La facilità, del tutto priva di ripensamenti, con la quale l’aveva separato dall’unica persona per la salvezza della quale avesse accettato quell’annullamento di identità. Lui, che dell’affermazione di ciò che era aveva fatto una guerra, un imperativo categorico assoluto, si ritrovava mascherato da femmina e in una condizione che non sarebbe stato eccessivo definire “la più lontana dall’immagine perfetta che aveva di sé”; e tutto questo l’aveva fatto solo per una persona, solo per Tomi.
Senza nemmeno pensarci, David li aveva allontanati. David l’aveva trasformato in qualcosa che non lo rappresentava e, già che c’era, s’era premurato di eliminare l’unico legame, l’unica persona che avrebbe potuto ricordarglielo. Così avrebbe avuto la certezza matematica che non sarebbe più tornato come un tempo.
Ma la presunzione di David si sentiva anche in un altro senso.
Nella certezza assoluta di avere accolto “come figlia” il gemello buono. Quello meno problematico. Quello che non si sarebbe mai lamentato, perché tutto avrebbe capito e tutto avrebbe sopportato.
Quello che non avrebbe mai avuto la forza di dire basta. Di dire “torno da Tom”.
Torno alla mia vita, torno ai miei affetti, torno al vero me stesso. E non ci sarà niente che tu possa fare per fermarmi.
Come tutti i presuntuosi, però, David si sbagliava.

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