Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: José/Zlatan, Bojan/Josep, accennato Davide/Mario.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash.
- Lunedì 31 Agosto 2009, Zlatan Ibrahimović fa il suo debutto nella Liga spagnola, con la sua nuova squadra, il Barcellona. Ad osservarlo dagli spalti, anche uno spettatore d'eccezione: José Mourinho, ex-allenatore e - purtroppo per Zlatan - ex anche in qualche altro scomodo senso. La sua presenza agita Zlatan, ma non gli impedisce di segnare il suo primo gol in maglia blaugrana, e proprio quando è convinto di aver dimostrato qualcosa a José, con quel gol - anche se non sa esattamente cosa - i suoi compagni gli fanno sapere che Mourinho è uscito dallo stadio dieci minuti prima della fine dell'incontro, motivo per cui ha perso il suo gol. Amareggiato, Zlatan non riesce a nascondere la sua delusione. Tanto quanto non riesce a nascondere la sua sorpresa quando, dopo la partita, José gli si avvicina e lo invita a salire in macchina con lui.
Note: Questa fanfic è ridicola per due motivi: prima di tutto, è ridicolmente lunga per quello che racconta; secondo poi, è stata scritta in un tempo ridicolmente breve (tre giorni, more or less) per quanto è lunga e per quelli che sono i miei ritmi di scrittura effettivi XD
Nonostante le sue caratteristiche di ridicolaggine intrinseca – e forse in parte anche per quelle – questa storia vuol dire molto, per me, anche perché è un missing moment *_* E io trovo adorabili i missing moment nell’universo RPF, perché non sapere cosa sia accaduto davvero ti dà modo di fingere che ciò che hai scritto tu sia accaduto davvero *balla felice* XDDD
Scherzi a parte, ho cercato di mantenermi il più possibile aderente alla realtà, sia per quanto riguarda ovviamente José che va a guardare Barcellona-Sporting Gijon, sia per quanto riguarda l’andamento della partita. In particolare, tipo, l’esultanza dopo il gol di Ibra l’ho riportata esattamente come è avvenuta nella realtà XD (La verità è che quell’esultanza mi è piaciuta da morire perché è stata di una tenerezza che a) mi ha conquistata, b) mi ha fatto pensare “ok, a questa gente posso lasciare Zlatan, so che se ne prenderanno cura <3” Pathetic!Fangirl iz pathetic, Y/Y? Y.)
E insomma \o/ Spero che nonostante la ridicolaggine di cui sopra questa fic possa esservi piaciuta.
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QUESTIONE DI ATTESE
Zlatan ha cambiato squadra per una questione di attese. Ricorda un periodo lontanissimo – doveva avere cinque, sei anni – in cui le attese erano ancora una gioia. Attendere il ritorno di papà dal lavoro sperando portasse con sé qualche dolcetto da rubacchiare prima di cena e dividere con Sapko, Sanela e Alexander subito dopo, attendere che la torta in forno fosse pronta, sbirciare attraverso lo sportello trasparente per osservarla gonfiarsi e dorarsi, e naturalmente Natale, aspettare i regali – il nuovo paio di scarpini o la nuova palla per sostituire quella dell’anno prima ormai distrutta.
Da quando gioca a calcio a livello professionale, Zlatan ha dimenticato il valore delle attese. Ha un talento e sa come metterlo a frutto, perciò – da quando gioca ai massimi livelli –
naturalmente Zlatan è sempre in campo,
naturalmente non manca un gol,
naturalmente è la stella della squadra, ne è il regista, ne è il cuore, ne è l’essenza. È stato così all’Ajax come alla Juve come all’Inter, ed è durata – ed è andata bene – finché Zlatan un giorno non s’è svegliato con nelle narici l’odore della torta di sua madre, e sulla lingua il sapore dei dolcetti di suo padre, e sui polpastrelli la sensazione incredibilmente fisica di un paio di scarpini nuovi e lucidi da indossare subito per correre fuori e tirare quattro calci al pallone coi suoi fratelli.
Quando ha capito di cosa aveva bisogno, quando ha capito ciò che il suo corpo stava cercando di comunicargli, come prima cosa ha parlato con Helena. “Mi piace Milano”, ha detto lei, gli occhi lucidi, “I bambini sono felici”, ha aggiunto, e poi ha mormorato “Zlatan…” e la sua espressione non ha fatto una piega. Perciò Helena ha accettato la possibilità di trasferirsi. Quindi, Zlatan è andato dal presidente e gli ha chiesto se esistesse una minima possibilità di essere venduto. “No”, ha riso il presidente, e Zlatan ha riso assieme a lui. Poi hanno sorseggiato un po’ dei loro caffè e il presidente ha sospirato quietamente. “Vuoi andartene, Zlatan?”, ha chiesto con un sorriso indulgente. “Sì”, ha risposto lui, svelto, così da non lasciare che quello sguardo da padre bonario e intimamente un po’ deluso potesse costringerlo a cambiare idea e ritornare sui propri passi. “E dov’è che vuoi andare?” ha chiesto il presidente, e Zlatan ha fatto un paio di calcoli –
chi può permettersi di acquistarmi? Dove sarebbe incerta la mia possibilità di entrare in campo? Dove potrei combattere almeno un po’, dove potrei ritrovare le mie attese? – e poi ha risposto. “Al Barça”, ha detto, annuendo deciso. Moratti ha annuito assieme a lui, soppesando la sua figura intera con lo sguardo prima di terminare il proprio caffè. “D’accordo, allora. Se il Barça ti vorrà, al Barça e solo al Barça ti venderò”.
La cosa successiva che ha fatto è stata mandare un messaggio a Mino. “Mettiti al lavoro”, gli ha detto. “È difficile, Ibra”, gli ha risposto lui. La sua replica è stata lapidaria: “rendilo possibile”. E no, da José non è andato. Perché sapeva che la sua, di risposta, sarebbe stata un no, e non era disposto ad ascoltarne uno, in quel momento, specie perché non stava chiedendo alcun permesso. Era una sua decisione e pretendeva che fosse rispettata, ma José era tanto bravo a rispettare a parole quanto poi falliva miseramente nel seguire coi fatti dichiarazioni simili, perciò sapeva che il suo sarebbe stato un no di quelli duri e secchi, senza scampo, conditi da scorrettezze e ripicche d’ogni tipo, e no, non era davvero disposto a tollerarla, una cosa simile. Perciò José è stato l’ultimo a saperlo, solo quando nasconderlo non era proprio più possibile. A ripensarci adesso gli viene da ridere – l’uomo con cui andava a letto da quasi un anno è stato l’ultimo a sapere che presto l’avrebbe abbandonato. L’uomo che
amava da quasi un anno – a voler essere per una volta completamente sinceri con se stessi – è stato l’ultimo a sapere che Zlatan sarebbe andato via.
E poi non c’è stato più tempo per pensare a niente, le sfide sono ricominciate. Imparare lo spagnolo – da quanto non cercava di imparare una nuova lingua?
Anni – lottare per un posto in prima squadra, lottare per il primo gol in blaugrana. Le attese, le attese infinite per la lingua che non gli entrava in testa, il gioco che non si creava, il gol che non arrivava. La sfida, l’impegno, le delusioni, anche, ma una lotta continua. Esattamente quello che voleva.
Per Zlatan la vita è tornata ad essere una questione di attese, e questo gli piace.
- Indovina chi viene a guardare la partita, stasera? – sghignazza Guardiola passandogli accanto con aria falsamente casuale, durante l’allenamento, mentre le note di
Viva la Vida si diffondono tintinnanti per tutto il Camp Nou, fra i fischiettii compiaciuti di Bojan e i grugniti decisamente meno compiaciuti di Daniel.
- Mh? – chiede lui, piegandosi sulle gambe e poi rimettendosi in piedi per guardarlo curiosamente , - Chi?
Josep ride divertito, incrociando le braccia sul petto. Il suo sorriso sghembo, tirato più da un lato che dall’altro, gli ricorda quello di José.
- Mister Mourinho. – rivela infine, e il cuore di Zlatan fa un tuffo in fondo al suo stomaco, e poi torna al proprio posto rivoltato al contrario, - C’è una macchina che sta già dirigendosi all’aeroporto per recuperarlo. È ospite graditissimo del presidente, e starà con lui in tribuna d’onore. – si prende una pausa, osserva Zlatan boccheggiare e lo fa con divertimento davvero malcelato, quasi derisorio, perfino fastidioso. – Emozionato?
Zlatan richiude le labbra e deglutisce a fatica.
- Non me l’aspettavo. – risponde confusamente.
- Be’, - scrolla le spalle Josep, lanciando un’occhiata e poi un’altra a Bojan che caracolla da un lato all’altro del campo inseguito da Carles per chissà che motivo, - il sedici abbiamo un incontro, nel caso te lo fossi dimenticato, - lo prende in giro con un ghigno supponente, - starà proponendosi di fare un po’ di spionaggio. Zero zero sette, così dicono le news in Italia.
- Segui le news italiane? – sbotta Zlatan, tornando a fare stretching come a voler dare a Josep la sensazione di non interessarsi minimamente al fatto. Provandoci, almeno.
- Aha. – annuisce lui, candido come un giglio, - E dovresti anche tu. – rincara poi, - C’è chi giura che stia venendo per vedere
te.
Zlatan scrolla le spalle e ringhia un po’, infastidito.
- Non ha molto da vedere. Non sono ancora al cento percento.
Josep ride un’altra volta, e Zlatan sopprime il desiderio di rimettersi dritto e tirargli un cazzotto sul naso.
-
Ufficialmente – riprende, ancora quel sorriso irritante a increspargli le labbra, - viene qui per dare un’occhiata alla squadra che si troverà di fronte in Champions. Altrettanto ufficialmente, però, - continua con una mezza risatina, - la squadra che giocherà stasera, senza Titi e Leo, non c’entra niente con quella che scenderà in campo a Milano contro l’Inter. – Zlatan deglutisce, Josep attende una reazione, la reazione non arriva. Josep sorride più apertamente e conclude. – Fai due calcoli e vedi se alla ragione
ufficiosa ma probabilmente veritiera per cui viene ci arrivi da solo. Ora scusami- Carles! – strilla, correndo dietro al capitano fermamente intenzionato a far soffocare Bojan a colpi di solletico sulla pancia, - Ti spiacerebbe non farlo fuori? Stai cercando di ammazzare il futuro della tua squadra, nel caso non te ne fossi reso conto!
Zlatan si rimette dritto e sospira pesantemente, immobile in mezzo al campo, il sole che picchia forte sulle braccia e sulla testa e sulle gambe. Solleva il viso e socchiude gli occhi. Il cielo è terso, la luce abbagliante.
- Puoi sempre fingerti malato. – ride Max, dandogli una pacca sulle spalle.
Zlatan sospira ancora. E ricomincia ad attendere – solo che stavolta sta aspettando qualcos’altro.
*
Zlatan è
stanco. Ha segnato Bojan, ha segnato Seydou, lui sta bombardando la porta avversaria – o almeno ci sta provando – da almeno dieci minuti e la fottuta palla non si decide ad entrare nella fottuta porta. Questa era una cosa che non ricordava, delle attese: quanto potessero essere frustranti. Ora che è lì e tira tira tira tira di continuo e la palla finisce fuori
o parata
o altrove, fanculo anche a lei, ricorda che ogni tanto papà i dolcetti non li aveva e lui scoppiava a piangere, che ogni tanto la torta si bruciava e lui e i suoi fratelli restavano senza merenda, che ogni tanto a Natale arrivava uno stupido robottino giocattolo e lui passava la settimana successiva a guardare quella
cosachiedendosi se potesse prenderla a calci al posto del pallone che non c’era, e poi scoppiava a piangere
ancora, e i suoi genitori non capivano perché.
All’inizio del secondo tempo, dopo essere riemerso dagli spogliatoi – nelle gambe la fatica di un primo tempo tutt’altro che brillante e nelle orecchie i complimenti dell’allenatore
a qualcuno che indubbiamente non era lui – rientrando in campo ha preso il coraggio a quattro mani ed ha sollevato lo sguardo, cercando la figura familiare di José fra la folla della tribuna d’onore. L’ha individuato subito, elegante ed ordinato nonostante il caldo, giacca blu e jeans dello stesso colore abbinati a una camicia di un giallino improbabile che è quasi certo possa indossare solo lui senza apparire un cretino cosmico. José gli ha ricambiato lo sguardo, apparentemente tranquillissimo. I suoi occhi scuri e profondi, così come la piega severa delle sue labbra, non gli hanno comunicato alcuna emozione – sembrava davvero solo un allenatore in cerca di informazioni utili per la preparazione di un incontro importante. A Zlatan s’è stretto il cuore. Ha continuato a non segnare.
Ora succede qualcosa – qualcosa cambia, all’improvviso. La palla parte dal piede di Dani, sfiora la testa di uno sconosciuto del Gijon, Zlatan la vede, forse è partito in fuorigioco ma nessuno sta dicendo niente, quindi si fotta il fuorigioco e la paura e pure le attese: si tuffa in avanti senza pensare che potrebbe anche mancare il colpo e cadere di faccia per terra, farsi un male cane, battere il polso sinistro e fottersi l’esistenza per una vaccata random simile, non gli importa. La palla la becca. Quando alza lo sguardo, la palla è in porta. Cazzo, in porta.
Si volta a pancia in su, solleva le mani, punta il dito. Spera di stare puntando a José, da qualche parte – ha perso il senso dello spazio, non sa in che punto preciso del campo si trovi. Spera di beccarlo e basta, sorride e l’attimo dopo ha tutti addosso, Gerard gli si avvicina e gli stringe le mani, Carles gli si spalma sopra e lo stringe, grato e protettivo, qualcuno gli accarezza una guancia, gliela pizzica, poi gli sistema una ciocca di capelli dietro un orecchio, e lui è felice. Quando lo aiutano a rimettersi in piedi, lascia che Dani combini un casino scompigliandogli irrimediabilmente i capelli, e sorride.
Poi cerca José. E non lo trova.
*
- Sei anche troppo palese. – lo rimbrotta Max, sospirando pesantemente mentre Zlatan lo sorregge facendosi passare un suo braccio sopra le spalle, aiutandolo a camminare, - Il mister mi ha detto che è andato via una decina di minuti prima che finisse la partita.
- Non mi interessa affatto. – risponde lui a bassa voce, perché nessuno possa sentirli, guardando dritto davanti a sé.
- E sei anche troppo bugiardo! – ride Max, tirandogli uno schiaffetto impietoso contro la nuca, - Mica male, per uno che dice sempre di essere l’incarnazione stessa della sincerità.
- Io
sono sincero. – ringhia Zlatan, e poi si allontana appena. – Ce la fai a reggerti da solo?
- Sì, sì. – ride ancora Max, e Zlatan si chiede perché il mondo intero si senta in diritto di
ridere, quando si tratta di lui e José. Non c’è proprio nulla di divertente nel punto, e nessuno dovrebbe permettersi di trovare qualcosa da ridere in una storia che a lui fa solo venire voglia di urlare. – Zlatan, se ci credi davvero… - riprende Max, sospirando ancora, - se credi davvero di essere sincero, quando dici che non t’importa, allora ti conosci molto poco. E io non credo che sia così.
Lo svedese non osa neanche sollevargli gli occhi addosso.
- Ma cos’avete voi due da cospirare sempre? – borbotta Gerard avvicinandosi e tirando una guancia a Zlatan, - È una cosa ingiusta, non condividete mai!
Dietro di lui c’è mezza squadra. Carles sta parlottando animatamente con Dani, sembra che stiano litigando su un locale – Zlatan non afferra molto del loro discorso in spagnolo strettissimo, ma pare che stiano cercando di decidere dove andare a festeggiare la vittoria. Bojan sta letteralmente appeso al collo di Guardiola, saltella su un piede solo e gli si chiudono gli occhi per la stanchezza.
- Mister, non viene con noi? – chiede Max, provando a stare dritto sulla gamba sinistra per vedere se fa male e sorridendo tranquillo quando si accorge che il dolore sembra passato.
- No. – sorride bonario Josep, - Boji non sta bene, potrebbe essere qualcosa di grave. Lo porto a farsi controllare e poi direttamente a dormire. – commenta con un sorriso ancora più dolce, e quando Max fa per lagnarsi Carles scuote il capo, e Max lascia perdere.
Quando il clacson scuote rumorosamente l’aria silenziosa del parcheggio riservato, inizialmente nessuno ci fa caso. Può essere chiunque, può voler dire qualunque cosa – nessuno di loro è abituato ad essere richiamato dal clacson di un’automobile, dannazione – perciò lo ignorano. Ma poi il clacson suona ancora, due, tre volte. Josep alza lo sguardo e borbotta un “ma chi cazzo” risentito che però si interrompe a metà, quando l’allenatore si rende conto di chi è che stia aspettando una risposta da dietro il vetro della BMW un po’ defilata lateralmente, seminascosta dall’ombra del Camp Nou.
- Uh. – dice, inumidendosi le labbra, -
Ecco perché è uscito prima.
Zlatan collega il commento a José, segue con lo sguardo l’occhiata di Josep e, al termine delle operazioni, ha voglia di scappare a gambe levate il più possibile lontano da lì. Fosse anche Milano l’unica meta disponibile, pur di non ritrovarsi nello stesso spazio in cui si trova José in questo preciso istante, ci tornerebbe.
- Temo che ti stia aspettando. – gli fa notare Max, e stavolta non ride affatto.
- Certo che in Italia gli allenatori sono ostinati. – commenta distrattamente Gerard, inclinando un po’ il capo in una posa curiosa. Zlatan vorrebbe rispondere che in realtà non è così, gli allenatori in Italia in genere non sono ostinati. Non a questo punto, almeno. È José, il problema. Come sempre, è
sempre lui il dannatissimo fottuto problema.
Si avvicina alla BMW, lasciandosi alle spalle sia lo sbuffo esasperato di Max che la risatina di Guardiola, ed anche il commento un po’ stupito di Gerard, quel “ma ci va davvero?” che in effetti esprime ad alta voce quello che anche lui sta pensando con una certa insistenza. Ci sta andando davvero, sì. Perché?
Aspetta che José abbia abbassato per metà il finestrino dal lato del passeggero, e poi lo guarda, inarcando un sopracciglio. José si sporge appena, ricambiandogli l’occhiata poco convinta. Quando Zlatan piega un po’ il capo e sbuffa, come a dire “oh,
andiamo”, nello stesso preciso istante José fa esattamente la stessa cosa, e Zlatan scoppia a ridere. José si concede solo una risatina sommessa, e non smette un secondo di guardarlo intensamente, come volesse scavargli dentro.
- Che diavolo ci fai qui, me lo spieghi? – scuote il capo Zlatan, ridacchiando ancora. Il tono della sua voce è molto più indulgente di quanto non avrebbe mai creduto possibile, e non capisce se sia un bene o un segnale di debolezza. José, comunque, tira fuori il taccuino dalla tasca interna della giacca, e lo agita un po’ a mezz’aria.
- Prendevo appunti. – risponde, prima di rimettere il taccuino al suo posto. – Non che mi sia granché divertito, a dirla tutta. Siete un tantino noiosi.
- Non c’era Leo. – risponde immediatamente Zlatan, convinto che sia quello il fulcro del problema, ma José ride amaramente, scuotendo il capo.
- Tu non brilli. – commenta, allungandosi ad aprire lo sportello dalla sua parte e spalancandolo con una spintarella decisa, così che Zlatan è costretto a farsi un po’ indietro per non essere colpito in pieno. – Leo Messi… - continua José, con aria vagamente trasognata, tornando a mettersi seduto composto e poggiando entrambe le mani sul volante, - cosa vuoi che sia Leo Messi? – chiede in uno sbuffo divertito, - È solo un uomo. Tu sei Zlatan.
- Anche io sono un uomo. – gli fa notare, appena risentito. Non ha mai capito esattamente quanto pretendesse da lui José, finché José non gli ha detto che sostituirlo era impossibile, serviva una squadra per sostituire lui da solo. Ma non è così che dovrebbero essere i calciatori, è stato questo il suo primo pensiero sul punto. Poteva sentirsi lusingato da quella frase quanto voleva, ma giocare a calcio è una questione di squadra, e lui non poteva fare squadra a sé. È anche per questo che è andato via, attese a parte, e José adesso non ha il diritto di farsi vivo apposta per ricordargli cosa si prova ad essere il centro assoluto dell’attenzione – non quando Zlatan sta faticando davvero per reinventarsi in maniera completamente diversa.
- Tu sei Zlatan. – ripete José, e Zlatan non ne è sorpreso. – Sali?
Lo svedese si volta indietro. I suoi compagni di squadra lo stanno guardando chiedendogli silenziosamente cosa intende fare. Zlatan sospira e li saluta con un cenno della mano, prendendo posto accanto a José e chiudendo celermente lo sportello, per poi perdersi nello scricchiolio delle gomme quando la macchina parte a tutta velocità verso la statale.
*
- Non voglio farmi i fatti tuoi, - dice sarcastico, mentre la strada scorre sotto i suoi occhi al di là del finestrino, - ma dal momento che sono anche fatti miei, me li faccio lo stesso: dov’è che stiamo andando? – José gli concede una risata divertita, imboccando una stradina sterrata e scarsamente illuminata. – Mi porti nel fitto del bosco, - ironizza Zlatan, aggrottando le sopracciglia in una smorfia infantile, - e poi ti approfitti della mia verginità. – e stavolta la risata di José è molto più bella, tonante, compiaciuta. Zlatan sorride a propria volta e per un secondo lo fa con spensieratezza, perché stava dimenticando quanto bello potesse essere questo suono e quanto appagante potesse essere provocarlo.
- Tanto per cominciare, vedi boschi qua intorno? – chiede José, fermando la macchina a qualche metro da una costruzione di due piani che sembra decisamente provenire dal secolo scorso, con tutti i mattoni in vista e il tetto spiovente. – E poi-
verginità? – ride ancora, e Zlatan fa un gesto con la mano, come a dire “dettagli”. – Andiamo in un bel posto. – conclude quindi José, spegnendo il motore ed uscendo dall’auto. Zlatan lo segue pochi secondi dopo, osservando la casa con curiosità. Sembra carina, ha anche i gerani alle finestre.
- È tua? – chiede, sinceramente stupito, il naso per aria e gli occhi fissi sul comignolo che spunta dal tetto come un dito puntato alle stelle.
- È un bed & breakfast. – risponde José con un’altra risata. Dal momento che ride tanto anche lui, Zlatan comincia a pensare che forse non è la sua storia con José che diverte tanto il mondo. Probabilmente è solo lui molto ridicolo. – Conosco la proprietaria da un po’. Quando eravamo giovani e avevamo voglia di starcene un po’ per conto nostro, è qui che venivamo io e Tami.
- …okay, in che misura dovrebbe lusingarmi esattamente il fatto che mi porti nello stesso posto in cui portavi tua moglie?
- Nella misura in cui – risponde secco José, salendo i gradini verso l’entrata della casa, - sto condividendo con te una cosa così profondamente intima e privata che non credo tu abbia nemmeno
idea di quanto mi costi. – si ferma di fronte alla porta, voltandosi a guardare Zlatan con aria severa. – Queste persone conoscono me, conoscono la mia famiglia. Io potevo venire qui, oggi, prendere atto del fatto che tutti i dannati alberghi della città sono assediati dai giornalisti per un mio commento sulla partita di oggi e rinunciare al proposito di stare con te. E invece ti sto portando da persone che mi conoscono e potrebbero distruggermi con mezza parola, e tutto questo perché non intendo rinunciare a te. – si prende una pausa, inspirando ed espirando profondamente. Zlatan lo guarda come lo stesse vedendo per la prima volta dopo anni, e invece sono solo un paio di mesi. Ma sono stati lunghi, lunghi davvero, quindi probabilmente il tempo è una misura relativa, e quella manciata di giorni è stata davvero una manciata di anni, per lui. – In questa misura, - conclude José, passandosi una mano fra i capelli, - in questa misura dovrebbe lusingarti, ecco.
Zlatan vorrebbe davvero avere qualcosa di intelligente da dire, ma non trova niente di adatto, perciò tace e si limita a seguire José quando suona il campanello, la porta si apre con uno scatto secco e lui avanza all’interno dell’abitazione, sorridendo sicuro. Dietro il bancone della reception – un tavolo in legno scuro, sul cui ripiano riposa un piccolo registro bianco, davanti ad una libreria dall’aria molto casalinga, con qualche vaso pieno di fiori finti qua e là – c’è un ragazzo che, appena solleva lo sguardo e capisce chi ha di fronte, impallidisce. Guarda Zlatan a lungo, boccheggiando discretamente, e poi posa gli occhi su José, deglutendo a fatica.
- Zay, - lo chiama, la gola un po’ secca che rende roca la voce, - …ciao, immagino.
José ride teneramente, sollevando una mano in segno di saluto.
- Fabio, - lo chiama, chinando un po’ il capo, - come stai? E come stanno tua madre e tua sorella?
Il ragazzo riflette un po’, prima di rispondere.
- Dormono. – decide quindi, con un sorriso un po’ imbarazzato, - Per tua fortuna.
José ride ancora, divertito.
- Già. – annuisce, - Ce l’hai una stanza libera, sì?
- Oh, sì. – risponde subito il ragazzo, prendendo a sfogliare il registro. E poi, più cautamente, aggiunge: - Anche più di una.
José sorride indulgente.
- Una basterà.
Fabio si rassegna e scrive qualche appunto veloce su una pagina bianca.
- Per quanti giorni?
José finge di rifletterci.
- Io sono libero fino a mercoledì. – annuisce, e poi si volta verso Zlatan. – Tu hai da fare?
- …no. – ammette. È la prima parola che dice da quando è entrato, e viene fuori ruvida e impacciata, fastidiosa. – Intendo, - corregge il tiro, schiarendosi la voce e grattandosi nervosamente la nuca, - ci sarebbe la Nazionale, ma non è un problema. Non davvero.
José sogghigna, tornando a voltarsi verso Fabio senza però guardarlo, preferendo concentrarsi su un punto a caso sul ripiano del tavolo: infila una mano nella tasca posteriore dei jeans e ne tira fuori il portafogli, estraendone immediatamente la carta di credito.
- Stai attento. – lo avverte, e Zlatan capisce immediatamente, dal tono della sua voce, che sta parlando con lui, - Stavolta il tuo allenatore probabilmente non sarà disponibile quanto lo sono stato io, a coprirti per l’assenza in nazionale.
- Tu non mi hai coperto. – aggrotta le sopracciglia lui, - Tu mi hai proibito di andare.
- Tu
non volevi andare.
- Questo è completamente un altro discorso.
- Sarete stanchi. – s’intromette Fabio con un sorriso che trabocca disagio, - Ho visto la partita, dev’essere stata estenuante. Se mi metti una firma qui, Zay, vi mando a letto. Magari senza per questo dover svegliare tutti, ecco, continuando a litigare così all’ingresso.
José ride a bassa voce ed allunga un braccio a scompigliargli i vaporosi riccioli neri.
- Non tirare troppo la corda, - lo rimprovera, - o dico a tua madre che sei stato scortese.
- Non tirarla tu! – lo rimbecca il ragazzo, divertito, - Potrei dire a mia madre ben di peggio, sul tuo conto!
José ride perché sa già che Fabio non dirà una parola, prende le chiavi che il ragazzo gli porge e fa cenno a Zlatan di seguirlo al piano di sopra. Lui obbedisce, e gli parla solo quando hanno terminato di salire le scale, ed è sicuro che nessuno possa sentirlo.
- Fino a mercoledì – riflette, - sono un giorno intero e due notti! Cosa cazzo ci stiamo a fare qui un giorno e due notti?
- Oh, - ghigna José, aprendo la porta di una stanza e tenendola dischiusa perché Zlatan possa entrarvi per primo, - sono sicuro che troveremo come occupare il tempo.
- Non dirlo con quel tono… - si lamenta Zlatan, schioccando la lingua, infastidito, - …allusivo. È rivoltante.
-
Ti prego. – borbotta José, chiudendosi la porta alle spalle con due giri di chiave, - Risparmiami la lezione di morale, d’accordo? Decisamente non è il momento.
- Fosse per te, non lo sarebbe mai. – sospira lui, lasciandosi ricadere seduto sul letto e saggiando sotto i polpastrelli la fresca morbidezza del copriletto in raso. – Grazie, comunque.
- Uh? Perché sto pagando io? – chiede José, sorridendo compiaciuto, - Guadagno più di te, mi sembra il minimo.
- No, non per quello, stronzo che non sei altro. – ringhia, sferzandolo con un’occhiataccia infastidita, - Per avermi portato qui. Voglio dire, ho capito cosa stavi cercando di dirmi per le scale, di fuori. E… mi lusinga, davvero.
- Ti
lusinga. – gli fa eco José, sfilando la giacca e rimanendo in maniche di camicia, - Parli come una liceale che sta per scaricare il cesso sfigato che ha osato trovare le palle di confessarle il suo amore.
- Non è così! – sbotta Zlatan, allargando le braccia in un gesto esasperato, - Cristo, perché devi sempre distorcere tutto in questo modo?! Fanculo! – si mette in piedi, muovendo qualche passo nervoso all’interno della stanza, - È insopportabile.
Sei insopportabile. Forse dovrei scaricarti davvero.
José gli si avvicina con cautela. Lo abbraccia da dietro, e respira lentamente sulla pelle del suo collo mentre Zlatan si scioglie nella sua stretta, sospirando arreso.
- L’hai fatto, in realtà. – gli ricorda, lasciando un bacio lievissimo sulla sua nuca, nella poca pelle che riesce ad emergere fra una ciocca e l’altra dei suoi capelli.
- E siamo comunque ancora qui. – commenta lui, amaramente, come se si rendesse conto solo in quel momento di quanto possa essere sfiancante la realtà.
- E ti dispiace? – chiede José, una mano che scivola lungo il suo ventre, sotto la maglietta. Zlatan scatta ad afferrarlo per il polso, bloccandolo e aggrottando le sopracciglia. Si allontana senza una parola, perché non può dire che gli dispiaccia, ma neanche di esserne felice. Vorrebbe essere meno confuso, vorrebbe che José lo confondesse di meno, ma sembrano entrambi desideri irrealizzabili. E José resta immobile nel centro della stanza, guardandolo severamente. – Perché mi hai seguito, Zlatan? – chiede secco, quasi irritato.
Zlatan si appoggia con la fronte contro la finestra. Il vetro fresco abbassa un po’ la temperatura del suo corpo – la sua pelle sembra bruciare, da quando José gli ha messo le mani addosso – e gli permette di respirare meno faticosamente, scrutando con distrazione il paesaggio scuro di fuori. Il buio si spezza appena quando un’altra macchina arriva e si ferma a qualche metro dalla BMW di José, Zlatan cerca di concentrarsi su quello, cerca di concentrarsi sui visi delle persone che occupano la vettura, ma non fa in tempo a metterli a fuoco che i fari si spengono e tutto torna scuro e irriconoscibile.
- Non lo so. – ammette a bassa voce, - Non lo so, non potevo non farlo.
- E questo non dovrebbe suggerirti qualcosa? – ipotizza José, incrociando le braccia sul petto.
- Mi suggerisce che sono molto più debole di quanto pensassi. – risponde Zlatan, voltandosi a guardarlo, - Mi suggerisce che devo crescere ancora. Mi suggerisce-
- Ti manco. – lo interrompe José. Lo dice lui perché sa che a Zlatan sarebbe servita almeno un’altra mezz’ora di sproloquio senza senso per arrivarci, e una volta che ci fosse arrivato sarebbe probabilmente crollato chiedendosi cosa abbia fatto della sua vita e perché si sia messo in un guaio simile. José non vuole vederlo crollare, tutto ciò che vuole è riaverlo per sé, ecco perché lo salva, prendendosi la responsabilità di essere lui a dire le cose come stanno, come sempre.
- …sì. – annuisce Zlatan, abbassando lo sguardo, - Mi manchi. E questo è
sbagliato.
José inarca un sopracciglio, offeso.
- Perché?
- Perché me ne sono andato! – replica Zlatan, gesticolando, - Cristo, come fai a non afferrare un concetto tanto semplice?! Sono andato via, mi sono lasciato tutto alle spalle,
tutto, vittorie, sconfitte, stress, una villa da svariati milioni, amici, conoscenti e tutto il resto, e non sono stato dannatamente in grado di lasciarmi indietro
te, e questo è
ridicolo e
assurdo e
doloroso e odio te e me stesso per questo!
José non si scompone minimamente, dopo il suo sfogo. Lo osserva respirare a fatica, il suo riflesso si sfuma sul vetro della finestra alle sue spalle e i suoi occhi sono rossi e un po’ umidi, ma non vuole piangere – sarebbe una cosa da ragazzini, sarebbe una cosa così incredibilmente sciocca!, e José lo conosce bene, sa che Zlatan si strapperebbe gli occhi dalle orbite a mani nude, piuttosto che farsi vedere in condizioni simili. Eppure lo sta facendo, gli sta sputando addosso cose che lui neanche immaginava – perché oh, c’è differenza, ce n’è eccome, fra lo sperare che la persona che ti ha abbandonato possa ancora sentire un certo trasporto nei tuoi confronti, e il renderti conto che quel trasporto c’è ancora, sì, ma gli sta spezzando il cuore – e José sa bene che Zlatan non vorrebbe dirgli niente di tutto questo, ma lo sta facendo comunque, e quale che sia il motivo probabilmente c’è semplicemente da ammettere che qui José non è l’unico che sta sacrificando qualcosa.
- Potevi restare. – gli ricorda, cercando di mantenersi freddo e razionale.
- Non era quello che volevo. – risponde immediatamente Zlatan, ricacciando indietro un singhiozzo e coprendolo con un ringhio di gola, - Io volevo andarmene, e volevo andare avanti con la mia vita. Volevo qualcosa di diverso, Milano non poteva darmelo.
- Io-
-
Neanche tu potevi darmelo. – si passa una mano sugli occhi, esausto. – José, Cristo. Perché non mi capisci?
José deglutisce a fatica, esitando appena, prima di avvicinarsi. Gli appoggia una mano sulla spalla, massaggia un po’ i muscoli rigidi sotto la maglietta e sospira.
- Zlatan. – lo chiama, e Zlatan scuote il capo. – Guardami.
- No. – risponde, pressando con più forza la mano sugli occhi, - Tu non hai idea di cosa mi fai. Non saresti mai dovuto venire qui.
- Sono venuto per la partita.
- Sei venuto perché sei uno stronzo. – ringhia lui, il volto ancora coperto, - Potevi guardare la partita e tornartene a casa. Sarebbe stato molto meglio.
- Zlatan. – ripete José, stringendo la presa sulla sua spalla, - Ho preso un dannato
aereo alla prima sosta di campionato disponibile. Ho fermato per due giorni il lavoro dei ragazzi rimasti a Milano per fiondarmi qui in tempo per vederti, cazzo, prima di dire che non ho idea di cosa ti faccio, prova a guardare un po’ al di là del tuo naso! – si interrompe, arriccia le labbra in un anticipo di risata, e poi aggiunge: - Mi rendo conto che ti sto chiedendo di guardare ad una ragguardevole distanza, ma…
- Stronzo! – lo spintona poco delicatamente Zlatan con la mano che non è impegnata a fargli da scudo nei confronti del resto dell’universo. Il tono della sua voce è cupo e offeso, ma la risata che nasce spontanea nel fondo della sua gola non riesce ad essere fermata e inghiottita prima di raggiungere le labbra e sfuggirne, rassicurando José e convincendolo a lasciarsi andare ad un sorriso meno teso.
Zlatan si appoggia al davanzale della finestra. Il respiro che lascia andare è così profondo da dare l’impressione di lasciarlo senza neanche una molecola d’aria in corpo, completamente sgonfio.
- Puoi guardarmi, adesso? – chiede a bassa voce José, sporgendosi un po’ per sfiorargli la guancia in un bacio leggero.
- Non ne sono ancora sicuro. – risponde Zlatan con un mezzo sorriso, ma abbassa la mano, anche se non solleva gli occhi nei suoi. – Non pensavo che sarebbe andata così. – dice quindi, - Ovviamente immaginavo che ci saremmo rivisti e non sarebbe stato semplice, ma questo… cavolo. È molto più difficile del previsto.
- Potrebbe essere più semplice. – replica José, asciutto, e Zlatan lascia andare una risatina disillusa.
- No, non potrebbe. – risponde sicuro, - Tu continui ad essere convinto di poter risolvere tutto in base a chissà che decreto divino. Tu sei convinto che ti basti parlare di qualcosa per sistemare qualsiasi problema. Non è così, io vivo in un altro mondo, adesso. Quello che c’era non può tornare. – solleva lo sguardo e lo fissa a lungo, José ha l’impressione che Zlatan stia cercando di prendergli le misure per riacquistare familiarità con la sua figura. Si ritrova a chiedersi se sia possibile che, da qualche parte nel corso degli ultimi due mesi, Zlatan sia effettivamente riuscito a dimenticarlo. Si chiede se sia possibile che il suo piombargli all’improvviso fra capo e collo possa averlo destabilizzato al punto da non capire davvero più nulla – si chiede, per la prima volta da che è al mondo, se non abbia sbagliato. Se non abbia scelto troppo avventatamente, quando s’è trattato di decidere se andare a trovarlo o meno. Si chiede se non sia stato più egoista che maturo, si chiede se sia stato giusto. Si chiede cosa ci fa lì in quel momento.
- Non dirlo. – sibila, e Zlatan si rimette dritto, sottraendosi alla sua stretta.
- Ho bisogno di una boccata d’aria. – esala, allontanandosi di qualche passo guardandolo negli occhi, prima di rassegnarsi a dargli le spalle e tirare un paio di volte la porta verso di sé, senza ricordarsi che è chiusa a chiave. Quando lo realizza, deglutisce e pensa che José non sta approfittando di quest’incertezza per avvicinarsi e cercare di trattenerlo. Gira la chiave e si chiude la porta alle spalle.
La luce nel corridoio è fioca e giallastra. È tutto molto quieto e, in un primo momento, Zlatan coglie solo di sfuggita i due corpi avvinghiati contro una porta, tanto stretti da sembrare un’unica ombra. Quando, però, uno dei due sbotta un “merda” terrorizzato, Zlatan si volta e cerca di metterli a fuoco più distintamente. Ed allora risulta incredibilmente semplice riconoscerli.
- Mister. – boccheggia sconvolto, nel lasciar scivolare lo sguardo prima sul proprio allenatore e poi su Bojan, ancora stretto a lui, le labbra rosse e gonfie ed il segno evidente di un succhiotto appena sotto l’orecchio destro. – Boji.
Josep ansima faticosamente, stringendo possessivo le mani attorno ai fianchi di Bojan. Non sembrano intenzionati a separarsi, e se da un lato questo porta Zlatan a chiedersi cosa diavolo abbiano intenzione di fare, dall’altro, riflettendoci, anche lui capisce che non potrebbero fare nient’altro.
La porta alle sue spalle si apre lentamente, seguita da un sospiro stremato. Ha appena il tempo di realizzare che José sta uscendo dalla stanza per venirlo a cercare, che è costretto a fronteggiare un fatto ben più grave – José sta per vedere ciò che sta vedendo anche lui, e questo è molto probabilmente ben più di quanto Guardiola fosse intenzionato a lasciargli intuire della sua squadra, prima della partita del sedici. Zlatan vorrebbe sentirsi in grado di provare una qualche spinta protettiva nei confronti dei due uomini che si stringono a qualche metro da lui, ma non ci riesce.
Poi realizza che c’è qualcosa di ancora più grave perfino di questo: al di là di quanto possa vedere adesso José, c’è quello che invece potrà intuire Guardiola. E se la segretezza di una relazione passata può permettersi di sfociare in una bonaria consapevolezza all’interno di uno spogliatoio unito qual è quello dell’Inter a Milano, lo stesso non si può dire di ciò che potrebbe pensare il suo nuovo allenatore trovandolo in compagnia del suo ex in un bed & breakfast solitario subito dopo una partita di campionato.
- Oh. – dice la voce liscia e sicura di José, la mano ancora sulla maniglia e solo un piede oltre la soglia della porta. – Ho dovuto fare meno strada del previsto.
Josep si allontana da Bojan e il ragazzo si appoggia alla parete, probabilmente per non cadere a terra.
- Che situazione curiosa. – commenta divertito José, avanzando fino a sistemarsi al fianco di Zlatan e girargli un braccio attorno alla vita, traendolo possessivamente verso di sé. – Bella serata, mh?
Josep serra le labbra e Bojan distoglie lo sguardo, imbarazzato oltre il sopportabile. A Zlatan viene voglia di prendere José a pugni fino a fargli dimenticare come si chiama, perché si trova lì e perfino come si organizza un discorso di senso compiuto, ma le sue dita tozze chiuse con forza sulla sua pelle gli tolgono il respiro in modi che non riesce nemmeno a capire. Non sa se sia perché lo sta toccando o perché sa perfettamente che l’atteggiamento sbruffone e indisponente di José è, come sempre, una tattica di protezione nei confronti di ciò che ha di più caro – lo usa con tutti coloro cui tiene, con la sua famiglia, con la sua squadra, con lui – sa solo che al momento lo trova intollerabile, che gli dispiace vedere Josep e Bojan comportarsi così
colpevolmente quando lui stesso non si sente meno colpevole, quando sa che anche José dovrebbe sentirsi colpevole allo stesso modo. Ma non dice una parola, resta immobile al fianco di José ed osserva Guardiola borbottare qualcosa di incomprensibile mentre Bojan si copre il viso con entrambe le mani.
- Coraggio, coraggio. – sorride José, allungandosi a sfiorare la spalla del ragazzo in un gesto paterno e rassicurante, - Può capitare. Non deve necessariamente uscire da queste quattro mura. – aggiunge comprensivo, e il sottotesto minaccioso delle sue parole è tanto chiaro da non aver bisogno di sottotitoli:
una sola parola su me e Zlatan, e presto il mondo intero saprà chi si porta a letto la stellina appena maggiorenne del Barça.
Bojan non ricambia il suo sguardo ed anzi, sotto il suo tocco, si irrigidisce e si allontana impercettibilmente, come José scottasse. Probabilmente è solo l’imbarazzo a renderlo elettrico. Zlatan vorrebbe – non lo sa nemmeno lui. Abbracciarlo, probabilmente, come ha fatto con Davide quella volta che suo nonno è stato male e loro erano in ritiro e lui non poteva muoversi neanche per questioni di vita o di morte. O come ha fatto con Mario quando la convocazione per la Nazionale – che aspettava con l’eccitazione di un bambino a Natale, la sua stessa attesa, quella che non riusciva più a ritrovare, dipinta nei suoi occhi neri come il carbone – non è arrivata a lui ma al suo migliore amico. Ricorda le lacrime soffocate di Davide, quei suoi terribili “cosa faccio se muore, come faccio se muore?”, e ricorda anche le lacrime di Mario, profondamente diverse, quasi animalesche, ringhianti e furiose mentre si appendeva con entrambe le mani alla sua maglietta, tirandola spasmodicamente, e la sua tristezza priva di possibilità di sfogo, perché per quanto potesse essere deluso non riusciva neanche a prendersela con il suo Dade.
Gli fa male pensare che, se si fosse trattato di Mario o di Davide – se si fosse trattato della
sua squadra – nemmeno la stretta di José sarebbe bastata a fermarlo. Se ne sarebbe liberato e sarebbe corso a stringerli, e l’avrebbe fatto serenamente, perché José avrebbe capito e l’avrebbe perdonato. Adesso è diverso, non sente la stessa spinta nei confronti di Bojan. Vorrebbe poterla sentire, vorrebbe – dannazione – poter dire “sono a casa”, finalmente, ma tutto ciò che riesce ad associare alla parola
casa è la sua stanza con Adri – e poi con nessun altro – in Pinetina, l’appartamento a Milano, via Montenapoleone, il Duomo che poteva sempre incrociare solo di sfuggita, tali erano i rischi che poteva correre nel caso qualcuno lo riconoscesse e si mettesse ad urlare in mezzo alla piazza che c’era Zlatan Ibrahimović lì a passeggiare come niente fosse, perfino la villa in ristrutturazione in cui non ha mai nemmeno messo piede sembra più casa di Barcellona. E casa di José, naturalmente, le decine di stanze di villa Ratti e le decine di volte in cui lui, Helena e i bambini si sono fermati a dormire lì dopo una giornata passata tra piscina e salotto. E le decine di volte in cui è scivolato fuori dal letto, nella stanza degli ospiti, ed uscendo in corridoio ci ha trovato José. E i suoi baci, le sue carezze, il modo spiccio e rude che aveva di tirarlo verso la prima stanza disponibile per scopare.
Questo è tutto quello che riesce a realizzare quando pensa a casa, e quindi la spinta per abbracciare Bojan in questa situazione non arriva. E se anche arrivasse, Zlatan non è sicuro che non la lascerebbe spegnersi per paura di non ottenere da José la stessa comprensione che gli avrebbe riservato se, al posto di Bojan, ci fosse stato Mario o Davide.
- Io… - comincia Josep, ma è stato in silenzio così a lungo che la voce esce fuori roca e spiacevole. La schiarisce con due colpetti di tosse, prima di ricominciare. – Io penso che si possa risolvere questa questione in modo amichevole, mister Mourinho. – azzarda, e lo fa col tono di voce e con lo sguardo di chi sta chiaramente pensando “
quello che vuoi. Dimmi ciò che vuoi e sarà tuo, purché tu tenga la bocca chiusa”. E per un secondo Zlatan ha davvero paura che la risposta di José potrebbe essere
“ridatemelo”.
- Ma non c’è niente da risolvere. – lo tranquillizza invece José con un sorriso spaventoso, - Io sono a posto così, se anche lei è a posto così. Non sprechiamo ulteriore tempo prezioso in questioni così sciocche, vuole?
Josep annuisce e passa un braccio sopra le spalle di Bojan, attirandolo verso di sé e dandogli modo di nascondere il viso nell’incavo del suo collo, stringendogli forte la maglia all’altezza del petto. Zlatan si aspetterebbe quasi di vederli entrare nella stanza di fronte alla loro, come non fosse successo niente, e invece Josep si volta e conduce Bojan lungo il corridoio, verso le scale, per scendere al piano di sotto ed abbandonare il bed & breakfast.
José schiocca la lingua, sbuffando appena.
- Mi spiace per loro. Che sfortuna, poi, scegliere lo stesso posto che ho scelto io. – e poi tira Zlatan verso la stanza in un gesto spiccio così tipico di lui che a Zlatan viene quasi voglia di sorridere. – Vedi, se non fossi uscito, tutto questo non sarebbe successo.
- Perché non mi sembri stupito? – chiede, seguendolo in camera ed osservandolo chiudere di nuovo la porta a chiave.
- Perché dovrei esserlo? – rimbecca José, sfilando la chiave dalla serratura e infilandosela nella tasca posteriore dei jeans, per ogni evenienza.
Zlatan indica la porta con aria allucinata.
- Il mio allenatore ed uno dei miei compagni di squadra stavano praticamente per scopare in corridoio. Secondo te perché dovresti essere stupito?
José inarca un sopracciglio e lo guarda, dubbioso.
- Devo ricordarti in quanti corridoi abbiamo scopato noi nel corso dell’anno che abbiamo trascorso insieme a Milano? – chiede ironico, e Zlatan lo manda a fanculo, irritato.
- Noi siamo una cosa diversa! – cerca di spiegarsi, - Insomma, non credevo che qualcun altro-
- Credi anche tu alla favoletta di Lippi? Niente omosessualità nel calcio?
Andiamo, Zlatan. Cosa credevi di essere, una specie di unico esponente della razza dei calciatori bisessuali? Che guarda caso aveva trovato l’unico esponente della razza degli allenatori bisessuali col quale scopare in santa pace?
Ti prego. Oltretutto, – aggiunge divertito, - devo dire che la tua perspicacia è rimasta agli stessi bassissimi livelli cui si trovava mentre stavi all’Inter. Andiamo, che quei due avessero una storia era evidente perfino a me che non li conoscevo.
- Ma che… - annaspa Zlatan, scioccato, - Prima di tutto, evidente un cazzo!
- Ma dai! – rimbecca José, sfilando la giacca e lasciandola ricadere morbidamente ai piedi del letto, - Non hai visto come se lo coccola quando è in panchina? Sono gesti molto teneri.
- Paterni! – specifica Zlatan, e José ride.
- Be’, come hai potuto osservare poco fa, mica poi tanto. E comunque-
-
E comunque lo dico io! – riprende Zlatan, osservandolo sciogliere un paio di bottoni della camicia con naturalezza quasi disturbante, - Che cosa vorrebbe dire quel discorso sulla perspicacia?
José scrolla le spalle, terminando di sciogliere i bottoni della camicia e sfilandola lentamente, per poi appoggiarla con cura sullo schienale dell’unica sedia presente in camera.
- Che non mi stupisce che tu non ti sia accorto di cosa c’era fra Guardiola e quel ragazzo, considerando che non ti sei mai reso conto della più evidente relazione omosessuale che ti passava sotto gli occhi dentro lo spogliatoio.
- Che…? – biascica Zlatan, spalancando gli occhi, - Ma di chi stai parlando?
- Mi dispiace, - ride José, - ma decisamente non sono più fatti tuoi. – gli dice, sapendo di fargli male, mentre sfibbia la cintura e la lascia sfilare lenta fra i passanti dei jeans, prima di arrotolarla e posarla sulla sedia. – Posso solo dirti che il signor Lippi sarebbe stupito di scoprire quanto bene possa funzionare sul campo e fuori una coppia omosessuale, in barba alle sue opinioni sull’equilibrio dello spogliatoio.
Zlatan boccheggia per qualche secondo come un pesce fuori dalla propria boccia, e poi si passa una mano sugli occhi, in tempo per evitare di guardare José che sfila i jeans e li piega sommariamente, riponendo anche loro sulla sedia e restando in boxer.
- Non sono sicuro di aver capito, ma se ho capito non voglio saperlo. – biascica. Poi sente due dita afferrarlo delicatamente per il mento e sospingerlo verso l’alto. Se ne lascia guidare, mordendosi il labbro inferiore mentre i suoi occhi scorrono su tutta la superficie del corpo di José, prima di terminare la loro corsa sul suo viso. – Perché lo stai facendo? – chiede a bassa voce.
- Cosa? – chiede a propria volta José, inclinando il capo, un po’ stupito.
- Spogliarti. – precisa Zlatan, - Potrei chiederti le chiavi e dirti che non ho la benché minima voglia di venire a letto con te. Non guardarmi così, - si lamenta, aggrottando le sopracciglia quando scopre una sfumatura ironica nel brillio che rende scintillanti gli occhi scuri di José, - la possibilità c’è! E tu invece-
- Zlatan. – lo interrompe José, poggiando entrambe le mani sui suoi zigomi e stringendo la presa abbastanza da zittirlo ma non tanto da fargli male, - Ma tu davvero credi che io sia venuto fino a qui pensando che questa fosse una possibilità concreta?
Zlatan lo fissa con disappunto, cercando di liberarsi dalla presa – con poca convinzione, in realtà.
- Poteva accadere. – insiste, - Può accadere ancora.
- Se fosse stato possibile, non mi sarei mai mosso. Non ho abbastanza pazienza per sopportare altri no, Zlatan.
- Potrei dirtelo, adesso.
- No, non potresti.
- E cosa te lo fa pensare?! – quasi urla, esasperato, scattando in piedi e liberandosi, - Cosa, fra tutto ciò che ho detto da quando sono qui, ti ha fatto pensare che io potessi essere ancora innamorato di te?! Dimmelo! Così avrò cura di non ripeterlo in futuro, e risolverò il problema alla radice!
José lo guarda curioso, in silenzio, per qualche secondo.
- Non ho ascoltato nemmeno una delle tue dichiarazioni, da quando sei qui. – dice alla fine, - Semplicemente, i tempi erano maturi. – e poi sorride con indulgenza, sollevando una mano a sfiorargli una guancia. – Se pensi di aver detto qualcosa di fraintendibile, forse dovresti ripeterla adesso. Magari non era solo fraintendibile. Magari era esattamente quello che volevi dire, tutto qua.
Zlatan però non dice niente. E non dice niente perché, se ripercorre con la memoria tutte le dichiarazioni che ha rilasciato ultimamente, gli sembrano tutte dichiarazioni d’amore, senza eccezione alcuna. E questo lo disturba, e non vuole che José lo sappia, perciò si china e lo bacia lievemente sulle labbra, perché alla fine l’unica cosa che vuole far sapere a José – l’unica cosa che conti davvero – è quella. Che ha ragione, che c’è ancora qualcosa, che no, non può stargli lontano, che gli è grato per essere venuto a trovarlo, che vorrebbe poter restare con lui per sempre, che il solo pensiero di vederlo tornare a Milano fra un paio di giorni lo distrugge, e cerca di mettere tutto nel bacio che gli appoggia sulle labbra. Solo che un bacio tanto infantile e asciutto non è abbastanza per far passare nulla di tutto questo, e quindi è José a pretendere di più. È José che lo afferra per la nuca e se lo tira contro, obbligandolo a schiudere le labbra con la propria lingua ed assaggiandolo lento, con affetto e un pizzico di soddisfazione, mentre lo sospinge dolcemente verso il letto. Zlatan si lascia guidare, si lascia adagiare fra le lenzuola come fosse troppo stanco per combattere ancora, ed è nel momento in cui José scende lungo il suo petto e gli respira addosso attraverso il cotone sottile della maglietta già umida di sudore, che Zlatan capisce che non è “come se” fosse troppo stanco per opporsi, lui lo è e basta. È stanco di dire no, è stanco di
dirsi no, è stanco di scappare ed è stanco anche di aspettare.
Solleva il bacino per agevolare i movimenti di José. Le sue mani scorrono abili e leste lungo i suoi fianchi, ne seguono la linea dritta disegnata dai muscoli ed afferrano delicatamente i jeans, lasciandoli scivolare verso il basso in una carezza che somiglia a una tortura. Ansima con forza, chiudendo gli occhi e schiudendo le labbra, mentre solleva una mano ad arpionare José dietro la nuca nello stesso preciso istante in cui le sue labbra si chiudono addosso ad un suo capezzolo, stringendo e accarezzando e succhiando con la solita calma – ed è strano pensare in questi termini, “le solite cose” erano le cose che più credeva di odiare, una routine consolidata, noiosa e immobile e inflessibile, che non si sentiva più in grado di tollerare, e invece ora che José lo bacia e lo sfiora ovunque a Zlatan fa piacere ritrovare lo stesso identico sapore, lo stesso identico ritmo, le stesse identiche sensazioni.
Realizza che non si era mai veramente stancato di José, mentre lui si sistema fra le sue gambe ed accarezza la sua erezione, guardandolo dall’alto come fosse un’opera d’arte. Non riesce più a ricordare di cosa fosse stanco con esattezza, quando José sfiora con due dita il profilo del suo volto. Zlatan schiude gli occhi e cerca quelli di José, e non li trova perché sono persi da qualche parte fra la linea dritta del suo collo e quella curva della sua spalla, e scendono giù lungo il braccio, fanno la conta dei tatuaggi per vedere se c’è qualcosa di nuovo, e si illuminano di un sorriso che sulle sue labbra non affiora quando si rendono conto che non è cambiato niente, è tutto uguale a due mesi prima. È arrivato in tempo, è arrivato in tempo per impedirgli di perdersi, per impedirsi di perderlo.
Gli ricambia lo sguardo solo quando le sue dita, seguendo la curva del mento, si appoggiano lievissime sulle sue labbra, in una richiesta muta. Zlatan obbedisce senza pensarci, lasciando scivolare la propria lingua sulle falangi di José e godendo del suo mugolio un po’ stupito e un po’ compiaciuto, prima di lasciarlo andare e seguire il movimento di quelle stesse dita mentre tracciano una scia umida di saliva lungo il suo petto, il suo ventre e il suo fianco. E quando le perde di vista chiude gli occhi e stringe i denti, solleva ancora il bacino puntando i piedi sul materasso e la sensazione successiva che percepisce somiglia al ricordo di un sogno che non s’è mai sbiadito, nella sua memoria. Quella sensazione di pienezza mista al desiderio di avere di più lo confonde e lo eccita, ed è meglio dei dolcetti di papà, è meglio della torta di mamma ed è meglio anche dei regali di Natale: è l’attesa di José che continua a dargli sempre le stesse sensazioni. Perché potrà essere una stella ed avere assicurato il posto in campo, e potrà avere tutti i gol che vuole, potrà giocare con tutti i fuoriclasse che stima, sono cose che s’è guadagnato col talento, con l’età e con l’esperienza, e a meno di trovare il modo di viaggiare indietro nel tempo e tornare nel Malmö BI nulla potrà ridargli la sensazione di incertezza che provava quando aveva otto anni e non era sicuro che il mister lo chiamasse né tantomeno sapeva cosa gli sarebbe toccato fare nel caso in cui il mister l’avesse chiamato – ma oh,
José resta l’unica incognita fissa nella sua vita, il modo che ha di guardarlo senza che Zlatan possa riuscire a decifrare se lo stia studiando o stia cercando di sedurlo, il modo che ha di toccarlo, come fosse una cosa propria ma non volesse trattenerlo per non imprigionarlo, il modo che ha di spingersi con forza contro e dentro di lui per ricordargli che anche se non lo stringe fino a soffocarlo, anche se lo lascia volare via, c’è solo una cosa per la quale varrà la pena di lottare per sempre, e quella cosa è lui.
*
José sta riscrivendo con un dito il nome di Maximilian sul suo braccio. Segue il contorno delle lettere vagamente gotiche che scendono giù lungo il bicipite, fino al gomito, e aggiunge ghirigori di tanto in tanto – quando gli sembra di non aver insistito abbastanza su un determinato centimetro di pelle, ad esempio. Zlatan crede che José non voglia ripartire finché non si sarà impresso sulle mani la forma di ogni singolo angolo ed ogni singola curva del suo corpo. Continuando di questo passo, però, non sarà l’unico a restare con una traccia addosso – sarà lo stesso per Zlatan, che probabilmente si porterà dietro il peso della pressione dei suoi polpastrelli per molti mesi, anche dopo che José sarà tornato a Milano.
- Non ti perdonerò mai per essere uscito dallo stadio prima della fine della partita. – dice guardando il soffitto. S’è sistemato così comodamente nell’incavo del suo collo che ha quasi l’impressione di esserci nato, in questa posizione. – Ti sei perso il mio primo gol al Barça.
- Ma non mi dire, - ride José, spostandosi a giocare in punta di dita sul disegno tribale che copre la spalla, - hai segnato? – Zlatan annuisce, trovando perfino il coraggio di mettere su un mezzo broncio offeso, e José ride ancora. – E com’è stato questo gol? – chiede a bassa voce. Il suo respiro agita appena i capelli sul suo collo, Zlatan ha i brividi ovunque.
- Mmh. – commenta con una scrollatina di spalle, - Diciamo che è stato meglio se non l’hai visto, forse.
- E allora con che faccia tosta ti arrabbi? – rimbrotta lui, dandogli uno schiaffetto lieve sulla fronte, - Dinamica?
- La palla è arrivata, - spiega Zlatan, - diciamo in modo rocambolesco.
-
Diciamo?
- Sì, be’, - biascica, adesso vagamente imbarazzato, - diciamo che non è stato proprio un passaggio pulito pulito. C’era di mezzo la testa di uno del Gijon, non so, non c’ho fatto molto caso, in realtà. – aspetta che l’ennesima risata divertita di José torni a spegnersi, prima di continuare. – E poi niente, mi sono buttato in avanti e ho sperato di prenderla. E l’ho presa.
- Normale amministrazione, quindi. – lo prende in giro con un ghigno che Zlatan non vede ma intuisce perfettamente nel tono della sua voce. Risponde con una gomitata nelle costole, neanche troppo gentile, e sbuffa teatralmente, fra le risate di José che non sembrano intenzionate a fermarsi neanche a causa del dolore. – Scusa, scusa. – gli dice, quando finalmente la pianta di ridacchiare, - Ascolta. C’è una cosa che non ho avuto il tempo di dirti, quando sei andato via.
- Non hai avuto
il tempo? – sbotta Zlatan, piegando indietro la testa e guardandolo da sotto in su, - Ci ho messo tipo due settimane ad andarmene!
- Già. – annuisce José con un’altra risata, stavolta un po’ amara, - Io ce ne ho messe tre per venirci a patti. – confessa, e Zlatan serra le labbra e smette di guardarlo. José, comunque, non smette di parlare. – Ci ho messo un po’ a capirlo, perciò non potevo dirtelo subito. E dirtelo al telefono sarebbe stato assurdo. Comunque il punto della questione è che non deve per forza cambiare
tutto, Zlatan. Ci siamo un po’ persi perché ci siamo… come convinti che vederti cambiare squadra sarebbe stata una specie di fine del mondo. Di quelle piccole, che sconvolgono solo gruppi ristretti di persone, ed alle quali nessuno su grande scala bada. Il nostro piccolo Armageddon personale.
- E invece non lo era? – chiede, e la voce esce fuori con difficoltà, perché un po’ ci spera ancora. Un po’ – è assurdo, ma ci spera davvero – spera che José adesso gli dica “sì, va tutto di merda, è un’apocalisse di proporzioni devastanti, stiamo giocando male, abbiamo bisogno di te. Torna a Milano con me”. E lui partirebbe, cazzo. A costo di mettersi a litigare col presidente in persona e farsi tirare fuori dalla rosa fino a dicembre, dannazione, troverebbe un modo per tornare a Milano. Lo troverebbe lui o convincerebbe Mino a trovarlo, o in qualche altro modo
comunque risolverebbe la questione, perché se ripensa alle attese adesso che sta fra le braccia di José non è poi davvero tanto sicuro di sentirne così tanto la mancanza.
Sa che non è possibile, però.
- No, non lo era. – risponde José con naturalezza, - Stiamo giocando bene. Abbiamo faticato un po’ a trovare il ritmo, sai?, ma alla fine ce l’abbiamo fatta. Non so se hai visto il derby, ma-
- L’ho visto. – sospira lui. – Siete stati grandi.
José ride piano.
- Avevi detto di non passare tanto tempo davanti alla tv.
Zlatan torna a guardarlo da sotto in su.
- E tu avevi detto di non aver ascoltato neanche una mia dichiarazione, da quando sto qui.
Ridono entrambi, contemporaneamente, rotolando un po’ sul letto e scombinando tutte le lenzuola.
- Comunque non l’ho vista in tv. – precisa Zlatan, ridendo ancora mentre José torna a scrivergli cose sul braccio, - L’ho vista al pc. E non hai idea di che fatica sia stata trovare un dannato streaming funzionante.
*
Le ultime parole di José, prima di salire sull’aereo per Milano, sono state “Al prossimo giro vieni tu, io sono troppo vecchio per queste sfacchinate mordi e fuggi, anche se quello che mordo mi piace”. Zlatan ha risposto tirandogli una spinta spalla contro spalla e promettendogli che la prossima volta non solo sarà lui ad andare a Milano, ma sarà anche lui a mordere. José ha fatto un sorriso storto e poi se n’è andato, e Zlatan si ritrova ad imitare quello stesso identico sorriso mentre raccoglie gli scarpini e un po’ di roba dalla quale non si separa mai all’interno del borsone. Fra un paio d’ore ha il volo per Stoccolma e naturalmente è in ritardo. Lagerbäck già lo odia perché ha chiesto di potersi presentare un giorno dopo a causa di un fantomatico dolore al ginocchio che, per via dei suoi precedenti, non è stato preso granché sul serio, e quindi appena metterà piede sul suolo svedese comincerà a sentire urla che non si esauriranno fino alla fine di questo turno di qualificazioni.
Sospira pesantemente, passandosi una mano fra i capelli e districando qualche nodo all’altezza delle punte. Sono troppo lunghi e da quando è a Barcellona non li ha lisciati nemmeno una volta, li ha sempre lasciati liberi di andare un po’ dove volevano, ma probabilmente è arrivato il momento di tagliarli. Lo segna sulla lista come prima cosa da fare una volta tornato in patria, Lagerbäck o meno.
Il lieve colpetto di tosse che lo coglie all’improvviso alle spalle lo costringe a girarsi di scatto, tirandosi un po’ i capelli nel movimento.
- Ahi… - si lamenta, liberando la mano dall’intreccio di boccoli all’altezza del collo, - Boji? – chiede quindi, un po’ incerto. Il ragazzo non lo guarda, resta lì a qualche metro da lui e fa fatica perfino a rimanere fermo, tanto è nervoso. Continua a spostare il peso da un piede all’altro, come non riuscisse a trovare pace. Zlatan sospira: Guardiola l’ha ignorato per tutto il giorno e la situazione s’è fatta pesante. È un bene che debba partire per gli impegni in Nazionale: se tutto va come deve, per il momento in cui sarà tornato, tutta questa faccenda se la saranno lasciata entrambi alle spalle. – Bojan, ti prego, non fare così. È già abbastanza imbarazzante anche evitando queste scene, ti pare?
Lui risponde con un sorriso minuscolo, avanzando di qualche passo e poi, finalmente, guardandolo.
- Pep non sa che sono qui… - mormora incerto, - Voglio dire, l’ha presa male, è molto preoccupato e- - Zlatan lo interrompe con una risata tonante, riprendendo a sistemare la propria roba nel borsone come niente fosse stato. Bojan inarca un sopracciglio ed arriccia le labbra in una smorfia infantile ed offesa. Zlatan lo ferma prima ancora che possa parlare.
- È tutto ok, Boji. – sorride, chiudendo il borsone ed avvicinandoglisi. Gli lascia passare un braccio attorno alle spalle, se lo tira contro e gli scompiglia i capelli, teneramente. – José non dirà una parola, garantisco io per lui. Di’ al mister di stare tranquillo.
Bojan ridacchia, un po’ imbarazzato, e poi solleva lo sguardo mentre, ancora abbracciati, si muovono insieme verso l’uscita dello spogliatoio.
- Sai che è la prima volta che lo chiami mister? – gli chiede. Zlatan sorride, guardando il cielo terso di Spagna non appena si ritrovano all’aria aperta.
- Davvero? – gli scompiglia ancora i capelli, inspirando ed espirando profondamente, - Non me n’ero accorto.