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- E Matthew è veramente entusiasta di questo progetto. – disse Tom, accavallando le gambe e incrociando le mani sul ventre, accomodandosi meglio sulla poltrona, - È da quando gliel’ho detto che non fa che prendere appunti.
- Non trovo neanche le parole per scusarmi. – sbuffò Alex, passandosi una mano sulla fronte, - È allucinante che io non sia ancora riuscita a parlarne con Brian, ma è già stato abbastanza drammatico annunciargli che avrebbe lavorato anche per tutto agosto… ha strillato così tanto che non sono proprio
fisicamente riuscita a dirgli di Matt…
- Be’, - ridacchiò il manager dei Muse, - farai meglio a sbrigarti… Matt delira da giorni, dicendo di aver già pensato alla Canzone Perfetta per lui… non riesco più a trattenerlo, è eccitato come un bambino…
- Ma sì, sì, lo so, infatti ho detto a Bri di passare di qua appena finisce in sala prove… così posso dirglielo subito… Comunque non è che non lo capisca, eh? In fondo è un uomo adulto, ha una propria vita privata… che forse, a causa degli impegni di lavoro, è in pausa da un po’ troppo tempo…
Tom fece una smorfia, annuendo comprensivo.
- Non si è ancora ripreso da tutta la storia con Helena, vero?
- Non ha avuto il tempo materiale per riprendersi, Tom. Ha avuto troppe altre cose a cui pensare. Il tour non s’è fermato un attimo, i photoshooting e le interviste si sono susseguiti a ritmi disumani. E questo probabilmente è stato anche a causa mia…
- Sei sicura che questa collaborazione sia un’idea saggia…? – accennò Tom, vagamente preoccupato.
- Saggia o no, - sospirò Alex, - è stata un’idea della Virgin. Abbiamo un contratto da onorare.
Tom annuì lentamente.
- È solo che… - continuò Alex in un sospiro, - Brian non sta affatto bene… emotivamente, intendo… e non è più un ragazzino, il suo entusiasmo non è più così facile da accendere, ed ho paura…
- …che non regga?
Anche Alex annuì, sorridendo tristemente.
- Avanti, adesso… - la rassicurò Tom, sporgendosi verso di lei e dandole qualche amichevole pacca sulla spalla, - L’hai detto tu stessa, Brian è un uomo, ormai… se la caverà…
- Ah, be’, di questo sono sicura, ha superato anche di peggio… Ma ogni tanto mi piacerebbe che riuscisse a riacquistare quella… quella predisposizione al sorriso, al divertimento, che aveva quand’era più giovane…
- Credimi: se anche tu lavorassi con tre trentenni che si fingono adolescenti, non la penseresti così. – ironizzò l’uomo, ed Alex rise. – Dai, magari appena saprà di Matt sarà entusiasta e tutte le tue paure svaniranno in un soffio.
- Tom… - sbottò Alex, sarcastica, - Brian
odia Matthew Bellamy…
- Ma come?! – esclamò lui, stupito, - Non ha ancora superato neanche questo?!
Alex ridacchiò, coprendosi la bocca con una mano.
- Per certe cose è ancora un bambino. – spiegò, - Non cambia mai.
LABYRINTH
Now everything is reflection
as I make my way through this labyrinth
and my sense of direction
is lost like the sound of my steps
Non è una questione di gelosia. È una questione di fastidio fisico. Di incompatibilità. Di intolleranza.
Ritengo Matthew Bellamy un idiota, ecco perché non voglio lavorare con lui.
- Avanti, Brian…
Odio quando Alex usa quel tono. Sottintende uno spiacevolissimo “cresci, una buona volta”, che personalmente trovo davvero inopportuno ed offensivo, dal momento che è prerogativa delle persone adulte odiare gli altri esseri umani. I bambini giocano con chiunque, perfino se puzza. Gli adulti, invece, hanno tutto il diritto di decidere con chi preferiscono giocare e con chi no.
- In fondo è solo un mese…
- Sì. – replico infastidito, - Un mese che mi porterà alla pazzia. E sappi che, se io affondo, tu affonderai con me.
Lei incrocia le braccia sul petto, arriccia le labbra e solleva un sopracciglio. È l’espressione che dice “Brian…”, strascicando le vocali e lasciandolo sospeso. Un rimprovero a metà.
Ok, magari me stesso in versione checca isterica e ironica in questo caso non serve a niente.
- Alex…
Proviamo con la versione uomo affranto, esasperato e prossimo al crollo.
La più simile a me stesso che possa tirar fuori al momento.
- Sono stanco. Veramente. Pensavo di prendere il primo aereo per Parigi, sabato, chiudermi da qualche parte e guardare orribili film francesi fino a settembre… o fino ad esaurimento. Sapere che mi tocca restare per tutto agosto già mi uccide,
perché devi anche resuscitarmi ed uccidermi di nuovo con Matthew Bellamy?
- Brian…
Eccolo che arriva.
- Il tuo lavoro di agosto
è Matthew Bellamy. Se togliamo lui dalla scaletta, tanto vale che tu vada a Parigi a stordirti di Daniel Auteuil.
- Ecco, perfetto, problema risolto!
- Brian, la Virgin-
- Faccio guadagnare alla Virgin tanti di quei soldi ogni anno, che penso possa concedermi una pausa di quindi giorni, ogni tanto! Sono stanco, sono
sfinito, sono depresso e voglio stare solo!
- Stare solo non ti farà bene, Brian… magari incontrare persone nuove-
- Oh, no! Non provarci nemmeno! Bellamy
non è una persona nuova! È una vecchissima conoscenza!
- Oh, andiamo, non sai niente di lui..
- So tutto ciò che mi interessa sapere, ovvero che di lui non mi interessa sapere nulla.
Picchietta con due dita sull’interno del gomito.
- Molto maturo da parte tua.
Non mi interessa essere maturo. Non adesso.
…vorrei dirlo davvero.
Vorrei strillare ancora, prendere a calci qualcosa, mollare tutto e fuggire sul serio.
Ma so già che non farò niente di tutto questo. Brian Molko non si tira
mai indietro, di fronte al lavoro.
Mi passo una mano sugli occhi.
- Speravo che avrei potuto cominciare a pensare a qualcosa per il mio progetto solista, prima che ci mettessimo al lavoro sul nuovo album… - mi lamento, sospirando pesantemente.
Alex sorride soddisfatta: sa che ho già ceduto.
- Bene, allora sei fortunato! – commenta allegra, - Matthew Bellamy sarà il tuo progetto solista!
*- Matthew, puoi smetterla un secondo solo di saltellare?
Il cantante si voltò a guardare il proprio manager, aggrottando le sopracciglia.
- Tom, non stavo mica saltellando…
- No? – chiese distrattamente lui, scrollando le spalle, - Sembrava. Avanti, davvero, Matt, mi fai venire voglia di aggiustarti la cravatta, e al momento non ce l’hai nemmeno! Ti rendi conto di cosa questo significhi?
- …che non avresti dovuto prendere quella
roba che hai spacciato per aspirina, prima di uscire?
- Tanto per cominciare, quella
era aspirina. Che diamine, Matt! Comunque, no. Significa che sei talmente agitato che la tua agitazione contagia gli altri, e adesso io sono nervoso!
- Scusami se sono felice… - commentò Matthew, ridacchiando.
- Che sciocchezza! Sai che approvò la tua felicità!
Matt rise ancora, più sonoramente.
- Eppure non mi sembra di essere così nervoso… - commentò vago, spiando di sottecchi le reazioni di Tom.
Lui lo guardò con la coda dell’occhio, facendo una smorfia preoccupata.
- Ok. – disse, voltandosi verso di lui ed afferrandolo per le spalle, - È vero. Sono teso come una corda di violino. E questo perché, nonostante tu sia sicuro, per non so quale divina certezza, che quest’incontro andrà bene, io invece so che sarà un disastro! Sarà talmente disastroso che… no, guarda, non voglio nemmeno pensarci!
- Toooom… vuoi rilassarti? Che io sappia, Brian non è un cannibale…
- Non so se ti convenga chiamarlo Brian… sai, forse per una questione di rispetto lui preferirebbe essere chiamato signor Molko…
- Ma piantala! Abbiamo praticamente la stessa età, come pretendi che gli dia del signore?
- Mh… ben detto… questo di sicuro lo lusingherebbe… cerca di ripeterlo, quando sarai davanti a lui.
- Oh, sì, certo. “Brian, ciao. Non ti do del lei perché il mio manager riteneva opportuno farti sapere che non crediamo che tu sia vecchio”.
- …ecco, se magari trovi un modo più delicato per esprimere lo stesso concetto, puoi-
- Tom, non gli dirò niente del genere, stanne certo! – ridacchiò Matt, del tutto sereno, - Parleremo solo di lavoro.
- E-
- Niente domande sulla vita privata. Lo so. Sei più tranquillo adesso?
- Affatto. – sospirò, - Ma che posso farci? Mi fido di te.
*Fai bene a mostrarti così calmo e sicuro di te, Bellamy. Ne hai tutte le ragioni, perché non ti divorerò.
Mi rovineresti l’appetito per tutta la vita, poi.
- Come va?
La mia compagna mi ha lasciato e sarò costretto a lavorare con una delle persone che meno tollero al mondo per tutto il mese che avrebbe dovuto essere la mia vacanza dopo uno sfiancante anno e mezzo di tour per tutto il mondo.
Come pensi che vada?
- Alla grande.
- Mi fa piacere!
Sei proprio un idiota.
- Sono proprio felice di avere avuto l’opportunità di lavorare con te!
Vedi che sei stupido? Non sai a cosa vai incontro.
- È da quando Tom me ne ha parlato due settimane fa che mi preparo a questo momento!
Pensa un po’, io invece non ne ho saputo niente fino a ieri sera. Quanto credi che possa
essermi preparato?
- Bene.
- Sai, io ti apprezzo molto come artista.
Ma smetti mai di parlare?
- Grazie.
- Davvero, secondo me hai una voce da brivido, e poi è così adatta al vostro sound! Sembra fatto apposta!
Sei semplicemente ridicolo. È fatto apposta.
- Ho ascoltato tutti i vostri album, in questi giorni… o meglio,
riascoltato… ammetto che rientrate fra i miei peccati di gioventù…
Scommetto che ti senti incredibilmente brillante, con quel tuo risolino stupido e acuto…
- …e devo dire che ho apprezzato molto la vostra crescita dal punto di vista musicale! In
Meds siete praticamente impeccabili, non una sbavatura, ci sono dei testi molto validi, e anche le melodie, in alcuni casi sono così ricercate… come per l’intro della title-track, ci credi che non sono ancora riuscito a replicarlo esattamente? Cosa diavolo sono quelli, armonici…?
Accavallo le gambe.
- No. Battimenti.
- Ha! Lo sapevo che doveva essere qualcosa di particolare! E io che cercavo di rifarlo all’acustica così, come se fosse un pezzo normale! Avresti dovuto vedermi lì, io e la chitarra che ci guardavamo e non riuscivamo a capirne un accidenti di niente! complimenti!
Incrocio le braccia.
- Finito?
Lui mi guarda interdetto, e se non tenessi così tanto a mantenere questa espressione glaciale, giuro che starei già ridendo vittorioso, con le mani sui fianchi e un piede sulla poltrona.
- No, perché – esplicito, - se hai altri complimenti da fare, falli tutti, così io ringrazio alla fine ed evito di sprecare fiato.
- …no… - balbetta lui, incerto, arrossendo, - …ho finito… volevo solo-
- Allora grazie. – sorrido tranquillo.
- …di nulla… - sussurra lui, e il suo sguardo scivola frenetico ai piedi del tavolino basso che separa le nostre poltrone, mentre le mani corrono alla valigetta posata lì, per terra, aggrappandovisi come a un’ancora di salvezza. – Ho portato degli appunti… non so, se ti va di guardarli…
- Allora devo ritenermi onorato… non ricordo dove, ho letto che tu non scrivi mai niente.
Conosci il tuo nemico.
L’arte della guerra è l’unica cosa che mi abbia insegnato mio padre.
L’unica cosa di cui lo ringrazi.
L’unica arma che avevo contro di lui, quando allungava troppo le mani o apriva troppo la bocca sugli affari miei, ed io potevo ribattere che non avrei preso in considerazione neanche una sillaba che fosse uscita dalle stesse labbra che leccavano champagne dai piedi delle sedicenni in Pakistan.
Bellamy mi fissa sconvolto, probabilmente sta cominciando a pentirsi di tutti i complimenti di prima.
- Generalmente no, è vero… - ammette, aprendo comunque la ventiquattrore e rovistando al suo interno, - Però ero così pieno di idee per quest’occasione che mi sarebbe dispiaciuto perderne qualcuna…
- Mmmh… - mugugno, puntellandomi il mento con l’indice, - Sbaglio, o sei stato sempre tu a dire che le idee che dimentichi le dimentichi perché non sono abbastanza buone? Quindi, se hai segnato tutto, quante idee cestinabili devo aspettarmi?
Comincia a tremare.
Sì…
Adoro esercitare questo tipo di controllo sugli altri. È lo stesso tipo di controllo che esercito sulla mia vita. Ogni cosa è conservata nel suo compartimento stagno, tra i compartimenti non passa niente e niente arriva mai troppo in fondo.
- È che avrei voluto un tuo parere per tutto… - si giustifica lui, abbassando lo sguardo, - Mi piacerebbe che questa fosse una collaborazione vera, non qualcosa in cui uno comanda e l’altro serve… e dal momento che abbiamo entrambi due personalità molto forti, pensavo che questo fosse il modo migliore per procedere…
- Capisco. – annuisco sbrigativamente, - Ci penserò.
Fine della discussione.
Lui se ne accorge, si alza in piedi.
- Allora… - lancia un’occhiata alla valigetta, aperta sul tavolo, - io queste cose te le lascio qui… aspetterò che sia tu a chiamarmi… - conclude, tirando fuori dalla tasca dei jeans un bigliettino col proprio numero di telefono e lasciandolo assieme agli altri fogli.
Annuisco e sorrido, restando immobile, le braccia ancora incrociate sul petto.
- Be’, ciao… - mormora lui, incerto.
Sollevo una mano in segno di saluto.
Bellamy annuisce lentamente, prendendo atto. Si volta. Esce dalla stanza, richiudendosi la porta alle spalle.
Tre, due, uno.
- Brian!
- Alex! – le faccio il verso, sciogliendo le braccia ed aprendo le mani, sollevandole ai lati del viso ed agitandole freneticamente.
Lei non si fa intimorire.
D’altronde si chiama Alex Weston, non Matthew Bellamy.
- Che diamine hai combinato?!
La guardo, spalancando gli occhi, incredulo.
- Assolutamente niente! – mi giustifico, aggrottando le sopracciglia, in una pallida imitazione di un’espressione contrita, - È che lui è così
sensibile…
- Sensibile! – sbotta lei, allargando le braccia, - Hai appena sputato sopra centinaia di migliaia di sterline! Non ti facevo così idiota!
- Oh, stai tranquilla… - la rassicuro mollemente, - non l’ho perso.
Non ancora, almeno. Ma probabilmente, tra una settimana, quando lo richiamerò per dirgli che tutte le sue “idee” sono da buttare,
allora lo perderò. E pensa, non avrò neanche fatto finta di dare un’occhiata a questa roba! – sorrido trionfante, indicando la valigetta con un cenno del capo.
Alex allarga le braccia, sollevandole all’altezza del viso. Il mio sorriso si espande e diventa un ghigno furbo. Lei se ne accorge e le lascia ricadere lungo i fianchi.
- Brian, sono esterrefatta. Davvero, non hai mai-
- Non preoccuparti… - sbuffo annoiato, già stufo della conversazione, - Non sarai licenziata.
- Oh, sì che lo sarò!
Eccome se lo sarò, se tu rifiuti questa collaborazione!
La guardo, inarcando un sopracciglio.
- …grazie al cielo. – commenta lei, con un sospiro sollevato, - Per un attimo ho creduto davvero che l’avresti mandato a quel paese…
Mi chino a recuperare un mucchietto di fogli dal tavolino, poggiandomeli in grembo.
- Sono un professionista. – asserisco deciso.
Sono un professionista.
Per tornare essere umano aspetterò settembre.
*- Matt!
Ignorando il richiamo del proprio manager, l’inglese continuò a dirigersi verso l’uscita a passo di carica.
- Matthew, Cristo!
Tom lo raggiunse, afferrandolo per una spalla e costringendolo a fermarsi.
- Cosa diavolo hai?!
Matt si voltò a guardarlo. Era rosso in viso, aveva gli occhi lucidi, tremava di nervosismo. Sembrava aver appena subito l’umiliazione più grande della propria vita.
- Ossignore, lo sapevo…
- Non dire
niente… - lo implorò Matthew, abbassando lo sguardo.
- Ma come non-
- Non dire niente! – insistette, tornando a fissarlo, adesso con rabbia, - È tutto a posto, non è cambiato niente rispetto a venti minuti fa!
- Certo, Matthew,
a parte il fatto che, come da me ampiamente previsto, quel bastardo ti ha distrutto! Ma così non esiste, io non ci sto. Questa cosa adesso salta, domattina per prima cosa vado alla Universal e-
- Gli ho lasciato la valigetta con gli appunti. Gli ho detto di richiamarmi. Gli ho dato il mio numero.
- …Dio.
- Lo sappiamo entrambi che richiamerà. – cercò di sorridere Matt, stringendosi nelle spalle.
- È esattamente questo, quello che mi preoccupa! – ringhiò Tom, stringendo i pugni, - Sei stato con lui appena mezz’ora, e guardati! Sei sconvolto! Quello in un mese ti fa fuori. Non se ne parla.
- Avanti, adesso… - mormorò Matt, cominciando a recuperare il controllo di sé, - Non è stato
così tremendo… è che io non ero preparato, e quindi mi ha preso alla sprovvista, ma la prossima volta-
- Senti. – lo interruppe Tom, fissandolo seriamente negli occhi, - Quello è un bastardo, ok? Ha passato l’intera vita a diventare così, e ora è il bastardo perfetto. Non è una novità, e per carità, avrà i suoi motivi, io non voglio giudicare nessuno, ma non c’è nessuna legge che ci obblighi all’autolesionismo, e per di più a settembre mi servi vivo,
quindi, Matt, piantala di sorridere!
L’inglese rise, arricciando le labbra per cercare di tenerle serrate.
- Sto meglio. – disse al manager, - Davvero. Posso farcela. Non hai detto che ti fidavi di me?
- Era una frase d’incoraggiamento come un’altra!
- Be’, fa’ in modo che da oggi in poi rispecchi la realtà. Farò questa cosa. Tornerò vivo e vegeto…
Tom lo squadrò di sbieco, aggrottando le sopracciglia.
- …e illeso! Promesso.
*Uscirai vivo e vegeto da questa cosa. Promesso.
Vivo e vegeto, ma non illeso.
- Non credevo che mi avresti richiamato davvero!
Sapevi che l’avrei fatto, Bellamy. È incredibile, hai modi più affettati dei miei.
- Sono pieno di sorprese. Senti, ho dato un’occhiata ai tuoi appunti.
- Ah! Davvero?!
- Certo.
Che pensavi? Che avrei richiamato da impreparato?
Mai mostrarsi impreparato di fronte al nemico.
Quasi mi dispiace dirlo, ma sei troppo innocente per fare questo mestiere.
- Fantastico! Dimmi tutto!
- Per la verità ho fatto un paio di note qua e là. C’erano delle cose che proprio non mi convincevano, soprattutto in quella che dici essere la “canzone perfetta” per me…
- …ah.
Deglutisce. Posso percepirlo nel suo silenzio, è terrorizzato.
- Ma ci sono delle buone basi.
- …ah!
Sorrido. È proprio come un pesce, per tenerlo all’amo basta solo sapere quando allentare la presa e quando ricominciare a tirare.
- Bene! – dice lui, la voce nuovamente satura d’entusiasmo, - Possiamo parlarne agli studi, domani o dopodomani o quando vuoi tu!
- Per la verità… - butto lì, come fosse casuale, - preferirei incontrarti a tu per tu in un posticino carino… dove poter parlare senza interferenze. Una cosa informale, capisci? Le occasioni ufficiali tirano fuori sempre il peggio di me.
- Ah… ah-ha. Capisco. Be’… voglio dire, per me non c’è problema…
È terrorizzato, terrorizzato a morte. Dio, che soddisfazione!
- Perfetto. Ci vediamo al McDonald’s davanti al cancello principale di Hyde Park?
- Andiamo lì?
- Mh… no.
Ovviamente. Quello sarebbe territorio neutrale. Ed io invece non voglio lasciarti alcun vantaggio.
- Poi ti porto in un posto che conosco io. Facciamo fra un’ora?
- …d’accordo…
- Perfetto.
Davvero perfetto, Bellamy.
Papà Molko ti spiegherà esattamente chi sarà il capo e chi il servo, in questa collaborazione.
*Brian era già lì ad aspettarlo. Era vestito in nero, non aveva un capello fuori posto ed il trucco era perfetto praticamente a livello professionale.
Matthew scrutò il proprio riflesso prima nello specchietto retrovisore dell’auto appena parcheggiata, e poi, trovandolo troppo piccolo per poterne cavare un’idea precisa di come fosse conciato, spostò lo sguardo sul finestrino, cercando lì le conferme che gli mancavano. Ovvero che sì, per quanto il riflesso del finestrino potesse essere meno nitido, lui era
esattamente il disastro che lo specchietto gli aveva rimandato indietro alla prima occhiata.
Si era palesemente fatto ingannare. Aveva creduto che “incontro informale”, nella complicata lingua Molko, volesse dire davvero “incontro informale”, un incontro fra amici, e perciò s’era presentato come si sarebbe presentato a un appuntamento con Dom: capelli appena pettinati, una maglietta bianca random e un paio di jeans.
Era la sciatteria personificata.
E Brian, davanti al McDonald’s, teneva le braccia incrociate sul petto, picchiettava un paio di costosissime Fendi sul marciapiede e
fingeva di non averlo ancora visto.
Matthew sospirò, dandosi dell’imbecille per l’ennesima volta in cinque minuti, e decise di restare a guardare Brian fino a quando lui si fosse degnato di fargli sapere che l’aveva già adocchiato.
Cosa che puntualmente accadde tre secondi dopo.
Matthew lo osservò schiudere le labbra con malcelato, falsissimo stupore, e sollevare un braccio nella sua direzione, muovendolo lievemente per salutarlo.
Sorrise.
Tom avrebbe potuto avere ragione su tutto.
*Adesso ti insegno come si fa, Bellamy. Sta’ bene attento, prendi appunti.
- Eccoti qui.
- Scusa per il ritardo! Aspetti da molto?
Sorrisino tirato. Senza preoccuparsi di mostrarlo bugiardo per com’è.
- No, figurati, solo una mezz’oretta abbondante.
- …capisco. Comunque, dove pensavi di andare?
Sorriso più tranquillo, sereno,
padrone.
- Io abito giusto qui sopra. Possiamo salire da me, se ti va.
Scacco matto. In quante mosse? Appena tre.
Spero tu abbia imparato qualcosa, quella di oggi è stata una performance spettacolare.
- D’accordo…
Oh, bene, vuoi giocare ancora, allora.
Certo, non mi tiro indietro. Ma il prossimo round si fa a casa mia.
Lo osservo con la coda dell’occhio guardarsi intorno nell’ingresso, osservarne lo sfarzo, adocchiare l’ascensore. Seguirmi con imbarazzo e circospezione su per le scale, ascoltare distrattamente il mio ancor più distratto “sto al primo”, fissare il corrimano in legno lucido color miele e gli scalini in marmo misto.
Dio, ho quasi l’impressione che potrebbe voltarsi e scappare già adesso!
- Stai proprio in un bel posto. – afferma con aria sognante, un attimo prima di entrare in casa.
Spero sinceramente che abbia il collasso che si merita, quando sarà dentro.
*- Che casa magnifica!
Brian ridacchiò debolmente, accomodandosi in salotto senza neanche invitarlo a fare lo stesso.
- Avanti, non dire così… anche la tua sarà sicuramente all’altezza.
Matthew ripensò al proprio monolocale da scapolo incallito accanto agli studi della Universal, e rabbrividì.
Avrebbe potuto scommetterci tutti i propri soldi: lui lo sapeva.
Si sedette sul divano accanto alla poltrona dove stava Brian, mettendosi in punta, come temesse che rilassandosi troppo avrebbe perso perfino quel minuscolo briciolo di controllo che ancora possedeva.
- Ehm… - azzardò, torturandosi le dita, - Vuoi parlarmi di quelle famose note di cui mi avevi accennato al telefono? Sono curioso di sapere cosa pensi delle mie idee…
Brian si rilassò contro lo schienale della poltrona. Accavallò le gambe.
- Mh… no. – mugugnò, - Sai, per la verità non è che i tuoi appunti fossero così
chiari… e non vorrei esprimere un’opinione sbagliata solo perché magari non sei riuscito a farmi capire esattamente di cosa stavi parlando… che ne dici di rispiegarmi tutto da capo?
Matthew deglutì.
Cercò di fare mente locale: per nessun motivo apparente, il cuore gli stava esplodendo nel petto; gli fischiavano le orecchie; aveva la mente così vuota che, se la sua vita fosse stata un cartone animato, nel suo cranio si sarebbero rincorse le nuvole di fieno del far west.
Brian l’aveva preso in trappola. L’aveva rincoglionito di chiacchiere – e non gliene erano servite neanche tante – e ora lo stava sfidando a tirare fuori qualcosa di sensato dalla bocca. I suoi occhi brillanti, verde cattiveria, gli stavano dicendo “avanti”, gli stavano dicendo “mostrami quello che sai fare”, gli stavano dicendo “attento, perché adesso dipende tutto da te”.
E lui, in quel momento, non capiva più niente.
Era fottuto.
Cercò di sistemarsi meglio sul divano, senza scivolare troppo in fondo ai cuscini. Doveva cercare di rendere la probabile fuga il più semplice possibile.
Nonostante la paura folle che sentiva scuotergli i respiri, riuscì a comprendere che lasciarsi andare a un delirio interiore e cominciare a strillarsi “scappa!!!” nella testa non l’avrebbe portato a nulla che non fosse un disastro. Avrebbe perso la faccia di fronte a due delle major più importanti del mercato, avrebbe messo nei guai Tom e Brian avrebbe riso di lui fino a sfinirsi.
Erano tre possibilità che non intendeva ammettere. E soprattutto l’ultima in quel momento gli sembrava intollerabile.
Prese un profondo respiro e guardò Brian, che lo fissava di rimando, perfettamente a proprio agio.
In fondo, non aveva che da parlare. Parlare era sempre stato il suo forte.
- Io ti ho sentito cantare la prima volta quando avevo diciott’anni. – disse, evitando il suo sguardo e fissando il proprio sulle dita che continuava ad intrecciare in grembo, - Ero una specie di ragazzino sbandato, al tempo. Facevo cose stupide. Andavo in giro con questo gruppo di tipe che si facevano chiamare “le streghe”, ed erano completamente pazze per la vostra musica. C’era questo stanzino, dove facevano delle… delle pseudo-orge o qualcosa del genere… eravamo tutti veramente dei ragazzini, quindi niente di particolarmente perverso, ma… - gli scoccò un’occhiata, intuendo appena la curva stranita delle sue sopracciglia, e le labbra arricciate in una smorfia incredula, - …sono cose che segnano la vita di un adolescente, credo. C’erano sempre i Placebo in sottofondo, in quel posto. – sospirò, - È stata lì la mia prima volta. E c’era la tua voce a fare da colonna sonora.
Brian sciolse le braccia e si accomodò meglio sulla poltrona, poggiando il gomito sul bracciolo e il mento sul palmo aperto.
- Poi vi ho persi di vista. Sono entrato in quel periodo stupido che credo attraversino tutti i giovani compositori… - ridacchiò imbarazzato, grattandosi la nuca, - Quello in cui non ti vergogni di dire ai giornalisti che “non ascolti nulla per evitare influenze esterne”. Sono stronzate, ma – ridacchiò ancora, - be’, succede.
Sollevò lo sguardo su Brian, e lui annuì, fissandolo come se stesse chiedendosi dove diavolo volesse andare a parare.
- Quando vi ho risentiti di nuovo, era il duemila e quattro. Cioè praticamente dieci anni dopo. All’inizio quasi non potevo crederci, non sembravate neanche voi… la struttura musicale della canzone era completamente diversa da quelle che avevo ascoltato fino alla nausea nel primo album, e anche la tua voce si era… era
cresciuta. Era più profonda, più ipnotica.
Lo guardò ancora.
Brian aveva stretto le labbra, e sembrava indeciso fra la possibilità di morderle e quella di spalancarle e strillare.
Matt si accorse che c’era qualcosa che non andava. Ma stava seguendo il filo di un discorso e non intendeva abbandonarlo. Non intendeva cedere. Non intendeva perdere. Non in casa sua.
- Quella canzone era
English Summer Rain. E quando l’ho ascoltata io ho deciso che, se mai avessi scritto qualcosa per qualcun altro, avrebbe dovuto essere una filastrocca ammaliante di quel tipo. E avrebbe dovuto essere per te.
Si interruppe qualche secondo, ascoltando l’aria, cercando di captare il suono del fremito che vedeva agitarsi nel fondo degli occhi di Brian.
Quell’uomo sembrava sul punto di esplodere. E Matthew non aveva la più pallida idea di cosa avesse fatto per scatenare una reazione simile, ma era certo del fatto che quello fosse un punto a proprio favore nella silenziosa battaglia camuffata di gentilezze che lui e Brian stavano conducendo da quando s’erano incontrati la prima volta.
- È stato per questo che, quando la Universal mi ha proposto di collaborare con qualcuno, ho fatto subito il tuo nome.
Brian sbottò uno sbuffo di fiato, e sembrò rinsavire all’improvviso. Tornò ad accomodare con grazia il mento sulla mano e accavallò le gambe, sporgendosi tutto a sinistra, quasi avvolgendo il bracciolo della poltrona col proprio corpo.
- Cioè tutto questo è stata una tua idea? – chiese indifferente, guardandogli attraverso come fosse stato trasparente.
- …non è proprio così… voglio dire, io ho dato dei nomi, tu eri il primo, poi sono state la Universal e la Virgin a prenderla così dannatamente sul personale… - si giustificò lui con un mezzo sorriso, che non mancò di giudicare già da sé inappropriato, soprattutto dal momento che stava mentendo.
Brian annuì.
Quel senso di smarrimento che fino a poco prima Matthew sembrava percepire così chiaramente s’era del tutto volatilizzato negli ultimi secondi. Brian era di nuovo lì. Algido e immobile come una statua di cera, spaventoso. Quel briciolo di…
umanità… che gli aveva visto brillare nelle pupille era completamente scomparso.
- Bellamy, non so se tu hai compreso bene il guaio in cui ti sei cacciato.
Dischiuse le labbra e lo guardò, incapace di trovare qualcosa con cui rispondere. D’altronde, a Brian sembrava non interessare affatto il suo parere sull’argomento. E dal momento che a lui era stato concesso un monologo più che soddisfacente, non gli sembrava il caso di privare Brian dello stesso diritto.
- Voglio essere onesto con te. – disse il frontman dei Placebo.
- È esattamente quello che voglio io! – confermò annuendo Matt, sperando per un secondo di aver fatto breccia da qualche parte e magari scalfito la corazza dell’uomo che gli stava di fronte.
- No, tu non vuoi davvero che io sia onesto con te, Bellamy. – disse Brian, sorridendo crudelmente e scuotendo il capo, - Tu vorresti che io ti ringraziassi per il pensiero e mi mettessi ai tuoi ordini.
- Io non-
- Sì, invece. Tu hai sempre desiderato
comandarmi.
Si alzò in piedi, e Matthew lo osservò compiere quel movimento con esasperante lentezza, sconvolto: era davvero lui a muoversi così lentamente, come nei film, quando arriva il momento topico e i registi usano quest’espediente per fissare l’attenzione dello spettatore su un particolare che non sono stati in grado di mettere in risalto in modo meno pacchiano?, oppure solo a lui sembrava che Brian si muovesse così, ed era a causa del fatto che sembrasse perfettamente a proprio agio in ogni situazione, e che desse l’idea di poterlo essere sempre, indipendentemente da cosa gli fosse capitato?
Senza accorgersene, si tirò indietro, scivolando sui cuscini del divano fino a cozzare contro lo schienale dietro di sé.
Brian lo sovrastava, di fronte a lui, e lo scrutava attentamente, le mani sui fianchi e le gambe lievemente divaricate.
- A quanto pare sono stato parte della tua vita molto più a lungo rispetto a quanto tu lo sia stato della mia. – spiegò Brian, chinandosi su di lui per guardarlo meglio negli occhi, - E questa cosa probabilmente ti infastidisce. Io non credo affatto che tu mi ammiri, Bellamy, io credo che tu sia invidioso di me. Del mio successo, sì, ma soprattutto degli anni di esperienza che ho più di te. Questo vuoto non riuscirai mai a colmarlo, perché per quanto tempo tu possa passare a fare il musicista, il mio sarà sempre maggiore.
- Brian… - boccheggiò lui, stordito dalle sue parole e dalla sua improvvisa vicinanza. Sempre più grande, sempre più pericolosa, secondo dopo secondo, - Non ho mai-
- Forse non in pubblico. – rise malizioso Brian.
E poi praticamente gli salì addosso. Gli si sedette in grembo come in sella a un cavallo, e gli posò le mani sulle spalle per tenerlo ancorato al divano. Si chinò sul suo viso, lo sfiorò con lo sguardo e col respiro, e poi raggiunse un orecchio e riprese a bisbigliare.
- Forse non in pubblico. Ma quante volte in privato hai pensato che avresti voluto darmi la lezione che meritavo…? – gli disse, sorridendogli addosso, - Tu mi disprezzi, Bellamy… disprezzi il mio modo di intendere lo spettacolo, di intendere la musica. Disprezzi il lavoro che faccio nel portare avanti la mia band e la mia immagine, disprezzi il mio successo e disprezzi ogni singola parola che mi esce di bocca. Quanto sei stato felice quando ti ho consegnato il premio per
Absolution? Quante volte, guardandomi durante quella premiazione, hai pensato “adesso hai quello che ti meriti, Molko”? E quante volte, davanti ai giornalisti, hai nascosto questi pensieri dietro un “apprezzo i Placebo, è un peccato che loro non apprezzino noi”?
Matthew serrò le labbra e deglutì.
Non c’era una sola parola vera fra quelle che Brian gli stava vomitando addosso come lava bollente.
Ma in quel momento, pur di scappare dalla morsa d’acciaio delle sue mani sulle proprie spalle e delle sue cosce attorno ai propri fianchi, avrebbe confermato qualsiasi cosa.
- Una volta hai detto di essere bravo a capire il perché della cattiveria delle persone. – continuò Brian, tornando a guardarlo e stringendo la presa, - Allora dimmi, Bellamy: perché ti sto facendo questo, adesso?
Non. Voglio. Saperlo.
Sollevò le braccia. Dapprima fu un movimento incerto. Non era davvero
sicuro di volerlo fare. Scansarlo in quel momento avrebbe significato troppe cose… dargli ragione, cedergli il passo, confermare che
sì, lo stava sconvolgendo, dargli l’occasione, fornirgli il pretesto perfetto per obbligarlo a mollare.
Ma lui era decisamente troppo vicino per continuare a tollerarlo.
E perciò gli piantò le mani sul petto e lo spinse sul pavimento, liberandosene.
- Non lo so. – mormorò, in un sospiro che gli parve distrutto, alzandosi in piedi e guardandolo dall’alto, - Vai oltre la mia comprensione, Brian.
Lui sorrise, appoggiato per terra con tanta naturalezza da far pensare quella fosse la sua posizione naturale.
- Tutto qui quello che hai da dire? – chiese, stringendosi nelle spalle.
- …cos’altro vorresti sentire?
Brian strinse le palpebre, allargando il sorriso.
- Ci stavo palesemente provando. Per quale altro motivo pensi mi sarei avvicinato tanto?
Matthew rabbrividì.
- No! – ringhiò.
- No? Non è la risposta alla domanda che ho fatto…
- No! – ripeté Matthew, muovendosi verso la porta senza staccargli gli occhi di dosso.
-
Mai mostrare le spalle al nemico. – mormorò Brian in un soffio a malapena udibile, - Impari. Lentamente, ma impari.
- Senti, io non so cosa-
- Se esci da quella porta perdi. – disse Brian più deciso, sollevandosi in ginocchio e poi in piedi, - Il tuo “no” è una sconfitta.
- Non puoi dire questo! – si difese Matthew, fermandosi a un passo dalla porta, - Non puoi pensare che siccome per te allontanarsi in una situazione simile è sinonimo di sconfitta, allora anche per il resto del mondo-
- Non stavo parlando del resto del mondo. – lo interruppe lui, impietoso, - Non mi frega un cazzo del resto del mondo. Non mi interessa se fuori da questo appartamento tutti dicono “povero Bellamy, costretto a lavorare con l’arpia”, e ti trattano come un principino perché sei buono e gentile con tutti. Che dicano quello che vogliono. Io ti ho messo alla prova. E tu hai miseramente fallito.
- …no… - sputò fuori Matt in un mezzo singhiozzo, - no, io… non è così, tu… tu sei…
- Sono esattamente quello che tutti dicono. Uno stronzo. Una puttana. Quanto di peggio si possa incontrare.
Matthew afferrò la maniglia.
Aveva sentito abbastanza. Aveva sentito
troppo.
- Tu cosa sei, Bellamy? – gli chiese Brian con un ghigno crudele sul volto.
Lui si rifiutò anche solo di pensare a una possibile risposta. Scivolò giù per le scale come stesse volando, e scappò da quel palazzo neanche fosse stato in fiamme.
Il pensiero che l’avrebbe rivisto troppo presto rispetto a quando avrebbe voluto lo terrorizzava in quel momento come mai prima.
*Avrebbe dovuto fermarsi un attimo, magari smettere di picchiettare con la punta del piede per terra, osservando Matthew scappare per la strada come un coniglio in corsa, e sedersi da qualche parte, in silenzio, nella massima tranquillità, per riflettere e cercare di capire
per quale accidenti di motivo aveva praticamente molestato il cantante dei Muse senza che ce ne fosse alcun bisogno.
Non era eccitato, si disse, guardandosi negli occhi attraverso il riflesso del vetro della finestra, e non stava cercando una scopata facile. Ed anche se l’avesse cercata, Matthew Bellamy decisamente
non lo sarebbe stato. Non c’era nessuna scommessa in ballo, non doveva dimostrare a nessuno di essere in grado di portarsi a letto una qualsiasi vergine di ferro, e soprattutto lui neanche gli piaceva.
Quindi
cosa. Perché.
Perché?
Si staccò dal davanzale, con enorme difficoltà, scollando con uno sforzo titanico lo sguardo dalla figura di Matt che, sempre più piccola, si allontanava verso la propria macchina e scompariva oltre lo sportello.
Dio.
Si gettò a peso morto sul divano, stendendo il capo su un bracciolo e i piedi sull’altro.
Dio!
Chiuse gli occhi.
Che hai combinato?
Perché l’hai fatto?
- Parlava troppo. – disse ad alta voce, come volesse convincersene.
Parlava troppo, d’accordo. Quindi gli sei salito addosso e hai provato a scopartelo?
- Stava dicendo cose fastidiose.
Quindi gli sei salito addosso e hai provato a scopartelo?
- È stato lui a tirare fuori il sesso per primo. Ha parlato della sua prima volta. Ha associato alla sua prima volta la
mia voce…!
Quindi gli sei salito addosso e hai provato a scopartelo.
- Non ho provato a scoparlo.
Sfiorò appena con una mano il tessuto del divano accanto a sé.
…ancora caldo.
Scattò in piedi e si guardò riflesso nell’enorme specchiera parietale inchiodata al muro di fronte a lui.
- Dio… - mormorò, passandosi una mano sulla fronte, lungo la guancia, giù per il collo, e lasciandola poi riposare inerme sulla spalla.
Era disfatto.
Sudato.
Agitato.
Pregò che Bellamy non avesse notato niente di tutto quello sconvolgimento. Pregò che la piazzata che gli aveva fatto l’avesse terrorizzato abbastanza da farglielo dimenticare, semmai l’avesse notato.
Si diresse a passi svelti verso il bagno e quando fu lì tappò il lavandino e aprì il rubinetto dell’acqua fredda, osservando il getto scorrere veloce e ordinato e riempire il lavabo.
Era scattato qualcosa.
L’aveva sentito chiaramente.
Nel momento in cui lui l’aveva sfidato e Matthew aveva raccolto la sfida, era cambiato qualcosa. Forse nello sguardo dell’inglese, forse nel suo modo di vederlo, nel modo in cui
entrambi si squadravano da capo a piedi, cercando di trovarsi un senso a vicenda. Senza volerlo davvero.
Qualcosa si era trasformato.
…Matthew aveva risposto. Lui aveva fatto di tutto per metterlo in difficoltà, per metterlo in imbarazzo, per confonderlo, e poi gli aveva chiesto di parlare, e quello avrebbe dovuto essere il momento del trionfo, il momento in cui l’avrebbe guardato e, ridendo, gli avrebbe dato dell’idiota, dell’incompetente, del ridicolo.
Ma Matthew aveva parlato. E non aveva detto cose qualsiasi.
Per quanto fosse sconvolto, era stato in grado di trovare le parole
esatte per…
…per cosa, poi?
Cos’era successo?
S’era sentito, mentre lo ascoltava. S’era sentito tremare, e sudare. S’era sentito respirare pesantemente. S’era sentito sgranare gli occhi, aveva percepito distintamente ogni cellula del proprio corpo mettersi in agitazione, ogni senso espandersi e acuirsi, ogni organo percettivo dare l’allarme.
Come aveva osato… mostrarsi così…
perfettamente preparato… quando avrebbe solo dovuto chinare il capo e dichiararsi sconfitto? Come aveva osato opporre resistenza? Come aveva osato
sfuggirgli?
Non è Bellamy che vuole comandarti, Brian.
Sei tu che vuoi comandare lui.
Sei tu che ti ostini a provarci.
Adesso, sei tu che scopri che non puoi riuscirci.
Gli sei salito addosso e hai provato a scopartelo.
Te lo saresti scopato sul serio.
Avresti dimostrato a te stesso di poter mantenere la supremazia, in un modo o nell’altro, e avresti mostrato a lui chi era il capo.
…non sei riuscito a fare niente di tutto questo.
Strinse gli occhi con forza, allontanandosi con disgusto dal proprio riflesso disfatto nello specchio. Fissò la piccola pozza d’acqua che si gonfiava nel lavabo fra le sue mani, e con un gesto lento e annoiato richiuse il rubinetto fino a quando non rimasero che poche gocce a scivolare giù dal tubo metallico, per infrangersi contro la superficie dell’acqua e dare vita a piccoli cerchi concentrici che sarebbero morti pochi centimetri più in là.
Si chinò.
Annegò.
E quando resuscitò si passò una mano sugli occhi e scoppiò a piangere.
Gli fecero compagnia solo il silenzio enorme dell’appartamento e il suono minuscolo delle gocce che si tuffavano pigre in piscina, saltellando dal tubo come da un trampolino.
Il rubinetto perde, pensò distrattamente,
e non ricordo dove Helena teneva il numero dell’idraulico.
*Non ho la più pallida idea di come sia passata questa settimana.
Ricordo vagamente Alex venirmi a recuperare direttamente a letto, lunedì mattina. Ricordo le sue urla e ricordo che mi ha detto qualcosa tipo “se potessi ti licenzierei io!”. Ricordo che mi ha portato in studio, che Matthew era già lì e faceva di tutto per non guardarmi negli occhi, e ricordo che, salutandolo tranquillamente, come fosse stato tutto a posto, Alex mi ha bisbigliato di comportarmi da uomo adulto e mettermi al lavoro.
Io ricordo di averla afferrata per un polso.
Di averla trascinata fuori di lì.
Di averla fissata negli occhi, di averle visto attraverso, di aver visto anche attraverso la porta, di aver osservato lo sguardo spaurito di Bellamy ancora seduto al suo posto e poi di essere tornato indietro, di nuovo dentro di me, e di averle strillato contro “cosa ti aspetti che faccia esattamente?!”, con cattiveria, con rabbia, come fosse stata lei la causa di ogni mio male.
Ricordo il suo sguardo glaciale. Quella piccola vena sulla fronte, quella che si ingrossa quando è veramente furiosa. Le braccia incrociate sul petto – era distante anni luce da
me.
Ricordo che mi ha detto “guadagnati i soldi che ti diamo, Brian”. Ricordo che mi ha detto “guarda che avete una settimana per stabilire che brano volete preparare, poi parte il tour”.
Io non ne sapevo niente.
Ovviamente.
Perché, quando lei mi aveva annunciato della collaborazione, “oh, che bello, vediamo di capire in cosa consiste!” non era stato esattamente il primo fra i miei pensieri. Ma neanche l’ultimo. Semplicemente perché
non era stato affatto fra i miei pensieri.
“Riassunto delle puntate precedenti”, ricordo di aver detto.
“Divertente”, ricordo sia stata la sua risposta, “Canzone. Nuova, vecchia, cover, vostra, loro, non importa. Una cosa qualsiasi. E poi giro per tutta quell’enorme quantità di stupidissimi festival musicali estivi che affollano la costa”.
La costa.
Cioè, l’Inghilterra è una fottutissima isola, cazzo.
La costa, dice lei.
Poi non ricordo molto altro.
Sono entrato in quella stanza, lui mi ha salutato timidamente, siamo rimasti in silenzio. Dopo qualche secondo di imbarazzo talmente profondo che quasi ci sono affogato, è riuscito a tirare fuori la voce e – poco – cervello solo per improvvisare uno di quei discorsi totalmente idioti e totalmente inutili del tipo “siamo adulti, siamo professionisti, mettiamo da parte i vecchi rancori –
e anche quelli nuovi, ho pensato io, ma lui non l’ha detto – e lavoriamo seriamente”.
Ho annuito lentamente. Neanche mi rendevo conto. Ho annuito perché dovevo farlo.
Lui ha lanciato uno sguardo ai fogli degli appunti sparsi sul tavolo. Il foglio della “Canzone Perfetta” in cima. Ha guardato lui, poi me. Ha sbuffato.
“Cover?”, ha chiesto.
“Cover.”, ho risposto.
Non so come siamo riusciti a trovarci d’accordo sulla canzone da utilizzare –
David Bowie, piaceva a me, piaceva a lui, Changes non era poi così difficile e ai fan avrebbe fatto piacere – non so come siamo riusciti a provare, non ho la minima idea di quanto possa essere piacevole il risultato finale. So che lui sfalsetta, come al solito. So che io strascico le parole, come al solito. Fine.
Non so, davvero, come sia passata questa dannatissima settimana.
Invece so benissimo com’è passato lui. Bellamy.
Come un
camion.
Sopra di me.
So che può sembrare che il più delle volte io sia solo un maledetto bastardo egoista ed egocentrico totalmente disinteressato a tutto ciò che lo circonda, ma la verità è che per
fare il maledetto bastardo egoista ed egocentrico eccetera eccetera devi essere
dannatamente interessato a tutto il resto. Devi interessarti della gente, per cercare di capire se la gente si interessa a te. Devi interessarti dei loro gusti, per andar loro incontro. Devi essere morbido, malleabile, sfuggente, per prendere tutti senza lasciarti prendere da nessuno. Plastilina colorata. Che basta un rastrellino e cambia forma.
E quindi io in definitiva passo la mia intera vita ad osservare. Faccio la parte dello stronzo che avanza come un carro armato pestando tutto e tutti senza neanche accorgersene, ma in realtà io so sempre molto bene chi sto pestando, e se pesto qualcuno è perché voglio farlo, non perché m’è capitato casualmente sotto i piedi e mi sono detto “oh, be’, uno più, uno meno”.
Ho osservato mio padre rinunciare all’inutile tentativo di trovare un modo per governarmi, ed ho gioito.
Ho osservato mia madre sospirare e scuotere il capo di fronte ai miei milioni di capricci, rassegnandosi ad un figlio perennemente insoddisfatto, e ne sono stato triste.
Ho osservato Helena perdere ogni speranza di trovare ancora un motivo per aggrapparsi a un rapporto che, a conti fatti, visto il tempo passato insieme e quello passato da soli, non esisteva più, e ne sono morto.
Adesso osservo Bellamy.
Da mio padre, a mia madre, ad Helena, a lui. Non so neanche perché lo annovero fra gli Eventi della mia vita, in teoria non ha senso. Non ha senso perché lui non è nessuno, perché non è mai stato niente e perché grazie al cielo non c’è pericolo che diventi qualcosa in futuro – per merito soprattutto della mia abile opera di scoraggiamento, c’è da dire – anche se qualsiasi psicologo non farebbe che cercare di convincermi del contrario…
Però lo osservo. E più passa il tempo più capisco.
Lui sta lavorando sul serio, e probabilmente si sta davvero appassionando a ciò che sta facendo. Lo osservo chinarsi sugli spartiti ammonticchiati sul tavolo, increspare le labbra ed aggrottare le sopracciglia. “Non ci capisco niente…”, mormora, e prende un foglio tra il pollice e l’indice, sventolandoselo davanti alla faccia come se pensasse che, scuotendolo, dagli strani segnetti che ci sono fra le righe dovesse uscire fuori un qualche suono, un qualche linguaggio che anche lui riesca a comprendere, magari della musica. Sta facendo degli sforzi per starmi dietro, io lo vedo, anche perché da parte mia sto facendo di tutto per rendergli la vita un inferno. Avrei quantomeno potuto dire “d’accordo, la canzone riarrangiala tu e basta”, ma no, ho dovuto pretendere di studiare con lui ogni linea melodica, a partire dalla batteria per finire con gli effetti da adottare per la chitarra, ho dovuto piazzarlo davanti al software musicale del pc ed obbligarlo a mettere su carta le idee strampalate che ogni tanto si lasciava sfuggire, al punto che ormai temo abbia paura anche solo di dire “sai, pensavo che”.
Per non parlare del resto del team. Credo di aver già fatto impazzire la metà della band che ci farà da supporto durante il tour. Anche perché, quando c’è bisogno di discutere qualcosa, chessò, riguardo la linea di basso, non vado mica dal bassista, no, figurarsi. Vado da Matthew. Incuriosisce il fatto che né io né lui suoneremo mai quello strumento sul palco, come ama ripetermi Alex, scuotendo il capo e sospirando pesantemente, ma il fatto è che io voglio tenerlo al lavoro e sinceramente non m’interessa un’interazione con qualcun altro, per quanto minuscola e insignificante o necessaria e impellente possa essere.
M’interessa solo stare con Bellamy. Solo capire
lui.
“Tu cosa sei?”, gli ho chiesto, ed era la tipica frase ad effetto perfetta per uscire dalla bocca del cattivo quando il supereroe di turno abbandona il campo, sconfitto, ma non era solo questo.
Io ho provato a ucciderlo.
A uccidere la sua ispirazione, a uccidere le sue motivazioni, a uccidere il suo coraggio e tutte le sue idee.
Lui è sopravvissuto.
E, mentre mi parlava di streghe, orge e della mia voce durante la sua prima volta, nel fondo dei suoi occhi io ho intravisto una luce che mi è sembrato potesse spiegare tranquillamente tutta quella forza d’animo enorme, quella sovrabbondanza di personalità che gli ha permesso di salvarsi dai miei attacchi continui.
Solo che io quella luce non l’ho capita. Non sono affatto riuscito a catturarla. Ne ho colto solo una scintilla, e non m’è bastata.
È la stessa luce che vorrei io. È la luce che mi permetterebbe di… di smettere di guardarmi intorno con aria smarrita quando torno a casa e la trovo vuota, di riprendere a lavorare tranquillamente, di recuperare le redini della mia vita e ricominciare a indirizzarla su una strada più sicura e meno accidentata delle notti insonni passate a rigirarsi nel letto, divorato dalla solitudine…
È per questo che non m’interessa altro, adesso. Solo lui. Voglio carpire ogni segreto, notare ogni particolare, imprimere la sua persona, la sua presenza, la sua
essenza nel fondo dei miei occhi, per utilizzarla poi a mio piacimento.
Credo che l’esclusivismo che gli concedo lo inorgoglisca, un po’, anche se ormai, quando sono nei paraggi, sta così sulla difensiva che è impossibile dirlo con certezza.
…sinceramente, io non gli voglio male. Non lo odio. E non ce l’ho con lui
perché è lui. È praticamente un ragazzino, è così giovane e immaturo che ho quasi voglia di nasconderlo sotto la mia ala protettiva e insegnargli a vivere piano piano, a piccoli passi.
Solo che no, non lo farò. Perché pur essendo una persona vagamente tollerabile, Matthew ha rubato tutte quelle cose che avrebbero potuto essere mie e non lo sono mai state.
Lui ha talento. Ha la vittoria facile. Ha un enorme ed acutissimo senso dell’ironia, ma non lo utilizza mai per ferire gli altri. È predisposto al lavoro duro, è naturalmente portato a compierlo tutto fino alla fine senza lamentarsi, e anzi, a cercare di tirarne fuori il meglio. È svelto ed estroso nelle associazioni mentali, e credo sia stato l’unico a seguirmi mentre, in riunione, durante uno dei rari momenti in cui mi sentivo in vena di lavorare, ho esposto alcune delle idee che avevo per l’organizzazione sul palco durante gli show.
Dopo tutto questo, sì, io sono
certo che abbia anche dei difetti. Perché nessuno ne è privo.
Solo che non li vedo.
O forse lo conosco ancora troppo poco per poterne parlare.
*Tom non aveva figli, ma era convinto che la sensazione che stava provando in quel momento – un’orribile commistione di ansia, fastidio e irritazione – fosse esattamente quella che qualsiasi padre ha provato almeno una volta nella propria vita, andando a recuperare un figlio in casa di amici ad un orario improbabile della notte.
Nella fattispecie, erano le tre del mattino, e già da una mezz’oretta lui pestacchiava col piede nei pochi centimetri di spazio liberi da pedali accanto all’acceleratore e stringeva le braccia incrociandole sul petto, mormorando rimproveri e lamenti a bassa voce, cercando di tenere il conto di tutti gli improperi che avrebbe rigettato addosso a Matt non appena l’avesse visto.
Lanciò un’occhiata distratta all’ingresso illuminato del palazzo e lo vide.
Stava prendendo un enorme respiro e probabilmente sperava che lui non l’avesse ancora notato. Sospirò pesantemente e pressò una mano contro il clacson. Vide Matt saltare letteralmente in aria ed affrettarsi a spalancare il portone ed agitare una mano per fargli capire che sarebbe arrivato in un secondo, e poi lo vide effettivamente uscire, muovere qualche passo verso la macchina… e fermarsi. Voltarsi. Lanciare uno sguardo in alto.
Salutare Brian che lo fissava oltre il vetro della finestra al primo piano. E poi tornare a guardare lui, come niente fosse stato, sorridergli e infilarsi in macchina, erompendo in una serie infinita di “grazie” e “scusa” ad una tale velocità che quasi Tom dimenticò la ramanzina mentre cercava di contarli.
- Matt… - gli disse, tentando di mostrarsi paziente, una volta che lui ebbe finito di dispiacersi e ringraziare, - Non è che per me sia un fastidio venirti a prendere dovunque tu sia e in ogni momento tu voglia, eh. – seguì le sopracciglia di Matthew incurvarsi verso l’alto e si affrettò a correggersi, - Cioè, d’accordo, non faccio i salti di gioia. Ma se ti serve una mano lo sai che sono sempre disposto a dartela, insomma, l’ho sempre fatto…!
- Sì, sì, lo so… - lo interruppe Matt con una risata cristallina, nonostante le molte ore di lavoro sulle spalle, testimoniate dalle orribili borse sotto gli occhi che si trascinava dietro.
- Però-
- Sapevo che ci sarebbe stato un però!
- Fammi finire… - borbottò lamentoso.
- No, so già anche cosa vuoi dirmi…
- E va bene! – sbottò Tom, battendo irritato le mani sul volante, mentre metteva in moto la vettura e si reintroduceva nel traffico notturno di Londra, - Sai cosa? Non mi interessa se sei entrato nella fase adolescenziale nella quale non ti fa piacere sentire i rimproveri di papà! Adesso mi ascolti!
Matthew sospirò e appoggiò il capo contro il finestrino, fissando oltre il buio in un posto invisibile all’interno della propria testa.
Tom comprese che qualsiasi parola avesse usato da quel momento in poi sarebbe andata perduta nelle pieghe del silenzio di cui Matt si stava riempiendo il cervello, ma questo non lo fermò.
- Matthew, - disse, con la stessa pazienza di un padre, - questa cosa non ti sembra strana?
Lui non rispose, ovviamente.
- Insomma, lavorate già svariate ore agli studi, e nonostante questo lui poi pretende comunque di obbligarti ad andare a casa sua per continuare a lavorare. Ed è solo una fottutissima canzone! Non oso immaginare cosa ti avrebbe costretto a fare se fosse stato un intero album!
Matt si passò velocemente la lingua sulle labbra, inumidendosele, continuando a fissare le luci dei lampioni scorrere veloci oltre il finestrino.
- Matthew!
Niente.
Tom si morse un labbro, tornando a guardare la strada. Furente com’era, se non avesse prestato abbastanza attenzione lui e Matt si sarebbero andati a schiantare contro il primo palo/albero/idrante disponibile, e non sarebbe stato un bene.
Oltretutto, era evidente che Matthew non aveva neanche percepito una parola che fosse una, quindi per quale motivo continuare a insistere? Se aveva intenzione di infliggersi delle pene sempre maggiori, cercando di espiare un qualche terribile peccato di gioventù – perché Tom non riusciva ad immaginare nessun altro motivo che potesse portare un uomo a farsi questo – chi era lui per fermarlo? Amen.
- Più che altro mi guarda. – disse Matthew all’improvviso, senza voltarsi.
Tom gli lanciò un’occhiata svelta e spaventata. Per un attimo aveva creduto che si fosse addormentato e stesse parlando nel sonno, tanto lontana e bisbigliata sembrava la sua voce.
- Eh? – chiese, fermandosi ad un semaforo.
- Mi guarda. – spiegò Matt, impassibile. – Abbiamo finito di lavorare alla canzone già da secoli, ovviamente è già pronta. Partiamo fra due giorni, hai sempre saputo che l’avremmo finita in tempo.
- …questo non risponde al mio “eh?”. Che diavolo vuol dire che “ti guarda”?!
Il cantante si lasciò andare a un mezzo sorriso, sbuffando un po’ di fiato sul finestrino e arricciando le labbra in una smorfia delusa quando si accorse che sul vetro non si formava la condensa – cosa del tutto normale, vista l’afa umida che attanagliava Londra da qualche settimana a quella parte.
- Fammi capire. – continuò Tom, massaggiandosi le tempie prima di ripartire allo scatto del semaforo sul verde, - Vi sedete sul divano e rimanete a fissarvi da bravi idioti? Cos’è, una delle sue numerose perversioni sessuali?
Matthew ridacchiò.
- Ma no… qualcosa facciamo. – rispose, - Mi dà in mano una chitarra e mi fa provare e riprovare la melodia di base fino a quando non è soddisfatto del risultato, oppure suoniamo insieme fino a quando i suoni non si accordano perfettamente… è bello, a suo modo.
- Perfetto. – commentò Tom con uno sbuffo infastidito, - Praticamente scopate.
- Tom…
- No, sul serio! – continuò il manager, rovesciando la propria furia sulla leva del cambio, - Voi musicisti vi conosco, siete completamente sballati in questo senso! Non oso neanche immaginare a cosa pensate, mentre fate certe cose! Già mi sono venuti i brividi quando una volta ho visto te e Chris improvvisare un duetto di basso e chitarra sul palco, giuro che vi guardavate come se doveste saltarvi addosso da un momento all’altro, una cosa oscena!
- Posso tranquillizzarti, non metterò mai le mani addosso a Chris…
- Matthew, non c’è niente su cui scherzare.
Lui sbuffò, accomodandosi meglio sul sedile.
- Senti, guarda che è tutto a posto. Sono solo un po’ stanco perché passo tanto tempo con lui.
- Questo è esattamente il problema! – disse Tom, frenando un po’ bruscamente davanti al portone del palazzo in cui Matt abitava.
Matt cercò di fuggire dalla macchina bisbigliando un “buona notte” e tirando la maniglia per aprire lo sportello, ma Tom lo fermò chiudendo la propria sicura e attivando la chiusura centralizzata anche di tutte le altre.
- Aiuto! Rapimento! – scherzò il frontman, sollevando le braccia e agitandole come a voler attirare l’attenzione degli automobilisti distratti che sfrecciavano a decine accanto alla macchina ferma.
- Matthew… - lo richiamò Tom, afferrandolo per un braccio e obbligandolo a fermarsi, - Tu sei giovane e stupido, e quindi sei del tutto convinto di poter arrivare alla fine di questo mese senza morire di stanchezza, pur continuando con questi ritmi. Io invece sono pronto ad assicurarti che tu non ce la farai. Non sarai solo stanco morto, Molko nel frattempo ti avrà anche fatto a pezzettini! Io sono davvero preoccupato, e non riesco a capire perché invece tu prenda tutta questa… cosa… così sottogamba! È… strano! Quello che fate è
strano! Lo capisci, Matt?
Lui si abbandonò sospirando contro il sedile.
- È affascinante, non trovi? – disse in un bisbiglio concentrato, invece di rispondere.
- Cosa? La storia dei pezzettini?
Matt gli lanciò uno sguardo sconvolto.
- Tom, tu hai dei problemi…
- No, perché mi rifiuto di pensare tu stessi davvero parlando di
Molko.
Il cantante sbuffò ancora. Era già abbastanza esasperato, e Tom non si stava certo risparmiando in commenti acidi.
- Senti, Tom, non so come dirtelo. A me sta bene. Mi… diverto, credo.
Tom si voltò a guardarlo con un movimento lentissimo e meccanico, spaventoso.
- …ti piace? – gli chiese spettrale, stringendo la presa delle mani sul volante.
- Ma sì, te l’ho detto, è divertente, stiamo lì a-
- Molko. Dico Molko.
Matthew deglutì, mordendosi le labbra.
- Non mi sembra il caso di-
- È successo qualcosa fra voi. Lo so. Oddio! Matthew! Ma che cazzo combini?!, tu non hai mai-
-
Tom…
Il manager serrò le labbra, continuando a fissarlo con aria agghiacciata.
- Non… non è nel senso che intendi tu. È solo… lavoro. Perciò sta’ tranquillo e fammi uscire da questa macchina. Ho veramente
sonno.
Non avrebbe voluto. Sinceramente, avrebbe preferito tenerlo imprigionato lì dentro per sempre e impedirgli di continuare ad avanzare lungo quel sentiero che, più che accidentato, a lui sembrava veramente distrutto, e molto più che pericoloso.
Ma che Matt avesse sonno – e che, soprattutto, avesse bisogno di riposo – era una verità inconfutabile, e lui non si sentiva di provare a metterla in dubbio proprio in quel momento.
Riaprì le sicure e lo osservò uscire dalla macchina.
- Riguardati. – gli disse.
Matthew non lo sentì.
Tom scosse le spalle, accorgendosene, perché tanto sapeva che non avrebbe fatto alcuna differenza.
*Here I go and I don't know why
I spin so ceaselessly
Could it be he's taking over me
I'm dancing barefoot
Headed for a spin
Some strange music drags me in
It makes me come up like some heroine
Due settimane di tour all’attivo.
Mattino.
Non tanto presto. Neanche tanto tardi.
Il telefono squilla, sollevo la cornetta e poi la lascio tornare a posto con poca delicatezza.
La sveglia dell’albergo mi ha appena informato che è ora di smettere di poltrire e darmi una mossa, e chi sono io per dirle che ha torto?
Mi sollevo dal materasso, totalmente avvolto nelle lenzuola, col pensiero fisso che devo parlare a Matthew di una modifica che potremmo fare alla chiusura della canzone. Ricordo che l’ho pensata nel dormiveglia ed era una figata, c’erano battimenti pure lì, lui è assurdamente entusiasta da quando ha imparato a farli e sono giorni che sogna di infilarli da qualche parte.
L’obiettivo è dargli un’occasione di sorridere soddisfatto, giusto per vedere che espressione fa in una situazione simile.
Rigiro su me stesso e il mio sguardo cade sul mucchietto di vestiti sulla poltrona e che non riconosco come miei.
…ci metto effettivamente
troppo tempo a capire che quelli non sono straccetti random, ma il corpo di Matt Bellamy in persona, addormentato in bilico fra un bracciolo e l’altro, con la testa che pende nel vuoto e la bocca spalancata che lancia una sinfonia di borbottii da sonno decisamente poco armonici.
Uno schiaffo in pieno volto mi avrebbe risvegliato con più delicatezza.
Uno schiaffo in pieno volto non avrebbe voluto dire
altrettanto.
Respiro. Respiro. Perdio,
respiro.
Ok…
Che. Ci. Fa. Lui. Qui?
*Cerca di ricordare, Brian.
Non è poi tanto difficile, ieri sera non è stato così diverso dalle altre sere. Siete andati a cena, Tom e Alex vi hanno fissati con noia sempre crescente mentre parlavate di chissà cosa e di quello che pensavate di chissà chi – litigando vagamente, tra l’altro – poi tu hai ricominciato a punzecchiare Matthew – cosa gli hai detto? Non ricordi. Matt rideva, comunque – e Tom ti ha guardato come fossi l’anticristo e dieci minuti dopo aveva già finito di mangiare e dichiarato di avere mal di testa ed essere stanco morto, e perciò è sparito, lasciandovi soli con Alex, che s’è stretta nelle spalle, ha capito di essere appropriata all’ambiente come un pesce sulla cima di una montagna e s’è a sua volta dileguata in un battito di ciglia dopo un saluto sottovoce.
Avete dato un’occhiata ai dolci nel carrello, avete deciso entrambi che una mousse al cioccolato mezza sgonfia non valeva la pena di continuare a subire le occhiatacce dei camerieri appostati dietro l’angolo della porta della cucina, maledicendovi in ogni lingua per essere ancora lì all’una passata di notte, e vi siete spostati in camera tua “per continuare a chiacchierare”.
In realtà
tu ti sei spostato in camera tua per continuare a fissare Matthew, e
lui t’ha seguito perché per qualche strana ragione gli piace essere fissato da te.
Poco male, non t’importa, l’unica cosa importante è raggiungere il tuo obbiettivo.
L’hai lusingato un po’ per osservarlo ridacchiare timidamente, poi l’hai offeso tra le righe per osservarlo infuriarsi d’improvviso e cercare di nasconderlo, poi ti sei fatto perdonare chissà come – non vuoi saperlo – probabilmente un altro complimento piazzato lì tra una parola e l’altra come non fosse stato perfettamente pianificato. Matthew ci casca sempre, è quasi commovente.
Poi in camera sei crollato sul letto, giustamente distrutto, e Matthew ti ha imitato, crollando sulla poltrona.
Tu hai pensato di stuzzicarlo ancora e dirgli che se voleva poteva stendersi accanto a te, ma ti sei reso conto di non avere ben chiaro in mente se lo stessi stuzzicando solo per osservare con divertimento la sua reazione imbarazzata o perché… meglio non dirlo, e perciò hai lasciato perdere. Lui s’è accomodato sulla poltrona – nello strano modo in cui si accomoda, ovvero sottosopra – ed avete continuato a parlare di… boh. L’hai preso in giro per la sua posizione, lui ti ha preso in giro perché stavi crollando di sonno, tu l’hai ammesso e lui ti ha detto che… no, non lo ricordi, però ricordi che hai riso e ti sei appoggiato con la testa sul cuscino e hai colto di sfuggita l’orario assurdo lampeggiante sul display dell’orologio, e già dormivi.
Adesso sai esattamente cosa farai una volta che sarai uscito dalla tua stanza.
Scenderai di sotto, farai colazione, ti infilerai il cappotto e andrai a visitare l’ennesima location a due passi dalla spiaggia, rabbrividendo perché ormai siete al nord e comincia a far freschetto di sera, per non parlare dell’umidità – e tu
odi l’umidità.
Farai il soundcheck, farai uscire pazzi uno o due tecnici del suono, giusto per il gusto di dimostrare che sei ancora bravissimo in questo, ascolterai distrattamente i commenti acidi dell’addetta ai microfoni, che s’è presa una cotta per Matt e quindi è sempre prodiga di “che bastardo, non posso credere che lo tratti così!”, e per darle ragione romperai un po’ l’anima anche a lui, anche se magari fino a quel momento non gli avrai fatto niente e non avrai neanche pensato di farlo.
Sì, come al solito.
Il problema è.
Come arrivare alla porta ignorando l’enorme disastro di cui Matt addormentato sulla tua poltrona è testimone?
*Aprì gli occhi perché le sue narici catturarono il profumo di Brian.
Aprì gli occhi,
sconvolto, perché riconobbe quel dannato profumo.
Sentì Brian mormorare un “maledizione” e lo guardò.
- Non volevo svegliarti. – disse l’uomo, fissandolo dall’alto, e Matt percepì chiaramente che non era un accenno di sentimento, ma una chiara dichiarazione di fastidio. Tradusse in inglese corrente, “non avevo affatto voglia di vederti”. La lingua di Brian non era più un mistero, ormai.
Non poteva far finta di niente e tornare a dormire, perciò si mise seduto e si grattò la nuca, forzandosi a tenere la bocca chiusa nonostante lo sbadiglio che scalciava per uscirne.
- È ancora presto. – continuò Brian, - Hai tempo sufficiente per farti una doccia, prima di scendere per la colazione. – lo guardò dall’alto in basso, le labbra appena increspate in una smorfia indecifrabile, - Non ti sei neanche cambiato per dormire. – puntualizzò, appoggiando il cappotto su una spalla con un movimento fluido e reggendolo per il colletto con l’indice e il medio.
- Scusa. – disse lui, senza specificarne il motivo. Aveva sempre la sensazione di doversi scusare per qualcosa, quando Brian gli parlava. Probabilmente perché ogni parola del cantante era intrisa da una tale quantità di risentimento da far sembrare che fosse lui stesso a pretendere delle scuse.
Brian scosse le spalle e si diresse tranquillamente verso la porta.
- Brian… - lo chiamò lui, sperando che lo ignorasse.
La cosa non avvenne.
…Brian non poteva ignorarlo.
Lui non poteva ignorare Brian.
- Sta succedendo qualcosa fra noi?
Brian lo fissò stupito, rigirandosi il cappotto sulle dita per poi appoggiarlo sul braccio piegato.
- Stiamo lavorando insieme. – rispose con naturalezza, scrollando le spalle.
Matthew si morse un labbro.
- A parte quello… - spiegò titubante.
Brian sospirò, scuotendo il capo.
- Cosa ti fa pensare che non avessi capito cosa intendevi? – chiese, mettendo una mano sul fianco.
- Hai risposto che stavamo solo lavorando insieme…
- …appunto.
Sentì il gran bisogno di stringere i pugni e schiacciarsi contro qualcosa di estremamente appuntito, fino a sanguinare.
Conosceva quella sensazione, era abituato a chiamarla frustrazione. Solo che sembrava mille volte più amplificata, quando Brian lo guardava con quegli occhi congelati e gli strillava addosso
non sei niente!, senza neanche avere il bisogno di alzare la voce.
- Bellamy. – lo richiamò, e lui sollevò lo sguardo e tornò a fissarlo. – Non ti fare strane idee.
Matthew si lasciò andare contro lo schienale della poltrona, massaggiandosi gli occhi.
- Se ti ho chiesto è proprio perché non ho nessuna idea.
Brian gli si avvicinò, lieve come stesse volteggiando a mezz’aria. Lo prese delicatamente per il polso e gli scostò la mano da davanti agli occhi. Così Matt poté vedere il suo sorriso sprezzante e morirci dentro.
- Sbagliato, Bellamy. Se mi hai chiesto è perché l’idea ce l’hai. E ti fa dannatamente paura.
*Non ho ancora finito con te, e tu lo sai.
Il tuo cervello non è ancora del tutto andato, è per questo che riesci ancora a capire cosa diavolo ti sta succedendo.
D’accordo, non volevo che finisse così, all’inizio.
La cosa mi è sfuggita di mano, non ho problemi ad ammetterlo – almeno con me stesso.
Non mi sta bene, come finale, ma devo dire che poteva andarmi peggio.
Nel senso. Temo che tu ti sia, come dire, innamorato di me.
No, credimi, non penso di essere l’amore della tua vita e so perfettamente che quello che stai provando è il tipo di amore che dimentichi in una settimana quando l’oggetto del tuo desiderio non ti si agita più intorno come una trottola.
Ma è ossessivo. Cerca l’attenzione. Cerca l’approvazione. Cerca l’interesse.
Sì, sei decisamente innamorato, e questo è male.
Ma avrei potuto innamorarmi io, e questo sarebbe stato
peggio.
Cerca di capire, Matthew, non sei
tu il problema. Non lo sei mai stato, non sei stato che uno sciocco pretesto. E forse a te sarebbe andato bene essere davvero il fulcro della mia angoscia, forse quando capirai che in realtà, davvero, mi sei passato addosso come uno sbuffo d’aria in mezzo a una tempesta, ti sentirai usato e tradito e distrutto, ma
è questo che sei.
Sarò sincero, Matthew, e lo sarò perché quello che sto per dire tu non lo sentirai mai – la bellezza del monologo interiore…
Io ti trovo fantastico. Tu sei luminoso. Sei positivo, sei talentuoso, hai davanti un avvenire invidiabile al punto da sembrare vomitevole, i ragazzini ti prenderanno a modello, nasceranno tante di quelle coverband dei Muse che non saprai dove guardare prima per trovare un sosia da portare in tour come supporto, e poi NME continuerà a spiaccicarti in copertina fino a quando il mondo non sarà sazio – e questo non succederà tanto presto, te lo assicuro – e Total Guitar continuerà a intervistarti cercando di carpire il segreto della tua bravura – senza riuscirci, perché il segreto della tua bravura sei tu e nient’altro, qualcosa di interamente non replicabile.
Io ti trovo perfino bello. Non che tu sia una bellezza canonica, tutt’altro, sei del tutto
smontato, e sei troppo magro, e non hai la benché minima idea di come valorizzarti come uomo, ma hai un fascino naturale che in genere la gente se lo sogna, e riesci ad essere perfino carino anche quando hai addosso l’abbinamento più improponibile che potessi tirare fuori con una camicia e un paio di pantaloni. Hai un sorriso e una risata che smuovono cose nello stomaco, e un paio d’occhi che perforano il cristallo, Dio, quegli occhi, e ormai li conosco, non faccio che guardarli da settimane.
Ormai conosco
te.
Non mi nascondi più niente.
Ormai io e tu non siamo più due stranieri, l’uno per l’altro.
Siamo qua.
Le nostre facce.
Brian Molko, Matthew Bellamy e tutto ciò che questo comporta.
La puttana e il pagliaccio.
Lo stronzo e l’idiota.
Il poeta da due soldi e il genietto immaturo e allucinato.
Non so chi ne esca peggio, ma è del tutto irrilevante, non è vero, Matthew? Quanto sarebbe sciocco cercare di stabilire a chi vada il primato dell’indecenza?, quando è già più che sufficiente sapere che io coi miei atteggiamenti da snob navigato e tu con i tuoi da novellino felice siamo
ridicoli, e
disgustosi, Bellamy, entrambi.
Non senti mai il peso di tutte le maschere che indossi, Matthew? La maschera con gli amici, la maschera con le scopate, la maschera con i colleghi, la maschera con i genitori…
Quante di loro ti assomigliano, almeno in parte? In quante ti riconosci?
Bellamy, io ogni tanto penso che stenterei a capire che sono davvero io anche se mi sbattessi addosso mentre cammino per strada.
Per me è difficile, davvero.
…ma non so perché, ora come ora ho la certezza assoluta che riconoscerei te
ovunque. Che se ti adocchiassi, anche solo da lontano, ti vedrei risplendere e comincerei a seguirti come fossi la mia stella cometa, aspettandomi di essere condotto verso un luogo fantastico in cui ricevere un’illuminazione, una benedizione, un perdono.
Credo che questo gioco sia partito con Brian Molko che cercava di sopraffarti.
E anche se no, non sono innamorato, e anche se no, anche se lo fossi non lo ammetterei, credo anche che questo gioco si sia concluso con Brian Molko che, da te, si lascia sopraffare.
Matthew…
…tu mi riconosceresti?
Mi seguiresti?
Almeno per un po’?
*- Brian, cerca di calmarti…
- Col cazzo che mi calmo, Alex! Dove
diavolo è finita la Jaguar?!
- Diosanto… - mormorò Alex, lanciando intorno sguardi indemoniati ai ragazzi che ancora scaricavano casse di strumenti nel magazzino adibito come deposito per il festival di Aberdeen, - Ma con tutte le fottutissime chitarre che ha, dovevate perdergli proprio
quella?!
La sua lamentela cadde nel vuoto, i ragazzi continuarono a sistemare le casse un po’ alla rinfusa, preoccupandosi solo di dividerle per gruppo secondo il nome stampato sul coperchio, e Brian si premurò di riaccendere l’interesse della propria manager tossicchiando irritato e incrociando le braccia sul petto.
- Senti, Brian. – disse la donna, riavviandosi i capelli dietro le spalle, - Non ho la minima idea di dove sia la tua Jaguar. Le altre chitarre sono a posto, fanne a meno e usa loro!
- Tu sei del tutto impazzita! – strillò Brian, stringendo i pugni, - Potrei anche lasciare perdere se non potessi usarla oggi, ma come pretendi che possa passare
il resto della mia vita senza poterla più suonare?!
Alex sospirò, roteando gli occhi.
- Dio, Brian, è l’ultima data…
- E quella è la mia chitarra preferita!
- Brian!!!
- Senti, non è un casino che ho tirato fuori io per rompere le palle, d’accordo? Ci tengo davvero, lo sai!
- Oh,
scusa! – lo prese in giro Alex, fingendo dispiacere, - Ormai hai tirato fuori tanti di quei casini senza nessun motivo, che fatico un po’ a riconoscere quando invece sei preoccupato sul serio!
A quel punto, Matthew, che aveva cercato di tenersi in disparte e in religioso silenzio fino a quel momento, capì che se non fosse intervenuto probabilmente quei due si sarebbero sbranati a vicenda, e decise perciò di farsi avanti.
- Brian… - lo chiamò appena, e subito lui lo graziò della propria attenzione, cosa che irritò non poco Alex, - Non è del tutto improbabile che abbiano imballato la tua chitarra assieme alle mie… vuoi che ti dia una mano a controllare?
Brian sospirò.
- È la prima cosa intelligente che sento dire oggi. – commentò, dirigendosi a passo spedito verso l’entrata del magazzino, mentre Matt lo seguiva a ruota. – Vedi che hai anche tu i tuoi momenti di genialità? Scommetto che se parlassi di meno si noterebbe di più.
Matthew ignorò gli ultimi commenti e lo condusse verso l’angolino in fondo al magazzino, nel quale erano stati stipati per primi i loro strumenti, dal momento che prima di partire da Edimburgo Brian aveva preteso per chissà quale motivo che fossero imballati e caricati sul camion per ultimi.
- Dovresti calmarti… - gli disse, osservandolo camminare nervosamente, a scatti.
- Fatti gli affari tuoi. – rispose Brian, scoccandogli un’occhiataccia, - Quando dicevo che dovresti parlare di meno, ero serio.
Matt sospirò e continuò a fissarlo di sottecchi.
Brian faceva lo stesso.
Brian continuò a farlo finché non furono finalmente davanti alle loro casse, con stampati sopra i loro nomi, uno sotto l’altro. E quando arrivarono lì, e Matt si guardò intorno, e vide che erano solo loro e centinaia di casse, che era come fossero completamente soli in un labirinto enorme, dal quale era totalmente impossibile fuggire, finalmente capì.
Ce ne aveva messo di tempo.
- Brian. – lo chiamò, e lui lo ignorò, si infilò un dito in bocca, morsicando nervosamente l’unghia, e si diresse deciso verso una cassa, mormorando “come diavolo la apro adesso?”. – Brian… - lo chiamò ancora lui, andandogli incontro.
- Bellamy, sto cercando la mia chitarra. – rispose l’uomo, continuando ad ignorarlo.
- Aspetta, Brian, ti devo parlare.
- Non voglio affatto parlare con te! - strillò Brian, fissandolo negli occhi per un solo secondo, - Voglio solo trovare la mia dannatissima chitarra, lasciami in pace!
Matt si tirò indietro, amareggiato.
Osservò Brian continuare a scrutare la cassa in ogni suo punto, cercando qualcosa per aprirla – un pulsante magico? Una cerniera? Un piede di porco messo lì ad uso e consumo di chi volesse dare una sbirciata all’interno? – e capì che non sarebbe riuscito a fargli dire nulla. Che Brian avrebbe continuato a trattarlo come niente. Che poi se ne sarebbe andato. Che non l’avrebbe più rivisto.
- Non puoi comportarti così. – disse deciso, - Devi prenderti le tue responsabilità!
Brian si fermò a metà del movimento che stava compiendo, tornando a guardarlo con più attenzione.
- Non ho responsabilità nei tuoi confronti. – disse freddamente, battendo un piede per terra.
- Queste sono le cazzate che puoi raccontare a chi vuoi, ma non a me!
E fu il turno di Brian di tirarsi indietro, spalancando gli occhi.
- Bellamy, non ti allargare!
Matthew si morse un labbro, muovendosi minaccioso verso di lui.
- Sei tu che ti sei allargato per primo! – ringhiò, furioso e irritato, - Questa situazione è tutta colpa tua!
- Dovevo trovare un modo per tenerti a bada.
- Certo, la molestia sessuale-
- La molestia sessuale! – scoppiò a ridere Brian, - Ti ho fatto tante di quelle cose che fatico io stesso a tenerne il conto! E tu pensi solo a quello! Bellamy, hai dei problemi…
- Piantala di chiamarmi
Bellamy, Brian, mi dà un fastidio allucinante!
- Oh, ti infastidisce? Scusami, Bellamy. A me infastidisce che tu mi chiami per nome, guarda un po’! Come se avessi chissà che confidenza col sottoscritto! Fottiti!
Non si rese neanche conto di cosa stesse facendo, quando sollevò una mano e, piantandogliela con forza su una spalla, lo schiacciò contro il muro di casse che aveva dietro, costringendolo ad aderire perfettamente al legno ruvido e scheggiato, e aderendo perfettamente a lui.
Brian si lasciò andare ad uno sbuffo sorpreso, ma non si arrese. Trovò i suoi occhi e lo costrinse a fissarlo, lo scrutò fin dentro il cervello con quei punteruoli di ghiaccio verde brillante, e quasi lo fece indietreggiare di paura.
- Ti piace essere provocato, Bellamy. – constatò, parlando a bassa voce, in un sussurro appena udibile, quasi silenzioso in confronto ai rumori che venivano dagli altri settori del magazzino.
- Sta’ zitto! – replicò Matthew, afferrandolo per il colletto e spingendo l’avambraccio contro il suo collo.
Brian sollevò il mento, come gli si stesse offrendo.
- Hai un’indole da teppista! – commentò, quasi divertito.
- Molko, ti ho detto-
- Niente più
Brian?
Gli stava scoppiando la testa.
Sentiva il proprio sangue rombare nelle tempie così furiosamente che si convinse che sarebbe davvero esploso, e che se tanto doveva morire…
- Piccolo bastardo… - mormorò Brian, - Guardati…
Invece di guardare sé stesso, Matthew continuò a guardare lui.
- Come diavolo fai?
Fare?
- Sei… sei disfatto… - sussurrò Brian, lasciando scorrere lo sguardo su di lui, dagli occhi alle labbra, - Sei stanco e distrutto… E sono stato io a ridurti così… ti ho mostrato il peggio di me, ti ho afferrato nel pugno della mia mano, Bellamy… - e sollevò la mano stretta a pugno, mostrandogliela senza alcun intento violento, solo per rafforzare il concetto, - …sei così terrorizzato che… guarda con che occhi mi fissi adesso… se potessi, se non fossi un uomo, staresti già piangendo da un pezzo, e le nostre posizioni sarebbero invertite…
- Che cazzo stai dicendo? – ansimò lui, stringendo di più la presa sotto il collo, pressandolo contro le casse e percependo il suo lamento di dolore quando uno spigolo ribelle gli si conficcò nella schiena.
- Sembri un condannato a morte… - continuò Brian, come stesse parlando con qualcun altro, sistemandosi meglio sotto di lui, - E nonostante questo…
- Brian-
- Fanculo. Sei fottutamente bello.
Provò repulsione, voglia di separarsi da lui e desiderio di spaccargli la faccia.
Rimase lì, interdetto, a fissarlo negli occhi.
- Mi piaci da morire. – spiegò il moro, guardandolo con la stessa intensità, - Io dovrei fare il bello e il cattivo tempo con te, dovrei rigirarti tra le dita e schiacciarti contro il palmo come carta straccia. E invece ti vengo dietro come un cagnetto. – sospirò, - Ti svolazzo intorno come una falena. Sono peggio del topo che prende comunque il formaggio dalla trappola, anche se sa che sarà un suicidio.
Silenzio.
Sembrarono fermarsi anche i ragazzi.
Loro due, altissime mura di scatole e il vuoto.
- Io sono già morto. – concluse Brian, - Sono morto quel pomeriggio, quando mi hai parlato di stronzate per tutto il tempo e io ti ho trovato affascinante. – ridacchiò, - Buffo, mi reputo una persona tanto intelligente… me ne sto accorgendo solo ora.
- Io non-
- Finiscimi.
- Cristo, Brian-
- Sono già morto. – si sporse appena, qualche centimetro, gli sfiorò le labbra, - Finiscimi.
*Passò lievemente una mano sul pavimento sporco e guardò con paura le casse disordinate impilate l’una sull’altra accanto a lui, sperando che non decidessero di crollare proprio mentre lui e Matthew cercavano di riprendere fiato dopo aver finito di scopare.
- Abbiamo fatto un casino… - commentò a mezza voce, guardandosi intorno e notando alcune scatole già rovesciate per terra, - Speriamo di non aver spaccato qualche strumento.
Matthew ridacchiò appena, intervallando ad ogni risatina un tentativo di smettere di ansimare convulsamente.
Brian si voltò a guardarlo.
- Ti ho sopravvalutato. – disse con una smorfia.
- Che?! – strillò Matthew, voltandosi a fissarlo d’improvviso, - Voglio dire, non è che pretenda di essere un dio del sesso o che, ma almeno potresti-
- Non in quel senso! – rise Brian, stringendo le braccia al corpo e cercando di recuperare i propri pantaloni perduti da qualche parte fra le ginocchia e le caviglie, - Sei stato bravissimo, non preoccuparti…
Matthew sbuffò e arrossì, mentre chiudeva gli occhi e si voltava per sottrarsi al suo sguardo.
- Ho come l’impressione di averti guardato come fossi un dio, per tutto questo mese. – continuò Brian, il tono di voce sereno e rilassato come Matthew non l’aveva mai sentito, - Ma alla fine sei un uomo anche tu. Sei… - sorrise, - bello, affascinante e particolare. Il mio ideale di uomo, credo. Ma sei un uomo comunque. Stai qui accanto a me col fiato corto, sei un uomo normale.
- Non capisco se dovrei prenderlo come un complimento… - borbottò Matt, riabbottonando i jeans.
- Non puoi prenderlo come una semplice constatazione e fartelo bastare? – rise Brian, spostandosi di qualche centimetro verso di lui.
Matt lo osservò avvicinarsi, e quando lo vide fermo a pochi millimetri da sé si chinò verso di lui, baciandolo lievemente sulla bocca.
- I tuoi sono discorsi da addio… - commentò, sfiorandogli le labbra con due dita quando si fu separato da lui, - Sarai contento, adesso. – concluse malinconico.
- Più di prima, sicuramente. – ridacchiò Brian, ma quando vide che Matt s’era offeso si allungò su di lui, sfiorandogli il petto con una mano. – Se vuoi possiamo rivederci, comunque.
Matt lo fissò, sconvolto.
-
Tu lo stai chiedendo
a me?
L’altro annuì serenamente.
- Sai esattamente come andrà avanti questa “relazione”, se di relazione si può parlare… - si lamentò Matthew, - Per quanto io possa… tenerci… siamo troppo diversi, sarebbe un casino incredibile, finirebbe male!
Brian rise ancora, e Matthew pensò distrattamente di non averlo mai sentito ridere tanto.
- Ti sfido, Bellamy. – disse lui, sollevandosi in ginocchio e chinandosi su di lui, per sfiorargli la fronte con la propria, - Stupiscimi.