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E TI RICORDO ANCORA
Il posto non era cambiato di una virgola, era ancora piccolo e scuro come lo ricordava. Le pareti erano ancora dipinte di blu, per quanto sbiadito e scrostato in più punti, e le luci erano dello stesso azzurrognolo e freddo colore di un tempo. Pochi sgabelli attorno al banco semicircolare del bar, qualche tavolino basso con relativi divanetti in pelle ormai talmente vecchia da aver perso qualsiasi lucentezza, e più in fondo le porte dei prive – quante volte s’era chiuso lì dentro con Asuka, quando era adolescente? Quante volte aveva dovuto chiedere aiuto a Rei, quando si era ritrovato a corto di soldi e il pensiero di un’ora con Asuka su un divano morbido e appartato lo abbagliava troppo per poter pensare a cosa fosse giusto fare e cosa no?
A guardare il locale in quel momento, con gli occhi di un adulto e col gravare odioso del tempo e dei ricordi sulle spalle, il pensiero di aver perso la verginità proprio su uno di quei divani lo infastidì da morire. Era tutto così squallido e vuoto, così vecchio, sapeva d’antico.
“Quindici anni”, si disse, e non riuscì a crederci.
“Quindici anni”, si ripeté, e gli sembrò non fossero passati nemmeno quindici secondi.
“Quindici anni, convinciti!”, si lamentò nella sua mente, esasperato dalla sua stessa ostinazione.
“Quindici anni, dai”, e ne sentì d’improvviso il peso sulla testa e sulle gambe, ed ebbe bisogno di sedersi.
Si avvicinò al bar e si appollaiò su uno sgabello qualsiasi, aspettando di decidere cosa prendere prima di richiamare l’attenzione del cameriere dall’altro lato del bancone.
Avrebbe voluto odiare quel posto ancor più di quanto non l’odiasse già. Gli sembrava di riflettersi su ogni superficie. Anche in lui non era cambiato niente. Anche dentro di lui c’erano ancora gli stessi stupidi divani vecchi, e gli stessi orribili tavolini scrostati. Per non parlare dei suoi prive.
- Cosa ti do? – gli chiese il barista, distrattamente, continuando ad asciugare i bicchieri.
- Una birra. – rispose lui, sospirando pesantemente e appoggiando entrambi i gomiti sul tavolo.
Perché era andato in quel posto?
Era il suo primo giorno a Tokyo dopo quindici anni, avrebbe potuto fare qualsiasi cosa, vedere chiunque, spendere qualche soldo in un luogo qualsiasi o semplicemente fare una passeggiata da qualche parte in centro, e invece ecco che si ritrovava a rivangare vecchi ricordi agrodolci, sorseggiando birra fredda nell’unico locale che avesse frequentato durante l’adolescenza, quando venire sballottato per club dai suoi amici più cari era l’unica cosa che gli piacesse veramente fare. Quando ancora
poteva.
Rei e suo fratello Kaworu semplicemente adoravano quel posto. Fino a quel momento aveva sempre creduto fosse perché, essendo due animi piuttosto solitari, anche se in due modi completamente diversi, gradivano la tranquillità di quelle quattro mura, dovuta alla quasi perenne scarsità di clienti. In realtà, capiva solo adesso, probabilmente avevano capito già allora l’importanza nostalgica che avrebbe poi avuto, quando fossero cresciuti, aver ripetuto sempre gli stessi gesti, sabato dopo sabato, settimana dopo settimana e così via.
Specialmente Kaworu, amava con passione trascinante i ricordi. Amava sapere di averne tanti, e amava pensare che ne avrebbe avuti anche di più in futuro. Amava perdercisi. Amava fare di qualsiasi momento un ricordo prezioso, e forse per questo, troppo spesso e con troppo accanimento, si impegnava ad agire come se ogni movimento dovesse essere teso a diventare nient’altro che un ricordo piacevole, che avesse deciso di ripescarlo fra dieci, venti o trent’anni.
Pensando a Kaworu venne investito da una sensazione strana che non avrebbe saputo definire piacevole né spiacevole. La cosa lo inquietò, perciò smise di pensarci.
Anche ad Asuka quel posto piaceva. Ma a lei piaceva qualsiasi cosa sulla quale potesse esercitare un controllo stretto e continuo, e dal momento che lì regnava incontrastata, in quanto figlia adottiva del proprietario, era logico che quel posto esercitasse su di lei un fascino particolare, quasi magnetico, esclusivo.
In ogni caso, pensare alla connessione fra Asuka e quel locale l’aveva sempre fatto sentire un idiota. Insomma, era stato il ragazzo della figlia del padrone! Avrebbe dovuto pensare più a sfruttare quella quasi parentela per ottenere i prive gratis, piuttosto che pagare ogni volta profumatamente nella speranza di fare buona impressione su quell’uomo.
- Questo posto è ancora del signor Kaji? – chiese in un soffio al barista, finendo la birra e posando il boccale sul piano.
- No. – rispose quello, senza neanche guardarlo.
Gli bastava.
Lasciò i soldi sul bancone e si alzò, preparandosi ad uscire.
In quel momento, Kaworu Nagisa varcò la soglia e lo vide, congelandosi sulle scale e sferzandolo con uno sguardo talmente sconvolto che lo pietrificò.
*
E ti ricordo ancora
Le braghe corte di tuo fratello e le gambe viola
Tua mamma stanca costretta a farti un po’ da padre
Eh, me la ricordo ancora tutta bianca
Si lasciò ricadere indietro sullo sgabello, senza forze, schiudendo le labbra e spalancando gli occhi. Kaworu continuò a fissarlo per un bel po’ prima di realizzare, riscuotersi e scendere lentamente, uno scalino dopo l’altro, senza osare guardarlo ancora, con gli occhi colmi di confusione e ansia.
Era strano vedere Kaworu così. Sul suo volto, sempre così sereno e compassato, stonavano non poco sentimenti come quelli. Kaworu era un tipo da sorrisi. Non da lineamenti tesi.
Si rattristò un po’, sentendosi in colpa come avesse deturpato un’opera d’arte.
Nell’osservarlo avvicinarsi a lui e cercare di ricomporre sulle labbra un sorriso di gioiosa sorpresa, si accorse che era rimasto bello, proprio come lo ricordava. Era ancora incredibilmente esile. La sua pelle era ancora così chiara da sembrare trasparente. Non sembravano esserci rughe, non sembravano esserci segni d’età, sembrava ancora un ragazzino.
“Siamo sicuri siano passati davvero quindici anni…?”, si ritrovò a chiedersi, stupito.
Kaworu si fermò a un passo da lui, riuscendo finalmente a riprendere possesso delle sue facoltà espressive e sorridendogli.
- Shinji… – disse, con lo stesso trasporto di chi, finalmente, riesce a dare voce a un ricordo dimenticato da tempo.
- Ciao… - disse lui, incerto, sollevando una mano in segno di saluto.
Per un secondo, Kaworu sembrò chiedersi cosa fare, come fosse giusto salutarlo. Un abbraccio? Un bacio sulla guancia? Una stretta di mano?
Dovette decidersi per non fare nulla di tutto questo, perché non lo sfiorò neanche con un dito.
- Come stai? – gli chiese invece, continuando a sorridere e sedendosi su uno sgabello accanto a lui.
- Bene…
- Quando sei tornato?
- Stamattina…
- Sei in ferie?
- Sì…
- E quanto ti fermi?
- Uh? Ah… non so… non penso starò molto… forse un paio di giorni.
Kaworu spalancò gli occhi.
- Così poco? – chiese, inarcando le sopracciglia.
Shinji si strinse nelle spalle, scusandosi con un sorriso.
- Capisco… - mormorò infine l’uomo, facendo cenno al barista perché portasse una birra anche a lui.
- …e tu, Kaworu? Come stai? – chiese a sua volta, dopo un lasso di tempo che gli sembrò infinito.
Kaworu si voltò nuovamente a guardarlo. Gli sorrise ancora, socchiudendo gli occhi.
- Sono contento di rivederti. – disse.
“Questo non risponde alla domanda”, avrebbe voluto dire, ma si trattenne.
Tutto sommato, gli faceva piacere rivederlo dopo tanto tempo, anche se non aveva messo in conto un’eventualità simile. “Tokyo è così grande”, aveva pensato, scendendo dall’aereo, “che non vedrò nessuno se non sarò io a volerlo”. Aveva sottovalutato il potere della casualità?
…no. Aveva sottovalutato l’attaccamento di Kaworu al suo passato, molto più probabilmente.
- Ti sei ricordato di quando venivamo qua, eh? – gli chiese lui, tornando a guardarlo dolcemente.
Shinji si strinse di nuovo nelle spalle, imbarazzato.
- Anche tu… - rispose.
- No, io non ho avuto bisogno di “ricordarlo”. Vengo spesso qui.
- Solo?
“…ma sono completamente impazzito?”
- Sì. Solo.
Beh, aveva fatto trenta, perché non fare trentuno?
- …e come mai?
Kaworu ridacchiò, scuotendo il capo, e non rispose.
- Perché non mi chiedi quello che stai cercando di evitare da quando mi hai visto?
- …mh?
- Avanti, Shinji…
Abbassò lo sguardo. In realtà non stava pensando a niente, ma aveva sempre avuto cieca fiducia nella capacità di Kaworu di vedere oltre i suoi stessi pensieri, di cogliere le sue incertezze dove neanche lui sapeva che esistessero, di aprire botole dimenticate da tempo immemore. O di crearne di totalmente nuove.
Sì, Kaworu vedeva le sue domande anche dove non c’erano, dava loro vita per lui, quando lui dimenticava di farlo. Si rigirava la sua mente fra le mani come plastilina, le dava la forma che preferiva.
Era sempre stato così.
Era probabilmente colpa del fatto che si conoscessero da tutta una vita. Del fatto che lui fosse il suo migliore amico. Del fatto lo capisse meglio di chiunque altro. Della sua straordinaria sensibilità.
Di tanto altro.
Non che Shinji si fosse mai soffermato anche un solo momento, cercando di stabilire di chi o di cosa fosse la colpa dell’influenza di Kaworu su di lui.
O meglio, non che la ritenesse affatto una colpa, tanto per cominciare.
- Come stanno gli altri…? – chiese, incapace di guardarlo, rigirandosi il boccale vuoto fra le mani.
Kaworu sorrise.
- Non era questa la domanda. Comunque stanno tutti bene.
- …come sta Asuka?
- Ah! Eccola! Ecco la domanda!
Lo ascoltò ridere di gusto, sentendosi sempre più in imbarazzo.
- Sta bene. – rispose infine, - Non è rimasta traumatizzata o altro.
- Non… non intendevo niente del genere…
- Sì che lo intendevi.
Tornò a guardarlo.
Sorrideva naturalmente, e nella sua voce non c’era la benché minima traccia di malizia. Non lo stava stuzzicando, stava constatando una realtà.
Era vero, aveva pensato più volte che quello che aveva fatto l’avesse potuta sconvolgere.
- E’ un po’ strano – mormorò, inquieto, - sentirsi dire che la cosa le è passata addosso senza problemi.
- Non ho detto questo. – rispose lui, con la stessa calma di prima, - Ho detto solo che adesso sta bene. Shinji, tu aggiungi significati nascosti dove non c’è bisogno…
Perché, invece quando li aggiungeva lui aveva sempre ragione?
- E… lei ti parla, adesso?
Scrollò le spalle.
- Non nego che mi farebbe piacere riallacciare i contatti. Ma no, non mi parla. Non l’ha più fatto.
Allora, tutto sommato, non ne era uscita completamente indenne.
- E com’è che sei così sicuro che sta bene?
- Rei. – rispose, come fosse un’ovvietà, - E’ lei che mi informa.
- Come sta?
Kaworu rise ancora, di gusto.
- Bene. – disse infine, terminando la sua birra, - Ma se ci tieni tanto a sapere come stanno posso farti avere qualche risultato di analisi ospedaliera, così ti tranquillizzi. – propose ridendo, - Oppure possiamo organizzare qualcosa domattina, tutti insieme.
Abbassò lo sguardo, sorridendo lievemente.
- Probabilmente non è la cosa migliore da fare…
Kaworu sospirò.
- No, probabilmente no. Credo che Asuka non verrebbe.
- Non verrebbe neanche Rei. Lo sai che mi odia.
- Non ti odia…
- Sì che mi odia. Non odia te perché sei suo fratello, e anche perché nessuno è mai riuscito ad odiarti, che io sappia. Ma non ha mai avuto difficoltà ad avercela con me.
Kaworu si appoggiò coi gomiti sul tavolo, mentre un sorriso lontano gl’increspava le labbra.
- Le piacevi, infondo. – sussurrò.
Shinji guardò altrove, ricordando d’improvviso che se aveva accettato mestamente ma con sollievo l’ordine di suo padre di lasciare il Giappone in seguito a quello che era successo, e se aveva continuato a stare lontano da Tokyo fino a quel momento, non era stato solo per allontanarsi da Kaworu e da tutto quello che la sua persona implicava, ma anche da tutto il resto. Dalla situazione che, fra loro quattro, era sempre stata fin troppo complicata.
- Shinji – lo richiamò Kaworu d’improvviso, sorridendo entusiasta come un bambino, - ti ricordi quando ci siamo incontrati per la prima volta?
Annuì, arrossendo lievemente.
Kaworu non avrebbe dovuto obbligarlo a rivangare tutti quei ricordi.
Hai trent’anni, Shinji!
…si sentiva un quindicenne, di nuovo.
Aveva quattro anni quando aveva visto Kaworu per la prima volta. Ed era il suo primo ricordo.
Kaworu aveva più o meno la sua stessa età, era più alto di lui ed era un bambino stupendo, dai lineamenti delicatissimi ma nient’affatto femminili. Un bambino slanciato, un bambino esile ma non cagionevole, un bambino che catalizzava su di sé l’attenzione di adulti e coetanei con una naturalezza che aveva dell’incredibile.
Sembrava essere stato benedetto con un’aura miracolosa che lo rendeva magnetico agli occhi del mondo intero. Shinji era stato solo una delle vittime, una delle tante. Fra gli altri c’erano i maestri, gli altri compagnetti, la signora Nagisa… e sinceramente s’era sempre chiesto come fosse stato possibile che il padre di Kaworu riuscisse in qualche modo a sfuggire al magnetismo di suo figlio, abbandonandolo quando era ancora in fasce, lasciandosi dietro un’altra figlia di un anno più grande e una donna disperatamente sola che non avrebbe trovato niente di meglio da fare che aggrapparsi con foga al miraggio di rendere quei due figli perfetti, così impara, il bastardo, a mollarmi, ed erano venuti fuori Rei e Kaworu, la sociofobica e lo svagato, praticamente due alieni.
Shinji guardò l’uomo al suo fianco, sperando lui non se ne accorgesse.
Kaworu lo fissava, sorridendo.
…Kaworu non smetteva un secondo di fissare in quel modo i suoi interlocutori, chiunque fossero. Aveva uno sguardo strano, uno sguardo che lo faceva sembrare un essere di un altro mondo, giunto sulla terra per osservarla e carpirne i segreti, che intratteneva relazioni con i suoi abitanti al solo scopo di studiarli approfonditamente.
Eppure.
Eppure il suo sguardo aveva qualcosa di caldo. Qualcosa di devoto.
Qualcosa che aveva sempre fatto vibrare Shinji fin nel profondo delle sue viscere.
*
E ti ricordo ancora
L’ingenuità, la tua tenerezza disarmante
Eri un omino ma dentro avevi un cuore grande
Che batteva forte un po’ per me
Kaworu era cresciuto portandosi dentro il germoglio di qualcosa di eccezionale. S’era fatto grande, sotto gli occhi di tutti, come un miracolo quotidiano.
Era strano, a pensarci.
In fondo, era solo un essere umano, con pregi e difetti come tutti gli altri. E non che trovare i suoi difetti fosse poi un’impresa così impossibile. Era spesso distratto e svogliato nello studio, faceva solo ciò che gli interessava, ignorando i suoi doveri, era testardo e invadente, era curioso, era sottilmente supponente e presuntuoso, era sempre convinto di avere ragione – in parte perché molto spesso era vero – e nei confronti delle persone che non gli stavano a cuore era scostante in maniera quasi crudele.
Ma era chiaro, era lampante che c’era qualcosa, nei suoi occhi, sulla sua pelle, nei suoi gesti, qualcosa che brillava, qualcosa che prima o poi sarebbe esploso, no, qualcosa che esplodeva giorno dopo giorno, nel suo piccolo, qualcosa che faceva sentire anche i meno sensibili come se avere la possibilità di vederlo fosse qualcosa per cui dover sempre ringraziare qualche dio in qualche cielo.
Non era qualcosa che fosse possibile definire, e non era qualcosa che fosse possibile non provare.
Asuka, ad esempio. Asuka era l’essere umano più indisponente e orgoglioso e cocciuto del mondo. Asuka era una persona chiusa, una persona corazzata, una persona che detestava provare sentimenti che non potesse spiegare, che non desiderasse, o che non avesse volontariamente richiamato.
Eppure Asuka era totalmente affascinata da Kaworu. Pendeva dalle sue labbra. Kaworu era l’unica persona in tutto il dannatissimo mondo in grado di farla ragionare.
Forse per questo quello che era successo l’aveva ferita al punto da desiderare di non vederlo più.
E Rei, poi. Tutto sembrava passarle addosso come niente, non come se per lei nulla esistesse, ma come fosse lei stessa a non esistere. Le persone, i fatti, le passavano attraverso, e quando ne uscivano la lasciavano immacolata e intonsa, di nuovo tutto al suo posto, come prima, come sempre, era un ologramma.
Eppure Rei sentiva Kaworu così profondamente che ne era turbata. Nascondendosi dietro la scusa della sorella maggiore non faceva che preoccuparsi per lui, come volesse affermare al mondo di essere l’unica in grado di possedere quell’oggettino tanto splendido, quando in realtà era lei stessa ad essere posseduta dallo sguardo vago del suo fratellino miracoloso.
Kaworu sapeva tutte queste cose. Comprendeva a fondo l’effetto che aveva sugli altri. Non lo sfruttava con tutti semplicemente perché non trovava niente di stimolante nell’influenzare persone di cui non gli fregava un accidenti. Avrebbe potuto facilmente incantare professori, ragazzine di tutte le età, adulti, anziani, bambini, chiunque, con quel suo sguardo naturale e la parlantina sciolta, ma la cosa non lo interessava. Non lo interessava minimamente.
Kaworu sfruttava il potere della sua indole solo con le persone che amava. Non perdeva occasione per sottomettere Asuka, ed era incredibile osservare come ogni volta lei si lasciasse dominare, quasi senza accorgersene, e non perdeva occasione per rintontire Rei, ed era un piacere vedere i suoi lineamenti tesi sciogliersi quando la figura di suo fratello entrava nel suo campo visivo.
E non perdeva occasione per sconvolgerlo. Non perdeva occasione per andargli vicino, non perdeva occasione per regalargli una carezza distratta, o uno sguardo rassicurante, o un sussurro piacevole.
Era scritto nei suoi gesti teneri, che prima o poi sarebbe riuscito ad averlo.
Come aveva fatto, lui, a non accorgersene? Come aveva potuto permettergli di continuare a disegnare i suoi giorni con quei tocchi lievi, d’artista? Come aveva potuto permettere a sé stesso di cedere?
Come diavolo aveva potuto lasciare che lo baciasse?
*
E ti ricordo ancora
Dimmi che non è cambiato niente da allora
Chissà se parli ancora agli animali
Se ti commuovi davanti a un film
- Ehi! Sei ancora vivo?
Si riscosse, un po’ turbato dalla repentina fuga dal mondo dei ricordi.
Comprendeva come fosse possibile che Kaworu passasse pomeriggi interi semplicemente a ricordare. Ricordare è un processo centrifugo e continuo, è un processo dal quale non ti liberi facilmente, quando ci sei dentro.
I panni mica escono dalla lavatrice di loro spontanea iniziativa, quando sono lì a farsi venire l’emicrania, ruotando vorticosamente nel cestello.
Ci vuole sempre qualcuno che apra l’oblò.
- Scusa. – sorrise mestamente, - Non sono molto di compagnia, stasera.
- Sarai stanco.
- In realtà no. In realtà mi sento strano. Tokyo mi fa sentire strano.
Kaworu sorrise comprensivo.
- Immagino sia più o meno così per ogni posto in cui non vai da molto tempo.
- Sì, immagino di sì.
- Ti va un’altra birra?
Guardò l’orologio appeso al muro, alle spalle del barista. La mezzanotte era ormai passata da venti minuti, e il locale nel frattempo s’era lievemente animato.
- Perché no? – disse, scrollando le spalle.
*
E ti ricordo ancora
Nei pomeriggi di primavera dopo scuola
Tu mi parlavi di una colonia sopra il mare
Eh, vienimi a trovare, che si sta bene
Per un lunghissimo periodo, che era andato più o meno da quando l’aveva conosciuto all’inizio delle scuole medie, Kaworu non era stato semplicemente una parte del suo mondo. Kaworu era stato
tutto il suo mondo. Aveva rappresentato ogni tipo di sentimento positivo e incoraggiante, aveva rappresentato la gioia, la compagnia, la tenerezza, la fantasia.
Era stato il suo fulcro.
A lui non interessava comprendere cosa ci fosse dietro alla centralità di quel ragazzo fra i suoi pensieri. Gli bastava che ci fosse. Gli bastava vederlo bene, nitido e rigido, lì in mezzo. Gli bastava che fosse evidente, che non potesse perderlo.
In tutti quegli anni non s’era mai permesso di perderlo. Kaworu non gli aveva mai permesso di farlo.
Kaworu aveva frequentato casa sua, conosceva tutti i suoi parenti, conosceva il parco dove andava a giocare e tutti i suoi giochi. Come una costante, dovunque fosse Shinji c’era anche Kaworu.
Per molto tempo era stato così. Per molto tempo, Kaworu s’era fatto inglobare dalla vita di Shinji, e Shinji non aveva mai sentito il bisogno di entrare a far parte della vita di Kaworu.
Poi, un giorno, semplicemente era successo. Complice un compito di geometria che si annunciava particolarmente complesso e un pomeriggio libero da passare studiando.
“Meglio se ripassiamo in due, no?”, gli aveva proposto, il solito sorriso sfavillante sul volto minuto da dodicenne.
“Non vorrei approfittare…”, aveva detto lui, stringendosi nelle spalle, imbarazzato.
Kaworu s’era limitato a fare un gesto con la mano, come dire “ma va’”.
Quel pomeriggio, per la prima volta, s’era introdotto in casa Nagisa.
Avrebbe dovuto capire allora che c’era qualcosa di strano. Avrebbe dovuto capire allora che quello che lui e Kaworu provavano non era affatto quello che credevano di provare. C’era tutta l’evidenza, c’era tutta l’attrazione, c’era tutto il magnetismo, c’era già allora.
Ma che vuoi capirne a dodici anni?
Quel pomeriggio, per la prima volta, aveva anche visto Rei.
Rei era un anno più grande di suo fratello, gli somigliava in maniera impressionante ma, al contrario di lui, era assolutamente glaciale. Non fossero stati fisicamente così identici, a stento si sarebbe potuto credere che provenissero dallo stesso ambiente familiare, tanto era diverso il loro approccio alla vita.
Se Kaworu era curioso e guardava tutto con interesse, Rei era il disinteresse personificato, il menefreghismo più ostentato, l’incuria più totale. Era sciatta anche nel modo di vestirsi, era sciatta nel parlare con le persone, non gliene fregava niente di niente, era chiaro come il sole. Si illuminava solo quando si trattava di suo fratello.
La prima volta che l’aveva vista, Rei l’aveva trattato come un essere insignificante e insopportabile. Anche se l’aveva salutato – incitata da Kaworu – non l’aveva mai guardato negli occhi, se non per un brevissimo istante, un istante che l’aveva davvero spaventato: da quegli occhi era venuta fuori una tale quantità d’astio e insofferenza da dargli i brividi.
Rei era mortalmente gelosa. Questo perché, a ragione, vedeva in lui la persona che, quando suo fratello sarebbe stato abbastanza grande da capire qualcosa di amore e attrazione, le avrebbe sottratto il suo unico tesoro, il suo unico interesse. Aveva sempre continuato a detestarlo in quel modo. Anche dopo averlo accettato come persona – a dispetto di quanto lui significasse per Kaworu. Anche dopo averlo osservato mettersi con Asuka e diventare dunque innocuo, almeno teoricamente. Sempre, sempre.
“Sei una minaccia”, diceva quello sguardo, “sta’ lontano”.
Quel primo incontro con Rei avrebbe dovuto sconvolgerlo molto di più – e probabilmente impedirgli di diventare suo amico, col tempo – ma la presenza di Kaworu era riuscita a proteggerlo anche da quel turbamento. Kaworu gli aveva sorriso, l’aveva tirato lievemente per una manica e l’aveva portato in camera sua senza dargli il tempo di accorgersi di nulla. E lui s’era lasciato trascinare senza darsi il tempo nemmeno di pensare.
Pensare era qualcosa di cui non aveva bisogno, quando c’era Kaworu a farlo per lui, e così brillantemente.
Avevano passato tutto il pomeriggio in camera, e finalmente Shinji aveva avuto prova dell’esistenza di Kaworu. Se n’era davvero reso conto per la prima volta.
Lui esiste. Esiste anche quando è qui da solo, esiste anche quando non è con me, non è solo una parte della mia vita, ha una sua vita anche per i cavoli suoi.
La playstation accanto al televisore, i manga ordinati nella libreria, i videogiochi impilati sulla scrivania, un libro aperto a metà sul comodino, CD musicali un po’ ovunque nelle vicinanze dello stereo, poster di Final Fantasy attaccati alle pareti, riviste musicali, il contrabbasso in un angolo – da quanto cavolo studiava quello strumento? Non se n’era mai accorto… - un cuscino per terra con sopra un gatto assonnato, la finestra dischiusa per il ricambio d’aria, i libri di scuola, il letto ordinato.
Il mondo di Kaworu. Un mondo che con lui non aveva niente a che fare.
Proprio niente.
La cosa l’aveva rattristato.
“Che c’è?”, gli aveva chiesto Kaworu, premuroso come sempre, avvicinandoglisi per poterlo guardar meglio negli occhi.
“Niente!”, aveva risposto lui, in fretta, agitato.
E Kaworu aveva sorriso.
E lui, oddio, in quel sorriso c’era morto.
“Ti faccio vedere una cosa”, gli aveva detto, e l’aveva condotto più vicino al letto, e l’aveva pregato di sedersi, e poi si era seduto al suo fianco, e quando Shinji aveva cominciato a intuire qualcosa, e quando il suo cuore aveva saltato un battito, scorgendo in lontananza la verità dei suoi sentimenti pur senza riuscire a percepirla con chiarezza, lui semplicemente s’era chinato sul comodino, aveva aperto il cassetto e aveva tirato fuori una fotografia di quando erano ancora due bambini, di quando frequentavano l’asilo. Una festa di carnevale o qualcosa di simile, erano mascherati. Shinji aveva un costume da cowboy che gli stava grandissimo, e sembrava ridicolo. Kaworu invece indossava una specie di frac nero che lo faceva assomigliare a Charlie Chaplin, e rideva, rideva come la più splendida delle consuetudini, stringendo Shinji per le spalle in un abbraccio bellissimo e spontaneo.
Non sapeva neanche che quella foto esistesse.
Aveva sollevato lo sguardo su di lui, aveva visto che era arrossito.
“E’ un po’ imbarazzante”, aveva mormorato Kaworu, guardando altrove, “ma è uno dei ricordi più belli che ho”.
Allora è così. Allora anche in questa stanza c’è un pezzetto di me. Allora c’è un pezzetto di me anche nella tua vita. È così, vero Kaworu?
Sì. Sì, sì, sì.
*
E ti ricordo ancora
Quando scoprirono che mi accarezzavi piano
E mi ricordo che ti tremavano le mani
Ed un maestro antico che non capiva
Asuka era arrivata dopo. Era arrivata col liceo. Ed era stata un fulmine a ciel sereno.
Aveva legato immediatamente con Kaworu. A suo dire, era “l’unico col quale si potesse avere una conversazione di pari livello intellettuale”. Asuka adorava far pesare al mondo la sua smisurata intelligenza.
Perché Asuka era intelligente. Il fatto che fosse scontrosa e che si rendesse insopportabile non era abbastanza per coprire le potenzialità di quel cervello enorme che si ritrovava.
E infatti era stato il suo intuito a suggerirle la verità, quando né lui né Kaworu avevano trovato il coraggio per dirgliela.
Come fosse diventato il ragazzo di Asuka non era mai riuscito a spiegarselo. Immaginava dovesse aver qualcosa a che fare con la sua bellezza mozzafiato, coi suoi ormoni in subbuglio, con l’attrazione che lei, così diversa e forte, esercitava su di lui, così debole e stupido. Ma non avrebbe saputo spiegarlo meglio. Quando l’aveva chiesto a Kaworu, lui aveva semplicemente risposto che era una cosa naturale.
“Intendi che siamo fatti l’uno per l’altra o qualcosa di simile?”, aveva chiesto lui, basito.
Kaworu aveva riso di gusto.
“Non direi.”, aveva risposto, “Solo che, Shinji-kun, noi siamo quattro. Era semplicemente ovvio che avresti scelto Asuka, nel gruppo.”
Dinamiche. Rapporti umani. Mah.
Scelte?
Aveva operato una scelta, lui, con Asuka?
Scegliere di non scegliere niente, scegliere di lasciare che sia un altro a scegliere per te può essere considerata una scelta?
Ho fatto una scelta, Kaworu?
Ho scelto, quando ho lasciato che fossi tu a pensare al mio posto? Ho scelto, quando ho lasciato che fosse Asuka a baciarmi per prima? Ho scelto davvero?
Non riusciva a considerare una scelta la sua passività. Non riusciva a vedere sé stesso in grado di scegliere qualcosa. Perché non l’aveva mai fatto.
Asuka, dando inizio a quella relazione, aveva combinato un disastro, e lui gliel’aveva lasciato fare. E quella volta non c’era Kaworu a proteggerlo. Non c’era Kaworu a proteggerlo dai suoi ormoni in subbuglio, e non c’era Kaworu a proteggerlo dalle labbra, dai seni, dalle gambe, non c’era Kaworu a proteggerlo dall’adolescenza, non avrebbe mai potuto esserci.
Soprattutto impegnato com’era a combattere la sua, di guerra.
Era stato così che Asuka era diventata la sua ragazza fissa. Era stato così che Asuka era diventata la costante dei suoi pomeriggi, e delle sue serate, e dei prive, e delle uscite, e delle bevute, e del letto, e degli anfratti bui a scuola, e delle ricreazioni, e del “fermati un po’, i miei sono ancora a lavoro”, e delle corse a casa in ritardo, e di tutto il resto.
Era stato così che il sempre-Kaworu era stato estirpato dal sempre-Asuka.
…ma forse estirpato non era il termine giusto. Kaworu non era stato estirpato. Non avrebbe mai potuto. Le radici erano piantate così profondamente che sradicarle avrebbe significato strappare via il cuore di Shinji con loro.
Kaworu era stato solo coperto.
Aspettava giusto il momento meno adatto, per rispuntare.
C’era proprio da dirlo: Kaworu era sempre stato perfetto con lui, l’aveva sempre capito benissimo; ma per quanto aveva riguardato la sua dichiarazione d’intenti nei suoi confronti, lì aveva sbagliato tempismo in maniera veramente colossale.
Era successo un pomeriggio non diverso dagli altri, se non per la tensione che s’era accumulata dentro di loro. Stavano studiando, come avevano fatto milioni di altre volte, solo che quella volta stavano studiando per l’esame d’ammissione all’università, e quello era un problema.
Sollevando lo sguardo da un tomo d’inglese, e sbuffando pesantemente, Shinji aveva chiesto a Kaworu perché alla fine non avesse deciso di provare ad entrare al conservatorio.
“E’ uno spreco”, gli aveva detto, “sei così bravo.”
Kaworu aveva scrollato le spalle.
“Ormai sono troppo grande. Il corso di studi al conservatorio è troppo lungo.”
“Sì, però una volta che lo finisci hai il lavoro assicurato.”
Risata.
“E chi te lo dice?”
“Tu sei eccezionale, se vuoi qualcosa sicuramente puoi ottenerlo. Lo sai che è così.”
Kaworu l’aveva guardato per un lunghissimo, indecifrabile e muto momento. L’aveva guardato, e i suoi occhi avevano perso tutta la loro caratteristica leggerezza, tutto il loro candore da curioso osservatore, tutta la loro piacevolezza, e s’erano fatti cupi, riflessivi, confusi e… semplicemente troppo profondi.
“Che c’è?”
“Niente. Solo che non è vero quello che hai detto.”
“Avanti, questo non è proprio il momento di fare il modesto…”
“Non lo sto facendo, infatti.”
Ancora silenzio.
Una folata di vento aveva forzato la finestra socchiusa, scombussolando le pagine del libro di Shinji.
Avrebbe dovuto cogliere l’occasione, utilizzare quella scusa perfetta per distogliere lo sguardo. Ma quegli occhi non l’avevano lasciato andare. O forse era stato lui incapace di sottrarsi.
“Cosa credi che stia pensando, Shinji?”, gli aveva chiesto Kaworu, atono, avvicinandosi a lui.
“…non lo so.”, aveva risposto lui dopo una lieve esitazione, “Non capisco dove vuole andare a parare questo discorso.”
Kaworu si era avvicinato ancora. Stavolta, fin troppo pericolosamente.
“Sicuro?”
Lui aveva deglutito.
E senza capire…
S’era tirato un po’ indietro.
Poi gli era tornato vicino.
E s’era ritirato ancora.
Kaworu l’aveva afferrato per una spalla, riportandolo nella posizione iniziale, con un lieve sospiro esasperato.
“Non posso avere tutto quello che voglio. E tu lo sai, perché voglio te e non riesco ad averti.”
Avrebbe dovuto essere qualcosa come sconvolto, o confuso, o adirato, magari. Ne aveva tutti i diritti.
Imbarazzato, era arrossito ed aveva distolto lo sguardo.
“Kaworu…”
“Non devi dire niente. Non mi aspetto che tu mi dica niente. Non mi sono mai aspettato che tu mi dicessi qualcosa.”
Aveva risollevato lo sguardo, ferito.
“Cosa intendi dire con questo?”
Kaworu aveva sbuffato, lasciandolo andare.
“Niente.”
“Col cavolo!”
“Non so come spiegarlo. Non è che il tuo essere così come sei mi infastidisca, solo che è difficile…”
“Aspetta! Che vuol dire ‘il mio essere come sono’?!”
“Così come sei. Shinji, tu… non hai mai soluzioni per niente, ti fai trascinare dalla corrente, non decidi mai autonomamente, insomma, Cristo, dico, stai con Asuka da qualcosa come quattro anni e non hai ancora capito perché! Hai diciott’anni!”
Confuso, s’era alzato in piedi ed era indietreggiato di qualche passo.
“Kaworu, vaffanculo! Ma che cazzo di discorsi mi stai facendo, cosa cazzo mi vuoi dire?! Spiegati!”
E Kaworu si era spiegato. Nell’unico modo chiaro e inequivocabile cui fosse riuscito a pensare.
Quando le loro labbra si erano separate, Shinji si era sentito come se gli stessero strappando lo stomaco dalla bocca.
Aveva spalancato gli occhi. S’era irrigidito.
Kaworu l’aveva guardato fisso per qualche secondo, stupito dal suo stesso comportamento. S’era messo una mano fra i capelli.
“Scusa. Non so che mi è saltato in mente. Non volevo.”, aveva detto, confusamente, guardando per terra. Poi era tornato a guardarlo negli occhi. Lui era ancora troppo sconvolto per muoversi, o parlare, o anche solo pensare.
Kaworu aveva sospirato e s’era allontanato di qualche passo, senza mai dargli le spalle, come volesse tenerlo d’occhio.
Lui s’era morso un labbro. Aveva vagato per qualche secondo nel limbo confuso della sua testa, aveva stretto i pugni, aveva combattuto contro le sue gambe e, alla fine, s’era slanciato in avanti. Gli era letteralmente caduto fra le braccia.
E poi, insieme, erano caduti sul letto.
*
E ti ricordo ancora
Dimmi che non è cambiato niente da allora
Chissà se parli ancora agli animali
Se ti commuovi davanti a un film
Sospirò pesantemente, mandando giù l’ultimo sorso di birra e posando poi il boccale sul tavolo.
- Pensi che dovremmo parlarne? – chiese a bassa voce, incapace di guardarlo.
Lo sentì ridere lievemente.
- Per dire cosa?
Sorrise anche lui.
- Non lo so. Solo che se ci ripenso mi sembra sia stato tutto assolutamente insensato.
- Dici?
- Sì. Insomma, avrei potuto continuare a stare con Asuka, lei non avrebbe piantato il casino che ha piantato quando l’ha scoperto, mio padre non mi avrebbe mandato a New York, io adesso probabilmente sarei laureato alla Todai, e io e Asuka ci saremmo sposati, e forse avremmo anche dei figli e saremmo ancora tutti amici come prima.
Kaworu sospirò.
Guardava un punto imprecisato del muro di fronte a lui, ma i suoi occhi sembravano puntati oltre, da qualche parte nell’universo, o da qualche parte nella sua mente.
- Ne dubito. – disse seccamente, - E non mi pento di averlo fatto. Se non l’avessi fatto sarei morto di frustrazione.
Shinji abbassò lo sguardo.
- E anche tu.
- …io non ci avevo mai pensato, a una cosa simile!!!
Kaworu rise.
- Cazzate!
- Be’, di sicuro non mi ero spinto tanto in là, anche pensandoci.
- E smettila di mentire… - disse dolcemente, tornando a fissare lo sguardo su di lui, - Ormai sono quasi vent’anni. Puoi anche ammetterlo che ti piacevo.
Perché, secondo te non mi piaci più?
Lo guardò e sorrise, stringendosi nelle spalle.
- Forse un po’.
Kaworu rise di gusto, e rise anche lui, godendo dell’aria tiepida e nostalgica che sembrava avvolgerli di nuovo, nonostante il tempo e le parole di troppo.
- Scusa, adesso farò una cosa volgarissima, che sicuramente ti metterà in imbarazzo e ti farà cadere le braccia, per non dire altro. Tu non farci caso, mh?
Senza capire, rimase a guardarlo infilare una mano nella tasca dei jeans, tirare fuori il portafogli, contare i soldi e poi annuire soddisfatto.
Quando Kaworu risollevò lo sguardo, Shinji rideva a crepapelle.
- Dimmi che non hai contato i soldi per il prive, ti prego!
- …mi aspettavo tutt’altro tipo di reazione. Qualcosa sullo stile di “Kaworu! Sei uno svergognato! Come puoi chiedermi una cosa simile?!” e cose del genere…
Shinji scrollò le spalle, dissimulando il disagio.
- Sono cambiate tante cose.
L’altro sorrise malizioso, appoggiando un gomito al tavolo.
- Davvero?
Shinji annuì, alzandosi in piedi.
- Vai via? – gli chiese, con un tremito nella voce.
- Mmmhno. Sbrigati, dai, sono già le due.
Nonostante le luci blu, nonostante le pareti scure, nonostante la confusione nel suo cervello, Shinji poté giurare di aver visto Kaworu arrossire.
Pochi minuti dopo, oltre la porta del prive, sullo stesso divano sul quale secoli prima Shinji aveva perso la verginità con Asuka, senza neanche togliersi i vestiti per la fretta, e l’ansia, e la smania, e il desiderio, fecero l’amore.
E nonostante Kaworu fosse lì, in carne e ossa, tangibile come quasi mai prima, reale, e perso, gli occhi serrati, le labbra dischiuse, la pelle sudata, i capelli arruffati, Shinji sentì chiaramente che non stava facendo l’amore con una persona vera. Non stava facendo l’amore con Kaworu perché era Kaworu, non stava facendo l’amore con Kaworu perché era bello, perché gli piaceva, perché adorava la sua voce quando ansimava e gemeva, o perché impazziva per il movimento ritmico del suo corpo, o per il contatto con la sua pelle; stava facendo l’amore con lui perché Kaworu era un fantasma, Kaworu era uno scrigno pieno zeppo di ricordi, Kaworu era la sua vita in quella città, Kaworu era tutto ciò che gli rimaneva di Tokyo, della sua adolescenza e dei suoi primi amori.
Era tutto ciò che sapeva, e che gli interessava sapere. Tutto ciò che ricordava. E che gli piaceva ricordare.