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WHO'S GOING TO GET MARRIED
Guardandosi intorno con aria circospetta, Zlatan individuò Helena tutta presa dalla propria attività di anima della festa e, assicurandosi di non essere alla portata del suo occhio indagatore, si defilò dietro una siepe, lasciandosi andare seduto per terra esattamente come faceva quando riusciva a scappare da un allenamento particolarmente duro quando era ancora un ragazzino, con l’unica differenza che allora, sedendosi, sfilava la maglietta e se la sistemava sulla testa per proteggersi dal sole e dal caldo, mentre in quel momento tutto ciò che poteva fare era cercare di allargare il nodo della cravatta perché non lo soffocasse, stroncandogli vita e carriera mentre era ancora nel fiore degli anni.
- Sarebbe troppo – chiese Davide, intromettendosi nella sua perfetta oasi di silenzio, - un sorriso, almeno nel giorno del mio matrimonio?
Zlatan lasciò andare uno sbuffo contrariato, per nulla stupito dalla sua apparizione.
- Io sorrido sempre. – borbottò, - Quando ho motivo di farlo. Oggi ho mal di pancia.
- Oh! – rise Davide, sedendosi al suo fianco anche a rischio di sporcare i pantaloni dello smoking, - Quindi volerai a Barcellona per la prossima stagione? Non so mica se ti vogliono, Puyol sta facendo bene.
- Bla bla bla. – sbottò Zlatan, agitando una mano come per zittirlo, - Non volerò da nessuna parte, è solo che sono convinto che questa storia sia una pagliacciata!
- Perché siamo due maschi? – indagò Davide, aggrottando lievemente le sopracciglia.
- Non fare lo stronzo con me, Dade. – ritorse subito Zlatan, lanciandogli un’occhiataccia offesa, - È il matrimonio in sé che è ridicolo!
- Ah, sì. – annuì l’uomo, - È per questo che sei sposato anche tu.
- No, è per questo che Helena c’ha messo vent’anni prima di prendermi per sfinimento. – precisò con un sospiro teatrale. – Ma d’altronde è la vostra vita, io non posso davvero decidere per voi.
- Avanti… - cercò di rabbonirlo Davide, - È una bella giornata di festa. E Mario mi ha confessato che è felicissimo di averti come testimone di nozze. Non sai quanto ci teneva.
Zlatan sospirò ancora, scuotendo lentamente il capo.
- E tu a Mario hai confessato niente? – chiese a bruciapelo, tornando a guardarlo. Davide si morse un labbro, distogliendo lo sguardo.
- Non ho ancora avuto occasione di farlo. – rispose in un bisbiglio un po’ tremolante.
- Dade, se aspetti l’occasione, non arriverà mai. – lo rimproverò il più grande, sistemandogli brevemente la frangia sulla fronte, - Non esiste l’occasione più adatta per dire al tuo futuro marito che il suo ex allenatore è tornato dal mondo dei morti. È un’occasione che devi ritagliarti tu. E comunque va fatto. – sospirò ancora, rassegnato, - Prima o poi dovrà venire fuori. È meglio che chi ci è vicino lo sappia prima e nel modo meno turbolento possibile.
- E tu? – lo rimbeccò Davide, con un mezzo sorriso, - Tu l’hai detto a Helena?
Zlatan si passò una mano fra i capelli, nel vano tentativo di rimetterli a posto, finendo invece per scompigliarli più di quanto già non fossero.
- Helena è una cosa diversa… - cercò di spiegare, sospirando pesantemente, - Queste sono cose da spogliatoio, non è necessario che-
- Non lo sarebbe, se José non vivesse
nella sua soffitta. – gli fece notare Davide, annuendo compitamente con aria innocente.
Zlatan lo sferzò con un’occhiata disapprovante, inarcando supponente le sopracciglia e tirandosi in piedi.
- Senti, ma tua
moglie? – lo prese in giro, - Perché deduco sia questo, visto quanto si sta facendo aspettare.
- La
moglie – disse Mario, apparendo alle loro spalle con un grugnito affatto compiaciuto, - stava giusto cercando suo
marito, visto che sta gironzolando per questo giardino enorme da mezz’ora senza trovarlo, quando lui era palesemente nascosto dietro un cespuglio a fare chissà cosa con un gitano pervertito.
- Ah, Dio, grazie! – sbottò Zlatan senza scomporsi più di tanto, afferrando Davide per le spalle e rimettendolo in piedi, spolverandogli i pantaloni e lisciandogli i vestiti prima di riconsegnarlo a Mario come fosse stato un pacco postale, - Riprenditelo. – disse annuendo, - È una cosa impossibile. Spero di non vedervi per un mese, vi do il permesso di sparire in Nuova Zelanda per la luna di miele, tutto il tempo che volete.
- Gentile come al solito. – borbottò Davide, sistemandosi orgogliosamente al fianco di Mario mentre quest’ultimo ridacchiava divertito e gli sistemava la giacca dello smoking sulle spalle, - Guarda che ti prendiamo in parola, e poi la settimana prossima, in posticipo col Milan, te la vedi tu.
- No, per carità. – deglutì ansioso Zlatan, riportando improvvisamente alla memoria il calendario dei prossimi impegni in Campionato, - Con Zuca ancora fuori uso ho bisogno di-- Zuca! – strillò, osservando il ragazzo dirigersi spedito verso casa, aiutato solo da due stampelle, - Punto primo! …ragazzi, - si rivolse brevemente a Mario e Davide, - scusatemi, ma il coglioncello lì vuole rovinarsi la carriera. – tagliò corto, lasciandoli lì dietro la siepe e correndo a perdifiato verso il figlio di José, - Punto primo, dicevo! – riprese, mentre Zuca lo osservava con aria vagamente infastidita, e si fermava solo perché obbligato dall’ostacolo del suo corpo, - Che diavolo ci fai qui?! Dovresti essere in centro a riposare!
- No, dico. – sbuffò Zuca, appoggiandosi alla stampella e sollevando la gamba malconcia dal peso del corpo, - Davvero ti aspettavi che me ne rimanessi ad Appiano, perso nel nulla, con le vecchine che mi salutano dalle case alla fine del vialone, mentre Dade e Mario si sposavano? Tu sei fuori. – concluse, riprendendo a muoversi verso casa.
- Fermo là! – lo bloccò nuovamente Zlatan, frapponendosi ancora una volta fra lui e la villa, - Io ci ho provato, a insegnarti l’educazione che la buon’anima di tuo padre non aveva fatto in tempo ad inculcare in quella tua testa marcia, ma tu sei impermeabile! – lo rimproverò, - Cosa ti ho detto ieri, Zuca? Eh? Cosa ti ho detto? – sospirò profondamente, massaggiandosi la fronte.
Zuca sospirò a propria volta, esasperato, roteando gli occhi e soffiando via la frangetta biondiccia scesa a solleticargli la punta del naso.
- Che la squadra ha bisogno di me. – rispose laconicamente, scrollando le spalle.
- Esatto. – annuì Zlatan, deciso, - Sostituire te è più difficile che sostituire qualsiasi altro giocatore, perché sei il perno dell’attacco. Senza di te, la squadra può forse funzionare, ma perde smalto. – sorrise, riavviandogli la frangia sulla fronte, - Ne servono undici, per sostituire te solo. Vuoi mettermi davvero in queste difficili condizioni?
Zuca inarcò le sopracciglia, fissandolo come se gli avesse appena recitato a memoria la tabellina del due.
- No, dico. – ripeté ancora, e Dio solo sapeva se ogni “no, dico” non aveva su Zlatan un effetto quasi devastante, portandolo a desiderare di possedere un’ascia come mai nella sua intera esistenza, - Per chi mi hai preso? Non sono mica il sempliciotto che eri tu ai tempi. A te bastava che mio padre ti tirasse su un teatrino di complimenti, ti facesse un po’ gli occhi dolci ed ecco che tu eri lì a sputare sangue sul campo anche per partite idiote, quando avresti potuto restartene a casa con il ghiaccio sul ginocchio, una bottiglia di birra in una mano e il telecomando nell’altra, a rintontirti di tv spazzatura. – sorrise furbo, inclinando lievemente il capo, - Non è che siccome tu non sei stato in grado di goderti la vita, allora io devo fare la tua stessa fine.
- Ti ricordo – grugnì Zlatan, indicandosi, - che questa fine è una fine da tredici milioni all’anno solo per osservare ventisette mentecatti come te correre dietro a una palla e godersi i complimenti dei giornalisti nel post-partita, eh? Quindi, forse, prima di parlare con tanto disprezzo della fine che ho fatto io, dovresti cominciare anche a
capirla un po’, questa fine che ho fatto.
Zuca lo ignorò apertamente, aggirandolo svelto e ricominciando la propria marcia verso l’edificio.
- Zuca! – berciò Zlatan, correndogli dietro e rendendosi conto con sconcerto di dover
faticare per tenere il passo nonostante lui fosse infortunato, - Cristo, ma perché non mi ascolti?! Dove stai andando?!
- A pisciare! – scattò lui, agitando una stampella nella sua direzione e colpendolo di malagrazia contro una spalla, - Ora mi lasci in pace?! Dio, quanto ti odio!
Zlatan si fermò in mezzo al selciato, una mano ancora sollevata in un accenno di gesto volto a fermarlo, e lo osservò finalmente raggiungere la porta di casa e infilarsi al suo interno senza una parola di più, sospirando profondamente e chinando il capo, deluso.
Quando era arrivato all’Inter, due anni prima, Zuca era già lì. Era l’anima dello spogliatoio, andava d’accordo con tutti e, complice anche il suo grande talento, era stato il pupillo dell’allenatore precedente. Sfortunatamente, era parso subito evidente come il ragazzo mancasse totalmente di ogni tipo di educazione – era un ribelle senza speranza, molto più di quanto non lo fosse stato Mario ai tempi e
infinitamente oltre ogni limite Zlatan potesse dire di aver toccato in una carriera pur turbolenta e non certo scevra di contrasti. Tutti i suoi tentativi di inculcare un po’ di sale in quella zucca montata al contrario erano risultati in un odio pressoché devastante da parte del ragazzo, che comunque non è che l’avesse mai preso in reale simpatia, dal momento che la prima cosa che aveva fatto vedendolo arrivare era stata ignorare il suo saluto – quando lui era così felice di vederlo, così emozionato dall’idea di posare finalmente gli occhi addosso al figlio di José, così cresciuto, ed allenarlo.
Sospirando, tornò verso il gazebo, ignorando apertamente Maxi e Vinny appartati in un angolo a confabulare chissà che con due facce più scure di quelle che avevano avuto ai funerali dei loro nonni. “Che vita difficile”, si disse, prendendo posto di fianco a quella specie di altare improvvisato drappeggiato e decorato con della roba della quale non era sicuro di voler comprendere il disegno e che Helena aveva disegnato personalmente.
- Era ora. – borbottò Mario in una mezza risata, apparendo al suo fianco mentre gli invitati – ad eccezione di Zuca – prendevano posto, e Davide si affrettava a sistemarsi accanto a lui, aggiustandosi la cravatta e la camicia dopo quella che Zlatan non tardò ad identificare come un’intensa sessione di coccole pre-sposalizio. – Stavamo cominciando a pensare che alla fine la sposa fossi
tu.
- Sto ridendo così tanto che mi stupisco l’eco delle mie risate non arrivi in Cina o anche su Marte. – sbuffò lui, sarcastico, - E comunque, quando finisce questa pagliacciata? E dov’è Zuca?
*
Una volta in casa, per prima cosa Zuca mollò le stampelle sul pavimento. Il ginocchio non doleva, era a posto, e se quel cretino del mister pensava di tenerlo fuori anche per la prossima era del tutto fuori strada: se anche non si fosse degnato di convocarlo, si sarebbe infilato di nascosto negli spogliatoi e contro il Milan avrebbe giocato, alla faccia sua.
Compiacendosi del silenzio che regnava sovrano all’interno della villa, si lasciò andare sulla prima poltrona disponibile in salotto – una che non fosse sommersa di cappotti, borsette e cianfrusaglie varie – e lasciò andare le braccia lungo i fianchi fino a sfiorare il pavimento, dondolandole un po’ avanti e indietro. Sorrise quando, in quell’ondeggiare calmo e rilassante, le sue dita incontrarono la forma rotonda, perfetta e familiare di un pallone. Lo recuperò chinandosi appena e prese a palleggiare piano, da seduto, provando ad usare solo la gamba sana ed arrendendosi poco dopo, saltando in piedi e palleggiando con entrambi i piedi, sorridendo soddisfatto nel momento in cui si rese conto che non sentiva davvero alcun dolore, e il suono ritmico e preciso della palla contro i suoi piedi, le sue ginocchia, il suo petto e la sua testa, era ancora in grado di cullarlo meglio delle ninne nanne di sua madre.
- Mi hanno detto – disse una voce conosciuta alle sue spalle, - che il ginocchio ti dà qualche problema, Zuca.
Raggelato, il ragazzo si interruppe immediatamente, lasciando che la palla ricadesse a terra e rotolasse lontano da lui. Si voltò lento, tremando appena, gli occhi spalancati e le labbra dischiuse in un’espressione di puro stupore.
- P-Papà…? – balbettò incerto, voltandosi di scatto e indietreggiando fino a cadere di peso sulla poltrona, quando riconobbe esattamente l’uomo che aveva davanti. Identico a suo padre, stessa voce, stessi occhi, lo stesso uomo che era praticamente morto sotto il suo sguardo, fra le braccia di Davide, vent’anni prima.
- Chi altri? – rispose José indicandosi e muovendo un passo verso di lui. Zuca lasciò andare un urlo terrorizzato, stendendo entrambe le braccia in avanti come in cerca di protezione. José sorrise diabolico, un ghigno che ricordava di avergli visto addosso solo nei casi delle punizioni peggiori. – Fai bene ad avere paura. – disse suo padre, glaciale, - So molte cose di te, Zuca. – continuò, - So che sei un giocatore indisciplinato e che impedisci al tuo allenatore di disporre di te come ritiene più opportuno. – aggrottò le sopracciglia, avvicinandosi ancora ed osservando Zuca tirare su le gambe fino a rannicchiarsi sulla poltrona quasi in posizione fetale, gli occhi sbarrati e il respiro mozzo. – È così che onori il tuo nome, José?! – tuonò agitando un pugno nella sua direzione, - È così che mi ripaghi?!
Una sola lacrima si azzardò a scivolare oltre le ciglia di Zuca, rotolando lungo la sua guancia mentre il ragazzo dimenticava tutto – di se stesso e della sua intera esistenza, di tutte le domande che avrebbe voluto fare a suo padre se mai avesse avuto per assurdo l’occasione di rivederlo, compreso chiedergli il perché di quel bacio a fior di labbra che aveva visto Zlatan dargli quando era già nella sua bara – e scattava in piedi, lasciando le stampelle all’ingresso e catapultandosi fuori dall’edificio senza neanche lasciare andare un urlo.
José sospirò pesantemente, recuperando le stampelle da terra ed appoggiandole ordinatamente alla poltrona, prima di tornarsene in soffitta.
*
- Lo voglio. – sorrise Davide, e Mario non aspettò nemmeno il permesso del funzionario per prendergli il volto fra le mani e tirarselo contro, baciandolo profondamente e a lungo mentre tutto intorno a loro gli ospiti si alzavano dalle loro sedie, applaudendo festanti.
Zlatan scosse il capo, roteando gli occhi.
- Che pagliacciata. – commentò mentre dall’altro lato il fratello di Davide, nelle sue stesse condizioni, sorrideva imbarazzato. Voltò in giro lo sguardo, appena in tempo per incrociare Zuca che si scapicollava verso il cancello come stesse fuggendo da una bestia inferocita o chissà che altro. – Zuca! – lo richiamò, correndogli dietro, - Ma Cristo santo, è mai possibile che sei sempre di corsa anche quando non dovresti?! – lo fermò, afferrandolo per una spalla, - Fermati un po’! Dove sono le tue stampelle? – chiese, guardandolo attentamente dall’alto in basso.
- Io non… - balbettò lui, visibilmente scosso, - Io non… non ne ho idea, io non…
- Zuca? – lo chiamò ancora Zlatan, sorreggendolo per le spalle, - Ma cos’hai?
- Niente! – disse immediatamente il ragazzo, scostandosi con un gesto secco, - Io… scusa. – deglutì, - Non posso restare qui, giuro che… ci vediamo in allenamento domani, io… mi dispiace, davvero, fai i miei auguri a Dade e Mario, ma non posso proprio… - continuò a balbettare confusamente, arretrando verso il cancello senza mai staccare gli occhi di dosso alla villa. Zlatan lo osservò andare via con un misto di sconcerto e preoccupazione, una mano sul fianco e il capo lievemente inclinato, finché non fu scomparso con la macchina oltre la strada privata che conduceva a Villa Ratti.
- Dio, che vita
difficile. – ripeté ad alta voce, mentre Maxi gli passava accanto in un vortice di rabbia isterica, - E tu che diavolo hai adesso? – chiese in una mezza lagna già rassegnata, senza aspettarsi certo una spiegazione all’ennesima fuga del suo figlio maggiore dalla casa paterna.
- Fottiti! – si limitò a rispondere il ragazzo, raggiungendo la propria automobile ed abbassando il finestrino solo per berciare ancora: - E lega la bestia, o la prossima volta se viene lui di certo non vengo io!
Zlatan annuì meccanicamente, ripromettendosi di torchiare Vincent fino a fargli sputare sangue o, in alternativa, il motivo reale di tutti quei battibecchi ricorrenti, ma nel momento in cui si voltò verso il gazebo il suo sguardo venne inevitabilmente attratto da qualcosa che si muoveva oltre il vetro della piccola finestra in soffitta.
José lo stava salutando.
Invocando la forza di parecchi santi, inspirò profondamente per non mettersi ad urlare contro gli stessi e poi, mesto, entrò in casa e salì al piano di sopra, strascicando adeguatamente ogni passo perché José potesse comprendere alla perfezione e con largo anticipo l’esatta misura del suo scazzo.
- Dimmi che non sei stato tu a ridurre in quelle condizioni Zuca inscenando una qualche stronzata tipo apparizione del fantasma del padre morto. – implorò, lasciandosi andare seduto sul letto e passandosi stancamente una mano sugli occhi, - Dimmelo, perché se tu non me lo dici giuro che io tento il suicidio.
José rise – una risata quasi infantile – e si sedette al suo fianco.
- Chissà. – rispose enigmatico, - Magari è solo la sua coscienza che è tornata a farsi sentire. – ipotizzò con un mezzo ghigno.
- Mi stupirebbe. – ammise Zlatan, stendendosi sul materasso e fissando ostinatamente il soffitto spiovente, - Zuca non ha mai avuto una coscienza.
José rise ancora e si stese accanto a lui, guardando lo stesso soffitto. Ascoltarono l’uno i respiri dell’altro per tanto di quel tempo che, alla fine, riuscirono perfino a sincronizzarli.
Zlatan allungò una mano fra i loro corpi a cercare quella di José, e lui – quando la strinse – non rifiutò il contatto.
- Ti sei perso un bel matrimonio. – commentò distrattamente, - Ridicolo, ma bello.
- Come tutti i matrimoni. – rispose José, sorridendo appena, - Ricordo ancora quando ho detto “lo voglio” a Tami. È stato un bel momento.
- Già. – rise a propria volta Zlatan, stringendo ancora un po’ la presa sulle sue dita e accarezzando con un pollice il dorso della sua mano. – È una bella sensazione, quando ti leghi a qualcuno e vuoi farlo davvero. Riesce a farti sentire tranquillo. Sai, io – sorrise, stiracchiandosi un po’, - non mi sono mai sentito sereno quasi in nessun posto, non so perché. Mio padre mi diceva che il mio sangue bruciava come il fuoco, e che per questo, potendo, avrei cambiato perfino pelle. Però, quando ho detto “lo voglio” a Helena… in qualche modo, in quell’istante, ha smesso di bruciare. Solo per quell’istante, - precisò con un mezzo sospiro, - ma ne è valsa la pena.
José intrecciò le dita con le sue, e quando tirò un po’ Zlatan si voltò a guardarlo, una domanda palese negli occhi. José, però, non aveva nessuna risposta. O forse sì, anche se non era quella che Zlatan si aspettava.
- Lo voglio. – disse il portoghese, così piano che Zlatan, per un secondo, credette di aver sentito male. Ma si affrettò a deglutire e riprendere il controllo di se stesso, in tempo per non dare a José l’impressione che, proprio adesso, volesse tirarsi indietro.
- Lo voglio. – rispose annuendo. José sorrise.
- Adesso puoi baciarmi. – disse a mezza voce. Zlatan evitò di chiedergli se stavolta non si sarebbe allontanato, e si limitò ad eseguire l’ordine, mentre da fuori, un po’ ovattati, giungevano i brindisi degli ospiti in onore dei novelli sposi.