Genere: Romantico/Triste
Pairing: SakuraXLi, TomoyoXLi
Rating: NC-17
AVVISI: Angst.
- Ma Sakura è davvero così innamorata di Yukito? Per scoprirlo Tomoyo finge di interessarsi a Li... e da qui prendono il via una serie di eventi, che porteranno una situazione partita ingenuamente a degenerare…
Commento dell'autrice: Questa fanfiction prende vita nella mia mente come un'assoluta celebrazione dell'amore fra Sakura e Li. Davvero, inizialmente volevo solo che Tomoyo si mettesse in mezzo per far capire a Sakura i suoi veri sentimenti e poi farla mettere con Li. Questa idea l'avevo pensata così più o meno ai tempi di "My love for you", si capisce. Però, cominciando a scriverla adesso... è stata una lotta serrata ed interiore. Perché arrivata al discorso di rottura fra le due ragazze pensavo "Ok, ora se faccio rispondere Sakura così scoppia il finimondo... sono ancora in tempo, però, per farla rispondere in quest'altra maniera e farlo diventare una commedia romantica...". Alla fine ho optato per il finimondo, e quella che doveva essere un'innocua commedia romantica ad ambientazione scolastica si è trasformata in un dramma sulla fragilità dell'amicizia fra adolescenti O_O Tra l'altro, proprio mente io scrivevo dei litigi e delle seghe mentali dei miei tre protagonisti, ho vissuto una tormentata storia d'amicizia con i miei tre migliori amici, e stava letteralmente andando tutto a scarafascio... fortuna che poi si è risolto tutto, e tutti abbiamo sacrificato qualcosa. Certe volte è necessario, per aggiustare un legame. I protagonisti di Just an act... sono molto diversi da quelli del manga, ed ancora più diversi da quelli dell'anime, ma c'è un motivo profondo, ampiamente spiegato per tutti i dieci capitoli. Praticamente è la prima fic lunga ESCLUSIVAMENTE INTROSPETTIVA che scrivo. Mi è piaciuta, ma... è dura scrivere d'introspezione, perché devi calarti completamente nel personaggio, e questo ti porta dentro tutte le sue angosce e le sue paure... ma è stato bello scriverla. Sono soddisfatta. Ma quanto ho scritto??? O_o
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It’s Just An Act!
10° capitolo
Solitudini


Dimenticatemi, dimenticatevi, cancellate queste ultime settimane dalla vostra memoria o conservatene il ricordo, purché soffriate in silenzio…

L’avevano preso incredibilmente sul serio. Davvero tantissimo.

Dimenticatemi, dimenticatevi… cancellate queste ultime settimane dalla vostra memoria…
No, questa parte non tanto. Anzi, per nulla.

… o conservatene il ricordo, purché soffriate in silenzio…
Ecco, questo si. Questo.
Perché dimenticare era impossibile. Troppo scolpito, troppo impresso tutto quello che era successo prima e dopo, troppo profondo il marchio a fuoco per dimenticare. Dimenticare? Mai, mai e mai ci sarebbero riusciti. Mai e mai.
Ed ignorarlo? Ancora più impossibile. Ignorarlo… sarebbe stato fingere che non fosse mai successo. Peggio che dimenticare. No, impensabile.

E soffrire in silenzio era, invece, così incredibilmente dolce…
Si, nel senso più perverso del termine, ma lo era. Dolce, dolcissimo affogare l’amarezza nelle lacrime. Dolcissimo passare il tempo recriminando implorando un qualsiasi pensiero, un qualsiasi ricordo di accorrere in proprio aiuto per cercare di convincersi che era comunque colpa d’altri. Dolcissimo rimanere ore senza pensare a nulla, semplicemente perché non si ha nulla a cui pensare.
Dolcissimo vivere in quello stato di immobilità assoluta, che non ti costringe a niente, dalla quale non vuoi niente, nella quale non cerchi niente…

Un filosofo diceva che la realtà è l’incrocio fra essere e non essere… il continuo incontrarsi di queste due parti forma il fluire del tempo, il divenire di tutto…
Non era esatto. Bastava il non essere per creare la realtà. Loro non erano. Così reali, eppure così trasparenti, quasi invisibili…
Eppure erano. Così diabolicamente veri e reali, nel loro dolore solitario.
Che diavolo di filosofo era…? Nessuno dei tre si era mai interessato davvero a cose del genere. Andava bene comunque, finché erano in tre. Una volta rimasti soli queste cose cominciavano ad avere una rilevanza inaspettata e spaventosa.

Chi diavolo era quel filosofo? Lo si poteva chiedere agli altri e rimanere ore intere a ridere sparando assurdi nomi simil-greci o simil-latini.

Chi diavolo era quel filosofo? Non lo si sarebbe saputo mai…
**

“Ma ci pensi se non ci dovessimo vedere più?”
Una domanda così innocente…
Era stata lei stessa a porla a Sakura, un milione di anni prima.
Come poteva immaginare che si sarebbe avverata come una profezia?

A saperlo avrei parlato di meno…

Avrebbe parlato di meno. Agito di meno. Ascoltato di più. Pensato di più.
Ma questo, lo sapeva, non serviva a niente. Non serviva a niente starci ancora a pensare così intensamente, dopo tanto tempo… tanto tempo di nulla…
Tutto quel tempo poteva, alla fine, considerarsi vissuto? Poteva dire di averlo vissuto davvero? O era soltanto stata un’illusione, un miraggio tra i fumi di pomeriggi nebbiosi spesi a far nulla, nulla di importante…
Un miraggio, si, un sogno… ma quando, di preciso, aveva cominciato a sognare? E cosa aveva sognato? Cosa, invece, era stato reale?
Perché il dolore, la sua solitudine, quella orribile malinconia la portavano più a credere di aver sognato i momenti felici che non quelli tristi. Perché a ricordarli adesso le parevano così finti, immobili ed incapaci di comunicare sentimenti, come una vecchia fotografia. Mentre il suo presente così nero le faceva provare ancora sensazioni così fresche, così nuove, così difficili da ignorare…
Le lacrime sono molto più credibili dei sorrisi.
Una consapevolezza alla quale era arrivata con i suoi errori e con la sua sofferenza. Aveva raggiunto un nuovo livello di pensiero adesso, e si, poteva dirsi saggia. Ma a cosa le sarebbe servito? A chi regalare aiuto con la sua saggezza? Per chi utilizzarla? Neanche per sé stessa, così sola e disperata da non aver più neanche bisogno d’aiuto…
**

Non avrebbe neanche dovuto sentirsi triste. D’altronde, era lui che aveva deciso di porre fine al braccio di ferro tra Sakura e Tomoyo.
E se ne pentiva, eccome… perché fino a quando loro se lo contendevano, aveva dei contatti, dei rapporti, per quanto turbolenti e dolorosi fossero… poteva ancora dire di essere… vivo…
Ora, in questo stato di immobilità assoluta dello spirito, cosa poteva dire di aver raggiunto? Che cosa voleva, dall’allontanarsi da loro? Tranquillo lo era, si, nel modo più triste possibile.

Eppure… mai, mai, mai aveva pensato di poter essere lui a fare la prima mossa per far tornare tutto come prima. Mai aveva pensato che fosse neanche possibile che tutto tornasse come prima. Ed anzi, quando se lo chiedeva, era perfino insicuro se lo volesse davvero o meno.
Perché pur tornando… amici… le lacrime di Sakura e le labbra di Tomoyo l’avrebbero perseguitato per sempre. Come se il senso di colpa per non averle trattate nella giusta maniera lo schiacciasse a terra o gli stringesse i polsi fino a lasciare i segni, segni che solo lui poteva vedere e per questo ancora più dolorosi…

Io… sono stato giusto, con loro? Sono stato buono, con loro? Di quello che mi hanno dato… di quello che mi hanno fatto provare… cosa, in realtà, meritavo?

Cosa meritava di provare? Gioia o dolore? Il suo viso meritava di mostrare lacrime o sorrisi?




In fondo erano pensieri assolutamente inutili. Ciò che è stato è stato. Il passato non ritorna. Insomma, frasi a cui era abituato, fin da bambino era stato certo solo di questo. Quando fai qualcosa devi esserne sicuro, perché non avrai la possibilità di farlo accadere di nuovo cambiando l’esito finale.
Lo aveva sempre saputo, ci aveva sempre creduto… ma come sempre accade, non ci si comporta mai come si è sempre creduto giusto, e così anche le sue azioni confermavano la volubilità della mente umana, così incostante ed inaffidabile, facile a procurare dolore a sé stessi ed agli altri…

Guardando fuori dalla finestra, poteva vedere solo la luce abbagliante del sole estivo. Lo stesso sole estivo che l’aveva salutato due anni prima quella dannata mattina a fine anno scolastico, lo stesso sole che adesso riusciva a procurargli solo un enorme fastidio, rinfacciandogli dolorosamente quanto freddo fosse il suo cuore.
**

Sakura alzò lo sguardo al sole rovente estivo, legando i capelli in una coda. Non erano ancora molto lunghi, ma già il fatto che riuscisse a tenerli legati era una gran conquista, per lei. D’altronde, aveva deciso di cominciare a farli crescere solo qualche mese prima, cosa pretendeva?
- Sakurachan, cosa ci fai qua fuori?
- Ah, Rikachan, mi stavo solo legando i capelli…
- Allora entriamo…
Rika era una sua collega di lavoro, un po’ imbranata e molto dolce. Camminava sempre con un fiocchetto legato al dito, gliel’aveva lasciato il suo ragazzo prima di partire per lavoro.
- Siccome sono smemorata, mi ha legato questo al dito per evitare che io dimentichi…
Spesso la vedeva accarezzare il fiocchetto mugugnando “Ma non ce n’era mica bisogno…” con un mezzo sorriso tenero.
Lavoravano entrambe nel fast food che aveva aperto l’anno prima. Il luogo dove aveva conosciuto suo marito.
- Come sta Shinji?
- Benone, grazie!
- E Yukito?
- Anche lui tutto benone.
Yukito, suo figlio. Shinji, suo marito. Con loro aveva scoperto di poter amare di nuovo. E loro non avevano mai tradito la sua fiducia.
- Sakura, và a prendere l’ordinazione a quel tavolo!
- Vado, signor Tsuji!
Camminò velocemente a testa alta verso il tavolo al quale troneggiava la figura di una donna vestita elegantemente, con un gran cappello calato sul viso. Dall’inclinazione della testa, però, capiva che guardava fuori.
Con voce allegra si rivolse a lei.
- Buongiorno! Cosa prende?
Quella neanche la guardò.
- Solo una coca cola, grazie.
Si fermò un secondo. Le sembrava…
- Certo, arriva subito!
Voltandosi, rimase un po’ ferma con lo sguardo rivolto indietro. Ripensò a quella voce.

Ma no…

Si decise a pensare, e corse verso il bancone con il foglietto dell’ordine svolazzante in una mano.
**

Uscì dal locale un po’ stordita. Per strada c’era troppa confusione.
Si calcò bene il cappello sulla testa.
- Signorina Daidouji, i bambini erano preoccupati!
Si voltò di scatto, giusto il tempo per vedere un’anziana donna vestita da cameriera fissarla agitata ed una nidiata di bambini correrle incontro urlando il suo nome.
- B-Bambini, cosa ci fate per strada?
Disse accogliendoli fra le braccia e piegandosi elegantemente sulle ginocchia ignorando l’invocazione della donna a non farlo per non rovinare il meraviglioso vestito lungo celeste.
- Eravamo preoccupati per te, Tomoyochan!
Disse una bimba con le traccine.
- Sakurachan…
Sussultò nel dire quel nome. Lo faceva sempre. Quella, comunque, era la bambina a cui era più affezionata.
- … io ho ancora qualche commissione da sbrigare, voi tornate in orfanotrofio! Ci vediamo più tardi!
I bambini si diressero annuendo verso una fermata dell’autobus. La donna la guardò.
- E’ stata in quel posto, signorina?
Lei sorrise tristemente guardando altrove.
- Non deve continuare a farsi del male… lei è una persona così buona… quei bambini ed il loro affetto ne sono la prova…
Ancora, Tomoyo sorrise, in maniera più radiosa.
- Grazie. Comunque, Chishi-san, devo ancora andare a trovare mia madre… tu accompagna i bimbi a casa, ok?
Lei annuì e raggiunse i pargoli.
Tomoyo adocchiò un taxi, lo fermò a salì elegantemente a bordo.
- Vorrei andare al numero 89 di via Chisuku, grazie.
**

- Si, so dov’è, signorina… ma è un po’ distante da qua, le costerà…
La vide sorridere mentre si toglieva il cappello.
- Non è un problema, vada pure.
La riconobbe subito. Si calò il berretto sugli occhi e si strinse nelle spalle. Chissà perché quella strana paura di farsi riconoscere.
Mise in moto e guardò dallo specchietto curiosamente. Era perfino più bella di come la ricordasse. Una cascata di capelli, pelle candida… avrebbe voluto dirglielo.
- Mi scusi, lei è la signorina Daidouji, vero?
- Si, sono io…
Disse con un sorriso imbarazzato.
Notò che non era molto stupita. Effettivamente era una personalità molto in vista, da quando aveva aperto l’orfanotrofio.
- E’ un vero onore averla sul mio taxi… le offro il servizio!
- Ma che dice? Grazie mille, ma non posso accettare… mi sembra giusto pagarla!
La vide agitarsi ed arrossire. Non è era proprio cambiata di una virgola.
- Ma no! Dico sul serio, lei è una gran donna! Ha fatto molto per quei poveri bambini…
L’orfanotrofio contava circa una cinquantina di bambini. Circa la metà erano stati abbandonati. E di molti altri venivano pagate le spese ospedaliere, pur non vivendo lì.
Ancora, Tomoyo sorrise.
- E’ stato il minino che potessi fare. Quei bambini si meritano tutto il bene del mondo.
Anche lui sorrise un poco. Si. Era proprio così. Tutti si meritavano tutto il bene del mondo.
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