rp: carles puyol

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Comico.
Pairing: Nessuno in particolare, accenni a José/Zlatan.
Rating: PG
AVVERTIMENTI: Crack, What If?, pseudoSlash.
- "Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione."
Note: Dunque, questa storia è a) totalmente inutile, b) totalmente folle. E' nata quando s'è cominciato vagamente a parlare del fatto che il Barça non avrebbe potuto raggiungere Milano in aereo, al che il mio cervello non poteva proprio starsene lì buonino ad osservare i fatti, no, doveva inventare XD E, insomma, questo è quello che è venuto fuori. Dedicata alla Jan perché sì, ecco XD
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Pepissea


Era passato ormai un mese dalla sventurata eruzione dell’Eyjafjallajökull, la cui immediata e più angosciante conseguenza era stata spargere ceneri per i cieli di tutta Europa senza che nessuno potesse prevederlo, impedirlo o fare qualcosa immediatamente dopo per risolvere l’incresciosa situazione. Il commento di Pep alla questione, dopo aver appreso la notizia al telegiornale, era stato: “Ma porca di tutte quelle troie, dopo centottantasette anni doveva risvegliarsi e rompere i coglioni proprio adesso?”, al quale era seguito a distanza ravvicinata il commento di Bojan che, guardando il cielo con aria assorta come dovesse vedersi piovere una rana sulla testa da un momento all’altro, aveva detto “Non mi meraviglia che stia spargendo tutta questa robaccia in giro… inutilizzato da tutto questo tempo, doveva essere così impolverato.” Il minuto di silenzio che aveva seguito questa deduzione sarebbe rimasto nella storia di tutti i più importanti minuti di silenzio mai verificatisi a Barcellona per lungo, lungo tempo. Ma questa è un’altra storia.
Dopo due rinvii di un paio di giorni e poi una settimana, era altresì parso evidente che se anche le benedette semifinali fossero state spostate nello spazio e nel tempo fino ad essere organizzate in un universo parallelo, ucronico e geograficamente traslato su un pianeta vicino, le ceneri non sarebbero scomparse ed avrebbero continuato ad affliggere i cieli europei rendendo impossibili le tratte aeree ancora a lungo, ed era stato in forza di questo che, esattamente tre settimane dopo il disastro, Michel Platini aveva chiamato Joan Laporta e gli aveva spiegato che continuare a rinviare sarebbe stato del tutto inutile. “De scioeu mast go on, monsieur Laportà”, aveva detto.
“Laporta,” l’aveva corretto lui, infastidito. “E comunque ne parli col mio allenatore, che io il culo dalla Catalogna lo schiodo solo in casi di estremo bisogno – ed una semifinale di Coppa dei Campioni decisamente non rientra nella casistica indicata.”
“Si chiama Sciampions Lig,” aveva borbottato lui, e poi, rassegnato, s’era fatto passare Pep. “Monsieur Guardiolà!” l’aveva salutato con entusiasmo, “Comment ça va?”
“È Guardiola,” l’aveva corretto anche Pep con un ringhio sommesso, “E non intendo portare la mia squadra in Italia in queste condizioni.”
Il battibecco che ne era seguito sarebbe entrato anche lui nella storia di tutti i più importanti battibecchi mai verificatisi a Barcellona, ma si era nondimeno dovuto concludere con la sconfitta plateale di Pep per esigenze superiori, fra i sospiri rassegnati di tutta la squadra.
Fissata una nuova data per la partita – una che stavolta fosse definitiva – la prima questione da dirimere era stata quella dei biglietti aerei.
- Cosa vuol dire che non ci sono voli? – aveva chiesto Pep, fissando con aria incredula e anche vagamente pallata l’operatrice dell’agenzia di viaggi, seduta di fronte a lui tutta stretta nelle spalle come volesse scusarsi anche solo di esistere.
- Non è colpa mia, signor Guardiola… - aveva mugolato la ragazza, continuando a scrollare con la rotellina del mouse, pressando F5 sulla tastiera di tanto in tanto per aggiornare l’elenco di voli desolatamente vuoto, - Le ceneri sono ancora alte e pesanti, gli aerei non sono sicuri. Nessun mezzo in realtà lo è, dato che ultimamente i temporali si sono fatti sempre più frequenti e intensi, e-
- Senta, - l’aveva quindi interrotta Pep, massaggiandosi stancamente le tempie, - noi dobbiamo essere in Italia fra meno di due settimane, e non possiamo certo andarci a piedi. E lei capisce che non posso ficcare trenta persone fra giocatori e staff tecnico e medico in un treno per poi mandarli in giro per l’Europa fino a Milano. Mi trovi una soluzione.
La ragazza aveva abbassato lo sguardo, mortificata.
- Temo non ce ne siano, signor Guardiola. – aveva affermato tristemente.
Era stato allora che Carles si era avvicinato ed aveva proposto un modo per sfangarla.
- Guardi, mister, - aveva detto con aria professionale, - io non prometto niente, ma c’è un cugino di un fratello di un amico di un compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di mia cugina Dolores che ha una barca.
- Una barca. – aveva ripetuto Pep, come a cercare di convincersi della fattibilità dell’impresa, - Una cosa tipo uno yacht? Una piccola nave?
- No, una barca. – aveva insistito Carles, grattandosi la sommità della testa, - Da pesca, tipo.
- …ma come ci dovremmo arrivare noi in Italia con una barca da pesca?! – aveva strillato Pep, agitando le braccia, - Santo Dio, Carles!
Le cose si erano fatte anche più complesse quando, dopo aver appurato che nessun battello in condizioni umane sarebbe salpato in tempo utile, non certo col mare continuamente martoriato da tempeste in quel modo, la squadra s’era recata in pompa magna a prendere atto delle condizioni dell’imbarcazione che avrebbe dovuto condurli sani e salvi a destinazione, nonché di colui che sarebbe stato il loro timoniere nella buona e nella cattiva sorte, che i venti fossero favorevoli o no.
Il cugino del fratello dell’amico del compagno delle elementari del secondo marito della migliore amica di Dolores, cugina di Carles, viveva la propria vita in un costante stato di ubriachezza che gli concedeva tregua solo per pochi minuti al giorno, e si trascinava in stato semicomatoso dal pontile mezzo coperto di alghe sul quale pareva vivere al ponte della sua pseudo-barca da pesca le cui travi si tenevano palesemente attaccate con lo sputo. Arrivando, Pep e i suoi ragazzi lo trovarono piegato in due oltre il parapetto a vomitare alimenti di incerta provenienza sia quanto a conformazione molecolare sia quanto a tempo trascorso all’interno dello stomaco. Quando gli chiesero se si sentisse male, lui rispose “È solo un po’ di mal di mare”, ed i ragazzi preferirono evitare di fargli notare che la barca era ferma.
- Signor… - provò a chiamarlo Pep quando lo vide scivolare come senza vita lungo il fianco della barca, per poi tornare a sedersi sul pontile, - Signore, mi chiamo Josep Guardiola, piacere. – disse porgendogli una mano, che l’uomo ignorò platealmente, continuando a fissare laconico l’orizzonte oltre il quale nubi nere cariche di pioggia si addensavano inesorabili. Bojan tirò su il cappuccio, sempre pensando alle rane. – Ehm, posso sapere come si chiama? – proseguì Pep, incerto.
- Ho dimenticato il mio nome molti anni fa. – rispose l’uomo tetro, dando i brividi a tutti, - Non serve un nome, quando si è soli col Mare. Il Mare non ti chiama per nome.
- …no, naturalmente. – rispose Pep, deglutendo a fatica, - Senta, a noi serve un passaggio in barca fino, facciamo, in Italia. – disse, gesticolando a caso per darsi un tono. – Lei sarebbe disposto?
L’uomo si voltò a guardarlo e poi, non senza una certa fatica, si erse sulle gambe, torreggiando su tutti loro.
- Josep Guardiola, - disse sempre più cupo, - temi tu la morte?
Pep inspirò profondamente.
- In realtà sì. – rispose con un certo imbarazzo, - Ma vede, non stiamo organizzando una missione suicida, davvero. Vogliamo solo andare in Italia. Speravamo che lei potesse esserci d’aiuto, tutto qua.
L’uomo si grattò il mento, gli occhi distanti persi in chissà che scenario mortifero.
- Potrei. – rispose quindi, e una nuova luce illuminò i visi di tutti i presenti, - Ma ho perso le chiavi della barca. – confessò, tornando a portare l’oscurità su di loro, - Sono finite dentro quella grotta. – disse, indicando un punto moderatamente lontano della scogliera, - Mentre inseguivo un cerbiatto.
- …un cerbiatto? – chiese Pep, gli occhi enormi.
- I misteri del Mare sono molti. – grugnì l’uomo.
- Sì, e quelli delle allucinazioni post-sbornia anche. – commentò in un sospiro Thierry, scuotendo teatralmente il capo mentre Pep gli lanciava un’occhiataccia volta a zittirlo.
- Senta… - disse l’allenatore, pinzandosi la radice del naso, - Noi dobbiamo assolutamente partire, in un modo o nell’altro. Dobbiamo recuperare quelle chiavi. La pagheremo profumatamente, se solo lei-
- Ci ho già provato. – disse l’uomo, solenne, - Ma il pertugio fra le rocce è troppo piccolo perché un essere umano di statura normale possa passarci.
Simultaneamente, tutti gli occhi si voltarono a fissare Lionel, che sbocconcellava un panino appoggiato a un palo di legno poco distante.
- Cosa? – chiese l’argentino, mandando giù un boccone. Venti minuti dopo, stava appeso con una corda alla vita, dondolante a picco sul mare, dando indicazioni ai compagni che lo tenevano da sopra perché lo indirizzassero il più precisamente possibile verso l’ingresso della grotta.
- Va bene così? – strillò Gerard dall’alto, sollevando una mano perché Dani e Victor, impegnati a manovrare la corda, si fermassero. Lionel aspettò di riprendersi dalle svariate botte in testa che aveva preso rimpallando da uno scoglio all’altro come in un flipper impazzito, e poi piantò i piedi contro la roccia bagnata e scivolosa, sollevando un pollice in direzione dell’amico prima di avventurarsi all’interno della grotta.
Alto non più di una cinquantina di centimetri, l’ambiente era stretto e angusto, e perfino il minuscolo argentino ebbe serie difficoltà a strisciare prono verso la fine della galleria e tirarne fuori le chiavi. Quando, mezz’ora dopo, fu riuscito a tornare in cima alla scogliera, stringendo forte fra le dita il frutto del proprio sacrificio umano, la prima cosa che chiese all’uomo senza nome fu di spiegargli come diavolo ci fossero finite quelle chiavi così in fondo, ma l’uomo non rispose, e sorrise in modo così inquietante che a nessuno passo neanche per l’anticamera del cervello la possibilità di insistere sul punto.
L’imbarcazione – senza nome come il suo proprietario e capitano – salpò nella notte spagnola, la stiva piena di viveri solo a metà, dal momento che l’altra metà era ingombra di tutte le bottiglie di vino catalano senza il quale il capitano non sembrava capace nemmeno di respirare, figurarsi camminare o ragionare lucidamente. Anche se, poi, pure in queste ultime due attività non è che brillasse, vino catalano o meno.
I primi problemi cominciarono a palesarsi quando le nubi scure, che li avevano minacciati quando erano ancora ancorati a terra, misero in atto i loro propositi guerrafondai scaricando sulle loro teste ettolitri d’acqua, tuoni e fulmini senza che loro potessero nemmeno ripararsi – a parte Bojan, che indossava ancora in cappuccio ma più per difendersi dall’eventuale caduta di rane che per altro.
- Finiremo alla deriva a mangiarci a vicenda per cercare di sopravvivere! – presagì immediatamente Pedro, agitando le braccia sopra la testa.
- Sta’ zitto, Pedrito. – lo minacciò Pep, stagliandosi contro il cielo scuro scosso a tratti da lampi lunghi e irregolari, abbaglianti come improvvisi fari nella notte, - O ti tengo fuori squadra fino all’anno prossimo.
- Non ci sarà una squadra e non ci sarà nemmeno un anno prossimo, per tutti noi! – continuò ad agitarsi Pedro mentre Bojan, spaventato dalle urla come un neonato, si metteva a piangere in un angolo, consolato da Thierry e Gerard, - Saremo già fortunati se arriveremo a vedere l’alba di domani mattina!
- Carles. – ordinò Pep, continuando a scrutare l’orizzonte appeso a una cima, gli occhi sottili e la pioggia che si faceva beffe del suo principio di calvizie, - Legalo. Ci serve una polena.
Le ultime parole che Pedro sentì prima di essere afferrato, imbavagliato e legato alla prua dell’imbarcazione furono “e spera che non si incontrino iceberg lungo il cammino”, suggerimento che il ragazzo accettò immediatamente cominciando a pregare in tutte le lingue a lui conosciute, che fendere le acque, per quanto agitate e violente, era una cosa, ma andare a sbattere di naso contro granitici blocchi di ghiaccio di svariate dimensioni era un affare del tutto diverso.
La tempesta cessò di infuriare solo l’indomani mattina. Stanchi e distrutti, i giocatori del Barça si aggiravano come marinai ubriachi sul ponte della nave, incerti sulle gambe, così come il capitano senza nome, che aveva dormito fino a dieci minuti prima ed aveva preso a bere non appena aperti gli occhi.
- Ma dove cazzo siamo? – si chiese Pep, gettando occhiate incuriosite in giro. Tutto attorno alla barca si apriva un corridoio di acque adagiato in mezzo a due rigogliose ali di vegetazione tropicale, con piante e fiori che mai avevano visto prima di quel momento.
- Ad occhio e croce, nella Foresta Amazzonica. – suppose Zlatan dopo essere riemerso dalla cabina del capitano della quale aveva preso possesso nell’esatto istante in cui erano saliti a bordo della barca, - Oppure su un altro pianeta. – scrollò le spalle, tirando fuori dal borsone il cellulare e componendo un numero a memoria. – Zay? – chiamò poco dopo, - Sì, siamo in viaggio. No, non ci crederai mai, ma ti racconterò appena sarò tornato a Milano. Senti, ma avete mica posto lì da voi? Perché io non ci ritorno a Barcellona in barca, beninteso. Aspetterò che la nube del cazzo si tolga dalle palle e poi tornerò in aereo, faranno a meno di me da qui a fine campionato.
Pep si voltò a guardarlo con aria sconcertata e anche un po’ oltraggiata.
- Potresti smetterla di parlare col tuo ex allenatore mentre siamo dispersi a risalire il corso del Rio delle Amazzoni che non si capisce come abbiamo raggiunto in una notte di viaggio col mare in tempesta?! – strillò, muovendosi tanto concitatamente da far ondeggiare la barca e pucciare Pedro nell’acqua come un savoiardo nel caffè.
Zlatan lo guardò malissimo, arricciando le labbra in una smorfia grandemente disapprovante.
- No. – rispose, prima di tornare a rivolgersi al suo interlocutore dall’altro lato dell’oceano, - Zaaaay, mi hai dato in mano a della gentaglia! – cominciò a lagnarsi, passeggiando nervosamente lungo il ponte, - Voglio tornare a casa, quando finisce il prestito? Sì, lo so che non è un prestito, ma potresti parlare col presidente…
Pep scosse il capo, sospirò profondamente e sollevò gli occhi al cielo plumbeo del Brasile – a quel punto, tanto valeva considerarsi davvero lì, se volevano avere una qualche speranza di venirne fuori – chiedendosi quanto ancora sarebbe durato quel supplizio.
La risposta tardò ad arrivare, perché mai, quando una risposta ti serve immediatamente, essa immediatamente arriva. Il viaggio durò tre giorni e tre notti, fu intenso e spossante, continuamente disturbato dal chiacchiericcio di Zlatan al telefono – chiacchiericcio che s’era poi trasformato in piagnisteo quando per qualche ragione le comunicazioni s’erano interrotte lasciandolo privo della sua dose di Mourinho quotidiana – dall’ondeggiare scomposto del capitano da un lato all’altro del ponte al solo scopo di sporgersi oltre il parapetto e vomitare e dalla rabbia e dalla frustrazione di un gruppo di uomini che pensava di costituire una squadra di calcio e che invece, per quel periodo di tempo, dovette dimostrare di essere in grado di pescare, nutrirsi dei crudi frutti del mare e sopravvivere a delle tempeste tali da lasciare incredulo chiunque sulle possibilità di sopravvivenza di quell’imbarcazione tanto malmessa quanto resistente.
Per tutta la durata del viaggio, attraversando oceani e osservando dalla barca gente sulle sponde delle terre che costeggiavano e che cercava di comunicare con loro tramite versi strani assimilabili a un certo “ma cu minchia sugnu?” che nessuno di loro era riuscito a interpretare, Pep rimase al proprio posto a prua, un piede ben piantato sulla punta della barca e il gomito poggiato sul ginocchio, lo sguardo sempre oltre l’orizzonte e la posa tipica dei comandanti colmi di onore e coraggio, quale lui d’altronde era.
Arrivarono a Genova sfiancati, smagriti, lerci e rattoppati come pantaloni vecchi, ma temprati da tutte le difficoltà che avevano superato e pronti ad affrontare l’Inter – e divorarne i calciatori, più per fame che per effettivo spirito combattivo. Una delegazione del club nerazzurro li accolse al porto come da programma. Furono rifocillati da deliziose cameriere in abitino nero e grembiule, furono loro donati dei vestiti umani e decenti e furono loro offerte brandine in un centro di prima accoglienza per immigrati, perché potessero riposarsi.
Solo dopo che si furono risvegliati José Mourinho in persona andò a porgere loro gli omaggi del presidente e della squadra tutta, ottenendo in cambio di essere schienato contro il pavimento dall’assalto del suo svedese preferito all’urlo di “ossantoddio, Zay, tienimi con te nella tua enorme villa con centinaia di servi per sempre”, robe che mai gli si erano sentite dire e probabilmente mai gli si sarebbero sentite ripetere.
Una volta ricompostosi, José si rimise in piedi e, accarezzando Zlatan placido al suo fianco come fosse un cucciolo di cane o qualcos’altro di spaventosamente simile, sorrise.
- Benvenuti! – li salutò, spalancando le braccia in un movimento quasi ecumenico, - L’Italia vi accoglie, o prodi giocatori del Barcellona. Prodi quanto stupidi, peraltro. – commentò, scoppiando a ridere come un cretino, - Gli aeroporti sono stati riaperti il giorno dopo la vostra partenza dalla Spagna.
Il silenzio calò sul dormitorio ricolmo di calciatori in pigiama appena riemersi da un sonno lungo dodici ore dopo aver attraversato il Mediterraneo su una barcarola piena di buchi come un groviera.
- …ma tu e Zlatan siete stati continuativamente al telefono per dei giorni… - balbettò Pep, le labbra tremule e lo sguardo vacuo, - Perché non avvertirci, perché… perché non mandare qualcuno…?
- E perderci lo spettacolo meraviglioso delle vostre urla in vivavoce per tutto il tempo? – chiese José, sorridendo placido e sistemandosi la cravatta, - Siamo la squadra più odiata d’Italia, che diamine, un motivo ci sarà pure. A proposito, - disse casualmente, avviandosi tranquillo verso l’uscita della camerata, - viste le ottime condizioni metereologiche, la partita è stata anticipata. Giochiamo stasera alle venti e quarantacinque a San Siro. Vi converrà partire al più presto. – numerosi ringhi di protesta accompagnarono la sua affermazione, così che lui si sentì quasi obbligato a sorridere più apertamente e precisare: - Però almeno potrete prendere l’aereo!
Pep e i suoi giocatori lo osservarono allontanarsi e poi scomparire oltre la porta, e fu solo dopo un paio di minuti che l’allenatore ritrovò la parola.
- Giocheremo sì alle venti e quarantacinque a San Siro, - grugnì, gli occhi scintillanti di furia omicida, - ma con la fascia nera al braccio. Avanti, miei prodi!
La rissa e il placcaggio della polizia che susseguirono sarebbero rimasti nella storia di tutte le risse e di tutti i placcaggi della polizia mai accostati alla stirpe del glorioso club catalano blaugrana, ma anche questa, come si suol dire, è un’altra storia.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Bojan/Pep.
Rating: PG-13
AVVERTIMENTI: Slash, Flashfic.
- "L’8 Marzo 2010 è una data che verrà ricordata negli anni a venire, l’incredibile nevicata che ha bloccato Barcellona. Ad appena 13 giorni dalla Primavera, la neve ci ha sorpresi imbiancando la città."
Note: Il titolo assurdamente lungo (e rubato a Megalomania dei Muse) non giustifica nemmeno in parte questa vaccatella scritta in una ventina di minuti semplicemente perché le foto di Pep e Boji persi nella bufera a Barcellona erano troppo amabili per ignorarle XD E la verità, se proprio la volete sapere (scommetto che altrimenti non ci dormireste la notte!), è che se Any non me l'avesse chiesta, io non l'avrei mai scritta u.u
C'è Zlatan, dentro, e sto ancora cercando di capire perché. Bah.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Paradise Comes At A Price That I Am Not Prepared To Pay


Osservare la neve cadere fitta fitta sulla Masia non è sconvolgente come osservare il Sahara coprirsi di bianco, naturalmente, ma non è nemmeno un evento tanto comune. Per questo motivo, Josep non cerca di forzare i suoi giocatori a concentrarsi sull’allenamento, e li lascia girovagare per il campo, tutti presi dall’osservazione dei fiocchi di neve e da quel modo idiota che hanno tutti di mettersi a giocare in ogni momento, riuscendo a far sembrare agli occhi del mondo di stare invece lavorando – solo, divertendosi un po’ più di tanti altri.
Zlatan passeggia tranquillamente per il campo. Ogni tanto ride, e quando Leo gli si avvicina e – con aria quasi offesa, neanche fosse merito suo se sta nevicando e si sentisse perciò oltraggiato dalla mancanza di rispetto che Ibra riserva all’evento – gli chiede perché non sia stupito, i suoi occhi per un secondo si fanno lontani e gli si allarga un sorriso sincero sulle labbra.
- A Milano ci allenavamo con la neve che ci arrivava alle ginocchia. – racconta con aria persa, e Josep rotea gli occhi, grattandosi la testa e muovendo qualche passo in giro dopo aver distolto lo sguardo. Il ragazzo è problematico e non capisce che non puoi avere le gambe in un posto e il cervello in un altro. Non capisce, soprattutto, che finché continuerà a giocare con mezzo cuore in blaugrana e mezzo cuore in nerazzurro – se davvero metà del suo cuore è riuscito comunque ad arrivare in Spagna, cosa di cui Josep non è affatto sicuro – dalla sua permanenza a Barcellona non potrà mai venir fuori nulla di buono. E a farne le spese sarà lui, perché è stato lui a pretenderlo al Camp Nou al posto di Samuel, ed a fine stagione sarà da lui che Laporta andrà esponendo il proprio libretto degli assegni e chiedendogli quale sia stato il frutto dell’investimento unico più cospicuo della sua intera vita.
- Sei buffo quando fai questa faccia qui. – ride Bojan alle sue spalle, e Josep si ferma, voltandosi indietro per osservarlo mentre lo affianca.
- Che faccia? – chiede, riprendendo a camminare accanto a lui.
- Questa. – ride ancora il ragazzo, e poi solleva un dito e lo usa per seguire i contorni del suo viso, stendendo le rughe sulla fronte. – Quella di quando sei preoccupato per qualcosa e non vuoi dirlo.
- Non sono preoccupato per nulla. – sorride Pep, stringendo la sua mano nella propria ed avvicinandoglisi, di modo che le loro mani intrecciate restino nascoste fra le pieghe del giubbotto che indossa. La neve cade anche su Boji, i suoi occhi grandi e chiarissimi sembrano voler seguire il tragitto di ogni fiocco dal cielo alla terra. – Non senti freddo?
- A-ha. – scuote il capo Bojan, sorridendo appena, - È bellissimo, non trovi?
Josep si ferma un attimo prima di rispondere col “sì” che Bojan meriterebbe, rendendosi conto da solo di quanto sarebbe estremamente ridicolo e melenso anche per uno come lui che in realtà è parecchio romantico, e quando Boji capisce perché lui si stia rifiutando di rispondere, scoppia a ridere.
- Sei una peste. – lo rimprovera, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca. Bojan gli si stringe contro, divertito.
- Che sono bellissimo anche io già lo so. – gli fa notare, tirando fuori la lingua, e Pep si sporge in avanti fermamente intenzionato a baciarlo per zittirlo e poi trascinarlo da qualche parte per fargli capire esattamente quanto bello sia, ma Carles passa loro davanti proprio in quel momento e si ferma di fronte a loro con aria seria, le braccia incrociate sul petto e le gambe leggermente divaricate.
- Mister, - lo riprende, battendo un piede per terra, - non siamo mica in vacanza. E soprattutto, per carità, non qui fuori!
Bojan ride, divertito oltre il legale, e si allontana da Josep solo per saltare addosso al suo Capitano, che per tutta risposta – ridendo come il ragazzino che è sempre rimasto nonostante l’età, che l’aria di Spagna è buona e rende eternamente giovani, è evidente – se lo carica in spalla e lo trasporta come un sacco di patate fino al cerchio di centrocampo, dove i loro compagni di squadra sono riusciti fra una risata e l’altra ad ammonticchiare un po’ di neve, sul quale la lascia cadere, costringendolo a una capriola mentre scivola lungo il fianco della montagnola, per poi risollevarsi in piedi fradicio e imbiancato dalla punta dei capelli alla punta dei piedi.
Josep sorride, lo guarda scuotersi come un cucciolo dopo un temporale e non si accorge per niente di Zlatan che appare al suo fianco, improvviso come la nevicata di oggi, e ghigna con aria saputella, senza guardarlo.
- Be’? – gli chiede, allontanandosi a disagio, - Coraggio, muoversi, stiamo cominciando l’allenamento, non te ne sei accorto?
Zlatan si volta a guardarlo per un attimo, e sorride più apertamente, improvvisando una seduta di stretching sul posto.
- Mister, - dice quindi, tornando a guardare i suoi compagni che saltellano e corricchiano per riscaldarsi a centrocampo, - lei non sbircia nella mia testa, e io non sbircio nella sua. Patti chiari, amicizia lunga.
Josep lo osserva allontanarsi spalancando gli occhi, e realizza che Zlatan è perfino più imprevedibile della neve alla Masia. Ma Bojan sorride, fiocchi di neve ovunque e capelli scompigliati e vestiti tutti stropicciati, e finché quello che c’è nella sua testa è al sicuro, a Josep non importa – che nevichi pure.
Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dani/Douglas.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lime.
- "Lo chiamavano il Brasiliano."
Note: Questa storia è-- la follia. *ride* In realtà è nata un millennio fa circa, quando Def tirò fuori, da meandri che non conosco, una serie di foto simili a quella che ho usato per il banner e che ritraevano Dani (s)vestito da torero. Poi, per un motivo o per l'altro, più che altro perché avevo scadenze pressanti per altre storie, il programma di scriverla è slittato nel tempo, ma la voglia di farlo non è mai mancata, per cui a un certo punto è semplicemente nata. Le voglio bene perché è bello quando si riesce a descrivere un mondo in una storia relativamente breve, che è una cosa che per forza deve riuscirti quando vuoi scrivere un AU che magari non sia lungo trecento pagine. *ride* Insomma, io spero di esserci riuscita, e che vi piaccia /o/
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
REMEMBER WHEN I MOVED IN YOU

Lo chiamavano il Brasiliano, e quello doveva essere il motivo per cui Douglas, trattenendo il respiro fino allo stremo delle forze, stava andando a parlare con lui. Non aveva idea di cosa gli avrebbe detto e, per dire tutta la verità come stava, non era neanche sicuro che ciò che aveva intenzione di fare si potesse fare per davvero, ma in quel momento non gl’importava. Il pensiero di poter fare la figura peggiore della sua esistenza naturalmente lo sfiorava ad ondate continue, ma sempre meno forti, come il mare che riacquista la calma dopo una tempesta. La paura e la vergogna erano state fortissime quando era uscito di casa ed aveva cominciato a dirigersi a piedi verso l’arena, ma man mano che la strada già percorsa si faceva più lunga, accorciando quella ancora da percorrere, quelle sensazioni svanivano, lasciando posto ad un senso di irrequietezza che poco aveva a che fare con l’imbarazzo, e che Douglas riusciva a riconoscere come una sorta di timida eccitazione, una strana impazienza di arrivare e trovarsi di fronte a lui per riuscire a dirgli qualcosa, anche una cosa qualsiasi.
Camminando ad occhi bassi come faceva, si accorse di aver raggiunto la Monumental solo quando la sua immensa ombra scura gli si gettò addosso. Il sole di Barcellona smise di bruciargli la pelle e la temperatura tornò ad abbassarsi attorno a lui, convincendolo a sollevare lo sguardo e scrutare l’enorme e splendido edificio con aria un po’ incerta, inumidendosi le labbra. Socchiuse gli occhi ed immediatamente le emozioni fortissime che aveva provato non più di una settimana prima assistendo alla Corrida tornarono ad impossessarsi dei suoi sensi: le grida della gente, l’odore del sangue e del sudore, i versi dei picadores e dei banderillos ed il sorriso immobile e sicuro del torero, le labbra rilassate, i movimenti del corpo fluidi e naturali, come stesse facendo la cosa per cui era nato e niente di diverso. L’immagine dei suoi denti bianchissimi ad apparire e sparire fra le sue labbra quando il sorriso si faceva appena più compiaciuto, un attimo prima di tornare composto e pacato, è ancora perfettamente chiara nella sua mente, così come quella dei suoi occhi chiarissimi, perfettamente visibili perfino dalla lunga distanza.
L’arena sembrava completamente diversa quando era vuota. Douglas girò per qualche secondo attorno all’entrata principale, chiedendosi se ci fosse un passaggio meno esposto attraverso il quale entrare, ma quando non vide nessuno a sorvegliare il posto scrollò le spalle e decise di entrare da lì. Lo spettacolo non sarebbe cominciato prima di tre ore, ed era abbastanza ridicolo entrare così presto con la speranza di trovare il torero già dentro, da qualche parte, ma Douglas risolse il problema stabilendo che non ne avrebbe fatto un dramma, se non l’avesse trovato. Era una chance che si stava dando alla cieca, spegnendo il cervello e pregando perché andasse bene. Pregando, soprattutto, perché una volta giunto di fronte a lui potesse scattare qualcosa, nella sua gola, qualcosa che potesse permettergli di capire perché stava facendo tutto questo. Se un perché c’era.
Si guardò intorno per un minuto buono, prima di individuare il torero. Era lì, a non più di una decina di metri da lui. Costeggiava lentamente il bordo dell’arena, le mani dietro la schiena e gli occhi chiusi, il viso puntato verso l’alto ad accogliere la luce del sole. Indossava un paio di normalissimi jeans ed altrettanto normalissime scarpe da tennis, ma portava la chaquetilla direttamente sul petto nudo, e quello era l’unico particolare per il quale era possibile riconoscerlo per ciò che era.
Douglas trattenne il respiro mentre gli lasciava scorrere gli occhi addosso, e si riscosse solo quando vide con la coda dell’occhio qualcuno avvicinarglisi. Si voltò per inquadrare la figura appena in tempo per riconoscere un uomo dai lunghi capelli ricci con la divisa del servizio d’ordine che lo squadrava sospettoso, le sopracciglia aggrottate e l’aria di uno che non ha tempo da perdere a rimbrottare visitatori per la loro inopportuna presenza fuori dall’orario di apertura, ma che nondimeno è costretto a farlo per contratto.
- Non può stare qua. – borbottò l’uomo, guardandolo severamente, - Il signor Alves si sta preparando, è ancora presto per la Corrida. Ritorni quando apriremo la biglietteria.
- No, guardi, - cercò di dire lui, gesticolando vagamente più nel tentativo di distrarlo che per altro, - in realtà volevo solo— parlare un attimo col signor Alves, se fosse possibile, e—
- Non può stare qua. – ripeté l’uomo, - E non può disturbare il torero mentre si prepara per la corrida, per cui, se vuole seguirmi… - lo invitò brusco, mostrandogli con un gesto la via per l’uscita.
Douglas puntò i piedi, ben deciso a protestare animatamente, ma i suoi programmi furono vanificati dalla voce del torero che giunse chiara e cristallina a pochi passi dalle transenne.
- Carles. – lo chiamò tranquillamente, attirando la sua attenzione, - Non preoccuparti, lo conosco. Lascialo passare.
- Dani. – borbottò lui, incrociando le braccia sul petto, - Non posso lasciarlo passare.
- Sì, ma puoi farmi un favore. – disse l’uomo, sciogliendo le braccia da dietro la schiena e piegandosi un po’ per appoggiarsi alla transenna, senza mai perdere il contatto visivo con l’uomo e senza degnare Douglas di uno sguardo, come se la sua presenza fosse tanto ovvia da non dover richiedere che se ne si prendesse nota.
L’uomo sospirò e scosse il capo, rassegnato, prima di voltarsi di nuovo verso Douglas e lanciargli un’occhiata risentita.
- Un’ora, non di più. Dopo deve cominciare a vestirsi, e tu – disse puntandolo con un dito e passando alla seconda persona senza curarsi troppo di quanto il tutto potesse suonare minaccioso (o forse proprio perché, invece, se ne rendeva conto alla perfezione) – tu sloggi. Ci siamo intesi?
- Carleeees. – lo riprese il torero, mentre Douglas annuiva incerto, e pochi secondi dopo l’uomo sbuffò e girò sui tacchi, sparendo dietro il primo angolo utile.
- …tu mi conosci? – chiese Douglas, scavalcando le transenne sotto lo sguardo di Dani che, ora che Carles era scomparso all’orizzonte, si era focalizzato su di lui come se nel raggio di chilometri non esistesse nient’altro che valesse ugualmente la pena guardare.
- No, non ti ho mai visto prima. – rispose sinceramente lui, ridendo divertito, - Ma se non l’avessi detto, Carles non ti avrebbe mai lasciato passare. Per cui fai in modo che sia valsa la pena mentire.
Douglas abbassò immediatamente lo sguardo, perdendo il passo mentre Dani continuava a camminare seguendo la forma ovale dell’arena.
- Per la verità non— non lo so. – biascicò incerto, - Sono brasiliano anch’io, sai?
- L’avevo immaginato dal tuo accento. – rispose Dani, voltandosi a guardarlo ed aspettando che si trovasse nuovamente accanto a lui prima di riprendere a camminare, - Se vuoi, possiamo parlare in portoghese. Sono anni che non parlo più nella mia lingua, qui non ho nessuno con cui farlo. È importante per tutti che io parli in spagnolo. Potrò essere brasiliano, ma prima di tutto sono un matador, e per esserlo devo essere spagnolo. E quando vivi a Barcellona, spesso essere spagnolo non basta. Devi essere catalano.
Douglas annuì distrattamente. Poteva capire cosa Dani intendesse dire con quel discorso, ma lui non faceva il suo stesso lavoro, non aveva la sua stessa posizione e soprattutto, anche se per lavoro tutto il giorno era costretto a parlare spagnolo, quando tornava a casa dalla sua vecchia mamma e dal suo vecchio babbo, ricominciava a parlare in portoghese, e smetteva solo quando andava a dormire. Ancora di più, comunque, a nessuno importava se lui parlasse spagnolo o portoghese, quando e con chi. Per Dani la questione invece sembrava essere del tutto diversa.
- Per me va bene. – annuì quindi, cominciando subito a parlare in portoghese ed osservando i lineamenti del viso di Dani che si distendevano in un sorriso molto più sincero dei precedenti.
- Potrei essere un po’ arrugginito. – confessò lui con un sorriso, indicandogli una porticina che li condusse entrambi in un ambiente buio e riparato, che non s’illuminò davvero neanche quando Dani accese la luce. La lampadina bassa, pendente dal tetto tramite un filo sottilissimo che la portava ad ondeggiare nel vuoto al minimo spostamento d’aria, diffondeva una luce fioca e giallastra che permetteva appena di rendersi conto dei confini dei mobili per non andare a sbatterci contro. – Comunque, volevi parlarmi di qualcosa in particolare? Accomodati pure.
Douglas prese posto sul bracciolo di un divanetto in pelle nera. Si sedette tanto in bilico che dovette puntellarsi con entrambe le mani per non cadere. Dani rise, ma si adeguò immediatamente, appoggiandosi al bordo di un tavolino poco distante e restando in attesa.
Douglas si guardò intorno. Non riusciva a distinguere il colore di metà dei mobili che arredavano la stanza, ma erano quasi tutti molto tradizionali, in legno scuro. C’era una credenza enorme che chissà cosa doveva contenere, ed un armadio perfino più grande, ed erano entrambi di un bel legno bruno cui la luce davvero non rendeva giustizia, arrivando ad oscurare perfino gli splendidi disegni floreali che ne decoravano le ante. Si ritrovò a dirsi che si stava perdendo apposta in quelle osservazioni assolutamente inutili, per non dover fronteggiare il fatto di trovarsi proprio lì a due passi da lui e non avere la minima idea di cosa dirgli, esattamente come sarebbe immaginato che sarebbe successo.
- Io sono… un tuo fan, se così si può dire. – abbozzò quindi, tenendo gli occhi bassi e dondolando un po’ sul bracciolo, salvo poi interrompersi immediatamente al pensiero di poterlo rompere con un movimento particolarmente goffo.
- Davvero? – chiese Dani, inarcando un sopracciglio ed osservandolo scettico, - E da quando?
- Da… una settimana? Suppongo. – rispose lui, mortalmente in imbarazzo. Dani rise ad alta voce e lui immediatamente sollevò lo sguardo, lanciandogli un’occhiata truce. – Così non mi aiuti. – borbottò offeso, e Dani scosse il capo, cercando di trattenere le risate con scarsi risultati.
- E per cosa ti servirebbe il mio aiuto? – lo invitò a proseguire, sorridendo enigmatico. Douglas scostò lo sguardo, sospirando profondamente.
- Non lo so. – rispose quindi, buttando fuori in un fiato tutto ciò che aveva nei polmoni, agitazione compresa, e sentendosi immediatamente più leggero. – Mi sei piaciuto da subito, credo. – disse quindi, e non sapeva se stesse facendo maggiormente sfoggio di coraggio, incoscienza o stupidità, - Solo che non sapevo come— fartelo sapere.
- Le donne, generalmente, mi scrivono lettere d’amore, o mi lanciano rose nell’arena. – rise ancora Dani, allontanandosi dal tavolino per avvicinarsi a lui. – Per quanto riguarda te, invece, sono contento che sia venuto a dirmelo di persona.
Douglas sollevò lo sguardo, incontrando i suoi occhi e cercando di inumidirsi le labbra. Senza riuscirci, peraltro. Aveva la bocca talmente secca che riusciva a stento a respirare.
- …con questo vuoi dire che—
- Con questo non voglio dire niente. – sorrise Dani, avvicinandosi ancora e piegandosi un po’ per guardarlo negli occhi. – Dimmi il tuo nome. – disse quindi, la voce bassa e un po’ roca, - E dimmi cosa sei venuto a chiedermi.
Douglas trattenne il fiato e si sentì esplodere il petto. Lasciò andare il respiro più doloroso di tutti proprio contro le sue labbra, e contro quelle stesse labbra sussurrò il proprio nome, prima di sporgersi a baciarlo. Dani non si tirò indietro e non mostrò stupore a quel gesto, accogliendo la sua lingua con la propria e perfino il suo corpo fra le proprie braccia quando lui si slanciò in avanti tanto repentinamente che, se non avesse trovato il suo corpo a frenarlo, sarebbe sicuramente caduto in avanti.
Rise divertito fra le sue labbra, guadagnandosi in cambio un mugugno offeso cui seguirono un paio di morsi che fecero perfino male, e che si sfumarono subito in un’altra serie di baci, uno più umido e aperto dell’altro, mentre le mani esperte di Dani scorrevano lungo tutto il suo corpo, liberandosi celermente degli abiti che lo nascondevano alla vista.
Coi jeans appallottolati in un angolo accanto al divano e la maglietta tirata su a scoprire il petto ma ancora indosso, come nessuno dei due volesse perdere troppo tempo a toglierla completamente di mezzo, purché lasciasse scoperti i centimetri di pelle che contavano, Douglas si abbandonò contro il divano e chiuse gli occhi, lasciando che le labbra di Dani corressero senza tregua lungo il suo petto, il suo stomaco e le sue gambe, togliendogli la voce, il respiro, il senno. Inarcò la schiena, gemendo di sorpresa e dolore quando lui si spinse dentro il suo corpo, soffocandolo in un bacio più affamato degli altri. Dischiuse gli occhi alla ricerca dei suoi e le labbra alla ricerca di un po’ d’aria per non morire. Trovò i primi ma non la seconda, boccheggiò per qualche istante e poi Daniel gli sorrise addosso, cominciando a spingersi dentro di lui più lentamente, come aspettando che si abituasse, e allora perfino il bisogno di respirare o il naturale istinto a cercare di non morire persero importanza, e fu proprio in quel momento che cominciò a rilassarsi, e l’aria cominciò a tornare da sé, senza che lui avesse bisogno di ostinarsi a cercarla.
Le mani di Dani scivolarono lungo i suoi fianchi, stringendolo con forza per tenerlo fermo mentre si sistemava fra le sue cosce e dentro di lui, e poi allentarono la presa per accarezzarlo più lentamente lungo la sua erezione, talmente tesa da fare quasi male. Douglas continuò a gemere sempre allo stesso modo e non poté evitare di chiedersi dove stesse finendo il dolore che stava provando, e dove cominciasse invece il piacere che lo stava stordendo costringendolo a tremare fin nelle ossa. E smise di chiedersi qualsiasi cosa quando cercare di stabilire fine ed inizio non ebbe più senso, perché l’orgasmo gli esplose dentro portandolo a spalancare le labbra in un grido acuto per il quale avrebbe avuto modo di sentirsi in imbarazzo in seguito, ma non in quel momento, non quando l’unica cosa che sembrasse importante era allungare le mani, afferrare la chaquetilla di Dani, afferrare Dani, tirarselo contro e non lasciarlo andare più.
- Fai così con tutte le donne che ti mandano una lettera o ti lanciano una rosa nell’arena? – gli chiese con un mezzo sorriso, quando ebbe ritrovato sufficiente fiato per farlo. Dani rise, sollevandosi un po’ sulle mani per lanciargli un’occhiata curiosa.
- Stai sdrammatizzando? – gli chiese. Douglas distolse lo sguardo, lasciandosi andare ad una risatina nervosa.
- …ne sento il bisogno. – rispose sinceramente. Dani gli lasciò un bacio lievissimo sulla fronte, prima di separarsi da lui e rimettersi in piedi, scomparendo pochi secondi dopo dietro un paravento e lasciandolo lì sul divano, sfatto e stanchissimo, ad ascoltare lo sciabordio dell’acqua da un rubinetto nella stanza accanto.
- Apri l’armadio, - gli disse in spagnolo quando fu tornato da lui, indossando solo la biancheria, - ed aiutami a vestirmi.
Douglas si mise in piedi, ricomponendosi brevemente ed annuendo mentre si dirigeva verso l’armadio e ne schiudeva le ante, restando per qualche secondo incantato a fissare el traje de luces, immaginando infinite possibilità di spogliare e rivestire Dani da quegli abiti per sempre. Arrossì visibilmente e fu felice per la prima volta della luce giallastra che impedì a Dani di notarlo mentre gli passava la camiseta, la taleguilla e tutto il resto degli indumenti, osservando lentamente il torero prendere forma a partire dal corpo di un uomo comune e sentendosi stranamente parte di qualcosa di più grande, come si fosse guadagnato il proprio posto all’interno del rituale che trasformava Dani in un dio, o perfino qualcosa di più.
- Sei bellissimo. – disse senza fiato, osservandolo sorridere e sfilare da sé il capote de paseo dal proprio piedistallo, drappeggiandoselo su una spalla.
- Lo spettacolo di oggi te lo offro io. – disse Dani, - Va’ da Carles e riferisciglielo. Ti darà un buon posto.
Douglas annuì, osservandolo uscire dalla stanza senza voltarsi più indietro. Non lo salutò, ma non lo fece neanche Dani, per cui diede per scontato che non ce ne fosse bisogno. Si disse che avrebbero avuto un’altra occasione per recuperare. Stabilì di non salutarlo mai più, così da dovere avere per sempre un’altra occasione in cui recuperare. E poi lo seguì all’esterno.