Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: Dani/Douglas.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lime.
- "Lo chiamavano il Brasiliano."
Note: Questa storia è-- la follia. *ride* In realtà è nata un millennio fa circa, quando Def tirò fuori, da meandri che non conosco, una serie di foto simili a quella che ho usato per il banner e che ritraevano Dani (s)vestito da torero. Poi, per un motivo o per l'altro, più che altro perché avevo scadenze pressanti per altre storie, il programma di scriverla è slittato nel tempo, ma la voglia di farlo non è mai mancata, per cui a un certo punto è semplicemente nata. Le voglio bene perché è bello quando si riesce a descrivere un mondo in una storia relativamente breve, che è una cosa che per forza deve riuscirti quando vuoi scrivere un AU che magari non sia lungo trecento pagine. *ride* Insomma, io spero di esserci riuscita, e che vi piaccia /o/
Pairing: Dani/Douglas.
Rating: R
AVVERTIMENTI: Slash, AU, Lime.
- "Lo chiamavano il Brasiliano."
Note: Questa storia è-- la follia. *ride* In realtà è nata un millennio fa circa, quando Def tirò fuori, da meandri che non conosco, una serie di foto simili a quella che ho usato per il banner e che ritraevano Dani (s)vestito da torero. Poi, per un motivo o per l'altro, più che altro perché avevo scadenze pressanti per altre storie, il programma di scriverla è slittato nel tempo, ma la voglia di farlo non è mai mancata, per cui a un certo punto è semplicemente nata. Le voglio bene perché è bello quando si riesce a descrivere un mondo in una storia relativamente breve, che è una cosa che per forza deve riuscirti quando vuoi scrivere un AU che magari non sia lungo trecento pagine. *ride* Insomma, io spero di esserci riuscita, e che vi piaccia /o/
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REMEMBER WHEN I MOVED IN YOU
Lo chiamavano il Brasiliano, e quello doveva essere il motivo per cui Douglas, trattenendo il respiro fino allo stremo delle forze, stava andando a parlare con lui. Non aveva idea di cosa gli avrebbe detto e, per dire tutta la verità come stava, non era neanche sicuro che ciò che aveva intenzione di fare si potesse fare per davvero, ma in quel momento non gl’importava. Il pensiero di poter fare la figura peggiore della sua esistenza naturalmente lo sfiorava ad ondate continue, ma sempre meno forti, come il mare che riacquista la calma dopo una tempesta. La paura e la vergogna erano state fortissime quando era uscito di casa ed aveva cominciato a dirigersi a piedi verso l’arena, ma man mano che la strada già percorsa si faceva più lunga, accorciando quella ancora da percorrere, quelle sensazioni svanivano, lasciando posto ad un senso di irrequietezza che poco aveva a che fare con l’imbarazzo, e che Douglas riusciva a riconoscere come una sorta di timida eccitazione, una strana impazienza di arrivare e trovarsi di fronte a lui per riuscire a dirgli qualcosa, anche una cosa qualsiasi.
Camminando ad occhi bassi come faceva, si accorse di aver raggiunto la Monumental solo quando la sua immensa ombra scura gli si gettò addosso. Il sole di Barcellona smise di bruciargli la pelle e la temperatura tornò ad abbassarsi attorno a lui, convincendolo a sollevare lo sguardo e scrutare l’enorme e splendido edificio con aria un po’ incerta, inumidendosi le labbra. Socchiuse gli occhi ed immediatamente le emozioni fortissime che aveva provato non più di una settimana prima assistendo alla Corrida tornarono ad impossessarsi dei suoi sensi: le grida della gente, l’odore del sangue e del sudore, i versi dei picadores e dei banderillos ed il sorriso immobile e sicuro del torero, le labbra rilassate, i movimenti del corpo fluidi e naturali, come stesse facendo la cosa per cui era nato e niente di diverso. L’immagine dei suoi denti bianchissimi ad apparire e sparire fra le sue labbra quando il sorriso si faceva appena più compiaciuto, un attimo prima di tornare composto e pacato, è ancora perfettamente chiara nella sua mente, così come quella dei suoi occhi chiarissimi, perfettamente visibili perfino dalla lunga distanza.
L’arena sembrava completamente diversa quando era vuota. Douglas girò per qualche secondo attorno all’entrata principale, chiedendosi se ci fosse un passaggio meno esposto attraverso il quale entrare, ma quando non vide nessuno a sorvegliare il posto scrollò le spalle e decise di entrare da lì. Lo spettacolo non sarebbe cominciato prima di tre ore, ed era abbastanza ridicolo entrare così presto con la speranza di trovare il torero già dentro, da qualche parte, ma Douglas risolse il problema stabilendo che non ne avrebbe fatto un dramma, se non l’avesse trovato. Era una chance che si stava dando alla cieca, spegnendo il cervello e pregando perché andasse bene. Pregando, soprattutto, perché una volta giunto di fronte a lui potesse scattare qualcosa, nella sua gola, qualcosa che potesse permettergli di capire perché stava facendo tutto questo. Se un perché c’era.
Si guardò intorno per un minuto buono, prima di individuare il torero. Era lì, a non più di una decina di metri da lui. Costeggiava lentamente il bordo dell’arena, le mani dietro la schiena e gli occhi chiusi, il viso puntato verso l’alto ad accogliere la luce del sole. Indossava un paio di normalissimi jeans ed altrettanto normalissime scarpe da tennis, ma portava la chaquetilla direttamente sul petto nudo, e quello era l’unico particolare per il quale era possibile riconoscerlo per ciò che era.
Douglas trattenne il respiro mentre gli lasciava scorrere gli occhi addosso, e si riscosse solo quando vide con la coda dell’occhio qualcuno avvicinarglisi. Si voltò per inquadrare la figura appena in tempo per riconoscere un uomo dai lunghi capelli ricci con la divisa del servizio d’ordine che lo squadrava sospettoso, le sopracciglia aggrottate e l’aria di uno che non ha tempo da perdere a rimbrottare visitatori per la loro inopportuna presenza fuori dall’orario di apertura, ma che nondimeno è costretto a farlo per contratto.
- Non può stare qua. – borbottò l’uomo, guardandolo severamente, - Il signor Alves si sta preparando, è ancora presto per la Corrida. Ritorni quando apriremo la biglietteria.
- No, guardi, - cercò di dire lui, gesticolando vagamente più nel tentativo di distrarlo che per altro, - in realtà volevo solo— parlare un attimo col signor Alves, se fosse possibile, e—
- Non può stare qua. – ripeté l’uomo, - E non può disturbare il torero mentre si prepara per la corrida, per cui, se vuole seguirmi… - lo invitò brusco, mostrandogli con un gesto la via per l’uscita.
Douglas puntò i piedi, ben deciso a protestare animatamente, ma i suoi programmi furono vanificati dalla voce del torero che giunse chiara e cristallina a pochi passi dalle transenne.
- Carles. – lo chiamò tranquillamente, attirando la sua attenzione, - Non preoccuparti, lo conosco. Lascialo passare.
- Dani. – borbottò lui, incrociando le braccia sul petto, - Non posso lasciarlo passare.
- Sì, ma puoi farmi un favore. – disse l’uomo, sciogliendo le braccia da dietro la schiena e piegandosi un po’ per appoggiarsi alla transenna, senza mai perdere il contatto visivo con l’uomo e senza degnare Douglas di uno sguardo, come se la sua presenza fosse tanto ovvia da non dover richiedere che se ne si prendesse nota.
L’uomo sospirò e scosse il capo, rassegnato, prima di voltarsi di nuovo verso Douglas e lanciargli un’occhiata risentita.
- Un’ora, non di più. Dopo deve cominciare a vestirsi, e tu – disse puntandolo con un dito e passando alla seconda persona senza curarsi troppo di quanto il tutto potesse suonare minaccioso (o forse proprio perché, invece, se ne rendeva conto alla perfezione) – tu sloggi. Ci siamo intesi?
- Carleeees. – lo riprese il torero, mentre Douglas annuiva incerto, e pochi secondi dopo l’uomo sbuffò e girò sui tacchi, sparendo dietro il primo angolo utile.
- …tu mi conosci? – chiese Douglas, scavalcando le transenne sotto lo sguardo di Dani che, ora che Carles era scomparso all’orizzonte, si era focalizzato su di lui come se nel raggio di chilometri non esistesse nient’altro che valesse ugualmente la pena guardare.
- No, non ti ho mai visto prima. – rispose sinceramente lui, ridendo divertito, - Ma se non l’avessi detto, Carles non ti avrebbe mai lasciato passare. Per cui fai in modo che sia valsa la pena mentire.
Douglas abbassò immediatamente lo sguardo, perdendo il passo mentre Dani continuava a camminare seguendo la forma ovale dell’arena.
- Per la verità non— non lo so. – biascicò incerto, - Sono brasiliano anch’io, sai?
- L’avevo immaginato dal tuo accento. – rispose Dani, voltandosi a guardarlo ed aspettando che si trovasse nuovamente accanto a lui prima di riprendere a camminare, - Se vuoi, possiamo parlare in portoghese. Sono anni che non parlo più nella mia lingua, qui non ho nessuno con cui farlo. È importante per tutti che io parli in spagnolo. Potrò essere brasiliano, ma prima di tutto sono un matador, e per esserlo devo essere spagnolo. E quando vivi a Barcellona, spesso essere spagnolo non basta. Devi essere catalano.
Douglas annuì distrattamente. Poteva capire cosa Dani intendesse dire con quel discorso, ma lui non faceva il suo stesso lavoro, non aveva la sua stessa posizione e soprattutto, anche se per lavoro tutto il giorno era costretto a parlare spagnolo, quando tornava a casa dalla sua vecchia mamma e dal suo vecchio babbo, ricominciava a parlare in portoghese, e smetteva solo quando andava a dormire. Ancora di più, comunque, a nessuno importava se lui parlasse spagnolo o portoghese, quando e con chi. Per Dani la questione invece sembrava essere del tutto diversa.
- Per me va bene. – annuì quindi, cominciando subito a parlare in portoghese ed osservando i lineamenti del viso di Dani che si distendevano in un sorriso molto più sincero dei precedenti.
- Potrei essere un po’ arrugginito. – confessò lui con un sorriso, indicandogli una porticina che li condusse entrambi in un ambiente buio e riparato, che non s’illuminò davvero neanche quando Dani accese la luce. La lampadina bassa, pendente dal tetto tramite un filo sottilissimo che la portava ad ondeggiare nel vuoto al minimo spostamento d’aria, diffondeva una luce fioca e giallastra che permetteva appena di rendersi conto dei confini dei mobili per non andare a sbatterci contro. – Comunque, volevi parlarmi di qualcosa in particolare? Accomodati pure.
Douglas prese posto sul bracciolo di un divanetto in pelle nera. Si sedette tanto in bilico che dovette puntellarsi con entrambe le mani per non cadere. Dani rise, ma si adeguò immediatamente, appoggiandosi al bordo di un tavolino poco distante e restando in attesa.
Douglas si guardò intorno. Non riusciva a distinguere il colore di metà dei mobili che arredavano la stanza, ma erano quasi tutti molto tradizionali, in legno scuro. C’era una credenza enorme che chissà cosa doveva contenere, ed un armadio perfino più grande, ed erano entrambi di un bel legno bruno cui la luce davvero non rendeva giustizia, arrivando ad oscurare perfino gli splendidi disegni floreali che ne decoravano le ante. Si ritrovò a dirsi che si stava perdendo apposta in quelle osservazioni assolutamente inutili, per non dover fronteggiare il fatto di trovarsi proprio lì a due passi da lui e non avere la minima idea di cosa dirgli, esattamente come sarebbe immaginato che sarebbe successo.
- Io sono… un tuo fan, se così si può dire. – abbozzò quindi, tenendo gli occhi bassi e dondolando un po’ sul bracciolo, salvo poi interrompersi immediatamente al pensiero di poterlo rompere con un movimento particolarmente goffo.
- Davvero? – chiese Dani, inarcando un sopracciglio ed osservandolo scettico, - E da quando?
- Da… una settimana? Suppongo. – rispose lui, mortalmente in imbarazzo. Dani rise ad alta voce e lui immediatamente sollevò lo sguardo, lanciandogli un’occhiata truce. – Così non mi aiuti. – borbottò offeso, e Dani scosse il capo, cercando di trattenere le risate con scarsi risultati.
- E per cosa ti servirebbe il mio aiuto? – lo invitò a proseguire, sorridendo enigmatico. Douglas scostò lo sguardo, sospirando profondamente.
- Non lo so. – rispose quindi, buttando fuori in un fiato tutto ciò che aveva nei polmoni, agitazione compresa, e sentendosi immediatamente più leggero. – Mi sei piaciuto da subito, credo. – disse quindi, e non sapeva se stesse facendo maggiormente sfoggio di coraggio, incoscienza o stupidità, - Solo che non sapevo come— fartelo sapere.
- Le donne, generalmente, mi scrivono lettere d’amore, o mi lanciano rose nell’arena. – rise ancora Dani, allontanandosi dal tavolino per avvicinarsi a lui. – Per quanto riguarda te, invece, sono contento che sia venuto a dirmelo di persona.
Douglas sollevò lo sguardo, incontrando i suoi occhi e cercando di inumidirsi le labbra. Senza riuscirci, peraltro. Aveva la bocca talmente secca che riusciva a stento a respirare.
- …con questo vuoi dire che—
- Con questo non voglio dire niente. – sorrise Dani, avvicinandosi ancora e piegandosi un po’ per guardarlo negli occhi. – Dimmi il tuo nome. – disse quindi, la voce bassa e un po’ roca, - E dimmi cosa sei venuto a chiedermi.
Douglas trattenne il fiato e si sentì esplodere il petto. Lasciò andare il respiro più doloroso di tutti proprio contro le sue labbra, e contro quelle stesse labbra sussurrò il proprio nome, prima di sporgersi a baciarlo. Dani non si tirò indietro e non mostrò stupore a quel gesto, accogliendo la sua lingua con la propria e perfino il suo corpo fra le proprie braccia quando lui si slanciò in avanti tanto repentinamente che, se non avesse trovato il suo corpo a frenarlo, sarebbe sicuramente caduto in avanti.
Rise divertito fra le sue labbra, guadagnandosi in cambio un mugugno offeso cui seguirono un paio di morsi che fecero perfino male, e che si sfumarono subito in un’altra serie di baci, uno più umido e aperto dell’altro, mentre le mani esperte di Dani scorrevano lungo tutto il suo corpo, liberandosi celermente degli abiti che lo nascondevano alla vista.
Coi jeans appallottolati in un angolo accanto al divano e la maglietta tirata su a scoprire il petto ma ancora indosso, come nessuno dei due volesse perdere troppo tempo a toglierla completamente di mezzo, purché lasciasse scoperti i centimetri di pelle che contavano, Douglas si abbandonò contro il divano e chiuse gli occhi, lasciando che le labbra di Dani corressero senza tregua lungo il suo petto, il suo stomaco e le sue gambe, togliendogli la voce, il respiro, il senno. Inarcò la schiena, gemendo di sorpresa e dolore quando lui si spinse dentro il suo corpo, soffocandolo in un bacio più affamato degli altri. Dischiuse gli occhi alla ricerca dei suoi e le labbra alla ricerca di un po’ d’aria per non morire. Trovò i primi ma non la seconda, boccheggiò per qualche istante e poi Daniel gli sorrise addosso, cominciando a spingersi dentro di lui più lentamente, come aspettando che si abituasse, e allora perfino il bisogno di respirare o il naturale istinto a cercare di non morire persero importanza, e fu proprio in quel momento che cominciò a rilassarsi, e l’aria cominciò a tornare da sé, senza che lui avesse bisogno di ostinarsi a cercarla.
Le mani di Dani scivolarono lungo i suoi fianchi, stringendolo con forza per tenerlo fermo mentre si sistemava fra le sue cosce e dentro di lui, e poi allentarono la presa per accarezzarlo più lentamente lungo la sua erezione, talmente tesa da fare quasi male. Douglas continuò a gemere sempre allo stesso modo e non poté evitare di chiedersi dove stesse finendo il dolore che stava provando, e dove cominciasse invece il piacere che lo stava stordendo costringendolo a tremare fin nelle ossa. E smise di chiedersi qualsiasi cosa quando cercare di stabilire fine ed inizio non ebbe più senso, perché l’orgasmo gli esplose dentro portandolo a spalancare le labbra in un grido acuto per il quale avrebbe avuto modo di sentirsi in imbarazzo in seguito, ma non in quel momento, non quando l’unica cosa che sembrasse importante era allungare le mani, afferrare la chaquetilla di Dani, afferrare Dani, tirarselo contro e non lasciarlo andare più.
- Fai così con tutte le donne che ti mandano una lettera o ti lanciano una rosa nell’arena? – gli chiese con un mezzo sorriso, quando ebbe ritrovato sufficiente fiato per farlo. Dani rise, sollevandosi un po’ sulle mani per lanciargli un’occhiata curiosa.
- Stai sdrammatizzando? – gli chiese. Douglas distolse lo sguardo, lasciandosi andare ad una risatina nervosa.
- …ne sento il bisogno. – rispose sinceramente. Dani gli lasciò un bacio lievissimo sulla fronte, prima di separarsi da lui e rimettersi in piedi, scomparendo pochi secondi dopo dietro un paravento e lasciandolo lì sul divano, sfatto e stanchissimo, ad ascoltare lo sciabordio dell’acqua da un rubinetto nella stanza accanto.
- Apri l’armadio, - gli disse in spagnolo quando fu tornato da lui, indossando solo la biancheria, - ed aiutami a vestirmi.
Douglas si mise in piedi, ricomponendosi brevemente ed annuendo mentre si dirigeva verso l’armadio e ne schiudeva le ante, restando per qualche secondo incantato a fissare el traje de luces, immaginando infinite possibilità di spogliare e rivestire Dani da quegli abiti per sempre. Arrossì visibilmente e fu felice per la prima volta della luce giallastra che impedì a Dani di notarlo mentre gli passava la camiseta, la taleguilla e tutto il resto degli indumenti, osservando lentamente il torero prendere forma a partire dal corpo di un uomo comune e sentendosi stranamente parte di qualcosa di più grande, come si fosse guadagnato il proprio posto all’interno del rituale che trasformava Dani in un dio, o perfino qualcosa di più.
- Sei bellissimo. – disse senza fiato, osservandolo sorridere e sfilare da sé il capote de paseo dal proprio piedistallo, drappeggiandoselo su una spalla.
- Lo spettacolo di oggi te lo offro io. – disse Dani, - Va’ da Carles e riferisciglielo. Ti darà un buon posto.
Douglas annuì, osservandolo uscire dalla stanza senza voltarsi più indietro. Non lo salutò, ma non lo fece neanche Dani, per cui diede per scontato che non ce ne fosse bisogno. Si disse che avrebbero avuto un’altra occasione per recuperare. Stabilì di non salutarlo mai più, così da dovere avere per sempre un’altra occasione in cui recuperare. E poi lo seguì all’esterno.