All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
A CHANGE WOULD DO YOU GOOD
ALBERTO RAVETTA: USCIAMO STASERA?
DARLA TOMOE: STAI SCHERZANDO? C’È X FACTOR.
ALBERTO RAVETTA: TI PIACE QUELLA MERDA?
DARLA TOMOE: NO. MA CHE C’ENTRA?
ALBERTO RAVETTA: PERCHÉ LA GUARDI, SE NON TI PIACE?
DARLA TOMOE: PER PARLARNE MALE SU TWITTER.
ALBERTO RAVETTA: …TU SEI PAZZA.
DARLA TOMOE: MA PERCHÉ, SCUSA, TU NON HAI MAI GUARDATO QUALCOSA PER POI PARLARNE MALE?
ALBERTO RAVETTA: NO.
ALBERTO RAVETTA: OKAY, FINAL FANTASY X–2.
*La paranoia da campanello non mi è mai passata. Ogni volta che squilla e non sto aspettando nessuno (non capita quasi mai, comunque, non è che la mia vita abbia subito poi chissà che cambiamento negli ultimi mesi), adesso non penso più soltanto che possa essere qualcuno che vuole vendermi qualcosa o convertirmi alla religione della settimana, ma anche che possa essere qualche brutta notizia. Non so perché, nessuno è davvero mai apparso sulla porta di casa mia per portarmi brutte notizie. Tempo fa ogni tanto pensavo che, quando Andrea sarebbe morto, l’avrei saputo così. Qualcuno avrebbe suonato al campanello e me l’avrebbe detto guardandomi in viso con aria contrita. La storia mi ha smentita, le notizie di merda arrivano sempre per telefono, che d’altronde è un accessorio di merda che odio. E comunque Andrea non è mai morto.
Davvero, non so perché il suono improvviso del campanello sia cominciato a diventare un motivo di preoccupazione in quel senso. Immagino che quando cominci a renderti conto del valore che hanno per te le persone che hai attorno sia inevitabile cominciare a preoccuparsi che stiano bene. Forse è per questo. Perché nel mio cervello palesemente mancano le sinapsi giuste, quelle che ti fanno godere del fatto di avere finalmente degli amici, e così il sentimento deve fisicamente passare attraverso le sinapsi sbagliate, quelle della paranoia senza motivo.
In realtà sto prendendo tempo perché mi pesa il culo ad alzarmi dal divano. Lo scrivo pure su Twitter, visto che ce l’ho davanti. “Chi cazzo suona, non ho voglia di andare ad aprire.”
I provini di X Factor sono a metà circa, fino ad ora mi sono annoiata in maniera vergognosa, ma ci sono stati un paio di casi umani niente male. Ho in twitlist una tipa che riporta tutte le frasi di Morgan e cerca di trovare loro un senso facendone la parafrasi, e ce n’è un’altra che gliele retwitta tutte convinta che siano chissà che perle di saggezza. Questo dialogo muto fra deficienti per adesso è stato il mio intrattenimento migliore.
Il campanello continua a suonare, ed è allora che realizzo che deve per forza essere uno fra la Susi o Alberto. Sento le vibrazioni del rompimento di palle attorno al mio corpo. Spero che sia la Susi, è ingestibile allo stesso modo di Alberto ma almeno non sente il bisogno spasmodico di farmi sentire una merda ogni volta che apro bocca.
Ovviamente è Alberto.
– Che ci fai qui?
– Ti avevo chiesto se ti andava di uscire stasera.
– E io ti ho detto di no. Quindi che ci fai qui?
– Ho pensato che scherzassi.
Io lo guardo, chiedendogli silenziosamente quante volte sia capitato che abbia detto “no, devo vedere questo” per scherzo. Lui intuisce la domanda ma si rifiuta di darmi una risposta, e decide di cambiare approccio.
– Dai, – sbuffa come un ragazzino, passandosi una mano fra i ricci con aria scazzata, – non puoi dirmi di no ora che sono qui.
Lo fisso, inarcando un sopracciglio.
– In genere funziona? – domando. Lui aggrotta le sopracciglia, lo scazzo simulato di prima si trasforma in scazzo vero adesso.
– Che palle, Darla. – sbotta, prendendomi di peso per le spalle e spostandomi per entrare in casa.
– Ehi! – protesto sbattendo la porta e seguendolo, – Ti ho detto che non mi va di uscire. Puoi per cortesia imparare a comprendere il valore dei no e andartene?
Lo trovo a pochi passi dal divano che fissa la televisione con aria sconvolta.
– Lo stai guardando sul serio.
– Certo. Te l’ho detto. – poi sbuffo, guardando altrove perché mi sento in imbarazzo, – Ho visto cose molto peggiori.
– No, credimi. – Alberto scuote il capo con decisione, – Non c’è niente di peggio di questa stronzata per ragazzine ritardate e casalinghe annoiate.
Torno a guardarlo con aria di sfida.
– Stamattina ho letto una fanfiction in cui Dean Winchester si faceva inculare dal mastino infernale di Crowley urlandogli “sì, ti prego, voglio i tuoi cuccioli, sono la tua cagna”. Come ti pare?
Alberto mi fissa con aria quasi disperata per un paio di secondi, sbattendo le palpebre lentamente e sporadicamente.
– Tu sei una pessima influenza nella mia vita. – conclude quindi.
– Concordo. – annuisco io, – Ora te ne vai?
Per tutta risposta, lui si siede sul divano. E io mi rassegno, tornando a sedermi accanto a lui col portatile sulle gambe incrociate.
– Facciamo un patto: io resto, – propone, – e tu non mi parli mai più di questa cosa fra Dean e il mastino infernale.
Ritrovo la fanfiction scrollando la cronologia e gliela leggo tutta. Tre volte.
*Sogno Andrea. Non riesco a capire dove siamo, ma non importa. È uno di quei sogni senza una collocazione geografica specifica, uno di quelli che quando poi ti svegli e cerchi di ricordarli non riesci mai a visualizzare per intero, ne ricordi solo frammenti minuscoli e insignificanti. Andrea sembra arrabbiato, urla, piange – ha sempre pianto un sacco, attention whore del cazzo – mi dice di andarmene a fanculo. Sono arrabbiata con lui anch’io, gli rispondo di non rompermi i coglioni, ma fra me e me, in quel posto in cui anche mentre sogni sai che stai sognando, penso che ho voglia di sentire la sua voce e più tardi lo chiamerò.
Resto a godermi la sensazione tiepida e calma del dormiveglia per un po’. Sto bene, se ripenso al litigio nel sonno mi viene da ridere. Da piccoli, io ed Andrea eravamo molto violenti – molto vicini e molto violenti. Non ne sono sicura, non ho mai chiesto in giro perché non me ne frega un accidenti, ma penso che sia uno standard per tutti i fratelli. A noi capitava spesso di venire alle mani anche per motivi idioti, o anche senza nessun motivo reale. Una volta ero così arrabbiata con lui che gli tirai una botta fortissima dietro la testa, lui non se l’aspettava, era così sconvolto e rintontito dal colpo che scoppiò a piangere e smise dopo mezz’ora. Due ore dopo ci era già passata, ricordo l’espressione che aveva sul volto quando venne da me e mi disse “mi si è spostato il cervello”, aveva gli occhi sgranati, le labbra dischiuse, non sembrava spaventato, solo stupito. Ogni tanto ci ripenso, rido dicendomi che almeno so perché è cresciuto tutto storto, in realtà rido solo per cercare di esorcizzare il senso di colpa.
È una cosa stupida, ma ogni tanto mi manca quando ci picchiavamo in quel modo. Perché era un gioco come un altro, magari sul momento eravamo arrabbiati sul serio, poi però ci passava ed era semplice risolvere. Quando cresci, smetti di risolvere tutto con le mani, ti tocca usare le parole. È lì che combini casini, con le parole.
Mi sveglio affamata. Apro gli occhi e sono tutta raggomitolata in un angolo del divano. Alberto ha colonizzato l’angolo opposto. Dorme ancora. Sbuffo e faccio una smorfia mentre mi costringo ad allungare le gambe e scendere dal divano. Non ho voglia per niente di avere a che fare con lui, in questo momento. Mi piace averlo intorno ogni tanto, non dico che non sia divertente, ma tende a diventare pesante senza neanche accorgersene, o accorgendosene e fregandosene ampiamente, e ci sono momenti in cui posso tollerarlo e momenti in cui invece non ci riesco.
No, non è vero, non ci sono mai momenti in cui posso tollerarlo. Da adolescente sognavo di diventare una donna forte, questo involucro indistruttibile, impermeabile alle emozioni. Oggi mi guardo allo specchio e vedo questa cosa fragile. Mi dico “questa non sono io, io sono forte”, ma non è vero. Questa cosa fragile sono io, questa cosa esposta e sensibile sono io. Devo ficcarmelo in testa, una buona volta.
– Svegliati. – lo scuoto per una spalla. Lui grugnisce, non apre gli occhi, ma so che si è svegliato. Vado in cucina, apro il frigorifero, c’è un po’ di latte che spero sia ancora bevibile. Questa cosa ridicola dei fondi dei cartoni del latte deve finire. Ogni tre giorni resta questo fondo infinitesimale di cui non so che fare, nella tazza non entra più e di berlo bianco non mi va, perciò lo lascio lì e finisce sempre che ogni due settimane mi ritrovo con queste distese di cartoni del latte con dentro microfondi di latte inacidito. È una cosa ridicola.
Verso il latte nel bicchiere e poi due cucchiai di Nesquik. Il Nesquik è stato una grande riscoperta, quando ero piccola era un must, poi abbiamo smesso di comprarlo. L’altra volta al supermercato ne ho visto una scatola e ho deciso di riprovarlo, ho passato le sei ore successive in estasi. Non c’è niente di più buono del latte al cioccolato, è come un trip acido senza le cattive conseguenze sul cervello.
– Ne dai un po’ anche a me? – chiede Alberto. Sollevo lo sguardo e lo osservo con la maggior quantità di scazzo possibile. Non ho idea di che ore sono, ma è troppo tardi perché lui possa trovarsi ancora qui impunemente.
– Perché non te ne torni a casa tua, invece? – domando, – Non ne hai più una?
– Ma è così che si ringrazia per la buona compagnia? – sbuffa lui, decidendo arbitrariamente di sedersi a tavola e restare lì a fissarmi imbronciato. Ha delle belle labbra, Alessandro lo dice spesso, e ha ragione. Io però non ho assolutamente la minima intenzione di concentrarmi su qualcosa di simile, e anche solo per levarmelo dalla testa verso un po’ di latte in un bicchiere anche per lui, porgendogli anche un cucchiaino nel caso voglia anche un po’ di Nesquik. Lui naturalmente lo vuole, dovrebbe essere pazzo per non volerlo.
Mi siedo anch’io, di fronte a lui, sospirando rassegnata perché pare che non abbia la minima intenzione di levarsi di torno. Non riesco a capire perché e il pensiero mi mette in ansia. Non c’è niente in assoluto nel mondo che Alberto possa volere da me. La sua presenza qui è indecifrabile. Mi fa paura.
– Lo bevevo spesso, da piccolo. – dice all’improvviso, guardando il suo bicchiere già mezzo vuoto. Non sa come farselo durare, sembra che gli dispiaccia. – Certe volte mi mettevo lì e ne bevevo un bicchiere dopo l’altro. Una volta ne ho bevuto così tanto che ho passato la serata intera a vomitare, e i miei non me l’hanno più comprato. Gli stronzi, avrebbero potuto semplicemente dirmi di darmi una regolata, magari nasconderlo in uno stipetto e darmene loro solo un bicchiere al giorno, ma no, si è passato dal consumo in massa alla deprivazione più assoluta. – resta in silenzio per qualche secondo e manda giù il resto del suo latte in un solo sorso. – I genitori non hanno una cazzo di idea di come educare i figli, è indecente che diano alla gente la possibilità di procreare così, indiscriminatamente.
Aggrotto le sopracciglia, sorseggiando il mio latte. Non è abbastanza, per quanto mi riguarda. Recupero i biscotti dal vaso al centro del tavolo, e così va meglio.
– Sì, be’, ognuno fa quello che può, Alberto, si suppone che la gente impari a gestire i figli man mano che crescono. – scrollo le spalle, guardando altrove. Odio questo discorso, odio che sia anche solo cominciato.
– E quanti ci riescono?
– Ma che cazzo vuoi che ne sappia?! – scatto, voltandomi a guardarlo e lasciando cadere un biscotto nel bicchiere inavvertitamente. Fantastico, ora sarà tutto briciole. – Senti, perché sei qua? Seriamente, vai via.
Suona peggio di quanto avrei voluto. Lui mi guarda per un sacco di tempo, non riesco a capire se sia arrabbiato o deluso o non so cos’altro, tutto quello che so è che lo voglio fuori di qui immediatamente.
E lui si alza e se ne va.
È stupido, ma non me ne ero mai accorta prima. Anche Alberto ha gli occhi scuri.
*Mi sveglia la Susi che sono le undici e mezza passate. Io ho ancora sonno e accarezzo per qualche istante la possibilità di ignorarla, ma dal momento che più tardi dobbiamo vederci e non ho alcuna intenzione di ascoltarla mentre mi cazzia a riguardo delle centinaia di volte in cui a suo dire la ignoro, sollevo il telefono e rispondo.
– Darly! Stavo cominciando a preoccuparmi.
– Sono viva, grazie.
– Ma dormivi? È quasi mezzogiorno.
– A–ha.
– Non hai ancora trovato un altro lavoro, vero?
– Susi, ho passato una nottata di merda, per favore.
– Ma mi preoccupavo e basta, dai. Ce la fai coi soldi?
– La bolletta del telefono è pagata. Finché ho internet, niente può uccidermi.
– Molto divertente. Allora?
– Allora cosa?
– Cos’è successo stanotte?
Non so per quanto resto in silenzio. La verità è che mi piacerebbe saperlo ma non ne ho idea, e non me la sento di parlarne al telefono con Susi. Non adesso, quantomeno. Non così.
– Ne parliamo più tardi, okay? – butto lì, sperando che nel paio d’ore che ci separano dal nostro incontro lei possa magicamente dimenticarsi tutto. Non succede mai, ma una ragazza può sognare.
Questa cosa delle uscite settimanali l’ha decisa la Susi indipendentemente dalla mia volontà, ovviamente. All’inizio credo che volesse coinvolgere anche Alberto, ma la risposta non dev’essere stata positiva, cosa di cui oggi sono improvvisamente felicissima. Di base, la teoria della Susi è che, indipendentemente da cosa si ha o non si ha da fare fuori di casa, bisognerebbe uscire almeno una volta alla settimana. Non è una pratica che mi faccia impazzire – e comunque ormai esco ben più di una volta a settimana, dal momento che devo occuparmi io di tutto – ma provateci voi a far cambiare idea alla Susi su qualcosa, vi sfido. Alla fine, ho deciso di accettarla come fosse una terapia farmacologica prescritta dal medico. Funziona, se mi rassegno abbastanza.
Dopo aver chiuso la telefonata resto per qualche secondo a fissare il display del telefonino. Non so cosa spero di trovarci sopra, ma qualunque cosa sia non c’è, e questo mi irrita. Ripenso alla voce di Andrea nel sogno, sorrido e mi ricordo che volevo sentirlo, per cui mi metto a sedere, mi stiracchio, mi schiarisco la gola perché odio il suono della mia voce impastata dal sonno e poi, prima di qualsiasi altra cosa, lo chiamo.
*Sto cominciando a fare l’abitudine a tornare a Milano, ogni tanto. Tornare a viverci è un pensiero che già da solo potrebbe causarmi isteriche crisi di pianto, ma tornare qui di tanto in tanto non è male. È bello anche andare sempre negli stessi posti con la Susi, come rinverdire ogni volta un rituale codificato migliaia di anni fa, anche se non è vero, anche se è solo un’abitudine recente, anche se è solo un’abitudine forzata, perché se non fosse stata la Susi a trascinarmi qui fin dalla prima volta per me potevamo anche restare a casa a mangiare patatine parlando di stronzate tutto il pomeriggio.
È una cosa bella, mi fa sentire a mio agio. Sono sempre stata un’abitudinaria. Se Susi pretendesse di portarmi ogni volta in un posto nuovo, probabilmente mi metterei a urlare, la prenderei a schiaffi e scapperei piangendo, ma lei lo sa, mi capisce, e il fatto che ci riesca è uno di quei piccoli misteri magici di cui tutta la sua intera persona è ammantata, tipo il fatto che sia riuscita a sopravvivere a se stessa fino a quest’età senza uccidere nessuno o finire in galera. Susi ha delle reazioni violente nei confronti del mondo che la circonda, ogni tanto. È uno dei motivi per cui mi piace.
La trovo che mi aspetta fuori dal McDonald’s in Galleria, si sbraccia come se non mi vedesse da anni e la vedo saltellare sul posto come se stesse facendo il possibile e l’impossibile per reprimere l’urgenza di corrermi incontro e schiantarsi contro di me.
Tornare a Milano senza doverci vivere è bello anche perché in questo modo posso evitarmi gli aspetti scomodi – le strade brutte, sporche e trafficate, il grigiore diffuso, il rompimento di coglioni che la folla milanese è – e prendere solo il meglio. Tipo, la Galleria è bellissima. Mi sento sempre fuori posto come fossi ad un ballo delle debuttanti vestita di stracci, quando mi ci ritrovo dentro, ma non importa, perché la Galleria è bella e basta, è una di quelle cose maestose dalle quali ti senti conquistato e sopraffatto e non puoi farne a meno.
– Darly! – strilla la Susi, travolgendomi senza pietà e stringendomi tanto forte da farmi male alle spalle, – Come stai? Ti trovo bene.
Io mi guardo riflessa nella vetrina del McDonald’s, faccio una smorfia e poi torno a guardare lei, inarcando un sopracciglio. Susi mette il broncio e mi manda a fanculo.
– Che palle sei. – borbotta, prendendomi per mano e trascinandomi dentro. La sua mano è morbida e calda, ma non sudata, piacevole al tatto. Mi estorce un sorriso dalle labbra ed io cerco di nasconderlo, ma con poco successo. Quando lei si volta a guardarmi, dopo esserci messe in fila, se ne accorge subito, e fa un versetto ridicolmente tenero, sporgendosi nuovamente ad abbracciarmi.
– Che bello vederti. – sussurra estasiata, dandomi un buffetto su una guancia, – Allora?
– Allora cosa?
Le sue labbra si piegano in un sorriso ridicolo e curioso.
– Cos’è successo stanotte?
Ovviamente.
*La cosa della necessità di parlare di quello che succede per sfogarsi e liberarsi del peso che esercitano gli avvenimenti traumatici sulla nostra coscienza io non l’ho davvero mai capita, principalmente perché non mi è mai
servita. Sfogarsi in quel modo, dialogando, non serve davvero a niente. Quando io ho bisogno di sfogarmi, in genere ne ho talmente tanto bisogno che sento la necessità traboccare dal mio corpo, e a quel punto, quando me ne accorgo, sto già piangendo. Piangere è un modo un po’ di merda per sfogarsi, ha anche una serie di svantaggi che a volerli buttare giù in una lista non si finirebbe prima di tre giorni e una ventina di pagine, ma ha un unico pregio, il pregio definitivo, che è quello di essere estremamente stancante. Hai bisogno, piangi, butti tutto fuori, ed alla fine di un bel pianto il tuo corpo vuole soltanto accasciarsi da qualche parte e scivolare velocemente in coma. Per cui non solo riesci davvero a sfogarti, ma non devi neanche far fronte alle conseguenze, perché puoi sempre dormire fino a quando non saranno passate. È conveniente.
Con la Susi io non ho potuto piangere, primo perché non ce ne sarebbe stato motivo e secondo perché eravamo in un McDonald’s e, fra una cosa e l’altra, parlavamo di quanto poco i McNuggets sapessero di pollo, per cui non è che la questione di Alberto sia proprio scivolata in secondo piano, ma sostanzialmente anche sì. Di base, la Susi mi ha liquidata con un “ma onestamente non capisco perché ci stai ancora pensando”, che in effetti mi ha fatto riflettere prima di capire che il significato nascosto della frase era “ommioddio Darla, smetti di ammorbarti con questa stronzata e passa oltre”.
Per cui, quando torno a casa – sei ore dopo e con un paio di scaldamuscoli a righe che non userò mai nella vita, ma vi sfido a fermare la Susi quando decide che deve portarvi a comprare qualcosa di carino da qualche parte –, oltre a non sentirmi per niente libera da nessun peso mi sento anche una perfetta imbecille.
E per di più c’è Alberto seduto davanti alla porta. Questa giornata non finirà mai e io la odio.
– Che ci fai qui? – domando a mezza voce, stringendo le dita attorno ai manici del sacchetto di plastica e sperando di stare avendo un’allucinazione da pollo geneticamente modificato.
Lui si alza in piedi e infila le mani in tasca. Si avvicina senza neanche guardarmi, ed io mi sento così a disagio e fuori posto che accarezzo con un certo affetto la possibilità di tirargli un calcio nelle palle a sorpresa e poi fuggire per i campi strillando ed agitando le braccia.
Alla fine però lui solleva lo sguardo nel mio e mi chiede se può entrare, e io non lo so, forse perché non ho palle, forse perché sono stupida, forse perché ha gli occhi così scuri e mi confondono, lo faccio entrare.
– Fai qualcosa, stasera? – domanda mentre entra in casa e si sfila la giacca di dosso. Io mi volto a guardarlo come a dirgli “ma che domanda sarebbe?”, e lui sbuffa infastidito. – Lo sai che sei una persona insopportabile? – domanda, e lo fa come se fosse una domanda vera, cioè, come se si aspettasse una risposta.
– Scusami, ma sei stato tu a presentarti qui. – gli faccio notare, aggrottando le sopracciglia, – Ieri e anche oggi. Ti ho fatto entrare, ti ho anche dato da mangiare, non capisco cosa vuoi di più e sinceramente non capisco neanche perché ti ostini a tornare.
Alberto aggrotta le sopracciglia, guardandomi con improvvisa ostilità. Credo non mi abbia mai sentito pronunciare tutte queste parole tutte insieme. Probabilmente non aveva idea di quanto spiacevole potessi diventare in una situazione come questa, magari si era convinto, da qualche parte dentro quella testa incapace di misurare le persone se non col proprio stupido metro personale, che io fossi solo una di quelle ragazze scontrose che però è facile obbligare a sciogliersi. Dio, quanto lo odio, in questo momento. Se non fosse che non ne posso più di toccare persone, per oggi – la Susi in genere esaurisce la quota in un giorno solo, quando ci incontriamo –, penso che lo afferrerei per le spalle e lo butterei fuori di casa a calci.
E poi cambia qualcosa, non so cosa, ma qualcosa è diversa, perché lui guarda il pavimento, stringe le mani lungo i fianchi, e quando parla lo fa con la faccia di uno che preferirebbe aprirsi la pancia in due a mani nude, però parla, e quello che dice io non so come prenderlo.
– Ho bisogno di un po’ di compagnia.
Non so come prenderlo, davvero. Lo guardo, immagino con un’espressione talmente stupida che sono contenta che lui non stia guardando me o indipendentemente da quanto possa essere depresso adesso mi prenderebbe per il culo per i prossimi dieci anni senza mai fermarsi, e non so cosa fare. M’incazzo anche, perché mi mette in questa posizione scomoda che non ho chiesto e non voglio, ma è quel tipo di irritazione che sembra enorme e si gonfia in un secondo ma è altrettanto veloce a sgonfiarsi, e quando è passata e ti chiedi se valga davvero la pena di arrabbiarsi ti rispondi da solo di no.
Sospiro, entrando in cucina senza neanche rispondergli. Lui mi vede andare via e solleva lo sguardo, ma non si muove dal punto in cui si trova. Sospetto si sia calcificato per lo sforzo di confessare qualcosa sui propri sentimenti. Ommioddio, anche Alberto ha un cuore. Alberto soffre, il pensiero è inaccettabile, lo preferivo quando potevo convincermi che fosse solo un involucro vuoto capace di contenere solo sprazzi di sarcasmo e qualsiasi informazione possibile e immaginabile su qualsiasi videogioco tu possa nominare.
Recupero le tazze di terracotta dalla credenza e le riempio quasi fino all’orlo di cereali e latte. Adoro queste tazze, più che tazze sono scodelle, hanno un diametro di tipo quindici centimetri e quando verso il latte sembra che non debbano riempirsi mai. Sono uno dei regali di mia nonna, che poi sarebbe a dire una delle cose che erano in casa di mia nonna e che io andavo portando via ogni tanto, perché me le dava o perché mi piacevano. Queste non mi piacevano affatto, anche perché sono orribili e grezze, ma allora ero piccola e stupida e non avevo idea di quanto meravigliosa potesse essere in certi momenti una tazza così enorme. Da piccoli non si capisce mai niente, vuoi sempre le cose carine, è una tale idiozia.
Quando torno in corridoio con una tazza piena per mano, Alberto è ancora fermo dove l’ho lasciato.
– Ma sei stupido? – gli dico, e mi sento pronunciarlo come Asuka, ed è un trauma. Alberto tira davvero fuori il peggio di me. – Tieni. – sbotto quindi, passandogli la tazza e poi aggirandolo con qualche difficoltà per proseguire verso il salotto. Ormai questa stanza è stata colonizzata, e mi ci sento più a mio agio che in qualsiasi altra parte della casa, eccezion fatta per camera mia. Sfilo le scarpe, mi raggomitolo in una palla sul divano, poso il portatile sul tavolino da caffè ed apro un episodio a caso di Game of Thrones mentre mangio i cereali a cucchiaiate minuscole, perché me li voglio fare durare.
Alberto mi raggiunge pochi minuti dopo, sembra preso in contropiede dal mio atteggiamento ed io non posso negare di sentirmi particolarmente soddisfatta dell’espressione scema sul suo volto. Lo osservo fingendo di non osservarlo mentre si siede accanto a me, nell’angolo più distante – come sempre –, e comincia a mangiare. Dopo un po’ scivoliamo in uno di quei silenzi confortevoli in cui ci troviamo entrambi abbastanza bene. Con Alessandro è difficile stare in silenzio, con la Susi è impossibile, ma quando siamo solo io ed Alberto per qualche motivo è più semplice. Forse perché il più delle volte non abbiamo niente da dirci.
È per questo che, quando invece qualcosa c’è, è più facile dirlo ad alta voce.
– Chi è? – gli domando casualmente, mentre di fronte a me Jorah osserva Daenerys camminare fra le fiamme della pira in cui arde il corpo di Khal Drogo. È uno dei momenti che preferisco di tutta la prima serie. Gli occhi di Jorah mi fanno stare male, e mentre lo guardo in questa particolare situazione penso che ci sono quantità di dolore troppo grosse perché una persona possa sopportarle, ma sono proprio quelle le sensazioni che le persone cercano con più intensità. C’è una componente di desiderio nel dolore che mi spaventa.
Alberto non ha bisogno di chiedermi come so che se sta male è perché qualcuno l’ha fatto stare male.
– La sorella di Alessandro. – mi risponde senza vergogna.
Io mi volto a guardarlo con un gesto meccanico.
– Stai scherzando? – sillabo allibita, ricordando chiaramente quanto quella donna somigli a suo fratello con un paio di tette neanche troppo grosse, – Sei patetico.
– Parli tu? – domanda lui, lanciandomi un’occhiata cattiva. So che potrebbe aggiungere di peggio, ma non lo fa. Io capisco l’antifona e scrollo le spalle, tornando a guardare lo schermo e mangiare cereali.
– Cos’è successo?
Alberto fissa il latte nella tazza con aria astiosa, incolpandolo possibilmente di tutti i mali del mondo.
– Ti interessa davvero? – domanda. Io sospiro.
– No, chiedo solo per fare conversazione. Perché, come sai, adoro fare conversazione, specie con te.
– Non c’è bisogno di essere sarcastici ventiquattro ore al giorno, sai?
– E tu lo sai per esperienza, immagino.
Ci fissiamo per qualche istante, le sopracciglia aggrottate, la tensione viva sottopelle che si spande in tutto il corpo in scariche elettriche a metà fra il piacevole e l’insopportabile. È stancante arrabbiarsi con le persone, è stancante e fa anche venire i crampi allo stomaco, anche se quello potrebbe tranquillamente essere il mezzo litro di latte freddo che sto trangugiando senza perdono.
Sono io la prima a cedere, passandomi una mano sul collo e guardando altrove.
– Te l’ho chiesto perché mi interessa saperlo, okay? – butto lì, – Stai male ed hai palesemente bisogno di qualcuno che ti ascolti, e posso essere io quel qualcuno. Ti sta bene?
Lui annuisce lentamente, guardandomi con curiosità e diffidenza.
– Bene. Allora non farla ancora più difficile di quanto già non sia e parla.
Ci mette un po’ a decidersi. Per qualche istante continua a fissare il latte, spostando i cereali col cucchiaio da un lato all’altro della tazza. Sembra deluso, non sembra neanche avere granché voglia di mangiarli, forse avrebbe preferito il Nesquik, ma sta finendo ed io non ho ancora un lavoro, per cui dovrà accontentarsi.
– Mi sento un idiota. – dice quindi, senza sollevare lo sguardo dalla tazza. Potrei fargli delle domande, dirgli qualcosa di pungente, penso che mi sentirei meglio, se lo facessi, mi sentirei più forte, meno ridicola, meno in imbarazzo, ma poi decido di lasciargli i suoi tempi e non dico niente. – Sto cercando un modo per dirlo che non suoni stupido, ma non ne esiste uno. Che è sposata lo sai, non c’è bisogno che te lo dica io. Forse da questo puoi immaginare anche il resto. Comunque, boh, a fasi alterne decide che vuole riprovarci con suo marito, trasformarsi nella moglie perfetta, sa il cazzo cosa le dice la testa, e per me è sempre stato okay, primo perché pensavo “cazzi suoi”, suppongo, e poi perché nel giro di una o due settimane era sempre tornata. – si interrompe, rimane in silenzio per una quantità di minuti incalcolabile. Sullo schermo del pc, Daenerys riemerge dalle fiamme coperta di cenere ma intatta, i draghi che le camminano addosso, aggrappandosi a lei come bambini con la mamma, e Jorah la guarda come fosse un miracolo inaspettato e dedicato solamente a lui. La chiama sangue del mio sangue, io mi sento stringere il cuore e sogno per un attimo non di poter trovare qualcuno che mi ami in questo modo assoluto e spiazzante, ma di poter essere io, quel qualcuno. Di poter amare così. – Sono passati due mesi. – si decide a concludere Alberto.
L’episodio finisce, sfuma nel nero, anche lo schermo resta nero, era l’unica luce nella stanza e adesso non c’è più. Mi allungo verso il tavolino da caffè, poso la tazza mezza vuota e, strisciando sulle ginocchia, mi avvicino ad Alberto. Da qui posso vedere che non mi guarda, che stringe forte la tazza fra le dita, che si morde il labbro inferiore, che trema un po’. Faccio scivolare le mie dita fra le sue per togliere la tazza di mezzo prima che possa succederle qualcosa di spiacevole, e lui non oppone resistenza. Non si muove neanche, non mi spinge lontano da sé ed io lo prendo per un assenso. Non ho idea di cosa sto facendo, sento caldo, sono imbarazzata, ho ancora mal di stomaco ed adesso sono convinta che si tratti solo di tensione e nervosismo, preferirei farmi inghiottire da un buco nel pavimento piuttosto che cercare di trovare la forza di fare quello che sto per fare, ma sono già a metà strada, non ho niente di cui aver paura e posso farcela.
Mi sporgo verso di lui, in ginocchio fra i cuscini del divano che cedono sotto il mio peso, e gli stringo le braccia al collo. Lui resta immobile per qualche secondo, sento i suoi muscoli irrigidirsi in uno scatto spasmodico sotto la maglietta di cotone pesante, e poi così come l’ho sentito tendersi lo sento rilassarsi, piegare un po’ il capo, appoggiarsi alla mia spalla.
Non siamo mai stati così vicini.
*Dorme qui anche stanotte. Si assopisce sul divano, mi si addormenta praticamente addosso, così, senza fare niente di particolare per averne bisogno. Penso che probabilmente ogni tanto le persone si stancano in questo modo anche senza piangere, perché lui non ha pianto, eppure è crollato all’improvviso come invece capita a me quando lo faccio.
L’ho lasciato lì, mezzo appoggiato allo schienale e mezzo rovesciato sul bracciolo, e mi sono rintanata dall’altro lato del divano, sistemandomi il computer in grembo per cazzeggiare un po’. Mi sono annoiata subito, e peraltro non sono riuscita a fare niente di utile – prendete la parola con le pinze, trattandosi di me che sto al computer – perché continuavo a guardare la sagoma immobile di Alberto ogni cinque minuti per assicurarmi che fosse ancora fermo lì, per cui dopo un po’ sono scivolata nel sonno quasi automaticamente anch’io.
Mi sveglio poche ore dopo con la schiena a pezzi, decidendo che sono troppo vecchia per continuare a dormire sul divano. Quando scendo per sgranchirmi le gambe e le braccia mi accorgo che Alberto non è più lì, e do per scontato che si sia svegliato prima di me e sia andato via, ma quando attraverso il corridoio per raggiungere le scale lo vedo attraverso la finestra seduto al suo posto al tavolino di fuori, e mi fermo ad osservarlo.
Guarda un punto a caso nel vuoto, e sembra finto, così immobile nella notte.
Sospiro pesantemente, chiedendomi chi me lo faccia fare. Potrei anche lasciarlo lì a congelarsi mentre si strugge come un vecchio eroe romantico, atteggiamento che peraltro lo manda così out of character che quasi non c’è più nemmeno gusto, e invece mi getto sulle spalle una vecchia giacca di lana dentro la quale non entrerei neanche più se provassi ad indossarla, ed apro la porta, camminando a piedi nudi sul vialetto lastricato fino a raggiungerlo.
Non so bene cosa fare di me stessa, una volta lì. È una condizione che mi perseguita, questa. Per muovermi, mi muovo anche. Vado in posti, parlo con la gente – quando devo –, faccio delle cose, ma il primo impatto è sempre uguale, da tutte le parti, con chiunque mi trovi. Sono a mio agio mentre cammino, mai quando arrivo.
Mordicchiandomi l’interno della guancia per darmi qualcosa su cui concentrarmi, trascino la mia sedia fino alla sua e poi mi siedo al suo fianco, rannicchiandomi sulla seduta con le ginocchia al petto. Lui si volta a guardarmi come se si fosse accorto di me solo adesso.
– Sembri più piccola, così. – dice, fissandomi senza vergogna. Io abbasso il viso, lasciandomi scivolare una ciocca di capelli fra le labbra e prendendo a mordicchiarla nervosamente. – Grazie per avermi fatto restare.
– Cos’è, sei in vena di gentilezze? – domando aspramente, sollevando nuovamente lo sguardo nel suo. Non capisco perché si sia fatto così cerimonioso, del tutto all’improvviso. È così che funzionano le persone? È questa l’associazione che fanno, quando le abbracci? Quando dai loro una mano, quando ci sei in un momento in cui dimostrano di avere particolarmente bisogno di te? Non capisco se sia educazione, gratitudine sincera o soltanto un modo per non litigare, anche se è la cosa che sappiamo fare meglio.
Invece di rispondermi a tono come farebbe in genere, comunque, Alberto mi sorride, inspirando ed espirando lentamente l’aria profumata di gelsomino ed erba bagnata della notte.
– Casa tua mi piace. – dice quindi, e parla sottovoce, come non volesse disturbare il silenzio, – È tranquilla.
– Credevo che la odiassi. – butto lì, guardando altrove. Lui ride piano.
– Minchia, sì. – annuisce, – Quando siamo rimasti qui le settimane tutti assieme, dopo che sei tornata. Non ne potevo più, le avrei dato fuoco, se avessi potuto. Ma era diverso, non odiavo la casa in sé, odiavo la situazione. Dover stare appiccicato al culo di Andrea e così via. – scrolla le spalle come in segno di scusa, ed io scuoto il capo come a dirgli che non c’è proprio bisogno.
– Quindi che cosa ti piace adesso?
– Non so, che non c’è più Andrea al culo del quale stare appiccicato, immagino. – sbuffa, e mi costringe ad una mezza risata che non volevo affatto, eppure è lì. Un po’ come lui.
– Torno a casa mia, va’. – sospira alla fine, alzandosi in piedi e recuperando la giacca piegata sullo schienale della sedia. Immagino che sia uscito determinato ad andarsene, altrimenti per quale motivo avrebbe dovuto portarla con sé? Solo che poi, evidentemente, ha preferito restare.
Ogni tanto succede anche a me.
Mi alzo anch’io, lasciando scivolare i piedi sul lastricato ed arricciando le dita per il fastidio. L’erbetta che spunta tra una lastra e l’altra mi solletica fastidiosamente, e strofino la pianta contro la superficie ruvida della pietra per scacciare via la sensazione.
– Cos’è, sei in imbarazzo? – mi chiede lui, guardandomi con curiosità. Io sollevo il viso e lo guardo con aria interrogativa, e lui sorride ancora, le labbra che si piegano e si sollevano ad un angolo, io che le fisso come una liceale ipnotizzata. – Non stai un secondo ferma.
– Sono solo nervosa. – borbotto. Non ci credo neanch’io. Abbasso lo sguardo e sfuggo il suo sorriso perché è vero, mi sento in imbarazzo. Ad averlo intorno, a doverlo gestire, a doverlo fare sapendo che sta male. Alberto è complicato, tutto in lui è complicato, sta anche male in maniera complicata, e sorride troppo, soprattutto in questo momento. Siamo sopravvissuti dei mesi senza mai sorriderci a vicenda, non vedo perché cominciare proprio adesso.
La successiva cosa che so è che è troppo vicino. Sollevo il viso e vedo il suo collo, e non va bene.
– Grazie ancora. – sussurra, non credo che lo faccia apposta a parlare così a bassa voce, non credo che lo faccia apposta a darmi i brividi, ma succede. Solleva una mano e la stringe attorno al mio braccio, forse per tenermi ferma – come se non fossi paralizzata, come se ci fosse una anche solo vaga possibilità che io possa muoversi in questo momento o nell’arco dei prossimi cinquanta minuti –, e poi sento le sue labbra premute contro la fronte, e non so se è un riflesso condizionato o qualcos’altro, ma sollevo il viso verso l’alto, e forse lui lo prende come un invito, non ne ho idea, non voglio neanche saperlo, ma mi bacia senza imbarazzo, ed anche se io mi sento morire dentro lo lascio fare. E quando riconosco i crampi allo stomaco mi do silenziosamente della stupida.
*Quando glielo racconto, la Susi mi guarda fissa per venti minuti come se fosse la prima volta che mi vede e non le piacessi nemmeno tanto. Non spiccica una parola, il che, trattandosi di lei, più che semplicemente assurdo è un segno dell’apocalisse imminente, e continua a guardarmi come avessi annegato dei cuccioli di gatto in un pozzo costringendola a guardare. È frustrante e vorrei riuscire a farla smettere, ma chiederle di piantarla non è sufficiente, cercare di deviare il discorso su qualcos’altro non serve proprio ed anche cominciare a mangiare per i fatti miei mentre le sue patatine fritte diventano ancora più fredde di quanto già non fossero quando le sono state consegnate non sortisce alcun effetto, per cui, ad un certo punto, smetto perfino di interessarmene. No, non è vero, ovviamente, continua a darmi un fastidio cane sentire i suoi occhi tondi come fanali puntati addosso, ma mi rassegno presto a sopportarla, anche se come risultato di questa rassegnazione mi va tutto il pranzo di traverso, cosa per la quale non la perdonerò mai.
– Fammi capire, – dice alla fine, risvegliandosi dallo stato catatonico, – Quand’è successa, questa cosa?
– La settimana scorsa. – rispondo senza guardarla. Lei sembra quasi prendersi il tempo di rifare i calcoli a mente per capire di quanti giorni stiamo parlando. È abbastanza ridicola, ma mi dà un’idea piuttosto chiara di quanto sconvolgente sia per la sua mente ciò che le ho appena detto. Dentro di lei dev’essere successo in piccolo quello che è successo alla gente quando Copernico s’è presentato blaterando che al centro dell’universo c’era il Sole e non la Terra, e che tutti gli altri pianeti gli giravano intorno. Roba da non voler mai più uscire di casa dalla paura. E scommetto che per lei adesso è uguale, è terrorizzata dalla possibilità che esista un mondo nel quale io ed Alberto ci siamo baciati. Il prossimo passo potrebbe tranquillamente essere bandire i gattini dal mondo e perseguitarli per sterminarli tutti. Sento il suo cervello urlare “fermate il pianeta, voglio scendere”.
– E non vi siete più sentiti, da allora. – prosegue seria. Pronuncia le parole come se facesse fatica a formularle, mi viene voglia di prenderla a schiaffi.
Annuisco e succhio un po’ di Coca Cola dalla cannuccia. Susi continua a restare in silenzio, per cui io guardo altrove e continuo a succhiare, sperando che si riprenda in breve tempo e mi lasci tornare a casa mia.
E poi succede una cosa assurda, e cioè che lei prende questo enorme respiro e poi lo lascia andare, si rilassa contro lo schienale dello sgabello sul quale si è arrampicata, comincia a mangiare silenziosamente le sue patatine e, dopo qualche minuto, mi guarda e dice: “sei una testa di cazzo”. Vorrei dirle di andarsene a fanculo, ma siccome so che ha ragione taccio.
*Torno a casa sperando di trovarlo seduto sulle scale ad aspettarmi, e dandomi della cretina quando, come tutti i giorni precedenti, mi sento delusa nel vedere che lui non c’è.
C’è il giorno dopo, però. Torno dalle Poste e dal supermercato con una biro nuova e due sacchi pieni di schifezze a basso costo, e lui c’è, ed io mi arrabbio perché sono praticamente uscita in pigiama e sono ancora più inguardabile del solito. Lo stronzo poteva anche presentarsi ieri, che almeno per uscire con Susi m’ero messa addosso qualcosa di non dico gradevole, ma per lo meno pulito.
Sono così arrabbiata che sulle prime non ci faccio caso, ma man mano che mi avvicino e mi calmo comincio a chiedermi che mi prenda, cosa ci sia di diverso, e continuo a chiedermelo per una manciata di minuti buoni, e quando lo capisco, finalmente, m’incazzo ancora di più. Fino alla settimana scorsa, non mi ero mai sentita in imbarazzo davanti ad Alberto. Adesso, invece, è praticamente l’unica sensazione che provo quando me lo ritrovo intorno.
L’imbarazzo è la sensazione peggiore del mondo, è peggio della paura. È paralizzante allo stesso modo, ma mentre la paura può essere esorcizzata e in qualche modo sconfitta (tipo: ho paura di attraversare la strada, qualcuno può sempre prendermi per mano e strattonarmi finché non lo faccio, e via così), per l’imbarazzo non c’è la stessa cura. Non c’è modo di fartelo passare perché non dipende da nessun fattore esterno, non c’è niente di fisico che può essere fatto per costringerlo a passare. C’è, e resta fin quando non trovi le palle di affrontarlo e scacciarlo via da dentro. Ma non è facile, dal momento che non si capisce quasi mai da dove arrivi e dove vada a nascondersi quando non c’è.
– Ti do una mano. – mi dice, sollevandosi in piedi e raggiungendomi in pochi passi. Mi sfila i sacchetti di plastica dalle dita ed aspetta che io gli sia passata davanti per aprire la porta di casa prima di seguirmi.
Passiamo venti minuti a riordinare la spesa in perfetto silenzio. Alberto conosce a memoria i posti delle cose, e per qualche motivo in questo momento è un particolare che mi urta. È una cosa troppo intima e non dovrebbe essere così alla sua portata. Io gli sono grata per il periodo che ha passato insieme alla Susi e ad Alessandro in questa casa, nel tentativo di ricucire insieme me e mio fratello a partire da quei due o tre brandelli di stoffa che avevamo ancora addosso, ma ero più felice quando non mi venivano sbattute in faccia le conseguenze ovvie di quella convivenza forzata.
Metto via un pacchetto di patatine al formaggio – controvoglia, perché l’avevo preso appositamente per mangiarlo subito mentre vagavo per LiveJournal una volta che fossi tornata a casa – e mi rendo conto che i sacchetti sono vuoti, che non c’è più niente con cui riempire il silenzio e che, in conseguenza di ciò, io voglio solo scomparire in una voragine e non riemergerne finché Alberto non sarà sparito dalla mia vita.
– Ho aspettato una settimana. – mi dice quindi lui, in piedi dall’altro lato del tavolo, fissandomi con aria indecifrabile. Cerco di capire che cosa intenda dalla curva delle sue labbra o dalla ruga fra le sue sopracciglia, ma non ne viene fuori niente. Potrei provare a spremergli via la faccia con lo spremiagrumi e sono abbastanza convinta che anche in quel caso continuerei a non cavare un ragno dal buco. Alberto è troppo complicato, per me, è una delusione grandissima, come quando in bagno prendo la pagina dei sudoku della settimana enigmistica e scopro che sono rimasti solo quelli di livello più difficile. Non sono in grado e non mi aiutano a passare il quarto d’ora che mi serve, è una cosa orribile.
– Cos’hai aspettato? – domando con aria vaga, mettendomi a piegare i sacchetti per passare il tempo. Mia nonna sapeva piegarli a triangolo, in modo che restassero così senza aprirsi ed occupare il doppio dello spazio una volta riposti. Ne aveva un cassetto pieno, da piccola io mi divertivo ad aprirli e richiuderli perché, una volta che erano già stati piegati, era molto più facile farlo.
Non mi sono mai fatta insegnare i movimenti giusti.
– Te. – risponde lui, e so che mi sta guardando. Stringo le dita attorno al sacchetto in un gesto convulso e irritante, sento la plastica crepitare sotto i polpastrelli e vorrei non essere così stupida e terrorizzata da tutto questo.
– Hai aspettato a vuoto. – balbetto guardando in basso. Lui si muove, gira attorno al tavolo e si ferma accanto a me.
– Sì, l’ho capito. – dice. Poi mi stringe per una spalla e mi costringe a ruotare sulla sedia. Si piega a raggiungere la mia altezza e mi bacia ancora, e stavolta sa di poterlo fare, e va avanti a lungo.
Dorme qui anche stanotte. Sempre sul divano.
*Da bambina ero incasinatissima, ma crescendo sono diventata più metodica, che poi è un modo come un altro per dire che, rispetto alle cose che faccio ogni giorno, quei piccoli gesti sempre uguali che rappresentano la mia quotidianità, rasento un grado di abitudinarietà tale da ricordare il disturbo ossessivo–compulsivo.
Non è una cosa che abbia cercato, è semplicemente capitata, immagino come reazione riflessa al caos che mi ha seguita e nel quale ho vissuto per la quasi totalità della mia vita fino ad ora. Esiste un momento molto preciso in cui, entrando in casa tua e notando che gli oggetti sono accatastati alla rinfusa non perché non sapresti dove metterli ma perché nel posto in cui li metteresti ci sono altri oggetti che non dovrebbero assolutamente essere lì, qualcosa dentro il tuo cervello scatta, ed allora, siccome ti pesa troppo il culo a metterti lì e riordinare casa, che peraltro è un’attività noiosissima, ricordiamolo e ricordatelo sempre a quelli che mentono e vi dicono che rassettare può essere divertente (Mary Poppins, sto parlando con te; è facile, quando hai la magia, ma chi non ce l’ha? My life was a lie), ti metti lì e fai con ordine cose che non avrebbero alcun bisogno di essere fatte con ordine. Glielo imponi tu, perché hai bisogno di qualcosa di ordinato, e se non lo puoi trovare intorno a te allora lo cercherai dentro di te, o dentro la scatola con lo schermo che ti riflette, vale a dire il reale migliore amico dell’uomo ancora prima del cane, cioè il suo computer.
Tanto per cominciare, esiste un rituale mattutino molto preciso, specie quando sono disoccupata, che parte intorno alle undici. Mi sveglio, mi stiracchio, mi alzo in piedi, accendo il portatile. Poi vado in bagno. Poi, tornando indietro, getto un’occhiata al portatile per verificare che si stia accendendo senza problemi. Poi vado in cucina, dove prendo una tazza, del latte e dei cereali, e preparo la colazione, che poi porto ovviamente in camera o in qualsiasi altro luogo il pc sia stato lasciato ad accendersi. La metto via, mi seggo, allontano il portatile da me in modo che fra noi ci sia spazio a sufficienza solo per la tazza e per nient’altro, e poi, cominciando il giro del web, comincio anche a fare colazione.
Il giro del web consiste in: mail, Twitter, mention di Twitter, Episode Calendar per verificare cosa c’è di nuovo da scaricare, friends list di LiveJournal, varie ed eventuali. Va fatto in questo modo, ed è un rituale che va periodicamente ripetuto quando si pensa che possano esserci nuove mention su Twitter o nuovi post in friends list, cosa che peraltro accade al ritmo di uno ogni dieci minuti, specie se si ha in lista l’ONTD.
Si tratta di un rituale di fondamentale importanza, codificato da uomini antichi e dall’intelligenza superiore centinaia di migliaia di anni fa, e da anni ormai io lo seguo scrupolosamente ogni mattina, ed oggi per la prima volta dopo non so più nemmeno quanto tempo non sarò in grado di portare a termine la mia missione perché Alberto è in realtà un cuore di budino al cioccolato dentro una scorza di cemento armato e calcestruzzo, nonché la persona più inconsapevolmente appiccicosa che io conosca, e durante la notte mi si è chiuso attorno come una cozza, e non riesco a liberarmene.
Questa cosa del dormire insieme è, dopo due mesi dalla prima volta che ci siamo baciati, un’abitudine che ancora fa fatica ad entrare in circolo. Per me, almeno. Lui ci si è adagiato sopra con estrema facilità nel giro di mezza settimana, adducendo come scusa il fatto che dormire con qualcuno è piacevole e blaterando insensatezze sul fatto che ammettere di amare qualcosa di dolce non lo rendeva certo meno uomo quando io gli ho dato della femminuccia. Certo, forse non è una cosa che ti renda meno uomo
a prescindere, ma un paio di dubbi su chi dei due porti i pantaloni in casa te li dovrebbe instillare, quando la coccola più tenera che la tua ragazza è disposta a concederti è un abbraccio e lo slancio d’affetto più entusiasta che riesce ad avere nei tuoi confronti è un pugno sul naso.
La cosa fra me e Alberto è andata così: ci siamo baciati, poi siamo spariti dai rispettivi radar per circa una settimana, poi ci siamo baciati di nuovo, e questo già lo sapete, e poi siamo finiti a letto insieme. Sì, lo so. That escalated quickly.
Non è che l’abbia programmato. Cioè, non è che dopo quel bacio io abbia pensato “bene, d’accordo, adesso mi lancerò fra le sue braccia e poi tutto andrà come deve andare”, non mi è passato nemmeno per l’anticamera del cervello, era una cosa talmente fuori dal mio orizzonte degli eventi che non l’ho neanche vista arrivare, no, dai, oddio, adesso sembra che mi abbia preso da dietro all’improvviso mentre stavo lavando i piatti o che so io, cosa che peraltro nemmeno faccio perché, che Dio la benedica, posseggo una lavastoviglie, ma insomma.
No, è solo successo che quel bacio, quella notte, non è stato l’ultimo. Che ne sono seguiti altri ed uno dopo l’altro baciarci è diventato normale in fretta – segno evidente che le cose piacevoli diventano abitudini molto più facilmente rispetto a quelle spiacevoli – e muoversi in avanti a quel punto non è più diventato una questione di se e di ma, di eventualità possibili e imprevedibili; è diventato la naturale continuazione di una cosa per la quale si erano già poste le basi.
Dio, questo è terrificante.
– Stai iperventilando? – domanda Alberto, sollevando il braccio col peso del quale mi teneva inchiodata al materasso per guardarmi in viso. Non stavo iperventilando, per inciso. Ero solo vagamente agitata, e stavo esprimendo quest’agitazione respirando in maniera appena appena più affannata del solito. Questo non è iperventilare.
– Semmai soffocavo. – lo spingo via, sbottando infastidita e lanciandomi giù dal letto senza neanche far caso a come sono conciata. Sarebbe a dire seminuda. Alle otto di mattina del ventidue dicembre. – Ce la puoi fare, per una notte soltanto, a non trattarmi come l’orsacchiotto di pezza che sono sicura avevi nella culla da bambino? Cristoddio che freddo. – rabbrividisco.
Mi volto a guardarlo astiosa. Lui sta sdraiato su un fianco, sorride con aria perculatoria nonostante non abbia gli occhiali sul naso e perciò non veda ad un centimetro da sé, e fa roteare la mia canottiera attorno al suo dito indice.
– Impiccati e brucia dall’interno. – abbaio, chinandomi ad afferrare la canottiera ed infilandomela sbrigativamente. – E muovi il culo, – concludo con uno sbuffo, abbandonando la stanza, – Dobbiamo uscire.
Sorrido fra me nel sentirlo ridere mentre mi allontano.
*Susi mi afferra per un braccio e strilla ad Alberto che staremo via solo per qualche minuto, lui intanto cominci pure a guardarsi intorno e a scegliere i suoi regali, e noi lo raggiungeremo subito. Dopodiché, sempre sorridendo allegra, mi trascina dietro un angolo e mi prende a braccetto, cominciando a passeggiare fra i corridoi di scaffalature che vomitano roba inutile ed in alcuni casi perfino orribile.
Scene surreali che credevo possibili solo in anime e telefilm.
– Quindi è una cosa seria. – dice con aria grave, fermandosi di fronte ad una pila di orrendi peluche di Yoshi ed analizzandoli nel dettaglio come se volesse comprarne uno. Spero di sbagliarmi.
– Che vuol dire “una cosa seria”? – borbotto, – Senti, ma dobbiamo proprio stare qui? – aggiungo annoiata, – Non comprerei mai niente, qua dentro.
– Di’ la verità, non hai ancora la minima idea di cosa regalare ad Alessandro e ad Andrea, vero? – sogghigna lei, voltandosi a guardarmi con aria sorniona. Ha ragione, ma d’altronde non ho ancora la minima idea neanche di cosa regalare ad Alberto. O a lei, s’è per questo. Per cui non c’è differenza.
– Mi aiuterebbe molto se potessi cominciare a girare per il negozio, almeno. – borbotto, cercando di guardarmi intorno. Fra i vari peluche sparsi qua e là sugli scaffali c’è una gigantografia di Pikachu che mi fa venire voglia di prendere il portafogli, afferrare un commesso e spingerglielo in mano strillando “prenda tutto ciò che ho, ma mi lasci portare a casa lui!”. Questo luogo è pericoloso.
– Darla, piantala di fare la testa di cazzo e parla. – si decide a cazziarmi lei, voltandosi a guardarmi con le sopracciglia curatissime e sottili aggrottate in un’espressione che riesce ad essere spaventosamente minacciosa nonostante abbia le palpebre coperte di ombretto rosa e le labbra luccicanti di lip–gloss. Non so come faccia, onestamente. Dovrebbero studiarla, potrebbe diventare un mito per un’intera generazione di ragazze–cazzute–ma–che–non–rinunciano–alla–loro–femminilità.
Sospiro, arrendendomi all’evidenza: non posso scappare dalla Susi. È la mia Misato personale – rompicazzo uguale, chiassosa uguale, snervante uguale, e così piena di affetto per me da scoppiare.
– Non lo so se è una cosa seria. – ammetto, prendendo uno dei numerosi Yoshi in mano e rigirandomelo fra le dita giusto per darmi qualcosa da fare, – Sta succedendo…
– …troppo in fretta?
– No. – sospiro, – Sta succedendo e basta. Forse “sta succedendo e non posso fermarlo”, volevo dire questo.
– E il problema è?
Questi stupidi stivaletti arancioni. Quale cazzo di dinosauro indosserebbe mai nella vita stivali arancioni?
– Non lo so. – sospiro ancora, – Non so nemmeno se c’è un problema. Forse sono spaventata, è normale essere spaventati da queste cose, no? Forse mi fa solo strano che sia proprio Alberto. Voglio dire… che cazzo.
Alberto. – rimarco, e Susi si lascia sfuggire una risatina. – O forse non lo so. – scrollo le spalle, – Magari mi dà solo fastidio l’idea di dover cambiare qualcosa… o molte cose… per fargli spazio.
Susi mi osserva per qualche secondo da sotto le lunghe ciglia nere e ricurve, e poi sorride dolcemente, attirandomi a sé in un abbraccio caldo.
– Non ti farebbe male un cambiamento, Darly. – suggerisce, tenendomi stretta. Poi mi lascia andare, mi sorride incoraggiante e passa oltre, dirigendosi verso il reparto videogiochi ed implorandomi di seguirla perché lei non ci capisce niente e non ha idea di cosa comprare. Io guardo fisso davanti a me per qualche secondo, invidiandole questa capacità incredibile di vedere le cose come sono, decidere in pochi minuti come muoversi nei loro confronti e poi, semplicemente, agire ed andare avanti con la propria vita. Non riesco a capire se serva molta forza o molta stupidità, per comportarsi così. Probabilmente una miscela delle due cose. E forse io sono troppo intelligente per non avere paura, o qualunque altra stupida frase si utilizzi in queste circostanze per convincersi che si sta fermi solo perché si ha una buona ragione per farlo.
Non lo so, mi sento molto sciocca, molto confusa, molto in imbarazzo. La testa di Alberto spunta da dietro lo scaffale, un sopracciglio inarcato, le labbra strette in un broncio infastidito.
– Ti piace così tanto Yoshi? – domanda, notando il peluche che tengo fra le mani, – A me sta sul culo in un modo… – butta lì, prima di girarmi attorno ed andare via nella stessa direzione in cui è sparita Susi pochi istanti fa, probabilmente per andare in suo soccorso, visto che la sento imprecare contro quanto sia assurdo che esistano così tante versioni diverse di tutti i videogiochi disponibili.
Improvvisamente, so cosa regalare ad Alberto per Natale, decido, dirigendomi speditamente alle casse col peluche di Yoshi ancora fra le mani.
*Non sono mai stata granché brava coi regali, tranne quando volevo farli apposta per fare arrabbiare la persona a cui li stavo facendo (come con Yoshi per Alberto, il quale, già lo so, sarà un successo), per cui, quando Andrea ed Alessandro arrivano, sono nervosa.
No, non è vero. I regali non c’entrano niente, col mio nervosismo.
Non vedo Alessandro da più di due mesi, mio fratello da almeno nove. E se il nervosismo che provo per Alessandro è andato trasformandosi via via sempre più in una specie di corrente elettrica che mi scorre sottopelle, dandomi il solletico ed impedendomi di stare ferma senza però terrorizzarmi più di tanto, per Andrea è completamente diverso. Lo è sempre stato, dopotutto.
Andrea è… non lo so, non sono sicura di poterlo spiegare. È tutti i motivi per cui sono qui adesso. Senza di lui, nulla di tutto questo sarebbe accaduto. Nulla di niente sarebbe accaduto. È stato il mio motore inconsapevole per anni, ed ora che sono qui, e la mia vita è ancora un casino, ma almeno so di essere il motore di me stessa, il pensiero di rivederlo mi fa paura. Il pensiero di non sapere più come relazionarmi a lui, anche se non ho la certezza di averlo mai davvero saputo, a prescindere da quel lontanissimo periodo dell’infanzia in cui esistevamo letteralmente solo l’uno per l’altra perché eravamo ognuno tutto l’universo che l’altro conosceva, e tutto ciò di cui aveva bisogno.
Alberto mi appoggia una mano sulla spalla con aria perfettamente casuale, battendo un paio di pacche amichevoli che quasi urlano “chillax, bro” e poi sussurrandomi “non ricominciare ad iperventilare”. Io gli tiro un calcio dietro il ginocchio facendogli quasi perdere l’equilibrio. Io non iperventilo, cazzo. E lui, allontanandosi, sorride soddisfatto.
L’abbraccio che si scambiano lui ed Alessandro, se io fossi una di quelle ragazze gelose del proprio uomo che non lasciano che nessuno gli si avvicini nel raggio di venti metri o addirittura lo tocchi, sarebbe di quelli che mi farebbero urlare allo scandalo, minacciandoli entrambi di evirarli e gettare i loro resti in pasto ai porci assieme ai torsoli di mela. Fortunatamente non lo sono, perciò mi limito ad inarcare un sopracciglio nell’osservarli stringersi l’uno all’altro come fossero stati in apnea per mesi e ricominciassero a respirare solo ora che si stanno toccando, mentre la Susi, accanto a me, fischia e poi strilla ad entrambi di prendersi una stanza. Questi sono i momenti in cui la amo particolarmente.
Andrea mi si avvicina all’improvviso, silenzioso come un gatto. Lo fa apposta, ovviamente, anche da piccolo si divertiva da morire a comparire a sorpresa nei posti più assurdi, uscendo dall’armadio, raggomitolandosi nella lavatrice, nascondendosi sotto il mio letto e via così. Sembrava vivesse di quei momenti lì, in cui poteva terrorizzarmi a morte e poi scoppiare a ridere felice, soddisfatto del proprio operato.
Pensavo che l’ultimo spavento che mi ha dato gli bastasse per tutto il resto della vita, ma evidentemente non era così, perché sobbalzo nel sentirlo stringermi le braccia al collo, e poi mi irrigidisco nella sua stretta quando lo sento inspirare ed espirare contro il mio collo. Le sue labbra sono piegate in un sorriso intimo e segreto, che, quando si allontana da me, è già scomparso.
– Puzzi. – dice tranquillo, – ‘Cazzo hai preparato per cena?
– Be’, buon Natale anche a te, Drea. – sbotto io, incrociando le braccia sul petto, e guardandolo malissimo. Il problema non è lui che è uno stronzo, ma io che ci casco ogni volta perché ho il cuore tenero ed Evangelion mi ha insegnato ad amare le piaghe umane nonostante tutti i loro difetti.
– No, seriamente, puzzi di salmone affumicato. – ride lui, gettando indietro il capo. È ancora magrissimo, ma la sua pelle ha tutto un altro colore. Anche i suoi occhi, il grigio affascinante dell’iride non più intaccato dal rossore dei capillari in evidenza, raccontano tutta un’altra storia.
– Sono le tartine, stronzo. – interviene la Susi, prendendolo senza troppe cerimonie a schiaffi su un braccio, – Vieni che te le faccio vedere, invece di rompere le palle. – conclude, trascinandoselo dietro.
Andrea sorride. Sorride tantissimo, con naturalezza. Guardandolo mi dico “allora è così”. È così, quando si comincia a guarire.
Andrea sorride ed è bellissimo mentre lo fa, ed io cerco di non odiarlo troppo per questo, ma è facile, perché a guardarlo mi si riscalda un punto segreto dentro, e nel pensare che è ancora qui nonostante tutto mi sento piena di speranza anche per me stessa.
Alberto li segue quasi subito, anche perché è da questo pomeriggio che mi implora di lasciargli assaggiare una tartina e siamo anche venuti alle mani per impedire che ciò accadesse. E quando lo vedo sparire lungo il corridoio, il profumo di Alessandro resta l’unico ad impregnare l’aria, ed io arrossisco come una ragazzina, voltandomi a guardarlo appena in tempo perché lui possa avvicinarsi e stringermi fra le braccia, nascondendomi contro di sé. È piacevolissimo e chiudo gli occhi, lasciandomi travolgere da… tutto quanto. Lo sento sorridere contro il mio collo, sento le sue spalle così solide sotto le mie dita e, come al solito, quando lo incontro quand’è di ritorno e prima che riparta, penso che mi sarà impossibile abituarmi nuovamente alla sua assenza. Poi ce la faccio, eh. Ce la faccio ogni volta. Ma pensarlo mi piace, e mi lascio libera di farlo.
– Allora, – mi dice dopo un po’, allontanandosi da me ed indirizzandomi un sorriso sornione che mi fa arrossire un’altra volta, – voi due?
La prima cosa che penso è “noi due chi?”. Poi realizzo, e lancio un’occhiataccia a un punto a caso sulla parete, visto che Alberto non c’è e non posso lanciare un’occhiataccia a lui.
– Te l’hanno detto? – domando con aria finto–casuale, infilandomi le mani in tasca.
– Non tu, di certo. – mi sorride lui. C’è una punta di sarcasmo risentito ma affettuoso, nella sua voce, e sorrido nel capire che è geloso, e sorrido ancora di più nel realizzare che non capirò mai di chi dei due.
– Be’, sorpresa. – rido, scrollando le spalle. Ride anche lui, un suono bellissimo.
– Vorrei dire “spero che ti stia trattando bene”, ma è
Alberto, per cui non mi aspetto che lo stia facendo. – sogghigna, – Seriamente, chi te l’ha fatto fare? Nessuno dei due è cattivo abbastanza da meritare l’altro come punizione.
– Sì. – sbuffo io, accigliandomi, – Okay. Scusa se non rido, non è che le tue battute non siano divertenti, è solo una paresi facciale, niente di preoccupante.
Alessandro ride ancora, sporgendosi ad abbracciarmi.
– Scusa, scusa. – dice, strofinandomi la schiena con calore.
– E comunque… – sospiro, perché voglio rassicurarlo anche se non mi va di ammetterlo, – per trattarmi bene, mi tratta bene. È solo scemo, non cattivo.
Alessandro sorride, tutti i suoi lineamenti si distendono in una maschera dolce e affettuosa.
– E tu? – domanda a bassa voce, dolcissimo, quasi timido, – Lo stai trattando bene?
Arrossisco, guardando in basso.
– Meglio che posso. – annuisco, sentendomi quasi sotto esame.
Lui mi accarezza il viso, si china su di me e mi bacia in fronte. Per un secondo sto così bene che non mi interessa più di niente e di nessuno. E sono convinta che, quando si sarà allontanato da me, passerà. Ma invece non passa. Lui si allontana, ed io sto ancora così bene che potrei mettermi a piangere. Quindi forse non è più lui, o solo lui, ad avere quest’effetto su di me. Forse sono io e basta.
– Vado ad assaggiare le tartine prima che finiscano e il tuo coraggioso sacrificio nella battaglia contro il salmone affumicato vada sprecato. – mi prende in giro con un altro sorriso, mettendo via la giacca ed allontanandosi lungo il corridoio.
Rimango lì nella penombra per qualche minuto, sorridendo come una scema mentre mi stringo con tenerezza fra le braccia. Chissà perché si ha sempre l’impressione che uno, quando si abbraccia da solo, lo faccia perché è triste o perché non ha nessuno a farlo al posto suo. Non è sempre così. In questo momento, per esempio, io voglio solo dirmi che mi voglio bene, e non riesco a trovare un modo migliore.
– Mbe’? – dice Alberto, appoggiato allo stipite della porta con l’aria di uno che mi sta compatendo tantissimo, – Interrompo qualcosa?
– Ma quanto sei imbecille? – borbotto, avvicinandomi al solo scopo di tirargli uno schiaffo sulla nuca. Noto che ha il cellulare in mano, e che il display illuminato mostra il nome di qualcuno che conosco, e che mi fa sentire molto più minacciata di quanto non mi abbia fatto sentire prima il suo abbraccio con Alessandro.
Deglutisco a fatica, anche se cerco di non darlo a vedere. Lui se ne accorge, ovviamente, guarda il cellulare e scrolla le spalle.
– Sono venuto qui per metterlo nella giacca, non ne posso più di sentirmelo vibrare in tasca. – borbotta scorbutico. Io annuisco e glielo sfilo delicatamente dalle mani, lasciando scivolare le mie dita fra le sue. Lo tengo sul palmo finché non smette di squillare, e quando lo fa controllo il numero di volte in cui ha chiamato. Sono tantissime. Tutte chiamate perse.
Mi avvicino all’attaccapanni, cerco e trovo la giacca di Alberto e nascondo il cellulare in una tasca interna. Non c’è niente che mi assicura che stanotte o domani, quando sarà uscito da questa casa, non la chiamerà, ma in questo momento non voglio pensarci. In questo momento non conta. Mi volto a guardarlo ed Alberto mi sorride, un sorriso imbarazzato a metà fra uno scusa e un grazie, poi mi si avvicina, mi bacia sulla fronte e sulle labbra, e si allontana prendendomi in giro – “ti aspetto di là, quando hai finito col self–incest”.
– Si dice selfcest. – lo correggo borbottando.
*Yoshi lo manda fuori dalla grazia di Dio. È esilarante. Non vedo l’ora che sia Natale prossimo.