videogame: al–cid margrace

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Ashe/Basch, Ashe/Al-Cid, tutti accennati.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "Le chiede una sola volta chi sia il padre."
Note: TANTI AUGURI, JUCCHA!!! *saltella intorno a lei come non ci fosse un domani* So che non ho scritto praticamente niente per i compleanni degli amici, quest'anno, ma non potevo esimermi dal prepararne uno per la Ju, perché ella è la mia piccina. *la coccola* Ci tengo peraltro a ricordare che io di FFXII non so nulla a parte quello che sono riuscita ad estrapolare dai video e dalle fic della Juccha, perciò perdonate qualsiasi errore di canon o roba del genere. In teoria è ambientata post-finale del gioco, in pratica chissà se ci sono riuscita. Ma il punto è che Al-Cid è bellissimo e io dovevo scriverne ancora. Cosa c'entra ciò? Non lo so e non importa. *flaila* Auguri ancora, bella di mamma, spero ti piaccia :*
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WHITE ROSES ON A GRAVE

Il deserto, a suo modo, è accogliente, quasi confortevole. L’abbraccio incandescente delle sue giornate e quello gelido ma altrettanto intenso delle sue notti hanno protetto Ashe per giorni e giorni e giorni durante il suo lungo viaggio, e il senso di sicurezza, di appartenenza, di compagnia nonostante la solitudine opprimente che la circondava, è stato tanto piacevole e rassicurante da costringerla, adesso che si trova alle porte di Rozaria, ad un sorriso triste e nostalgico. Non vuole abbandonare il deserto, non ha mai voluto davvero. Non vorrebbe doverlo fare adesso, ma la curva morbida e rotonda del suo ventre, quella che quando è partita non era neanche intuibile sotto il mantello e i vestiti, è ormai tanto prominente da attirare gli sguardi della gente anche se tenta di nasconderla in tutti i modi. Perciò, non c’è altro che possa fare, a parte ingoiare l’orgoglio e la tristezza e chiedere udienza ad Al-Cid.
Un’ancella la invita ad accomodarsi in un piccolo salottino dall’aria discreta ma elegante. Ogni angolo della reggia di Al-Cid è arredato secondo il gusto eccessivo e opulento del suo padrone, ma questa stanza è più intima, meno chiassosa, ed Ashe si sente immediatamente a proprio agio nell’entrare, prendendo posto su una delle poche sedie che circondano il tavolino da caffè sistemato in un angolo, proprio davanti ad un’enorme finestra parietale tanto alta da sfiorare il soffitto, coperta da un drappo di un rosso scuro e sanguigno decorato in oro, che sulla lunghezza lascia spazio ad un tessuto più soffice e lieve, di un biancore quasi abbagliante, che svolazza pigramente al venticello tiepido che scivola oltre le imposte lasciate lievemente socchiuse.
Ashelia segue quel movimento con gli occhi, le labbra serrate ed una mano appena appoggiata sulla pancia. Non la accarezza, non ne sente il bisogno. Non ha avuto tempo né modo di sentirsi materna nei confronti della creatura che porta in grembo. Quando pensa alla vita che cresce dentro di lei, i sentimenti che prova sono confusi, ma non abbastanza da impedirle di vedere che sono una massa nera, vischiosa, putrida. Non vuole provare a discioglierla perché sa già che non ne verrebbe fuori niente di buono. Nessuna dolcezza, nessuna tenerezza, nessun naturale istinto di protezione materna.
Allontana la mano dal ventre con uno scatto quando sente il picchiettare di un paio di pesanti stivali col tacco lungo il corridoio, ed ha appena il tempo di voltarsi verso la porta che subito la vede spalancarsi sulla figura trafelata e stupita di Al-Cid, che la guarda come non riuscisse a capacitarsi della sua presenza lì. Vorrebbe salutarlo, sorridergli, provare a rassicurarlo e dirgli che lei per prima non riesce ancora a comprendere per quale motivo sia venuta, o come sia riuscita ad arrivare senza farsi prendere dal panico e tornare di corsa a Rabanastre, ma non riesce a trovare la forza di spiccicare una sola parola. O di muoversi, in ogni modo.
Al-Cid la guarda attentamente. Scruta ogni dettaglio del suo viso, e poi lascia scivolare gli occhi verso il basso, sulla rotondità del suo ventre.
- Che cosa è successo? – le chiede, la voce affaticata, come avesse dovuto fare sforzi intensi per riuscire a superare il blocco di angoscia intenzionato a fermarla piantandosi nel mezzo della gola dell’uomo.
Ashelia guarda in basso, si inumidisce le labbra, poi chiude gli occhi e rilascia un sospiro abbattuto.
- Non sapevo dove altro andare. – ammette. Al-Cid annuisce. E subito dopo la invita a restare.
*
Le chiede una sola volta chi sia il padre. Lei non dissimula, non cambia argomento, non cerca di distrarlo in alcun modo. Seduta contro i cuscini che le sostengono le spalle nel mezzo dell’enorme letto a baldacchino che domina la camera che Al-Cid ha fatto preparare per lei, incrocia le mani in grembo, sotto il ventre, e si richiude in un ostinato, gelido mutismo che non c’è modo di sciogliere, anche quando Al-Cid le assicura che non le chiederà più niente e che non ha alcun obbligo di rivelargli alcunché. La lascia sola, per quel giorno, sperando che una buona notte di sonno possa aiutarla a rilassarsi, ed in effetti è abbastanza soddisfatto di vedere che, quando torna a farle visita, il giorno dopo, lei quantomeno sorride.
- Dovrei avvertire qualcuno? – le chiede, e l’occhiata terrorizzata che immediatamente lei gli lancia sarebbe da sola sufficiente a dargli la risposta che sta cercando – in realtà, a dargli molte più risposte di quante ne stia cercando – ma per ogni evenienza Ashe si sporge verso di lui e chiude i pugni attorno al bavero della sua camicia, strattonandolo lievemente.
- Per favore. No. – dice semplicemente. Al-Cid posa le proprie mani sulle sue, stringendo appena e sorridendole rassicurante. Questo sembra bastarle, perché immediatamente Ashe si allontana, lasciandolo andare e tornando a sistemarsi in mezzo a tutti i suoi morbidi cuscini.
- Vi trovate bene? – le chiede, sedendosi sulla sponda del letto ed osservandole attentamente. Ashe continua a tenere le mani incrociate in grembo, ignorando la propria pancia come non esistesse.
- Non sono abituata ad essere così accudita. – risponde lei, la voce un po’ ruvida. – Ma sì, mi trovo benissimo. – conclude con un mezzo sorriso, tornando a guardarlo. Al-Cid annuisce, sorridendo soddisfatto a propria volta, e fa per alzarsi.
- Vi lascio. – annuncia, - Riposate.
Ashe non sembra reagire, in un primo momento, ma quando lui le passa accanto, diretto alla porta, allunga un braccio, chiudendo le dita attorno al suo polso.
- Restate. – lo implora, la voce che si spezza in un singhiozzo addolorato e doloroso. – Non sono stanca.
Al-Cid la guarda – le spalle curve, l’espressione contrita, gli occhi distanti, quella pancia così grande che si ostina ad ignorare – e torna subito indietro, sedendosi esattamente dove s’era seduto prima.
- Coraggio, Ashelia, - la invita quindi con un sorriso, - raccontatemi del vostro viaggio.
I suoi occhi lo scrutano solo per un paio di secondi. Poi, il sorriso che le si scioglie sulle labbra le illumina il viso, e con voce meno stanca di prima Ashelia comincia a parlare del deserto.
*
- Dovreste essere a letto, a riposarvi. – le dice, raggiungendola alle spalle. Ashelia indossa abiti rozariani – una lunga tunica beige che le lascia le spalle scoperte e si tiene chiusa con un fiocco poco sopra il seno – i suoi capelli sono più lunghi di come glieli abbia mai visti portare e il suo ventre è ormai talmente gonfio da non poter essere nascosto neanche dal più geniale dei sarti. Non ha fatto che chiedere abiti che celassero quella rotondità, da quando è arrivata, ma ormai da qualche settimana le è toccato arrendersi al fatto che non c’è più niente che possa fare, ormai, per impedire a se stessa e al mondo intero di vedere la verità.
- Non sono stanca. – risponde lei, continuando a passeggiare un po’ pigramente fra i cespugli di rose bianche che adornano i vialetti di uno dei numerosi cortili interni della reggia. Al-Cid la osserva allungare una mano e sfiorare in punta di dita i petali candidi dei fiori, e poi si avvicina ancora un po’, poggiandole una mano sulla spalla.
- Siete ormai prossima al parto. – le ricorda, come se fosse davvero possibile per lei dimenticarlo, - Non vorrete che insorga qualche complicazione?
Ashelia si morde un labbro con tanta forza da farlo sanguinare. Poi scuote il capo, ma sta palesemente mentendo. Al-Cid sospira e le stringe una mano, riconducendola in camera propria. Se lei non ha alcuna intenzione di prendersi cura di se stessa, toccherà a lui farlo.
*
Il bambino è bellissimo, perfettamente in salute. È biondo e ha gli occhi chiari, l’incarnato è splendido, ed ora che non è più rosso per lo sforzo di venire al mondo e piangere come un disperato fra le braccia dell’ostetrica è facilissimo scorgere la tipica tonalità che il sole del deserto ha regalato agli abitanti di Dalmasca.
Al-Cid lo osserva dormire nella sua culletta. È così piccolo che potrebbe stare tutto in una mano.
- È nato, finalmente. L’erede. – commenta con un mezzo sorriso. Ashe guarda la primavera che diventa estate, lenta come il tempo, fuori dalla finestra, e la lunga camicia da notte che indossa le si appiccica addosso, infastidendola abbastanza da costringere i lineamenti del suo viso a tendersi in una smorfia insofferente, ma non tanto da obbligarla a sbuffare o a chiedere indumenti più leggeri.
- Non è l’erede di niente e di nessuno. – borbotta amaramente, rifiutandosi di voltarsi verso di lui. Al-Cid sospira, scuotendo teatralmente il capo e concedendosi un sorriso bonario. La ragazza ha sempre avuto un talento per la teatralità, e d’altronde probabilmente è questo il motivo per cui l’apprezza tanto.
- Hai già pensato a un nome? – le domanda. Tutto il corpo di Ashe si tende in un involontario spasmo, come se un’improvvisa scarica di dolore l’avesse appena attraversato da capo a piedi. Al-Cid la osserva scuotere il capo senza dire una parola, e si siede sulla sponda del letto, stringendole delicatamente il mento fra le dita per costringerla a voltarsi verso di lui. Ashe non è docile, non è doma, non è obbediente. Ma si volta comunque, seguendo la pressione delle sue dita. – Prenditi il tuo tempo, allora. – le dice, sorridendole dolcemente, - Il nome giusto arriverà.
Ashe abbassa lo sguardo. Mentre lo fa, una lacrima sfugge alla trappola delle sue ciglia lunghe e chiare, rotolando giù lungo il suo viso seguendo la curva piena della sua guancia. Al-Cid si guarda bene dal fargliela notare.
*
La nutrice si occupa di sfamarlo, perché Ashe non vuole nemmeno vederlo. Il bambino cresce velocemente, come tutti i neonati, prendendo peso e facendosi sempre più vispo giorno dopo giorno, senza che sua madre provi neanche il benché minimo desiderio di stargli accanto, di osservare come cambia il suo sguardo man mano che scopre il mondo, di sentire la sua voce mentre si fa poco a poco più chiara e limpida, di osservare il suo piccolo corpo mentre un passo alla volta si rafforza. È come se avesse espulso un corpo estraneo, ed ora che non è più obbligata a portarlo dentro di sé non vede alcun motivo per cui dovrebbe interessarsi a lui.
Continua a vivere nell’ala del palazzo che Al-Cid ha riservato per lei. A stento mette il naso fuori dalla propria stanza, comunque, ed Al-Cid passa ogni giorno a pranzo ed a cena per impedirle di rimanere reclusa in solitudine quantomeno durante i pasti.
Un giorno, entra in camera sua verso metà pomeriggio. Gli impegni di stato hanno deciso di concedergli una tregua per qualche ora e lui ha sentito da qualche parte dentro di sé l’impulso naturale a recarsi da lei, perciò l’ha seguito, com’è sempre stato abituato a seguire i propri impulsi, specie quando sapeva che non avrebbero potuto portarlo verso niente di troppo pericoloso, ed ha bussato un paio di volte alla sua porta prima di rassegnarsi ad entrare senza permesso, dal momento che dall’interno della stanza, per quanto lui potesse bussare, non sembrava giungere alcuna risposta.
La stanza è vuota. Al-Cid si guarda intorno, chiedendosi dove Ashe possa essere finita, e quando capisce che di sicuro non è lì ritorna in corridoio, attraversandolo in ampie e svelte falcate, sbirciando in ogni stanza nella speranza di vederla.
La trova. In piedi, accanto alla poltrona seduta sulla quale la nutrice si sta occupando del bambino. I suoi occhi sono gelidi, il suo viso non ha espressione. Il suo corpo è teso, immobile come quello di una statua. Le si avvicina con cautela, preoccupato, e le appoggia una mano sulla spalla lasciata scoperta dalla scollatura dell’abito che indossa. Fortunatamente, la sua pelle è calda – almeno quella.
- Sono contento che siate uscita. – le dice, premendo appena le dita contro la pelle nuda, saggiandone la consistenza sotto i polpastrelli.
- È la prima volta che lo vedo, da quando è nato. – risponde lei, continuando a fissare il bambino. Poi, lentamente, solleva la mano che teneva appoggiata sullo schienale della poltrona, e la appoggia su quella di Al-Cid, che continua ad accarezzarle dolcemente la spalla. Le loro dita si intrecciano guidate da forze che nessuno dei due conosce.
È la prima volta che Al-Cid teme di aver sbagliato a seguire un istinto apparentemente innocuo. Perché non lo era.
*
Ashe comincia ad uscire dalla propria stanza sempre più spesso. Al-Cid la accompagna sempre. Passa a prenderla e le offre il braccio. Lei, rigida e contegnosa, lo accetta con un educato cenno di ringraziamento, ma ogni volta, passo dopo passo, si scioglie un po’ di più. Si avvicina a lui di qualche centimetro, stringe con un pizzico di forza in più le dita nell’incavo del suo gomito, cerca il suo orecchio per bisbigliare qualche commento sulla mobilia, sugli ospiti che man mano si avvicendano a palazzo, sulle notizie dal mondo esterno che Al-Cid non manca mai di farle avere, ed ogni volta i suoi occhi brillano con un’intensità appena maggiore, e il suo sorriso racconta di una serenità appena più matura che fino a qualche mese fa sarebbe sembrata un’utopia.
I sorrisi di Ashe, comunque, non sono mai completi. Ogni volta che si lascia libera di esprimere la propria contentezza, qualcosa ad un certo punto si spezza, e il sorriso che prima le schiudeva le labbra si dissolve in un sospiro mentre lei abbassa lo sguardo, gli occhi persi chissà dove, chissà quando, chissà con chi.
La prima volta in cui la vede sorridere pienamente, senza un rimorso, per più di un paio di secondi, è quando passano a trovare il bambino, che conta sulle proprie spalle ormai quasi un anno di vita, ma nemmeno un nome. È vispo, curioso, intelligente. Seduto sul seggiolone, mentre le tate gli vorticano intorno per essere sicure che non gli manchi niente, brandisce uno spadino di legno dalla punta arrotondata. La presa delle sue manine è ancora incerta, molle, e lo spadino continua a cadere. Ogni volta, una tata lo recupera e glielo porge, ed ogni volta il bambino lo afferra con entusiasmo sempre maggiore. Sembra che il gioco non debba annoiarlo mai.
- Suo padre sarebbe fiero di lui. – commenta Ashe.
È tutto quello che ha bisogno di dire per far capire ad Al-Cid di cosa sta parlando.
*
- So che non avrei dovuto. – sospira Ashe, cullando il proprio figlio con goffa attenzione, seduta su una delle panchine nel cortile interno. Seduto al suo fianco, Al-Cid la scruta con interesse, sorridendo della concentrazione così evidente sul suo viso. – Non avrei dovuto concedergli… concedermi… quello che mi sono concessa. Non avrei dovuto fuggire. Avrei dovuto affrontare la situazione come ho sempre fatto, di petto, ma… - le sue braccia si stringono appena attorno al corpo del bambino, ormai addormentato, - Non ho potuto. Significava troppo, e avevo troppa paura delle conseguenze. E ora non riesco… - distoglie lo sguardo, chiudendo gli occhi mentre due lacrime scivolano veloci lungo il profilo del suo viso, - Non riesco neanche a guardarlo, questo bambino. Mi ricorda lui, mi ricorda quello che avrei dovuto fare e non ho fatto. La mia debolezza, la mia stupidità. Lo odio. Lo detesto, lo— lo odio, ed odio me stessa per questo.
Al-Cid ascolta i suoi singhiozzi risuonare nell’aria, forti abbastanza da coprire perfino il cinguettio degli uccelli nascosti fra le fronde degli alberi tutti attorno a loro. Allunga una mano, poggiandola sulla sua spalla, ed Ashelia reagisce immediatamente a quel contatto, voltandosi verso di lui e nascondendo il viso contro il suo petto, stringendo al seno il proprio bambino e continuando a piangere.
- Smettetela di odiare voi stessa. – sussurra Al-Cid, cingendo lei e il bambino con entrambe le braccia ed appoggiando il mento sulla sommità della sua testa, quasi facendole scudo contro qualsiasi cosa possa farle del male in questo momento, - Non ne avete motivo. Amate questo bambino più di quanto credete. E c’è ancora tempo per sistemare le cose, se solo volete.
Ashe preme il viso contro il suo petto con maggiore convinzione, sollevando un braccio per allacciarlo attorno al collo. Inspira ed espira a fatica, ma sta smettendo di piangere.
- Non so se voglio. – sussurra sulla pelle accaldata del suo collo, ed Al-Cid trema dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, stringendosela contro con la forza di un disperato, - Sarebbe molto più facile restare qui con voi. – aggiunge in un’implorazione strozzata. Il bambino si sveglia, si guarda intorno, i suoi occhi brillano, sembra incredibilmente felice.
Al-Cid chiude i propri, perché non può esserlo altrettanto.
*
Ashelia non lo guarda. L’aeronave che ha fatto preparare per lei e per il bambino è ormai pronta e l’aspetta, ma lei, in piedi davanti a lui, non accenna a volersi muovere. Tiene gli occhi bassi, il bambino fra le braccia, è avvolta in un vestito scuro dalla foggia esageratamente casta che non le dona affatto.
- Sono contento che abbiate preso questa decisione. – cerca di sorriderle. Il cuore gli esplode nel petto. Ashelia continua a guardarsi le punte dei piedi.
- L’avete presa voi per me. – gli ricorda. Al-Cid si lascia sfuggire una mezza risata divertita, scuotendo il capo.
- Ashe, voi non avete mai lasciato nessuno diverso da voi stessa a decidere per il vostro destino. – le fa notare. – Sono convinto che sia andata così anche questa volta.
Ashelia solleva lo sguardo, i suoi occhi sono pieni di lacrime. Al-Cid vorrebbe poterseli risparmiare, ma allo stesso tempo non guarderebbe altrove neanche per tutto l’oro del mondo.
- Grazie. – sussurra lei, la voce rotta da un singhiozzo affaticato. Il bambino che stringe al petto gioca con uno dei fiocchi che chiudono il mantello appena sotto il suo collo. Al-Cid annuisce, il sorriso che non riesce a scomparire dalle sue labbra anche se sta soffrendo come non avrebbe mai creduto possibile.
- Avete deciso come chiamarlo? – le domanda, ed Ashe esita qualche secondo, prima di rispondere.
- Rasler. – dice alla fine. Sorride, ed è bellissima. – Suo padre… ne sarebbe orgoglioso. – aggiunge.
Al-Cid annuisce. Nell’osservarla salire a bordo dell’aeronave e sparire dalla sua vista, non può che essere totalmente d’accordo con lei.
Genere: Erotico, Introspettivo.
Pairing: Ashe/Al-Cid.
Rating: NC-17.
AVVISI: Het, Lemon, Spin-Off di Love Is Blindness di Juuhachi Go.
- "Rozaria è una terra misteriosa dal clima insalubre – così le è sempre capitato di pensare di sfuggita ogni volta che, nel corso della sua vita, ci ha messo piede. L’incredibile caldo non sarebbe un problema in sé – sarebbe davvero una pessima regina se il suo paese non le avesse almeno insegnato a tollerarlo – ma l’umidità costante che grava nell’aria come pioggia abortita sul nascere rende l’atmosfera faticosa da mandare giù, praticamente irrespirabile."
Commento dell'autrice: Mai, mai avrei pensato, fino a qualche mese fa, che mi sarei ritrovata a scrivere su Final Fantasy XII XD Non l’ho mai giocato e della sua esistenza, prima che mia figlia introducesse prima Rasler, poi Al-Cid e infine i gemelli von Rosenburg nella mia vita, non mi interessava. Poi il dramma s’è compiuto, e da allora fangirlo anch’io. Continuo a non aver mai giocato a FFXII, ma in compenso ho letto tutto il tuttibile della produzione jucchiana sull’argomento XD Non so quanto ciò possa essere una credenziale, per me di certo lo è, comunque.
Questa shot nasce perché Love Is Blindness non poteva essere lasciata priva di un seguito. E per altre ragioni che scoprirete a breve. E perché la Juccha è amore. E perché- buon compleanno, tesoro, ti voglio bene :*
Ps. Il titolo l’ha scelto l’augusta figlia, rubandolo con la mia approvazione da una splendida canzone dei R.E.M.
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LOTUS

Ashelia sta aspettando in un luogo che non le è familiare e che la infastidisce parecchio, per di più. Rozaria è una terra misteriosa dal clima insalubre – così le è sempre capitato di pensare di sfuggita ogni volta che, nel corso della sua vita, ci ha messo piede. L’incredibile caldo non sarebbe un problema in sé – sarebbe davvero una pessima regina se il suo paese non le avesse almeno insegnato a tollerarlo – ma l’umidità costante che grava nell’aria come pioggia abortita sul nascere rende l’atmosfera faticosa da mandare giù, praticamente irrespirabile.
La sua ansia – che nulla ha a che vedere col clima, comunque – non fa che peggiorare le cose, mentre stringe le ginocchia chiedendosi per la prima volta se sia stato saggio indossare una gonna così corta ed un corpetto così scollato. Sì che lo è stato, si risponde da sola con un mezzo sbuffo; coraggio, Ashelia, hai viaggiato e lo sai che è sempre meglio viaggiare leggeri.
D’altronde già le pesava addosso qualcosa, mentre si avvicinava alla reggia di Al-Cid. Ed era un peso di per sé abbastanza insostenibile senza doverci necessariamente aggiungere anche i drappeggi di una veste regale che sente sua solo in parte. Nella misura in cui testimonia la sua volontà di portare avanti un regno per il quale ha combattuto e per il quale ha ferito ed è stata ferita.
Per tutto il resto, la corona pesa anche quando non la indossi, ed in questo momento pesa anche più del solito, mentre passa distrattamente le mani sulle pieghe inesistenti della gonna e della maglia e sistema i capelli dietro le orecchie – sono un po’ allungati, sarà il caso di tagliarli ancora – in attesa che l’aria intorno a lei, per quanto pesante, si muova; e le annunci l’arrivo di Al-Cid.
Non dovrebbe trovarsi lì.
È tutto ciò che riesce a pensare quando l’aria effettivamente si muove e cambia forma, accogliendo la presenza di Al-Cid e quel suo profumo particolare, fruttato eppure virile, che la mette a disagio. Stringe di più le ginocchia, si sente una damina impreparata. E non lo è mai stata. Né damina, né impreparata.
- Mia cara, - la saluta l’imperatore, accennando ad un cerimonioso quanto ironico inchino, - non che io abbia da lamentarmi della vostra presenza qui, e d’altronde in questa serra davvero mancava un fiore del deserto di tale bellezza, ma-
- Potreste – lo interrompe lei, stizzita dal fiume di parole, - evitare di cercare di rimbambirmi con le vostre chiacchiere? Non ho viaggiato a lungo ed in pessime condizioni per sentirvi parlare senza il minimo senso di fiori, serre o chissà che altro.
Al-Cid accoglie la sua protesta con stupore solo simulato, reso ridicolo dall’espressione eccessivamente oltraggiata che si dipinge sui suoi occhi – che si spalancano, illuminandosi di sorpresa – e sulle sue labbra – che si schiudono, appena umide, costringendo Ashe a distogliere lo sguardo.
- Quanta rabbia in così poco spazio. – commenta l’uomo, avvicinandosi e sedendosi al suo fianco sulla panca in legno chiaro, - Come fate ad essere tanto di malumore in un posto tanto bello? – chiede, abbracciando con un ampio cenno tutta la serra. Ashe segue il movimento della sua mano, ed i suoi occhi si posano sulle numerose piante che li circondano, sui fiori coloratissimi che giocano a nascondino fra le grandi foglie verdi e sulla fontana nel centro della stanza, decorata in modo da sembrare una piccola cascata naturale. Una cascata naturale dentro una serra. La guarda e le viene voglia di ridere, pensando a quanto sia ridicolo un pensiero simile, e chiedendosi quanto ridicolo sia un simile tentativo di raggiro dell’occhio umano.
- Sapete, Al-Cid, - commenta con un mezzo sospiro, - questa serra è molto bella, ma è inospitale per gli esseri umani. Questo caldo, quest’umidità. – si volta a guardarlo, sfacciata, - Tendono a infastidire. – sorride, senza distogliere lo sguardo, - Vi assomigliano.
Al-Cid non fa una piega. Non aggrotta nemmeno le sopracciglia, si limita a fissarla con un’ostinazione quasi offensiva, come volesse scavarle nella testa per tirare fuori una risposta plausibile alle proprie domande, senza per questo doverle esprimere. Ma il deserto ha temprato Ashelia molto più di quanto l’abbia stancata o appesantita di responsabilità che non era proprio sicura di essere in grado di portare, perciò non cede e lo fissa di rimando, e i suoi occhi sono impenetrabili. Al di là non c’è nulla, o se qualcosa c’è Al-Cid non riesce ad indovinarlo. Perciò chiede.
- Perché siete tornata?
Ashe tentenna solo qualche secondo, inumidendosi le labbra ed abbassando lo sguardo sulle punte degli stivali, le mani strette attorno alle ginocchia.
- Perché voi mi confondete, Al-Cid. – risponde a mezza voce, - Perché… - solleva nuovamente lo sguardo su di lui, - ho bisogno di capire cos’è successo l’ultima volta che sono venuta qui. Voi avete risvegliato in me… sto parlando seriamente, non deridetemi. – lo ferma, appena coglie un accenno di sorriso nascere sulle sue labbra. – Voi avete risvegliato in me qualcosa che credevo si fosse sopita per sempre. E Basch-
- Voi – la interrompe Al-Cid, alzandosi in piedi e tendendole la mano, - pensate troppo.
Ashelia solleva lo sguardo su di lui e lo scruta con attenzione, gli occhi che viaggiano dal suo viso alla mano ancora tesa nella sua direzione. Al-Cid insiste sorridendo ed Ashe non può che poggiare la propria mano sul palmo aperto e tiepido di Al-Cid, osservando poi le sue dita scure chiudersi attorno alle sue, per poi invitarla ad alzarsi, spostandosi di qualche passo indietro verso la fontana.
- Sapete, Ashe, ciò che più mi colpisce di voi è la vostra forza. Voi siete… - pesa le parole con estrema cautela, accompagnandola lentamente fino alla vasca, il suono scrosciante dell’acqua che si infrange su altra acqua a spezzare e riempire il silenzio fra le sue parole, - solida.
- Meno di quanto pensiate. – risponde Ashe con un mezzo sorriso, un po’ triste e un po’ deluso. Il pelo dell’acqua si apre in grandi cerchi sotto i suoi occhi, riportandole l’immagine del fondale tremulo di sassi e alghe finte. – Meno di quanto pensi chiunque, in realtà.
- In realtà – le fa il verso lui, sorridendo, - ho una chiarissima idea della vostra forza, Ashe. Come potete non capirlo? Voi, così perspicace.
Ashe solleva nuovamente gli occhi su di lui, solo per osservarlo lasciare la sua mano ed immergersi lentamente nella fontana, l’acqua che si arrampica in macchie scure lungo i suoi pantaloni, sopra il ginocchio, fino alle cosce.
- La vostra forza e la vostra fragilità sono molto legate, Ashelia. La vostra forza e la vostra fragilità sono la stessa cosa.
Lei lo guarda a lungo, per almeno un minuto, prima di decidersi a percorrere i pochi passi che la separano da lui, immergendosi a propria volta nell’acqua fresca della fontana. Mitiga il calore e l’umidità della serra, e man mano che si avvicina ad Al-Cid Ashe non può che sentirsi più leggera. Ed ha come l’impressione che la sensazione non dipenda solo dall’acqua.
- E che cos’è? – chiede, la voce rotta appena da un tremito d’incertezza, - La mia forza e la mia fragilità… cos’è?
Al-Cid sorride ed Ashe, di quel sorriso, coglie solo uno spicchio. Perché la sua bocca si fa improvvisamente troppo vicina per poterla guardare ancora, ma vicina abbastanza da saggiarne la consistenza in punta di lingua, ed è- oh, così facile lasciarsi andare alle sue mani ed alle sue labbra, quando si muovono con tanta destrezza sulla sua pelle umida, è così facile lasciar parlare Al-Cid nel modo in cui sa di essere più convincente, è così facile lasciare che sia lui a spiegarle il suo essere regina, il suo essere guerriera, il suo essere donna, senza neanche doverlo fare ad alta voce.
Ashe piega lievemente il capo e ad Al-Cid quel gesto basta per prendersi la libertà di scivolarle addosso con le labbra, tracciando sulla sua pelle umida una scia di un’umidità diversa, più calda e piacevole, mentre le cinge la vita con le braccia e la stringe a sé, e lei geme nel sentirlo duro oltre la stoffa ormai fradicia, e si chiede se non sia tornata a Rozaria solo per questo. Tutte le domande esistenziali che s’è posta fino a quel momento sul suo ruolo, sui suoi desideri, sul bene del suo popolo, diventano improvvisamente un niente nella sua testa, e tutto ciò cui riesce a pensare che probabilmente è così davvero, l’unico motivo per cui è lì con Al-Cid è che voleva essere lì con Al-Cid, e basta.
Si morde un labbro, chiudendo gli occhi: se Basch sapesse, probabilmente la disapproverebbe molto. Se Basch sapesse, probabilmente non la perdonerebbe mai. Se Basch sapesse…
- Ah… - ma Basch non sa e Al-Cid invece sa troppo, perciò sciogliersi sulle sue dita, quando lui l’accarezza lento fra le cosce, è l’unica alternativa possibile. Non ne esiste un’altra.
- La tua debolezza, Ashe, - le sussurra addosso Al-Cid, costringendola a stendersi lungo la parete della vasca ed accoglierlo fra le gambe, così vicino che Ashe non riesce a trattenere un gemito neanche mettendoci tutto il proprio impegno, - è qui. – spiega, le labbra che si piegano in un mezzo sorriso ed esitano sul suo petto, all’altezza del cuore. – Ora capisci perché è anche la tua forza?
Ashe distoglie lo sguardo, perché c’è troppo Basch nelle parole di Al-Cid e ce n’è altrettanto anche nella sua testa, e non è a quello che vuole pensare mentre lui, con una spinta, entra dentro di lei, costringendola a gettare indietro il capo in un gemito roco.
Non parla più perché non ha altro da dire, lascia che tutto il resto del loro discorso – che dovrebbe avere luogo, perché Ashelia dovrebbe spiegare ad Al-Cid perché cerca con tanta insistenza le sue labbra ed Al-Cid dovrebbe spiegare ad Ashelia perché si presti a questo gioco degli specchi in cui nessuno si riflette veramente in nessun altro – si muova in gemiti, tocchi e sospiri. Nei movimenti lenti di Al-Cid e nella forza con cui lei allaccia le braccia attorno al suo collo, traendolo contro di sé e perdendo le dita fra i suoi capelli, il respiro fra le sue labbra, la razionalità nelle scosse di piacere che la invadono tutta quando lui si spinge contro di lei riempiendola tutta prima con sé stesso e poi con ciò che di più prezioso possiede, più dei suoi domini, più della sua fama, più della sua autorevolezza: il seme della sua discendenza.
Ashelia non ci pensa, nel momento in cui lo sente riversarsi dentro al suo corpo. Pensa solo a quanto sia piacevole sentirlo tanto e con tanta forza, al solletico che le fanno i suoi respiri quando s’infrangono contro la pelle calda e umida del suo collo ed alle tenerezze misurate eppure appassionate che le sue mani riservano alla sua vita e ai suoi fianchi, indugiando a lungo su tutte le sue curve mentre aspetta che recuperi fiato e capacità di pensare.
- Lo sai perché c’è una fontana in questa stanza, Ashe? – chiede a bassa voce Al-Cid, senza separarsi da lei e senza nemmeno guardarla negli occhi. Aspetta di sentirla scuotere lentamente il capo, prima di continuare. – Perché i fastidi vanno mitigati. I luoghi inospitali, - aggiunge con un sorriso, - così come le persone inospitali, vanno ammorbiditi. Solo così chi li frequenta avrà voglia di tornare ancora.
Ashe ride a bassa voce, allontanandosi lo stretto indispensabile per ristabilire il contatto visivo.
- Mi hai preso in trappola, Al-Cid. – commenta in un soffio.
Al-Cid ride. Non è proprio sicuro che sia così, in realtà. D’altronde, che razza di cacciatore è quello che, invece di vedere le tenaglie strette attorno alle caviglie della sua preda, le vede strette attorno alle proprie?