Genere: Introspettivo.
Pairing: Ashe/Basch, Ashe/Al-Cid, tutti accennati.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "Le chiede una sola volta chi sia il padre."
Note: TANTI AUGURI, JUCCHA!!! *saltella intorno a lei come non ci fosse un domani* So che non ho scritto praticamente niente per i compleanni degli amici, quest'anno, ma non potevo esimermi dal prepararne uno per la Ju, perché ella è la mia piccina. *la coccola* Ci tengo peraltro a ricordare che io di FFXII non so nulla a parte quello che sono riuscita ad estrapolare dai video e dalle fic della Juccha, perciò perdonate qualsiasi errore di canon o roba del genere. In teoria è ambientata post-finale del gioco, in pratica chissà se ci sono riuscita. Ma il punto è che Al-Cid è bellissimo e io dovevo scriverne ancora. Cosa c'entra ciò? Non lo so e non importa. *flaila* Auguri ancora, bella di mamma, spero ti piaccia :*
Pairing: Ashe/Basch, Ashe/Al-Cid, tutti accennati.
Rating: PG-13.
AVVERTIMENTI: Angst.
- "Le chiede una sola volta chi sia il padre."
Note: TANTI AUGURI, JUCCHA!!! *saltella intorno a lei come non ci fosse un domani* So che non ho scritto praticamente niente per i compleanni degli amici, quest'anno, ma non potevo esimermi dal prepararne uno per la Ju, perché ella è la mia piccina. *la coccola* Ci tengo peraltro a ricordare che io di FFXII non so nulla a parte quello che sono riuscita ad estrapolare dai video e dalle fic della Juccha, perciò perdonate qualsiasi errore di canon o roba del genere. In teoria è ambientata post-finale del gioco, in pratica chissà se ci sono riuscita. Ma il punto è che Al-Cid è bellissimo e io dovevo scriverne ancora. Cosa c'entra ciò? Non lo so e non importa. *flaila* Auguri ancora, bella di mamma, spero ti piaccia :*
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WHITE ROSES ON A GRAVE
Il deserto, a suo modo, è accogliente, quasi confortevole. L’abbraccio incandescente delle sue giornate e quello gelido ma altrettanto intenso delle sue notti hanno protetto Ashe per giorni e giorni e giorni durante il suo lungo viaggio, e il senso di sicurezza, di appartenenza, di compagnia nonostante la solitudine opprimente che la circondava, è stato tanto piacevole e rassicurante da costringerla, adesso che si trova alle porte di Rozaria, ad un sorriso triste e nostalgico. Non vuole abbandonare il deserto, non ha mai voluto davvero. Non vorrebbe doverlo fare adesso, ma la curva morbida e rotonda del suo ventre, quella che quando è partita non era neanche intuibile sotto il mantello e i vestiti, è ormai tanto prominente da attirare gli sguardi della gente anche se tenta di nasconderla in tutti i modi. Perciò, non c’è altro che possa fare, a parte ingoiare l’orgoglio e la tristezza e chiedere udienza ad Al-Cid.
Un’ancella la invita ad accomodarsi in un piccolo salottino dall’aria discreta ma elegante. Ogni angolo della reggia di Al-Cid è arredato secondo il gusto eccessivo e opulento del suo padrone, ma questa stanza è più intima, meno chiassosa, ed Ashe si sente immediatamente a proprio agio nell’entrare, prendendo posto su una delle poche sedie che circondano il tavolino da caffè sistemato in un angolo, proprio davanti ad un’enorme finestra parietale tanto alta da sfiorare il soffitto, coperta da un drappo di un rosso scuro e sanguigno decorato in oro, che sulla lunghezza lascia spazio ad un tessuto più soffice e lieve, di un biancore quasi abbagliante, che svolazza pigramente al venticello tiepido che scivola oltre le imposte lasciate lievemente socchiuse.
Ashelia segue quel movimento con gli occhi, le labbra serrate ed una mano appena appoggiata sulla pancia. Non la accarezza, non ne sente il bisogno. Non ha avuto tempo né modo di sentirsi materna nei confronti della creatura che porta in grembo. Quando pensa alla vita che cresce dentro di lei, i sentimenti che prova sono confusi, ma non abbastanza da impedirle di vedere che sono una massa nera, vischiosa, putrida. Non vuole provare a discioglierla perché sa già che non ne verrebbe fuori niente di buono. Nessuna dolcezza, nessuna tenerezza, nessun naturale istinto di protezione materna.
Allontana la mano dal ventre con uno scatto quando sente il picchiettare di un paio di pesanti stivali col tacco lungo il corridoio, ed ha appena il tempo di voltarsi verso la porta che subito la vede spalancarsi sulla figura trafelata e stupita di Al-Cid, che la guarda come non riuscisse a capacitarsi della sua presenza lì. Vorrebbe salutarlo, sorridergli, provare a rassicurarlo e dirgli che lei per prima non riesce ancora a comprendere per quale motivo sia venuta, o come sia riuscita ad arrivare senza farsi prendere dal panico e tornare di corsa a Rabanastre, ma non riesce a trovare la forza di spiccicare una sola parola. O di muoversi, in ogni modo.
Al-Cid la guarda attentamente. Scruta ogni dettaglio del suo viso, e poi lascia scivolare gli occhi verso il basso, sulla rotondità del suo ventre.
- Che cosa è successo? – le chiede, la voce affaticata, come avesse dovuto fare sforzi intensi per riuscire a superare il blocco di angoscia intenzionato a fermarla piantandosi nel mezzo della gola dell’uomo.
Ashelia guarda in basso, si inumidisce le labbra, poi chiude gli occhi e rilascia un sospiro abbattuto.
- Non sapevo dove altro andare. – ammette. Al-Cid annuisce. E subito dopo la invita a restare.
- Dovrei avvertire qualcuno? – le chiede, e l’occhiata terrorizzata che immediatamente lei gli lancia sarebbe da sola sufficiente a dargli la risposta che sta cercando – in realtà, a dargli molte più risposte di quante ne stia cercando – ma per ogni evenienza Ashe si sporge verso di lui e chiude i pugni attorno al bavero della sua camicia, strattonandolo lievemente.
- Per favore. No. – dice semplicemente. Al-Cid posa le proprie mani sulle sue, stringendo appena e sorridendole rassicurante. Questo sembra bastarle, perché immediatamente Ashe si allontana, lasciandolo andare e tornando a sistemarsi in mezzo a tutti i suoi morbidi cuscini.
- Vi trovate bene? – le chiede, sedendosi sulla sponda del letto ed osservandole attentamente. Ashe continua a tenere le mani incrociate in grembo, ignorando la propria pancia come non esistesse.
- Non sono abituata ad essere così accudita. – risponde lei, la voce un po’ ruvida. – Ma sì, mi trovo benissimo. – conclude con un mezzo sorriso, tornando a guardarlo. Al-Cid annuisce, sorridendo soddisfatto a propria volta, e fa per alzarsi.
- Vi lascio. – annuncia, - Riposate.
Ashe non sembra reagire, in un primo momento, ma quando lui le passa accanto, diretto alla porta, allunga un braccio, chiudendo le dita attorno al suo polso.
- Restate. – lo implora, la voce che si spezza in un singhiozzo addolorato e doloroso. – Non sono stanca.
Al-Cid la guarda – le spalle curve, l’espressione contrita, gli occhi distanti, quella pancia così grande che si ostina ad ignorare – e torna subito indietro, sedendosi esattamente dove s’era seduto prima.
- Coraggio, Ashelia, - la invita quindi con un sorriso, - raccontatemi del vostro viaggio.
I suoi occhi lo scrutano solo per un paio di secondi. Poi, il sorriso che le si scioglie sulle labbra le illumina il viso, e con voce meno stanca di prima Ashelia comincia a parlare del deserto.
- Non sono stanca. – risponde lei, continuando a passeggiare un po’ pigramente fra i cespugli di rose bianche che adornano i vialetti di uno dei numerosi cortili interni della reggia. Al-Cid la osserva allungare una mano e sfiorare in punta di dita i petali candidi dei fiori, e poi si avvicina ancora un po’, poggiandole una mano sulla spalla.
- Siete ormai prossima al parto. – le ricorda, come se fosse davvero possibile per lei dimenticarlo, - Non vorrete che insorga qualche complicazione?
Ashelia si morde un labbro con tanta forza da farlo sanguinare. Poi scuote il capo, ma sta palesemente mentendo. Al-Cid sospira e le stringe una mano, riconducendola in camera propria. Se lei non ha alcuna intenzione di prendersi cura di se stessa, toccherà a lui farlo.
Al-Cid lo osserva dormire nella sua culletta. È così piccolo che potrebbe stare tutto in una mano.
- È nato, finalmente. L’erede. – commenta con un mezzo sorriso. Ashe guarda la primavera che diventa estate, lenta come il tempo, fuori dalla finestra, e la lunga camicia da notte che indossa le si appiccica addosso, infastidendola abbastanza da costringere i lineamenti del suo viso a tendersi in una smorfia insofferente, ma non tanto da obbligarla a sbuffare o a chiedere indumenti più leggeri.
- Non è l’erede di niente e di nessuno. – borbotta amaramente, rifiutandosi di voltarsi verso di lui. Al-Cid sospira, scuotendo teatralmente il capo e concedendosi un sorriso bonario. La ragazza ha sempre avuto un talento per la teatralità, e d’altronde probabilmente è questo il motivo per cui l’apprezza tanto.
- Hai già pensato a un nome? – le domanda. Tutto il corpo di Ashe si tende in un involontario spasmo, come se un’improvvisa scarica di dolore l’avesse appena attraversato da capo a piedi. Al-Cid la osserva scuotere il capo senza dire una parola, e si siede sulla sponda del letto, stringendole delicatamente il mento fra le dita per costringerla a voltarsi verso di lui. Ashe non è docile, non è doma, non è obbediente. Ma si volta comunque, seguendo la pressione delle sue dita. – Prenditi il tuo tempo, allora. – le dice, sorridendole dolcemente, - Il nome giusto arriverà.
Ashe abbassa lo sguardo. Mentre lo fa, una lacrima sfugge alla trappola delle sue ciglia lunghe e chiare, rotolando giù lungo il suo viso seguendo la curva piena della sua guancia. Al-Cid si guarda bene dal fargliela notare.
Continua a vivere nell’ala del palazzo che Al-Cid ha riservato per lei. A stento mette il naso fuori dalla propria stanza, comunque, ed Al-Cid passa ogni giorno a pranzo ed a cena per impedirle di rimanere reclusa in solitudine quantomeno durante i pasti.
Un giorno, entra in camera sua verso metà pomeriggio. Gli impegni di stato hanno deciso di concedergli una tregua per qualche ora e lui ha sentito da qualche parte dentro di sé l’impulso naturale a recarsi da lei, perciò l’ha seguito, com’è sempre stato abituato a seguire i propri impulsi, specie quando sapeva che non avrebbero potuto portarlo verso niente di troppo pericoloso, ed ha bussato un paio di volte alla sua porta prima di rassegnarsi ad entrare senza permesso, dal momento che dall’interno della stanza, per quanto lui potesse bussare, non sembrava giungere alcuna risposta.
La stanza è vuota. Al-Cid si guarda intorno, chiedendosi dove Ashe possa essere finita, e quando capisce che di sicuro non è lì ritorna in corridoio, attraversandolo in ampie e svelte falcate, sbirciando in ogni stanza nella speranza di vederla.
La trova. In piedi, accanto alla poltrona seduta sulla quale la nutrice si sta occupando del bambino. I suoi occhi sono gelidi, il suo viso non ha espressione. Il suo corpo è teso, immobile come quello di una statua. Le si avvicina con cautela, preoccupato, e le appoggia una mano sulla spalla lasciata scoperta dalla scollatura dell’abito che indossa. Fortunatamente, la sua pelle è calda – almeno quella.
- Sono contento che siate uscita. – le dice, premendo appena le dita contro la pelle nuda, saggiandone la consistenza sotto i polpastrelli.
- È la prima volta che lo vedo, da quando è nato. – risponde lei, continuando a fissare il bambino. Poi, lentamente, solleva la mano che teneva appoggiata sullo schienale della poltrona, e la appoggia su quella di Al-Cid, che continua ad accarezzarle dolcemente la spalla. Le loro dita si intrecciano guidate da forze che nessuno dei due conosce.
È la prima volta che Al-Cid teme di aver sbagliato a seguire un istinto apparentemente innocuo. Perché non lo era.
I sorrisi di Ashe, comunque, non sono mai completi. Ogni volta che si lascia libera di esprimere la propria contentezza, qualcosa ad un certo punto si spezza, e il sorriso che prima le schiudeva le labbra si dissolve in un sospiro mentre lei abbassa lo sguardo, gli occhi persi chissà dove, chissà quando, chissà con chi.
La prima volta in cui la vede sorridere pienamente, senza un rimorso, per più di un paio di secondi, è quando passano a trovare il bambino, che conta sulle proprie spalle ormai quasi un anno di vita, ma nemmeno un nome. È vispo, curioso, intelligente. Seduto sul seggiolone, mentre le tate gli vorticano intorno per essere sicure che non gli manchi niente, brandisce uno spadino di legno dalla punta arrotondata. La presa delle sue manine è ancora incerta, molle, e lo spadino continua a cadere. Ogni volta, una tata lo recupera e glielo porge, ed ogni volta il bambino lo afferra con entusiasmo sempre maggiore. Sembra che il gioco non debba annoiarlo mai.
- Suo padre sarebbe fiero di lui. – commenta Ashe.
È tutto quello che ha bisogno di dire per far capire ad Al-Cid di cosa sta parlando.
Al-Cid ascolta i suoi singhiozzi risuonare nell’aria, forti abbastanza da coprire perfino il cinguettio degli uccelli nascosti fra le fronde degli alberi tutti attorno a loro. Allunga una mano, poggiandola sulla sua spalla, ed Ashelia reagisce immediatamente a quel contatto, voltandosi verso di lui e nascondendo il viso contro il suo petto, stringendo al seno il proprio bambino e continuando a piangere.
- Smettetela di odiare voi stessa. – sussurra Al-Cid, cingendo lei e il bambino con entrambe le braccia ed appoggiando il mento sulla sommità della sua testa, quasi facendole scudo contro qualsiasi cosa possa farle del male in questo momento, - Non ne avete motivo. Amate questo bambino più di quanto credete. E c’è ancora tempo per sistemare le cose, se solo volete.
Ashe preme il viso contro il suo petto con maggiore convinzione, sollevando un braccio per allacciarlo attorno al collo. Inspira ed espira a fatica, ma sta smettendo di piangere.
- Non so se voglio. – sussurra sulla pelle accaldata del suo collo, ed Al-Cid trema dalla punta dei capelli alla punta dei piedi, stringendosela contro con la forza di un disperato, - Sarebbe molto più facile restare qui con voi. – aggiunge in un’implorazione strozzata. Il bambino si sveglia, si guarda intorno, i suoi occhi brillano, sembra incredibilmente felice.
Al-Cid chiude i propri, perché non può esserlo altrettanto.
- Sono contento che abbiate preso questa decisione. – cerca di sorriderle. Il cuore gli esplode nel petto. Ashelia continua a guardarsi le punte dei piedi.
- L’avete presa voi per me. – gli ricorda. Al-Cid si lascia sfuggire una mezza risata divertita, scuotendo il capo.
- Ashe, voi non avete mai lasciato nessuno diverso da voi stessa a decidere per il vostro destino. – le fa notare. – Sono convinto che sia andata così anche questa volta.
Ashelia solleva lo sguardo, i suoi occhi sono pieni di lacrime. Al-Cid vorrebbe poterseli risparmiare, ma allo stesso tempo non guarderebbe altrove neanche per tutto l’oro del mondo.
- Grazie. – sussurra lei, la voce rotta da un singhiozzo affaticato. Il bambino che stringe al petto gioca con uno dei fiocchi che chiudono il mantello appena sotto il suo collo. Al-Cid annuisce, il sorriso che non riesce a scomparire dalle sue labbra anche se sta soffrendo come non avrebbe mai creduto possibile.
- Avete deciso come chiamarlo? – le domanda, ed Ashe esita qualche secondo, prima di rispondere.
- Rasler. – dice alla fine. Sorride, ed è bellissima. – Suo padre… ne sarebbe orgoglioso. – aggiunge.
Al-Cid annuisce. Nell’osservarla salire a bordo dell’aeronave e sparire dalla sua vista, non può che essere totalmente d’accordo con lei.