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They Have Trapped Me In A Bottle
Before you begin… Ciao, siamo Nai e liz *_* Ditelo, che siete felici di vederci <3 E questa è la seconda storia che scriviamo insieme e decidiamo di pubblicare dopo Cupid’s. Speriamo vi piaccia altrettanto X3 (anche perché questa è una storia vera!).
Precisazioni del caso: nessuno dei personaggi citati ci appartiene (e dal momento che sono veramente… ma veramente svariati °.° È giusto dirlo XD) e noi non abbiamo niente a che fare con loro se lasciamo da parte il fatto che li amiamo tutti, in un modo o nell’altro è_é Non abbiamo niente a che fare con loro e, per la maggior parte, non hanno mai fatto né faranno niente di quanto descritto in questa storia.
Ovviamente non ci guadagniamo niente >_< Sono solo fanfiction, in fondo ù_ù
Per quanto fanfiction, però, la base di partenza è reale °_° È ambientata fra la fine di luglio e l’inizio di settembre di quest’anno, durante il Projekt Revolution (festival itinerante al quale hanno preso parte band celebri come i Linkin Park, ideatori del progetto, e i My Chemical Romance… e il bello è che avranno tutti un ruolo, in questa storia XD). Siamo state abbastanza scrupolose, ma se c’è qualche cavolata random non badateci troppo >.<
Per quanto sia triste, né Cody né Gaia sono contemplati è_é” In fondo è meglio così, credeteci :D
Buona lettura :*
One:
Ci sono giorni che semplicemente dovrebbero
non esistere.
A volte sogno di tracciare una linea rossa sopra questi giorni. Sogno che basti questo – un colpo di pennarello, pescato a caso dentro il cesto della frutta senza che nemmeno sappia come ci è arrivato – per farli sparire ugualmente dai miei ricordi.
Lo sogno.
E generalmente sto facendo proprio come ora. Sto guardando fuori da un finestrino un mondo che va veloce nella direzione opposta.
Sono stanco. Non ho molto altro da dire, molto altro che mi pesi addosso. Sono semplicemente stanco. Come qualunque persona che sia stata costretta per un lungo periodo di tempo a sottoporsi allo stress costante di un lavoro dai ritmi frenetici.
Potrei essere stanco come un manager di impresa, o come un dirigente di industria, o come un professore universitario in giro per congressi. Invece sono stanco come il cantante di una band rock in tour da quasi un anno e mezzo. E questo, per uno strano caso del destino, vale a togliere attendibilità, dinanzi alla gente, al mio stato fisico e mentale. Per questo strano caso del destino, infatti, la gente sembra credere che un musicista rock non possa in alcun modo rivendicare il diritto a qualificare il proprio come “lavoro”. Figuriamoci a riconoscergli “ritmi frenetici” al punto da indurlo a stancarsi.
Di conseguenza, io sono stanco. Davvero. Ma ufficialmente non posso dirlo.
Stefan fa un gran casino quando si lascia cadere pesantemente accanto a me. Il cuscino sistemato sulla panca si abbassa e slitta un po’ sul legno, lui si sistema contro il tavolo e mi gira lo sguardo addosso, anche se io non posso vederlo.
Infatti non lo vedo, ma lo so.
-Hai intenzione di restare con la faccia incollata al vetro finché la tua pelle non si fonderà con il finestrino?
È un’immagine disgustosa. Penso che dovrei dirglielo, ma mi limito a storcere il naso senza muovermi e a mugugnare qualcosa di assolutamente incomprensibile, che vorrebbe essere una protesta risentita.
Sono patetico.
Stefan sospira, si rimette dritto, so che sta scambiando un’occhiata con Steve. Lo so anche perché Steve smette per un attimo di giocare con quelle dannate bacchette e libera la mia mente dall’orrido e ripetuto ticchettio che ha prodotto finora. Presumibilmente Stefan gli sta chiedendo con lo sguardo cosa
diavolo devono fare con me. Quasi certamente Steve gli sta rispondendo con un’alzata di spalle.
-Brian!- mi richiama Stefan con una certa urgenza. Mugugno di nuovo una cosa molto simile alla precedente, che stavolta vorrebbe essere un’attestazione di presenza…Il mio vocabolario si sta riducendo incredibilmente in questi pochi minuti.- O.k., senti.- Sento. Ma lui ci pensa su. Si ferma un attimo e raccoglie le idee. Nel frattempo io colgo l’immagine del deserto che sfila contro di noi. Poi il profilo di un altro autobus, leggo il nome del gruppo sulla fiancata quando ci superano. Il deserto ritorna nel mio spazio visivo…- C’è qualcosa che possiamo fare io e Steve per tirarti su di morale?- s’informa Stef alla fine.
-No.- borbotto appena.
La prima parola di senso compiuto da non ricordo quante ore.
Un altro sospiro. Adesso Stefan sta puntando Alex. Lei è seduta nel posto più lontano del tour bus. Si ricambiano lo sguardo, lei scuote il capo dicendogli di lasciarmi perdere. Mi passerà.
Ha ragione lei, è chiaro. Credo che nessuno, a parte i cavalli, sia mai davvero morto di stanchezza.
Solo che Stefan non accetta di lasciarmi perdere. Per lui occuparsi di me è una priorità, una necessità indefettibile. A volte questa cosa mi fa piacere. Altre volte mi sfinisce, esaurendo le mie ultime energie. Come questa volta…
-Senti, Bri.- Tono carezzevole, giusto per farmi sentire che è preoccupato per me e che, quindi, sarebbe carino che io gli dessi quel minimo di attenzione necessario a rassicurarlo. Mi ci sforzo, mi tiro un po’ più su sulla panca, rimetto le spalle in asse con il resto del corpo e stacco la fronte dal finestrino.- Lo so che siamo tutti a pezzi e che non vediamo l’ora di tornare a casa, ma dobbiamo tenere duro ancora un po’.
Borbotto qualcosa che non so nemmeno io cosa sia. Forse un assenso, forse una nuova protesta. Suscito l’ennesimo respiro profondo da parte di Stef. Lui mi guarda, io non alzo il viso ma tanto i suoi occhi li sento anche a metri e metri di distanza, anche quando sto facendo tutt’altro e non ho neppure voglia di voltarmi a sincerarmi che lui sia davvero lì…
C’è questo silenzio che si protrae un po’. Steve ridacchia, Stefan gli sibila di piantarla, aggiunge che è un cretino e che dovrebbe aiutarlo invece di ridere. Steve gli dice che si preoccupa troppo e si alza per andarsi a prendere una birra dal mini frigorifero. Torna indietro con tre bottiglie, ne posa una davanti a Stefan, l’altra me la apre e la allunga verso il mio viso.
-Grazie.- mormoro sollevando gli occhi su di lui mentre prendo la birra dalle sue mani.
Mi sorride come a dirmi che non importa.
-Beh, almeno guarda che bel tramonto.- prova ancora Stefan, cercando invano di scuotermi dalla mia apatia.
Mi volto. Oltre il finestrino si allunga una striscia rosa sull’orizzonte. Una parte del vetro, illuminata direttamente dalle luci del tour bus, mi rimanda il mio volto disfatto.
-Ne ho visti di più belli.- sussurro sollevando la macchina fotografica e fermando il tempo.
***
La fotografia è una “cosa” di Helena.
In una relazione, inevitabilmente, le persone prendono qualcosa le une dalle altre. Io ho preso da Helena molto più di quanto le abbia dato ed alla fine l’unica cosa che le riconosco è questa. Lo penso mentre soppeso la macchina fotografica sul palmo della mano.
Fuori si è fatto tutto buio. Ci sono solo le stelle ed i fari della nostra piccola carovana di autobus e camion ad illuminare la strada che passa attraverso il deserto. Io sono l’unico qui dietro ancora sveglio. Stefan se n’è andato a dormire da poco; Steve sonnecchia su un divanetto, ogni tanto si rigira, apre un occhio e mi brontola qualcosa, poi crolla di nuovo senza pretendere una risposta. Alex è in cabina guida, stava ascoltando musica con l’autista fino ad una decina di minuti fa, ora mi arrivano di tanto in tanto le loro risate e qualche battuta a voce alta. Mi ha chiesto se volevo sedermi con loro, ho risposto che preferivo restare ed andare a dormire anche io.
Helena è uscita dalla mia vita da un po’ ormai.
Helena ed io ci siamo lasciati in modo civile, seduti dentro un caffè, sorridendoci mentre ci dicevamo “addio”.
Ha fatto male lo stesso. Ma non a me.
Io da lei avevo già preso tutto quello che volevo. Il mio nuovo equilibrio, la mia nuova pace interiore, la mia nuova capacità di accettare e di farmi accettare dagli altri.
Lei da me voleva solo una
cosa, ma quella davvero non poteva dargliela. Perché io non l’amavo, ed alla fine doveva accorgersene, doveva capire le mie bugie e la mia falsità, nascosta dietro lo zucchero. E dirmi che era finita lì. Com’è finita, infatti.
Sì, sembra strano a me per primo. È stata lei a lasciarmi, lei a dirmi che tra noi non c’era nulla, quando il nulla ero solo io. Il fatto che sia stata lei ha reso possibile che entrambi sorridessimo quando ci siamo alzati da quel tavolo dentro il caffè.
Da allora sono stato felice. Lo ero anche con lei, ma in modo diverso. Quel modo ordinario e pervicace delle storie serie ma senza anima. Lei mi aveva curato, io le ero riconoscente, ero vivo grazie a lei ed ero felice di questo.
Ma è stato solo quando lui è entrato nella mia esistenza che ho capito davvero che fino a quel momento ero
sopravvissuto. E basta.
Suona il cellulare. Mi strappa ai ricordi. Poso la macchina fotografica davanti a me sul ripiano chiaro, spingo le dita nella tasca dei jeans e riesco con difficoltà a tirar fuori il telefono. Leggo il nome sul display mentre la suoneria sveglia di nuovo Steve. Solleva la testa e mi guarda, contrariato.
-Digli che non può rompere quando qui sono le tre di notte e noi domani abbiamo un concerto!- sbotta prima di lasciarsi ricadere sui cuscini.
Sorrido. Improvvisamente mi sento meno stanco.
-Matt.- chiamo rivolto alla persona dall’altro immaginario capo dell’apparecchio.
Ridacchia e poi tira un respiro profondo. Come se avesse davvero bisogno d’aria.
…Come se quell’aria fossi io.
-Brian!- esclama alla fine.- Dove sei?- mi chiede subito dopo con urgenza.
Ridacchio anch’io.
-Da qualche parte, in un deserto “x” qualunque, in uno stato a caso degli USA.- riassumo ricominciando a fissare il paesaggio oltre il vetro.
Adesso che è veramente buio riesco a vedere quasi solo il mio profilo. O quello dei mobili, che sembrano arancione sotto la luce artificiale. Vedo il divanetto su cui Steve ha ricominciato a dormire, la bottiglia di birra che Stefan ha mollato a metà. La mia ormai vuota. La macchina fotografica con l’obiettivo serrato ed il laccio logoro che mi ricade addosso oltre il bordo del tavolo.
-Uno Stato a caso?!- ripete Matt.
Sento che ne sta combinando qualcuna. Mi arrivano il rumore dei suoi passi e poi dei suoni sordi, come se spostasse qualcosa che cadendo produce un tonfo leggero. Mi piacerebbe chiedergli cosa sta facendo, ma preferisco aspettare. Matt è un mago, sapete? Sa fare piccole magie. Riesce a fare apparire cose meravigliose dal nulla. Ma se gli chiedi ad alta voce cosa sta facendo e lui ti risponde, allora la magia non funziona più.
I rumori finiscono. Ha una voce allegra ed eccitata quasi quanto quella di un bambino, quando riprende a parlare.
-Sai cosa ho comprato oggi?- mi domanda.
-No…- rispondo io. Alzo una gamba ed incastro il ginocchio contro il tavolo posandoci sopra il gomito.
-Un atlante degli Stati Uniti d’America.- mi spiega.
-Cosa dovresti farci?- chiedo stupito.
-Beh, come cosa?!- sbotta lui, deluso.- Ci seguo le tappe del Festival!
Rido.
-Matt!- lo richiamo.
Mi vengono in mente un centinaio di cose da dirgli, suonano tutte come una sorta di rimprovero. Mi fermo a metà quando mi rendo conto che sono altrettante scuse per non ammettere quanto mi faccia piacere questa sua idea.
Sì, Matt è un mago.
“E questa è una delle sue magie”, penso mentre mi sistemo contro lo schienale della panca e lo lascio continuare senza più contraddirlo.
-Ho preso una scatola enorme di pennarelli colorati…- si ferma e ci ripensa- O.k., i pennarelli li avevo presi per altro in realtà.- precisa.
-Cosa?
-Mah. Volevo fare una specie di disegno da appendere sul palco nelle prossime date, ma è venuto una schifezza!- confessa ridendo.- Allora ho deciso che potevo utilizzarli in un altro modo e, quando ho capito che Dom non apprezzava che ci colorassi i contorni della sua batteria…
-Come diavolo hai fatto a sopravvivergli?!- sbotto ridendo anch’io.
-Semplicemente si è vendicato su una delle mie chitarre!- mi risponde lui.- Ci ha fatto i baffi, Brian! Ti rendi conto?!- mi chiede come se da questo dipendesse la sua vita.- I baffi e poi…tipo…degli occhiali da sole o qualcosa del genere. Insomma, adesso ha una faccia e…
-I pennarelli sono indelebili?- domando io, passandomi le dita sugli occhi per scacciare via quel po’ di stanchezza che rimane. Voglio parlare con lui ancora un po’…
-Ma và!- ritorce lui. Non sembra particolarmente arrabbiato, ma del resto ormai l’ho capito che lui e Dominic hanno un loro linguaggio personale per comunicare, fatto anche di piccoli dispetti da ragazzini.- Ovviamente andranno via comunque, ma chiaramente adesso passiamo tutte le prove ad insultarci vicendevolmente ed a guardarci in cagnesco. Chris e Tom ci odiano già.
-Immagino.- soffio appena, sorridendo. Mi rilassa immensamente sentirlo parlare.- Allora dimmi, quando hai capito che Dom non gradiva la tua arte, cosa hai fatto dei pennarelli?- m’informo.
-Ah sì.- Riacchiappa qualcosa, un altro rumore, probabilmente l’atlante gli era scivolato, perché quando ci batte su la mano riconosco il rumore delle pagine e del cartonato plastificato della copertina.- Ho deciso che potevo segnarci le date del vostro tour. Tipo, in rosso le date del Festival, in blu quelle del tour di “Meds” e, quando andate via da una tappa, ci metto un segno verde. Poi indico anche i giorni che passate in ogni città e…
-Matt.
Si interrompe ed aspetta.
Io prendo fiato. Una. Due volte. Prendo fiato e glielo dico.
-Non dovresti.
Il suo silenzio fa più male di quanto pensassi. Ora so cosa ha provato Helena quel giorno, lo so perché adesso sì che sono innamorato. E quindi so cosa vuol dire avere paura.
-Sei un cretino, Brian.- mi risponde lui con una serietà che gli è totalmente inusuale.
-…già.
Un altro silenzio. Nel vuoto che lascia ci si potrebbero infilare migliaia di pensieri. Ma la mia mente si ostina a non farcene entrare nemmeno uno, perché è come se ciascuno di quelli che si affacciano iniziasse con “se lui non ci fosse…”. Ed io in realtà non voglio nemmeno pensare alla possibilità che lui non ci sia.
-Sai che tra tredici giorni tornerete in Europa?- mi chiede alla fine.
“…tredici giorni…”
-E voi andrete in Australia.- rispondo io.
-No, solo ad ottobre. A settembre siamo in Europa come voi.
-Est Europa.- correggo.- E noi in sala prove.
-Beh, come noi adesso.
Respiriamo con lo stesso ritmo. Qualcosa di terribile se non fosse meraviglioso. E ridiamo nello stesso momento, come due idioti.
-Che schifo di lavoro!- commenta lui per primo.
-Non ti credi nemmeno tu quando lo dici!- ribatto io.
-L’anno prossimo vacanze insieme!- pretende.
-L’anno prossimo si vedrà.- sminuisco.
-Tu non mi ami abbastanza!- protesta lui.
-Non vedo neppure perché dovrei farlo…- ci scherzo io.
-…Vuoi andare a dormire, cretino?! Domani devi lavorare!- sbotta Matt arrabbiato.
“No, Matt. Voglio parlare ancora un po’…”
-Sì,
papà, vado a dormire, promesso.- sorrido invece.
-Ecco!
Quando riattacco e guardo di nuovo fuori dal finestrino, mi dico che avrei dovuto chiedergli dove siamo - “Guarda sul tuo atlante, Matt, dimmi se mi vedi” - invece non l’ho fatto, forse per paura che lui me lo dicesse davvero. Che puntasse il dito su un deserto “x” qualunque di uno Stato a caso e mi dicesse “sei qui”. E potesse avere ragione.
-Che ne dici se ora mantieni la tua promessa?
Mi volto verso Stefan, che mi guarda e sorride. Ricambio il suo sorriso e scivolo lungo la panca per uscire da dietro il tavolino.
-A che ora arriviamo domani?
-Alle dieci.- risponde lui sbadigliando.
-Dovremmo svegliare Steve e mettere a letto anche lui.- noto distrattamente, mentre passiamo per raggiungere la zona notte.
-Io non ci provo nemmeno, l’ultima volta mi stavo beccando un cazzotto sul naso!- ricorda Stefan, gettando un’occhiata a Steve.
-Questo perché lui ha aperto gli occhi e si è ritrovato il tuo brutto muso davanti. Invece, se lo sveglio io…- comincio ad argomentare con saccenteria, ma badando a tenermi lontano dal
nostro batterista.
Stefan mi manda cortesemente a cagare e si infila risoluto nella propria cuccetta. Mi stendo anch’io e fisso il tettuccio del tour bus.
-Stefan.- chiamo. Lui brontola qualcosa per farmi capire che mi ascolta.- Che
cazzo ci facevi ancora sveglio?- domando.
-Mi assicuravo che non cercassi di strozzarti con il laccio della macchina fotografica.- sospira girandosi verso la parete- Ed ora
dormi, Brian! Dannazione a te!
Ridacchio e lo imito, arrotolandomi nelle coperte.
-‘Notte, Stef.
-‘Notte, insopportabile scocciatore dell’esistenza altrui.- mi risponde, prendendosi immediatamente una cuscinata addosso.
-Stronzo!- gli strillo contro.
-Fanculo!- ritorce lui restituendomi il favore.
-Volete dormire?!- strepita Steve, svegliandosi di botto e ripiombando nell’incoscienza quasi nello stesso momento.
-Come accidenti ci riesce secondo te?!- protesto fissando sconvolto Steve riprendere a russare come se niente fosse.
-Non è umano, è evidente.- afferma Stefan, annuendo convinto.- Ora, però, ti prego, Brian, dormiamo davvero!- m’implora, lasciandosi ricadere sul materasso.
-Sì sì.- borbotto stendendomi di nuovo anch’io.
-E dì a Bellamy di chiamarti di giorno, se ci riesce.
-Mi chiama quando vuole.
-Sei una
ragazzina.
-E tu sei stronzo.
-Lo hai già detto.
-Beh, volevo ribadirlo.
-Se non dormite, giuro che vengo lì e vi “addormento” io.- s’intromette Steve.
***
Sedevo sul fondo del backstage. Avevamo appena finito di esibirci, ero felice di come fosse andata, ancora assordato dalle urla dei fan sotto il palco, sereno dopo che la mia storia con Helena era finita appena quattro giorni prima.
Stefan e Steve erano spariti da qualche parte. Dopo i concerti hanno ognuno il proprio rituale. Stefan ama continuare il bagno di folla, raggiungendo i fan per le foto, gli autografi, i complimenti a voce e tutto quanto ne consegue. Steve doveva essere corso a chiamare la moglie e la figlia.
Io non avevo niente da fare. Quattro giorni prima sarei stato attaccato ad un cellulare anch’io, ma in quel momento potevo starmene seduto a terra, contro le casse della strumentazione, con il cellulare effettivamente in mano e nessuno da chiamare.
Helena mi aveva fatto un regalo enorme. Fino a prima di lei questa mia condizione mi avrebbe gettato nello sconforto… in quel momento dentro di me c’era invece solo una luminosità calda e profonda.
Mi venne incontro direttamente dalla zona del palco. Aveva le mani in tasca e sorrideva, teneva gli occhi fissi su di me, quasi volesse farmi capire che mi cercava, che era proprio me che voleva. M’incuriosì, fino a quel momento non ci eravamo mai nemmeno scambiati due parole. Ero convinto che ci stessimo evitando, una di quelle convinzioni silenziose che si creano e che ci portano a parlare di “taciti accordi”. Il nostro accordo avrebbe dovuto prevedere che ognuno di noi due ignorasse l’altro. Lui lo stava per violare.
Si fermò davanti a me e mi guardò senza sfilare le mani dalle tasche dei pantaloni. Io ricambiai il suo sguardo ed attesi.
Quando parlò non mi sembrò davvero che avesse violato alcunché.
-Complimenti.- mi disse.
-Grazie.
-È stata un’ottima performance.
Mi strinsi nelle spalle, ripetere “grazie” era privo di senso. Non c’era ironia nella sua voce, non provavo alcuna avversione o fastidio nel rimanere seduto a parlare con lui. Già questo mi stupì.
-Noi ci esibiamo tra poco.- Lo sapevo, annuii.- Resti a guardarmi?
Rimasi sbigottito. Aprii la bocca annaspando. Lui mi fissava con un candore tale da darmi il capogiro e nemmeno si rendeva conto – credo – di quanto assurdo fosse quello che mi aveva appena domandato.
Sarebbe stato già tanto se lui mi avesse chiesto di rimanere per sentire
loro. Ma mi aveva appena chiesto di rimanere a guardare
lui. E nel farlo mi aveva fissato con la stessa espressione che io usavo da bambino, quando correvo da mio padre a mostrargli i voti presi a scuola, in cerca della sua approvazione.
In quel momento capii che, tutte le volte che Matthew Bellamy aveva detto di stimare me e la mia band, non aveva mentito. A differenza mia.
Che, quando gli avevo consegnato il premio agli EMA del 2004 e lui mi aveva abbracciato per ringraziarmi, non aveva mentito. A differenza mia.
…che, quando mi aveva fatto i complimenti poco prima, non aveva mentito.
Ma lì nemmeno io nel dirgli “grazie”.
Fu il senso di colpa a farmi accettare di restare. Provavo una vergogna terribile al pensiero di quanto ero stato meschino fino a quel momento. Guardai la sua esibizione, mi fermai anche dopo, quando mi invitò ad andare
con lui al party che si teneva dopo il concerto; mi fermai con lui anche al party, mentre tutti gli altri intorno ci guardavano come se fossimo impazziti. E forse lo eravamo. Io rimanevo al suo fianco, lo ascoltavo parlare a raffica come il suo solito, e per una volta – la
prima in questa assurda storia – non ne trovavo la voce sgradevole, il tono spiacevole, le parole stizzenti. Trovavo la sua presenza confortante.
So che non fu l’alcool – come mi giustificai il giorno dopo con Steve e Stefan – a farmi accettare il suo invito a casa. So che ero perfettamente padrone di me, mentre lo guardavo balbettare qualche scusa ridicola sul fatto che voleva il mio parere su alcuni lavori incompiuti. E so che ero perfettamente padrone di me anche quando acconsentii, ben sapendo che si stava nascondendo, ed anche male, e che i suoi occhi azzurri finivano per tradirlo più della sua incapacità di mentire.
Per questo, e per rendergli più facile
il resto, fui io a baciarlo quando arrivammo a casa sua e lui ebbe richiuso la porta dietro di noi.
Ricordo che mi disse impacciato che non aveva mai fatto sesso con un uomo. Lo disse subito, ed io risi divertito da questa sua sincerità e dal fatto che riuscisse a mettere nero su bianco quello che voleva senza esserne veramente imbarazzato. In fondo a parte il mio bacio non avevo ancora ammesso di avere voglia di lui. Potevo tranquillamente prenderlo in giro, mollarlo lì ed andarmene. Lui non ne aveva paura. O più semplicemente, a differenza della maggior parte delle persone comuni, lui era disposto a rischiare di essere sincero.
Non posso davvero negare che fu questo a conquistarmi. Se lui fosse stato appena meno sincero, appena più interessato, quella notte sarebbe rimasta solo un episodio della mia vita, come negli anni se ne erano succeduti tanti. Ma Matthew Bellamy era quello che io vedevo e quello che vedevo mi aveva già strappato l’anima.
Mi si avvicinò quasi con timore, guardandomi attentamente, come non sapesse neanche cosa aspettarsi da me. Continuò a guardarmi a quel modo anche quando cademmo con un tonfo pesante sul letto – senza spingerci, senza fretta, sfiorammo il materasso con le gambe dopo aver vagato alla cieca lungo tutto il corridoio e buona parte della camera da letto, e semplicemente ci lasciammo cadere lì come foglie – continuò a guardarmi a quel modo sbottonando la mia camicia, scivolandomi addosso con i polpastrelli, sfilando la cintura dai jeans dopo averla sfibbiata. Continuò a guardarmi a quel modo anche quando rimasi completamente nudo fra le sue mani, come avesse paura che potessi improvvisamente trasformarmi in qualcos’altro o scomparire in una nuvola di vapore.
Continuò a guardarmi e lo guardai anch’io. E quando i suoi occhi incontrarono i miei, lui sorrise appena, imbarazzato, chiedendomi se mi stesse dando fastidio, se fosse troppo lento o troppo veloce. Capii che voleva essere rassicurato, ma non potevo realmente dirgli che nonostante i movimenti maldestri era così perfetto da farmi pensare avesse studiato quei momenti nel dettaglio per fare in modo che si adattassero perfettamente ai miei desideri.
Adoravo che mi guardasse in quel modo, adoravo che i suoi occhi irradiassero quel tipo di venerazione che riservi alle cose nuove che trovi stupende al punto da toglierti il fiato. Adoravo che mi toccasse piano, lievemente, come fosse spaventato.
…adoravo che mi toccasse.
E no, non potevo dirglielo, perché erano solo dieci ore e qualcosa che ci conoscevamo. Ed anche se per lui non sembrava passato troppo poco tempo per mettersi nelle mie mani in quel modo, per me era ancora troppo, troppo
presto.
Mi limitai a sollevarmi sui gomiti e baciarlo, attirandolo a me con una mano sulla nuca, sperando che decidesse di lasciare da parte le insicurezze e si lasciasse un po’ andare.
Lo fece.
Affondò con un sospiro sollevato il viso nell’incavo fra il mio collo e la mia spalla, baciandomi lievemente in una scia bagnata e morbida che viaggiava verso il petto. Sembrava stesse seguendo una mappa ideale, toccando tutti i punti più sensibili del mio corpo, come volesse registrare le mie reazioni e imparare a muoversi nel modo giusto.
Come si stesse preparando ad altre milioni di volte.
E nessuno dei sospiri che mi sfuggirono dalle labbra, nessun ansito, nessun gemito, nessun movimento improvviso del mio corpo, nessun accenno di spinta verso di lui, niente fu falso, non simulai niente, non forzai nulla solo per compiacerlo; e quando mi morsi le labbra per non urlare, fu solo perché se non l’avessi fatto avrei urlato davvero; e quando mi aggrappai alle sue spalle per non cadere, fu solo perché se non l’avessi fatto sarei caduto davvero; e quando lui mi si strinse addosso, e chiamò il mio nome mentre veniva, io chiamai il suo. E non fu perché durante il sesso sono
cose che si fanno. Fu perché lui era lì. E stava godendo per me, con me, dentro di me. Ed io facevo lo stesso. E ringraziarlo – per tutto,
tutto – era davvero il minimo che potessi fare.
***
Vedevo i suoi occhi. Erano limpidi al punto da risplendere anche al buio. La luce della luna filtrava dalla finestra spalancata e lui mi guardava, perché quell’azzurro chiaro e brillante era fisso su di me. Mi guardava, appoggiato con i gomiti al cuscino, il busto sollevato, mi studiava come se fossi stato un’insolita opera d’arte caduta sul suo letto…
-…cosa?- mormorai alla fine.
Sorrise, penso, perché il suo sorriso fece un rumore divertente, come uno sbuffo leggero di fiato. Per un momento gli occhi si chiusero e poi tornarono a guardarmi.
Ma non mi ripose.
-Matt.- chiamai a bassa voce, sorpreso io per primo di come fosse stato facile prendere confidenza con un diminuitivo. Come se fossimo amici da sempre. Amanti da tutta la vita. Respirai e sollevai lo sguardo a ricambiare il suo attraverso la penombra. Mi chiesi se anche i miei occhi riuscivano ad essere così limpidi al buio- Che intenzioni hai adesso?
Non so perché glielo chiesi, ma immagino avesse a che fare con la consapevolezza che lui non sarebbe mai riuscito a rivolgermi quella domanda. La mia risposta la conoscevo già, volevo che tutto quello fosse più di una notte. La sua mi rigirava in testa dandomi un leggero capogiro, come se avessi le vertigini e rischiassi da un momento all’altro di cadere giù.
-Serie.- mi rispose lui come se stessimo discutendo di una cosa perfettamente ordinaria. Del tempo. Del tour. Dei progetti per il giorno dopo. Poggiò la guancia su una mano e mi fissò con il viso inclinato, aspettando.
Divenne urgente assicurarmi che avesse capito davvero.
-Sai di cosa sto parlando, Matthew?- ribadii, sentendo il mio tono alzarsi impercettibilmente, dandomi l’esatta misura dell’ansia che mi agitava. Annuì per interrompermi, ma non lo feci lo stesso.- Sto parlando di stare insieme. Sto parlando di sopportarci l’un l’altro ogni volta che uno di noi due starà male, che avrà voglia di urlare, di rendersi impossibile ed insopportabile. Sto parlando di dormire assieme e svegliarsi assieme la mattina dopo, sto parlando di imparare a capirsi anche quando non si parla, di riuscire ad intendere i silenzi anche quando si fanno pesanti, di superarli nonostante non se ne abbia la voglia. Sto parlando di dire al mondo che tu sei me ed io sono te, di ammetterlo davanti ai nostri amici, di farlo accettare a loro ed a chiunque altro e…
-Stai parlando troppo.- mi mormorò lui, piano.
Lo disse in un modo tanto quieto da zittirmi. Un tono fioco e sottile, che non perse di forza per essere così labile, ma acquistò di gentilezza e di delicatezza nell’infilarsi tra le mie paure ed i miei dubbi.
Sentii un nodo serrarmi la gola comunque, e somigliava fin troppo ad un pianto trattenuto.
-Tu mi hai chiesto che intenzioni io abbia, ed io posso risponderti solo su questo.- mi spiegò pacatamente lui- E ti rispondo che le mie intenzioni hanno a che fare con il non lasciarti uscire da qui per non tornare più.- ammise stringendosi nelle spalle- Il resto non lo so, Brian, e nemmeno me lo chiedo ora come ora.
Vorrei chiedermelo io per tutti e due…
Ed invece rimasi a fissarlo, le labbra schiuse su una frase che non ho mai detto. E, invece di chiedermelo per entrambi, ho smesso del tutto di farlo.
Ricordo che il mattino dopo quando mi svegliai ancora tra le sue coperte, lui era già uscito. Lo scoprii dopo un po’, quando tornò in camera da letto, vestito di tutto punto, con un vassoio e con i croissant appena sfornati ancora in un pacchetto. Risi, perché mi sentivo idiota nel ritrovarmi ad avere un uomo che mi portava la colazione a letto. Lui rise con me, rendendosi conto che era davvero ridicolo. Ma poi c’era una confusione terribile su quel vassoio, le tazze del caffè rischiarono almeno un paio di volte di cadere e Matt aveva dimenticato – grazie al cielo – sia i fiori, sia la spremuta d’arancia o la marmellata con le fette biscottate, e tutto questo bastò a rimettere le cose in ordine, mentre mi tiravo a sedere e lui si metteva di fianco a me, incrociando le gambe come un bambino e posando il vassoio tra noi.
Non ricordo, invece, di cosa parlammo. Sciocchezze, penso. E già pensare questo mi basta, e non riesco a ricordare altro. Mi basta perché era l’inizio della nostra abitudinarietà, la confidenza che si crea nelle coppie un pezzo alla volta e che è fatta anche di discorsi futili dimenticati subito dopo che si esce dalla porta di casa.
Quando uscii dalla porta di casa sua quel mattino, lui era con me.
Doveva andare agli Studi della Universal, ci salutammo sul portone ed io presi un taxi per farmi riaccompagnare. Sorridevo ancora quando scesi dall’auto ed attraversai la strada.
-Brian!
Sollevai lo sguardo, abbastanza stupito. E se già dovevo trovare assurdo sentire la voce di Stefan a quell’ora del mattino davanti casa mia, fui ancora più stupito quando me li ritrovai lì entrambi. Stef a braccia conserte sul petto e con un’espressione tutt’altro che amichevole in faccia e Steve che mi guardava divertito.
-Che accidenti ci fate qui?- chiesi d’istinto.
-Che accidenti ci facevi
tu fuori casa?!- strillò Stefan furioso- E perché
diamine sei vestito come ieri?! E soprattutto,
dove accidenti sei finito ieri?!
Sbattei le palpebre, realizzando che era palesemente preoccupato per me.
-Stef, ho trentacinque anni…- feci notare.
-E non sei capace di badare a te stesso, è evidente!- strepitò lui senza neppure ascoltarmi.- Ti abbiamo cercato tutta la notte! Eravamo in pensiero per te! Potevi almeno…che so! fare una telefonata! O quanto meno
rispondere al telefono!
Tirai fuori dalla tasca del cappotto il cellulare e mi accorsi che effettivamente mi avevano chiamato più volte.
-Ahah- registrai indifferente.- Sono vivo. Posso andare a dormire?- chiesi educatamente.
-Avresti già dovuto essere a dormire!- ci tenne a specificare lui.- Avresti dovuto aprire la porta in pigiama, urlare contro di noi che le dieci del mattino non sono un orario accettabile per essere svegliati e poi invitarci ad affogarci in un caffè!
-Hai di me una visione orribile.- notai perplesso.
-Non c’entra!
Scrollai le spalle, infastidito dal protrarsi inutile di quella discussione.
-Comunque io sono già affogato in un caffè per stamattina.- ammisi semplicemente, tirando fuori dalla tasca anche le chiavi per aprire il portone.- A casa di Matt.- specificai.
Stefan mi fissò come se non potesse credere che fossi proprio io, vivo, vegeto ed in carne ed ossa, davanti a lui. Steve si accodò a lui per un momento. Poi scoppiò a ridacchiare come un ragazzino – ed io lo seguii praticamente subito – e commentò.
-Allora era vero…
Stefan si voltò verso di lui, continuando a mantenere la stessa espressione sconvolta.
-Non dire “allora è vero” come se fosse una cosa normale…- lo pregò in un soffio strozzato.- Brian!- chiamò poi, voltandosi. Sbuffai e mi feci spazio per andare ad aprire- Cos’è questa storia? Vi hanno visti tutti al party ieri sera, ma io non posso credere che davvero tu e Bellamy…- non finì la frase, come se la sola idea fosse inconcepibile. Aprii il portone appoggiandomici con la schiena e li guardai, invitandoli silenziosamente ad entrare- Insomma, voi due vi odiavate fino a ieri!-mi ricordò alla fine.
Ci pensai su, spingendo il portone finché non urtò contro il muro, e rimasi lì appoggiato aspettando che loro sfilassero davanti a me.
-No, ci sbagliavamo tutti su quello.- spiegai quindi.
Steve rise di nuovo, facendo risuonare tutto l’atrio del palazzo, provai a dirgli di piantarla, ma siccome lo feci ridendo anch’io non servì a molto. Stefan invece mi guardò. Mi guardò attentamente per un bel po’ di tempo. Poi non disse più nulla e seguì Steve fino all’ascensore.
***
Nota di fine capitolo della Nai:
…bah.
E’ il concetto che credo renda meglio il perché di questa storia.
Giusto per dovere di cronaca, comunque, dico subito che il titolo è rubato a parte del titolo – chilometrico – con cui il Sig. Molko ha identificato una “graziosa” rassegna fotografica da lui realizzata durante il tour.
Il titolo completo è perfino più deprimente del pezzetto scelto! ^_^
Al momento l’unico “perché” della scelta è dato dal fatto che mi piacesse l’idea di un Brian Molko che dichiara al mondo di essere stato preso in trappola in una bottiglia. Come un genio o un folletto.
Ma sto divagando e, siccome devo lasciare spazio alla Liz per la sua nota di fine capitolo, mi interrompo qui.
Spero che vi sia piaciuto, avevo bisogno di zucchero e questa storiella a capitoli – leggera ed inconsistente – è zucchero e poco altro. Un po’ di sano romanticismo ogni tanto fa bene al cuore *_*
Inoltre sono così felice che la Liz abbia deciso di assecondare questa follia e collaborare alla sua realizzazione che penso piangerò di gioia (ç_ç) e desidero dichiararle pubblicamente il mio eterno amore!!!
Detto questo. Un bacio ed al prossimo capitolo!
Nota di fine capitolo della liz:
…amore a parte è___é Anche io sono molto felice di aver assecondato questa follia e…
…anzi, no, amore a parte il cavolo: questa storia È amore <3 È tipo la personificazione dell’amore romantico come lo intendo io nei miei sogni di gloria *.* Ed è fantastico che la Nai sia riuscita a partorire una cosa simile… peraltro tutta da sola <_< Non credetele, quando mi dà i meriti: la maggior parte delle volte mi arrogo meriti non miei perché lei scrive cose talmente belle che poi mi ispirano a scriverci su dando il massimo ù.ù *sì, in questo consiste il mio aiuto*
Comunque, comunque. Anche se ancora non si vede, per i capitoli futuri avrete di che odiarmi *-* *risata malvagia*
*scompare in dissolvenza*