telefilm: vito portanova

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Rosy/Vito.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Het, Spoiler per i primi episodi della s3.
- Impossibilitato a muoversi e nascosto nella villa di Geraci, Vito si gode il caldo di Palermo. E la sua Regina.
Note: Ogni tanto mi guardo allo specchio e vorrei sputarmi in un occhio. #noteconcise
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YOU SET THE WORLD ON FIRE

Vito il caldo lo conosce, lo conosce bene. A Napoli può farsi esasperante, in certi periodi dell’anno. Ad agosto, ad esempio, quando pure la pelle che tieni sulle ossa ti sembra troppo pesante e vorresti riuscire a strappartela di dosso come una maglietta vecchia, e dai marciapiedi ingombri di monnezza viene su un tanfo insopportabile che ti dà la nausea, ed anche il più piccolo movimento pare un sacrificio enorme, inaccettabile, ecco, quello sì che è caldo. Il caldo che ti si infila nelle narici e nella bocca, che quasi ti fa venir voglia di smettere di respirare per non mandar giù ogni volta bocconi di aria rovente.
Quello sì che è caldo. Quello sì che era caldo, si dice adesso, steso sulla sdraio sistemata praticamente in mezzo al piazzale antistante la villa all’interno del quale, ormai da un paio di mesi, è generosamente ospitato da Geraci e quella matta di Rosy Abate. Mentre la stoffa plastificata della sedia gli si appiccica dolorosamente addosso, costringendolo a penosi schiocchi ogni volta che si solleva per evitare di fondercisi insieme, pensa che se quando stava a Napoli gli avessero netto che esisteva un caldo peggiore di quello, non ci avrebbe creduto. Si sarebbe messo a ridere. Cosa volete che esista di peggio, avrebbe detto, sentite l’afa soffocante, sentite il puzzo nauseabondo? Può esistere davvero qualcosa di più asfissiante dell’agosto napoletano?
Esiste. A Palermo. Ed è solo luglio.
Non c’è puzza di monnezza, in casa di Geraci, ma l’odore dei limoni maturi è tanto forte da stordirlo e nausearlo tanto quanto faceva il tanfo della sporcizia per le strade della sua città natale. Il cielo è giallastro, ricoperto delle nubi pesanti di umidità che il gran caldo del mattino ha risucchiato su dal mare, piazzandole davanti al sole senza per questo creare neanche un centimetro d’ombra. Tutto sembra aver preso il colore del terriccio polveroso che invade i piazzali e i sentieri di quella villa in mezzo ai campi. Immobile sotto quel sole imbruttito dalle nuvole, Vito se ne sente soffocare.
Annoiato, si passa una mano sul petto nudo e si concede una smorfia schifata quando le dita scivolano sulla patina di sudore appiccicoso che gli ricopre la pelle. L’aria della Sicilia è pesante, zuccherina sulla lingua, tanto da sdegnarlo, quasi. Se la sente addosso, vischiosa e umida come un sottile strato di fanghiglia. Rende difficoltosi tutti i suoi movimenti, perfino la sua capacità di pensare lucidamente. Ombre gelatinose si muovono dietro alle sue palpebre, quando le chiude. Le sente pesanti di sonno, ma sa di non potersi addormentare. Non lì, almeno, se non vuole ardere vivo. E neanche da nessun’altra parte, visto che il solo pensiero di andarsi a stendere sul letto con tutto ciò che questo comporterebbe – dover sopportare il peso delle lenzuola addosso, il calore emesso dall’imbottitura del cuscino e del materasso sulla pelle – lo disgusta.
È ormai quasi una settimana che non può scendere in città. Sente la mancanza delle gitarelle in incognito che si concedeva a Mondello, per una piacevole passeggiata in riva al mare, o al Giardino Inglese, per un giro pigro sotto le fronde ombrose degli enormi alberi secolari che ne riempiono le larghe aiuole, quando ancora nessuno sapeva che era arrivato a Palermo, quando ancora il suo nome non era finito su tutte le scrivanie dei commissariati della regione, quando ancora la sua faccia, in quel luogo, non era legata al suo cognome, non era che una fra le tante.
Sospira e fa per cambiare posizione sulla sedia un’altra volta, ben consapevole del fatto che non ne esista una più comoda ma allo stesso tempo ben deciso a continuare a cercarla anche per sempre, quando vede uno spicchio di stoffa scura a fiori entrare nel suo campo visivo. Rosy è finalmente uscita dalla cameretta di suo figlio, e Vito accoglie il fatto come un piacevole diversivo.
- Stavo pensando di andarmi a fare una passeggiata, in serata. – dice, senza rivolgerle un’occhiata diretta ma continuando a fissare il cielo in un punto abbastanza distante dal sole per non sentire gli occhi bruciare, - Magari dalle parti di Capaci. Posticino tranquillo. Tutta spiaggia. Chi vuoi che mi veda?
- No. – dice seccamente lei, e lui si volta a guardarla, di scatto.
Rosy non si siede, ma si appoggia al tavolo nel mezzo del piazzale, a qualche metro da lui, sventolandosi il viso con una mano. Il vestitino corto e scuro scopre quasi del tutto le sue lunghe cosce abbronzate, ed i bottoncini che lo tengono chiuso sul davanti sono tesi fino allo spasmo sul petto, all’altezza del seno duro e gonfio di latte. – È troppo pericoloso.
- Non mi conosce nessuno, là. – insiste lui, aggrottando le sopracciglia, - Non ne posso più di stare seduto qui a non fare un cazzo.
- E ti pare una brillante idea farti vedere in giro, invece? – obietta lei, sferzandolo con un’occhiataccia severa, - Devo ricordarti che la Mares ha la tua faccia in mano? Ci mette niente a metterti in galera e buttare via la chiave, quella. Devi farti furbo, Vito.
- E che me lo insegni tu come ci si fa furbi? – chiede lui, lanciandole un lungo sguardo pesante di fastidio e frustrazione.
- Sì, te lo insegno io. – risponde lei, sicura di sé, - Che pure a Napoli non mi pare che facessi tutta ‘sta gran vita.
- Rosali’, la vita che facevo a Napoli – ringhia Vito, alzandosi in piedi e raggiungendola di fronte al tavolino, al quale lei resta appoggiata senza fare una piega, guardandolo da sotto in su come una bambina impertinente, - non sono cazzi tuoi. Non sono venuto fino a qua per farmi pigliare per fesso. E neanche per non fare un cazzo tutto il giorno. Se voglio stare in prigione, me ne vado in una prigione vera, che almeno fa fresco.
- E vacci. – lo sfida Rosy, scostandosi appena dal tavolo per avanzare di qualche centimetro, a sufficienza da schiacciarsi contro di lui mentre le sue mani rimangono bene ancorate al bordo, - Vattinne. Credevo che fossi un uomo con le palle, - ghigna, una delle sue mani che immediatamente abbandona il tavolo per serrarsi fra le sue cosce, stringendo forte abbastanza da farsi sentire senza fare troppo male, - ma evidentemente mi sbagliavo.
Lui soffia indispettito, ed invece di staccarsela di dosso e mandarla per terra con un manrovescio, come vorrebbe fare, posa la propria mano sulla sua e la invita a stringere di più.
- Che le palle ci sono, lo sai. – le sussurra a pochi centimetri dalle labbra. Il suo respiro è infuocato come l’aria. Il profumo di Rosy, più forte di quello dei limoni. – È che cosa vuoi fartene che ancora non mi è chiaro.
Rosy sorride, un ghigno cattivo che sul suo viso dolce, da bambina, fa più paura di una pistola puntata in mezzo agli occhi. Stringe la presa sul cavallo dei suoi pantaloni, le dita sottili che premono contro la pelle sensibile e tesa, e poi lo lascia andare, allontanandolo con uno strattone deciso. Vito non se l’aspetta, e finisce sbalzato indietro di un paio di passi.
- Il bambino sta piangendo. – dice lei, sistemandosi la gonna perché le copra meglio le cosce. Sta ancora sorridendo. La villa è coperta da una coltre di silenzio così perfetto che si sentirebbe perfino il rumore delle nuvole che si strofinano fra loro, se si muovessero. Leonardo non sta piangendo, Leonardo probabilmente dorme sereno come non ha mai dormito, ma Rosy vuole una scusa per allontanarsi da Vito e vuole che Vito sappia che si tratta solo di una scusa, di una menzogna come un’altra, vuole che la veda mentire in modo che sappia che lei non prova la minima vergogna nel farlo con lui, anche quando la bugia è così palese.
È così che mantiene il controllo su di lui, facendolo impazzire con questi piccoli dettagli. Sa che un giorno non avrà più bisogno di tenerlo così sulla corda, sa che un giorno sarà lui a seguirla ovunque senza un fiato e senza neanche sentire il bisogno di un guinzaglio attaccato al collo, ma per ora è così che lo addestra, è così che lo addomestica, è così che lo doma. E lui, randagio com’è sempre stato, come tutti i randagi prova quasi un sottile piacere nel sentirsi privare della libertà delle strade in cambio di quel po’ di calore che Rosy gli concede.
Si volta, non vuole vederla andare via. La sente sorridere ancora mentre entra in casa, e lui decide di muoversi solo una volta rimasto solo. Torna a stendersi sulla sdraio, inforca gli occhiali da sole e riprende a guardare il cielo immobile. Come lui.