telefilm: rosalia abate

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico.
Pairing: Rosy/Domenico.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Angst, What If?, Het, Lemon, OC.
- Nonostante i mesi trascorsi in terapia, Rosy continua a non essere in grado di recuperare la memoria. La sua condizione pesa sulle spalle di Domenico più di quanto non sia sostenibile, e per questo motivo il commissario decide di allontanarsi dalla Duomo e dal lavoro sul campo per occuparsi solo di lei, dopo essere riuscito a farla inserire nel Programma di protezione testimoni. I due tornano a Palermo, stabilendosi in una villa sul mare all'Addaura, e sotto la protezione di due nuove identità provano ad inventarsi una nuova vita. Quella vecchia, però, bussa presto alle porte della memoria di Rosy.
Note: Scritta per la prima settimana del WRPG, ma soprattutto scritta perché DOLORE. Il Valsecchi ha deciso allegramente di prendere il nostro cuore e strapparcelo dal petto, e poi camminarci sopra ridendo malvagiamente, con questa sesta stagione. Questa in teoria doveva essere la fic in cui mi vendicavo della sua crudeltà facendo finire tutto bene, ma HA HA HA HA HA. Non è chiaramente mai stata un'opzione. *sospira tragicamente*
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A HEAVY CROSS YOU BEAR
a stubborn heart remains unchanged

Il dottor Randazzo lo guarda fisso negli occhi con quella franchezza che, Domenico l’ha imparato nel corso degli ultimi mesi, precede in genere una brutta notizia.
- Dottor Calcaterra, - dice, mentre Domenico stringe nervosamente i pugni sulle ginocchia, - Dobbiamo parlare.
Ci siamo, pensa lui. Solo questo. Ha quasi fatto il conto dei giorni fino ad oggi, sapeva che questo momento alla fine sarebbe arrivato, ha cercato di tenere lontano il pensiero perché gli fa una paura fottuta, ma da questo ufficio non può scappare, da questa sedia, dalla posizione rigida nella quale le parole dello psichiatra l’hanno pietrificato, dai suoi occhi carichi di onestà e rassegnazione.
Si fida del dottor Randazzo perché non gli ha mai detto stronzate. Fin da quando si sono incontrati la prima volta è sempre stato molto chiaro, “Dottor Calcaterra,” quel modo di ripetere il suo nome a bassa voce, guardandolo fisso negli occhi, esercitando su di lui l’unico tipo di controllo autoritario che Domenico sia mai stato in grado di accettare, quello della calma razionale e saldissima degli uomini più anziani, “Voglio che non si faccia illusioni, questa donna non sarà mai più la donna che ha conosciuto”. Di cui si è innamorato. “Farò del mio meglio, ma Rosy Abate è morta. Se un qualsiasi miglioramento potrà avere luogo, non le restituirà comunque ciò che ha perso.”
Ciò che ho perso io, o ciò che ha perso lei?, avrebbe voluto chiedergli. Non l’ha fatto perché si sarebbe sentito troppo esposto. Parlare di Rosy ha quell’effetto, su di lui. Lo fa sentire più che nudo. Scarnificato. Un mucchio d’ossa e nervi e tessuti sensibili esposto e pulsante, e Rosy è l’artiglio conficcato nella carne viva, l’artiglio dalla punta avvelenata che cambia il colore del suo sangue, lo rende nero, nero, gli confonde i pensieri, azzera la sua capacità di ragionare.
Non abbastanza, però, non abbastanza da potersi illudere che questo giorno non sarebbe mai arrivato. L’unica arma che ha avuto negli ultimi mesi, l’unica arma per combattere l’assoluta mancanza di lucidità di Rosy, è stata un’iperlucidità opposta che l’ha tenuto vigile e attento anche quando in teoria non avrebbe avuto motivo di esserlo. Non dorme per più di tre ore a notte da troppo tempo per poter contare i giorni, e non rilassa i muscoli delle spalle da tanto a lungo da aver dimenticato come ci si sente a lasciarsi andare, a sdraiarsi sul divano, magari con una birra in mano, accendere la televisione e lasciarsi stordire da qualche programma idiota in seconda serata.
Rosy non c’è. Non è da nessuna parte. Non in casa sua e forse neanche in quest’ospedale. Non è dietro gli occhi vuoti con cui guarda la luce del sole mentre filtra attraverso le tende chiare nella sua stanza e disegna arabeschi di pulviscolo impalpabile che piroetta a mezz’aria e si spettina tutto quando lei ci passa le dita in mezzo, non è dietro al sorriso evanescente con cui accoglie ogni estraneo, indipendentemente dal fatto che sia un estraneo davvero o lo sia diventato quando lei ha dimenticato se stessa, non è nei gesti nervosi, nella paura con cui si ritrae quando provano a toccarla, non è nelle domande educate ma insistenti con le quali ti bersaglia quando capisce che potresti dirle qualcosa in più su chi era prima, e non lo fai perché un uomo in camice bianco ti ha consigliato così.
Rosy non è lì. Non è qui. Non è a Catania, dov’è morto suo figlio. Forse è rimasta a Palermo, è rimasta lì anche quando è partita, perché si era lasciata alle spalle Leo con l’idea di tornare a riprenderselo. Forse nella testa di Rosy c’è ancora una Palermo con un piccolo Leo che la aspetta in una villetta anonima all’Addaura, un posto nascosto sulle scogliere a strapiombo sul mare, il luogo segreto marcato sulla mappa dove trovare il suo tesoro, l’unico che le è rimasto quando ha perso la corona.
- Negli ultimi mesi ho provato con insistenza a prendermi cura del caso della signora Abate. – riprende a parlare nel mentre Randazzo, lento, serio, sereno ma implacabile come l’infrangersi delle onde contro la battigia quando il vento è debole e quasi non lo senti a dosso, - Ho fatto uso di qualsiasi tecnica ritenessi ragionevole per cercare di risolvere la situazione, e malgrado i piccoli miglioramenti che siamo riusciti ad ottenere mi sembra ormai piuttosto evidente che non c’è nient’altro che io possa fare, arrivati a questo punto. – poi si ferma, sollevando gli occhi nei suoi un’altra volta. Domenico gli ricambia l’occhiata con l’aria persa di uno che non sappia cosa farsene, del carico che sta per essergli rovesciato addosso. – Non credo che la signora Abate abbia motivo di restare qui più a lungo di così, dottor Calcaterra. – dice quindi. Il suo tono ha un che di definitivo, assoluto. Domenico lo sente vibrare sotto le parole educate che lo nascondono. Non è solo una rinuncia rassegnata, è un invito ad andare via.
- Capisco. – annuisce Domenico. Si guarda le mani, serrate contro le ginocchia. Non può chiedere al dottor Randazzo di continuare a reggere il peso di questa responsabilità. Rosalia Abate, che sia o meno ancora la Regina di Palermo, non può restare qui ancora a lungo. – Le chiedo solo la gentilezza di trattenerla fino a quando non avrò trovato una sistemazione comoda per lei.
Il dottor Randazzo non l’ha mai giudicato per il suo rapporto con Rosy. Domenico non pensa che sia una questione di superiorità morale, o una particolare propensione all’empatia e alla comprensione delle situazioni al limite. Il dottor Randazzo è semplicemente una di quelle persone, così rare ormai, che raggiunge il massimo grado di soddisfazione nell’esercizio della propria professione. La medicina non è un lavoro, è un’arte, una religione da osservare. Non è un mezzo ma un fine. Per il dottor Randazzo – sessantadue anni, tre lauree, svariati riconoscimenti nazionali e internazionali, una clinica immensa e un appartamento elegante ma modesto in centro a Catania, che si affaccia dritto su Piazza del Duomo – la vita comincia e finisce col proprio mestiere, coi propri pazienti. Del resto non gl’importa. Non è mai stato sposato, non ha mai avuto figli, non pone domande personali ai parenti dei suoi pazienti, gestisce il proprio lavoro nel modo asettico e professionale che ci si aspetta da un uomo del suo calibro, e non sente la necessità di nient’altro per concludere la giornata soddisfatto del proprio operato.
Basta a se stesso, un qualità per cui Domenico lo invidia e lo rispetta moltissimo.
Domenico non si è mai bastato da solo. È rimasto aggrappato ad un cadavere per anni pur di non restare solo con se stesso, e dopo quel che restava di sua moglie sono state Claudia e Lara, due donne che non è mai riuscito a capire, una incapace di volerlo davvero vicino, l’altra che era lui per primo a non volere si avvicinasse troppo.
In mezzo, Rosy. Una parentesi di completezza, di spaventosa affinità assoluta, e poi più niente a parte l’ombra di una donna che si è persa.
Ma Domenico continua a rivolerla indietro perché a restare da solo non è capace, ha bisogno di qualcosa da stringere fra le dita per sentirsi in grado di affrontare la realtà, fosse anche solo una causa persa.
Il dottor Randazzo è il primo che non abbia sentito il bisogno di giudicarlo per questo, o anche solo di dire la propria a riguardo. È uno dei numerosi motivi per cui Domenico gli è grato.
- Dottor Calcaterra, - sospira Randazzo, - Questa donna non può tornare in prigione. – dice, con l’ovvietà di chi sta dando il proprio parere senza che gliene venga niente in cambio.
Non è un problema, pensa Domenico, tanto lui non aveva alcuna intenzione di farcela tornare.
*
Per ottenere l’inserimento di Rosy nel Programma protezione testimoni fa letteralmente carte false. Quando ne parla con Licata, lui per prima cosa lo insulta, e continua a farlo per giorni, finché non si rende conto che Domenico è serio. “Calcaterra,” gli dice, “Lei dev’essere impazzito.”
Lui forse lo è, ma questo non basta a fermarlo. Insiste per settimane, tirando fuori a sproposito l’aiuto che Rosy ha fornito alla Duomo anni prima a Palermo, una credenziale che l’ha già aiutata in passato e che le successive fughe hanno già abbondantemente invalidato nel frattempo, e sulla quale Domenico continua a battere con tanta testardaggine da esasperare chiunque attorno a lui. Pietrangeli non lo capisce più, la Leoni forse non l’ha mai davvero capito, Lara è un’entità fredda e distante che lo guarda col rimpianto di chi sa che avrebbe potuto vivere una storia importante ma non ne ha mai davvero avuto la possibilità.
Rosy e il suo sorriso spento e vago lo aspettano ogni pomeriggio in quella stanza bianchissima dalle finestre ampie nella clinica del dottor Randazzo, e quelle quattro mura sono l’unico posto in cui Domenico riesca ancora a provare calore.
Catania non è più il posto giusto per lui.
Forse non lo è mai davvero stato.
Licata capisce dove si sta dirigendo l’onda confusa dei suoi pensieri prima di Domenico stesso. Un giorno, serissimo, si presenta in commissariato con il peso di una vita nell’Antimafia negli occhi e gli dice “Dottor Calcaterra, venga con me, le offro un caffè”. Non gli offre l’acqua sporca del distributore automatico all’ingresso, naturalmente, lo porta fuori, a passeggio per le vie di Catania, questa città spenta che Domenico non riconosce, non sente, e lo invita a sedere con lui ad un tavolino rotondo all’esterno di un piccolo bar dalle parti di Piazza Dante, lontano dalla folla, sotto un ombrellone che li ripara dal sole cocente di metà settembre, di fronte a un ristretto e ad un paio di pasticcini.
- Calcaterra, - esordisce con un sospiro, - Prima che lei dica qualcosa che mi costringa a sospendere a tempo indeterminato lei e tutta la sua discendenza, mi lasci dire che io la stimo molto, come poliziotto e come persona, ma che ritengo che il suo tempo all’Antimafia sia scaduto. Quello che le è successo negli ultimi quattro anni avrebbe ridotto sulle ginocchia uomini dalle spalle ben più larghe delle sue. E quindi, io la capisco. La capisco e voglio proteggerla, anche perché, se non la proteggo, nessuno proteggerà me dai problemi che potrebbe causare lei alla Duomo, nelle condizioni in cui è. Mi aiuti ad aiutarla, Calcaterra. Mi dica cosa vuole.
Domenico resta ad ascoltarlo guardando in basso senza dire una parola. Osserva il suo caffè raffreddarsi un istante dopo l’altro per un paio di minuti, mentre la voce di Licata gli restituisce un’immagine di se stesso così drasticamente diversa rispetto a quella che conservava nella memoria di un se stesso più giovane e più pulito, dal volto ridotto a una macchia indistinta, tanto da costringerlo a chiedersi se abbia ancora senso continuare ad aggrapparsi al suo nome, al suo lavoro, a qualsiasi certezza tutto questo possa avergli dato fino ad ora, se non è più nemmeno sicuro che, incontrandosi per strada, riuscirebbe a riconoscersi.
- Ho bisogno di fare una cosa. – dice al questore Licata, a voce così bassa che si meraviglia che lui riesca perfino a sentirlo, - E ho bisogno di farla bene. Devo occuparmi di Rosy.
Licata sospira profondamente, sorseggiando il proprio caffè. Riflette in silenzio per qualche istante. Sbocconcella un pasticcino. Intorno a loro la città si muove, placida e rumorosa come sempre. Immobile su quella sedia, Domenico ha come l’impressione di trovarsi su un piano di realtà differente rispetto al resto del mondo che lo circonda. Tutto è in movimento. Tranne lui. Lui è rimasto a Palermo due anni fa, quando Claudia è morta e il loro bambino con lei. Rosy è passata di lì per caso, gli ha conficcato dentro qualcosa e lo trascina all’amo senza volerlo da allora. Ma ora Rosy è ferma. E Domenico dietro di lei.
- Convincerò il magistrato Ferretti a fare entrare la Abate nel Programma. – dice Licata, la voce ferma, non un brivido di incertezza, - Le daremo una nuova identità, un posto in cui stare. Considerate le sue condizioni, non dovrebbe essere troppo difficile per lei abituarsi a qualcosa di nuovo.
Considerato che adesso non è nessuno, riflette Domenico, è possibile che assorba la nuova identità come una spugna, fino a convincersi di essere davvero qualcun altro. Lui non sa se sperare che vada davvero così o meno.
- Grazie. – dice con un cenno del capo.
- Lei la accompagnerà. – continua Licata, - La voglio lontano da Catania per un po’. La voglio lontano da tutto questo, Calcaterra.
Domenico annuisce senza emozione.
- Quanto a lungo? – domanda, ma non gli importa. Due settimane, per sempre, che differenza fa.
- Quanto sarà necessario. – risponde Licata, vago. – Le farò sapere.
Domenico quello che voleva sapere lo sa già. Ringrazia per il caffè, anche se non l’ha bevuto. Compensa così, non potendo ringraziare per tutto il resto.
*
Il cambiamento lo sente addosso prima di rendersene conto. A Palermo l’aria ha una consistenza diversa, rispetto a Catania. È più frizzante, più umida, ti si attacca addosso con più prepotenza, col suo corollario di odori e sapori fortissimi, quasi invadenti, che ti attaccano da ogni parte in un assedio serrato che ti lascia stordito.
Sulla statale che costeggia il mare, l’automobile nera e lucida di Domenico corre silenziosa, a velocità sostenuta. Sono quasi le otto, ma il sole ancora stenta a tramontare, e Rosy, appoggiata al finestrino aperto con le braccia incrociate sotto il mento, come una bambina che guarda sognante fuori dalla finestra in attesa del ragazzo in cerca della sua ombra, si lascia abbagliare dal suo riflesso con la naturalezza di chi è nato e cresciuto coi colori di questo mare e di questo cielo negli occhi.
Le giornate estive in Sicilia sono eterne. Puoi svegliarti col sole e andare a dormire prima di lui. È una luce che colora l’aria, la rende traslucida. Guardi una persona qui e sembra più bella.
l riflesso dei raggi del sole fra i capelli scuri di Rosy dà alla sua chioma effetti quasi rossastri. L’aria è arancione, adesso, non rosata, non azzurrognola, non rossastra, arancione, l’arancione vero dei tramonti africani che si vedono nei documentari, nei film, nei cartoni animati. L’ombra delle cose – delle montagne, degli alberi, della strada a strapiombo sulla scogliera, delle villette che si inabissano come relitti troppo vicini alla costa – si allunga minacciosa sul mare, sembra volerne graffiare la superficie appena mossa dal vento. Il mare è più grande, però, più largo e più profondo, sboccia dalla conchiglia del golfo di Palermo e si riversa nelle acque tiepide del Tirreno, sfuggendo le ombre, sfuggendole tutte, restando luminoso fino all’ultimo istante prima della scomparsa del sole oltre l’orizzonte.
Domenico non saprebbe più come fare a vivere lontano dal mare. Quando non puoi vederlo ogni giorno non sai quanto ti manca. Pensi che un fiume sia abbastanza, non importa se grande o piccolo, dalle acque chiare o limacciose, se tenuto a bada da argini stretti e altissimi o se lasciato libero di scorrere nel letto di roccia che da solo s’è scavato nella terra scorrendo per millenni, fin dall’inizio dei tempi. Pensi che un fiume sia abbastanza, che osservarne lo scorrere lento e immaginare di cavalcarne i flutti placidi fino alla fino alla foce sia lo stesso. Pensi che quando lo vedi arrabbiato, quando infuria un temporale e le acque di gonfiano, si gonfiano, fino a minacciare di rovesciarsi per le strade, quello sia il massimo della furia che una forza simile possa raggiungere.
Il mare ti stupisce, con la sua immensità, la sua rabbia improvvisa, la sua imprevedibilità.
Mentre ci pensa, Domenico non può fare a meno di voltarsi a guardare Rosy, sempre immobile affacciata al finestrino, gli occhi spenti, persi lontano da lui. Si sente un idiota e ha bisogno di bere. Sa che in teoria non gli sarebbe concesso farlo, ma sa anche che in pratica nessuno deve venire per forza a saperlo. Già pregusta il sapore amaro e frizzante della birra, la serata fresca e umida che passerà seduto in terrazza, fissando il mare, mentre Rosy, Rosy chissà, dormirà abbattuta da uno di quei sedativi delle cui prescrizioni si è riempito le tasche prima di partire, o forse resterà seduta accanto a lui, fissando un punto a caso nel vuoto senza davvero vedere niente.
Il silenzio gli pesa addosso, ma parlare non aiuterebbe, perciò non dice niente mentre finalmente arrivano a destinazione, saltando un paio di cancelli uno perfettamente uguale all’altro fino a fermarsi al civico 2104, di fronte a un cancello uguale a tutti gli altri che l’hanno preceduto, forse appena più stretto, oltre il quale non si vede niente a parte una vegetazione fittissima.
Parcheggia pochi metri più avanti, quanto più vicino possibile al fianco roccioso che costeggia il lungomare, e preme il pulsante per chiudere il finestrino dalla parte di Rosy. Lei, disturbata dal movimento, si tira indietro con una smorfia prima di ricordare dove si trova. Si volta a guardarlo, l’aria persa di una bambina in compagnia di un lontano parente di cui non ricordava nemmeno l’esistenza.
- Siamo arrivati? – domanda, nella voce quell’accento un po’ tremulo di preoccupazione e curiosità che accompagna sempre tutte le sue domande, ultimamente, come volesse chiedere qualcosa di preciso ma esitasse, spaventata dalla risposta.
- Sì. – risponde Domenico, - Casa nuova. Vieni, dai.
Rosy lo segue senza protestare e senza porre altre domande. Lui la guida in silenzio dall’altro lato della strada, tenendola per mano e guardando attentamente a destra e a sinistra prima di attraversare, come stesse riportando a casa una sorellina più piccola dopo la scuola. L’idea lo fa rabbrividire, e gli stringe lo stomaco in una morsa dolorosa. Cerca di disfarsene in fretta guardandola, le braccia nude, la vita stretta che s’intravede appena sotto la casacca smanicata larga, la scollatura che lascia intravedere un accenno del seno, le gambe affusolate e piene fasciate nei jeans scuri, i capelli ormai lunghissimi che si attorcigliano in boccoli spettinati giù lungo le sue spalle magre, accorciandosi e poi allungandosi come molle ad ogni passo.
La vuole – è una realizzazione improvvisa, un pensiero dalla punta affilata che gli attraversa il cervello con la velocità di una freccia – e si fa schifo perché la vuole. Dice di volerla proteggere, ma quando la guarda tutto quello che vuole è stringerla forte per le spalle e scuoterla, scuoterla finché non si sente male, sbatterla contro una parete e urlarle contro perché sei andata via, perché cazzo sei andata via, perché cazzo mi hai lasciato in quel buco di merda, perché non sei rimasta, perché non hai lasciato che fossi io a trovare una soluzione, una soluzione per tenerci tutti insieme, me, te e Leo, perché sei andata via, stronza, perché, e poi baciarla, baciarla fino a stordirsi, fino a non riconoscere la differenza fra la propria lingua e la sua, e toccarla ovunque, sotto i vestiti, fra le gambe, spingersi con furia nel suo corpo e venirle dentro mentre le dice che la odia.
Non è così che si protegge una persona. Lui non vuole proteggerla. Lui vuole annientarla. Poi prendere quello che resta di lei e mandarlo giù come un bicchiere d’acqua. Così non potrà più andare via. Almeno lei. Almeno lei, cazzo. Almeno lei gli resterà accanto.
Rosy si volta verso di lui quando si accorge del modo in cui la fissa. Istintivamente, si tira indietro, aspettando a qualche passo da lui mentre lui tira fuori le chiavi del cancello, le sbaglia, recupera quelle giuste e finalmente apre. Passano insieme su un piccolo pianerottolo piastrellato dal quale partono due rampe di scale, in fondo alle quali c’è il vialetto che, passando in mezzo a due aiuole quadrate, porta all’ingresso della villa. È una di quelle agghiaccianti costruzioni architettoniche interamente in cemento risalenti al sacco di Palermo, quando costruire una villa con sbocco diretto a mare era ancora possibile senza che nessuno trovasse niente da ridire al riguardo – naturalmente se avevi gli amici giusti. Dev’essere una delle numerose ville confiscate alla mafia, questa, il che la rende il posto perfetto per nascondere Rosy, almeno per un po’. È tenuta bene, ma è brutta. Brutta e triste, nonostante sia stata ridipinta di recente in un pallido color pesca che, alla luce del tramonto, assume una sfumatura ancora più luminosa.
Dovranno farsela bastare.
- Hai bisogno di una mano? – le chiede voltandosi a guardarla quando si accorge che è rimasta sul pianerottolo e non accenna a voler scendere le scale. Si torce le mani in grembo, nervosa. Ha le unghie tutte rosicchiate. Domenico vorrebbe prenderla per mano e accarezzarle piano le dita, aiutarla a rilassarsi. Non lo fa.
- Le so scendere da sola le scale, grazie. – risponde lei, visibilmente infastidita.
- E allora che aspetti? – insiste lui, fermo al terzo gradino.
Lei guarda in basso, alla casa. Poi oltre la terrazza che, da dove si trova, può vedere benissimo. La scogliera si immerge nera e frastagliata fra le onde a pochi metri dalla costa. Il mare è di un colore scurissimo che non è azzurro e non è neanche nero, e che Domenico non riuscirebbe a decifrare.
- È che questo posto io non lo conosco, - spiega infine lei, tornando a guardarlo, - E veramente non sono sicura di conoscere nemmeno te.
- Rosy, te l’ho detto che mi conosci. – sospira lui, passandosi una mano fra i capelli. Ha bisogno di una doccia. – Sono Domenico.
- Lo dici, lo dici, - risponde lei, mimando il gesto di parlare con le dita, - Ma io non mi ricordo niente, di te. Io non lo so chi sei. E non mi piace come mi guardi.
Istintivamente, Domenico abbassa lo sguardo, stringendo i pugni lungo i fianchi.
- Scusami. – le dice, - Non volevo assolutamente… mi dispiace. – torna a sollevarle gli occhi addosso, la guarda implorandola senza parole. – Non è sicuro stare qua fuori, Rosy. Voglio soltanto proteggerti. Voglio che tu stia bene, ecco, sono uno che vuole che tu stia bene. Lo so che non puoi fidarti di me, se non ti ricordi, ma vieni in casa. È più sicuro lì.
Lei ci pensa su per qualche istante. Si fa indietro – Domenico lancia un’occhiata al cancello e si rassicura soltanto quando lo vede chiuso – poi avanza, si guarda intorno, sospira.
- Va bene. – concede a bassa voce. Scende le scale e lo supera. Lui la lascia passare, la osserva mentre si aggrappa alla ringhiera metallica laccata di bianco e scende, scende, un gradino dopo l’altro.
La segue in silenzio.
La casa è buia, le finestre chiuse, le tende tirate. Domenico lascia la porta aperta, così che Rosy possa decidere quando entrare coi propri tempi, ed accende la luce, cercando di ambientarsi. È una casa gigantesca, troppo grande per due persone sole. Il piano terra da solo basterebbe ad accogliere una famiglia con bambini. La sala da pranzo è immensa, la cucina abitabile, ci sono due camere da letto matrimoniali sulla sinistra, e proprio di fronte le scale che scendono al piano interrato. Un’altra camera da letto, uno studio, due bagni più uno di servizio. Fuori dalle immense porte-finestre del piano terra, una terrazza enorme che si estende per tutta la larghezza dell’edificio. Una porta nel piano interrato si affaccia all’esterno, sul giardino sul retro. È talmente grande che così, senza nessun tipo di arredamento, sembra desolato e spoglio come quello di una casa abbandonata. Ma pochi metri più a destra c’è un cancelletto di legno che si apre su un viottolo accidentato in mezzo agli scogli, e da lì si può procedere dritti direttamente a mare. Nel seguirlo con lo sguardo, Domenico sente il proprio cuore battere un po’ più forte. Domani, se fa ancora abbastanza caldo, farà il bagno. Forse vorrà farlo anche Rosy.
Rientra in casa, cercandola con gli occhi. La trova al piano di sopra, ferma in mezzo alla sala da pranzo, che si guarda intorno con aria smarrita. Le si avvicina, lei si allontana. Lui sospira e solleva il telo bianco che copre uno dei divani.
- Mettiti comoda, - le dice, - Io torno in macchina a prendere la spesa.
Fa per voltarsi e uscire, ma lei allunga una mano in un gesto fulmineo e stringe le dita magre attorno al suo polso, conficcandogli le unghie rosicchiate nella pelle.
Per un istante sembra che voglia assicurarsi che lui tornerà. Domenico si aspetta la domanda – poi torni, vero? – la aspetta col cuore che batte e lo stomaco che si contorce tanta è la voglia di sentirselo chiedere, ma quell’ombra incerta negli occhi di Rosy passa in un lampo, così com’è arrivata, e poi si disperde.
- Dov’è la mia stanza? – chiede invece. Qualcosa dentro Domenico muore in quell’istante. La certezza di poterla guarire solo standole accanto, forse.
Le indica le due camere da letto sulla destra con gesti vaghi.
- Scegli tu quella che ti piace di più. – le dice. Lei annuisce e si allontana senza nemmeno guardarlo. Resta ferma per qualche istante di fronte alle due porte chiuse, poi ne apre una e s’infila svelta nella stanza, senza neanche guardare cosa c’è dentro, senza nessuna curiosità di vedere com’è l’altra prima di decidere.
Domenico si domanda se abbia fatto bene a portarla lì. Se questa cosa possa davvero aiutare lei o lui, o se forse non si è illuso che potesse farlo solo perché l’idea di rimanere a Catania senza prospettive, senza speranze, lo faceva sentire perso.
Tutte le possibili risposte lo spaventano. Decide di concentrarsi sui problemi pratici. La spesa. Una doccia. La cena. Una birra davanti alla tv. Tutto il resto scivola in fondo alla lista delle priorità. Per il momento non vuole nemmeno pensarci.
*
Perde il conto delle birre da qualche parte fra la quinta e la chissàquantesima. Sa che gli basterebbe contare le bottiglie – sono tutte lì, sul tavolino basso di fronte al divano, una accanto all’altra – per sapere esattamente quanto è ubriaco e quanto dovrà pentirsene domani mattina, ma non riesce ad andare oltre la bottiglia numero cinque, uno, due, tre, quattro, cinque, poi basta, perde il conto, gli fa male la testa, gli viene la nausea, meglio scacciarla bevendo un altro po’. L’ennesimo tappo di metallo salta e si perde da qualche parte sul pavimento, poi la sensazione fresca del collo della bottiglia di vetro contro le labbra, poi l’onda amara della birra ormai calda che scivola veloce giù per la gola, e scompaiono tutti i pensieri.
Be’, tutti meno uno, almeno, tutti meno Rosy chiusa in quella stanza a pochi metri da lui, dietro una porta senza chiave, che sarebbe così facile oltrepassare.
È buio, adesso, Domenico non sa che ore siano ma è sicuramente tardi, è sicuramente notte. Questa giornata lunghissima è finita e il cielo è di un azzurro intenso, quasi nero, ad eccezione del punto in cui la luna lo rischiara, con quella luminosità lattiginosa che sparge intorno a sé un alone celeste simile a vapore acqueo.
È l’umidità nell’aria, Domenico può sentirsela addosso. Fa caldo. Nonostante sia così tardi, fa caldo. Si toglie la maglietta. Va un po’ meglio. Non meglio abbastanza.
Si alza in piedi, scrollandosi di dosso un po’ di torpore. Barcolla. Si aggrappa allo schienale del divano per non cadere. Respira piano. Dentro e fuori. Si sente uno schifo e non riesce a ragionare. Tutti i pensieri che gli attraversano la mente sono in realtà filamenti confusi e non connessi fra loro, sono cose, immagini, suoni, ricordi, che si presentano sulla soglia della sua coscienza e che lui non riesce a seguire per più di una manciata di secondi.
C’è Rosy, pensa, di là. C’è Rosy in quella stanza, sola su quel letto. L’idea gli fa uno strano effetto. Differente da quello che gli faceva pensarla sola nella sua stanza privata nella clinica del dottor Randazzo. Differente anche da quando andava a trovarla e l’infermiera li lasciava soli. Su questa situazione Domenico ha un tipo di controllo diverso. Quel tipo di controllo che gli tende i muscoli e lo forza a trovare un equilibrio per riuscire a stare in piedi, mettere una gamba dietro l’altra e camminare lentamente fino alla porta chiusa.
Potrebbe bussare. Decide di non farlo.
Apre la porta ed entra in camera di Rosy. È una stanza piuttosto grande, ma abbastanza sobria. C’è un grande letto dalla struttura in legno proprio al centro. Un armadio nello stesso stile. Due comodini. Un comò con una gigantesca cassettiera addossato alla parete di fronte.
È una stanza da vecchia nonna. Non sa se il pensiero lo irrita o lo intristisce di più.
- Rosy? – chiama.
- Domenico, sei ubriaco. – la voce di lei risuona forse, appena un po’ agitata, nel silenzio della stanza. Era sveglia. Domenico la guarda, immobile al centro del letto, le mani giunte all’altezza dello stomaco, sopra le lenzuola. Indossa una camicia da notte bianca leggera che Domenico non ha idea di dove abbia trovato, e che le illumina la pelle nonostante il buio. È così bella.
- E tu che ne sai se sono ubriaco? – domanda, chiudendosi la porta alle spalle e avanzando all’interno della stanza.
- Sento la puzza da qui, sento. – ribatte lei. La tensione nella sua voce si fa più evidente. – Domenico, devi andare a dormire in camera tua.
Domenico si avvicina al letto. La guarda, torreggiando sopra di lei. I lunghi capelli sciolti sparsi sul cuscino di un biancore abbagliante. La curva tondeggiante delle spalle nude. L’ovale perfetto del suo viso. I suoi occhi scuri, già così profondi, resi ancora più profondi dal buio della notte.
La vuole con l’ostinazione delle cose che non si possono avere, le cose che non si potrebbero nemmeno volere.
Si china su di lei, un ginocchio puntato contro il materasso, le braccia che già si allungano. Lei rimane immobile, tesa, nervosa, sembra pronta a scattare, ma non scatterà, Domenico ne è certo, ne è certo come sarebbe certo di una cosa ovvia. Rosy non si muove, non più. Rosy non ci tiene, alla sua incolumità. Se lui fosse entrato qui dentro per ammazzarla, lei non avrebbe comunque mosso un muscolo.
- Non ci voglio andare in camera mia. – bisbiglia. È così vicina, adesso, che può vedere con precisione tutti i lineamenti del suo volto. I nei sulla guancia destra. Il dettaglio delle lunghe ciglia folte e ricurve. – Voglio restare qui con te.
- Domenico, - le trema la voce, tira indietro il viso, infastidita dall’odore penetrante dell’alcool sulle sue labbra, ma non nuove le mani, resta ferma nella stessa posizione, come se qualcuno ce l’avesse legata e poi l’avesse lasciata lì da sola, - Domenico, te ne devi andare.
- No. – biascica. Sta perdendo la forza nelle gambe e nelle braccia, però, non riesce più a reggersi senza caderle addosso, perciò, prima di farlo, e magari farle anche male, si lascia andare sdraiato al suo fianco, un po’ obliquo, per poggiare la testa sul suo stesso cuscino senza starle troppo addosso anche con tutto il resto del corpo. – Sono stanco. Rosy. Sono troppo stanco.
- Va bene, ma io non so che farci. – risponde lei. È tornata più tranquilla, sempre quella tranquillità nervosa che usualmente la accompagnava anche in clinica. C’è una vibrazione di paura, nella sua voce, ma almeno non suona più come se dovesse avere un attacco di panico da un momento all’altro. – Io non mi ricordo niente. So il tuo nome perché me l’hai detto, ma di te non so niente. Vedo come mi guardi, e non so cosa vuoi da me. E ogni tanto mi sembra di volere qualcosa da te, ma non so cosa, Domenico, non so cosa. Mi devi dare tempo.
- Tutto quello che vuoi. – bisbiglia, voltandosi su un fianco. Le avvolge un braccio attorno alla vita. Lei tira su le mani come se l’avesse minacciata con una pistola, ma poi torna a rilassarsi, poggia le mani sul suo avambraccio, stringe.
- Questo era normale fra noi, prima? – chiede lei. Lui non risponde subito. È stanco. Non sa cosa dire. – Ah, Domenico? – insiste lei, - Era normale? Lo facevamo spesso?
Spesso, no. Non abbastanza.
Scuote il capo.
- È capitato. – le dice. Chiude gli occhi, però. È troppo stanco per continuare a parlare. Vuole stringerla e dormire e sperare che si sveglierà domani sentendosi meno peggio di come si senta adesso.
- Domenico. – la voce di Rosy è più dolce, adesso. Più triste, anche. – Domenico, ma eravamo innamorati, noi?
E a questa domanda lui non potrebbe rispondere nemmeno se ne avesse la forza. La lascia passare. La lascia disperdersi nel buio. Rosy non insiste. Forse non vuole davvero saperlo neanche lei.
*
Quando si sveglia, lei non c’è. È tardi, e Domenico sa che non avrebbe dovuto dormire così a lungo, ma sa anche che, potendo, avrebbe continuato a farlo. La testa gli pulsa dolorosamente all’altezza delle tempie, si sente accaldato e nauseato. La stanza è rimasta chiusa, ed ora puzza di alcool come lui. Lentamente, si solleva in piedi, appoggiandosi alla sponda del letto. “Ho bisogno di fare una cosa, e ho bisogno di farla bene”, ha detto a Licata, ma sta già fallendo. Non che sia una novità.
Si avvicina alla finestra, scosta le tende, apre. La brezza marina lo colpisce in faccia, umida e frizzante, svegliandolo di colpo. Cambia immediatamente odore alla stanza, ne cambia perfino il colore. Il sole è alto, la luce fortissima, restando in silenzio Domenico sente il rumore delle onde mentre si infrangono contro la scogliera. Questo posto è un pezzo di paradiso che dovrebbe imparare a godersi.
Rosy è di sopra, in terrazza. Seduta su una panchina di cemento che fuoriesce dalla parete come fosse cresciuta indipendentemente addosso alla casa, fissa il mare, immobile. Non si è cambiata, indossa ancora la camicia da notte con cui ha dormito, e nonostante faccia caldo si è avvolta in uno scialle dal disegno antiquato che probabilmente apparteneva alla stessa vecchia nonna alla quale ha rubato camicia da notte e camera da letto. Tutta raggomitolata come a voler occupare la minor superficie di spazio possibile, immobile come una statua e con gli occhi fissi sulla linea dell’orizzonte, sembra un quadro. Il punto in cui è seduta è riparato, non le arriva addosso neanche un po’ di vento, perfino i suoi capelli, leggeri e lunghissimi, piovono sulle sue spalle e sulla sua schiena perfettamente immobili.
È davvero bella da togliere il fiato.
- Rosy. – la chiama piano, avvicinandosi a lei. Vorrebbe aver pensato prima a preparare qualcosa per colazione, fosse anche solo un caffè, per non sentirsi così idiota mentre la avvicina senza avere niente da offrirle a parte la sua stessa faccia da imbecille.
Lei però si volta a guardarlo senza nessuna traccia di rimprovero negli occhi. Accenna perfino a un sorriso, un angolo della bocca che si arriccia appena, mentre lei si stringe meglio nello scialle, coprendosi le spalle e il petto.
- Ti senti meglio ora? – gli chiede.
- Dovrei chiederlo io a te… - sospira lui, passandosi una mano fra i capelli. Il gesto gli ricorda che ha ancora bisogno di una doccia.
- Domenico, io sto bene. – dice lei. Lui si lascia trascinare dalla sensazione intima e calda che lo pervade sempre quando la sente pronunciare il suo nome. È una cosa che ha cominciato a fare solo recentemente, dopo essersi persa. Prima lo chiamava sempre e solo Calcaterra. Era un modo come un altro per ricordargli che, anche quando si lasciava prendere, era ancora inafferrabile. Un tipo di distanza che, nelle condizioni in cui è adesso, non sente più il bisogno di mantenere. – Ho pensato che magari avevi fame. – continua. La frase è così improvvisa che Domenico si volta a guardarla perplesso, - Quindi ti ho preparato la colazione. Ho pensato che magari lo facevo, prima.
- No… - risponde lui, quasi divertito dall’assurdità del dialogo, - Non credo che sia mai successo.
Lei scrolla le spalle, tornando a guardare il mare. È di un azzurro allegro e intenso, sembra perfettamente uniforme, da lì. Domenico sa che, avvicinandosi, comincerebbe a vedere le differenze. I punti in cui l’acqua è più bassa, più chiari rispetto a quelli in cui è più alta, quelli in cui gli scogli quasi affiorano in superficie, tingendo tutto di nero brillante. Da lontano, però, il mare è un tappeto azzurro unico, bellissimo, perfetto. Anche Rosy, dalla distanza, sembra ancora tutta intera. Le spaccature sono invisibili quando sorride in quel modo. Sapere che ci sono lo aiuta solo a ricordarsi che avrebbe potuto proteggerla, anche da se stessa, e non ci è mai riuscito.
- Il caffè ormai sarà freddo. – dice, - Però ci possiamo aggiungere un po’ di latte caldo. E ho pensato che volevo uscire a comprarti un cornetto, però poi mi sono ricordata che questa zona non la conosco. – torna a voltarsi verso di lui, - Magari usciamo, più tardi, ah, Domenico? Magari mi porti fuori.
Domenico si morde l’interno di una guancia con tanta forza da cominciare a sentire sulla lingua il sapore metallico del sangue. Le si avvicina e crolla in ginocchio a un passo da lei, aggrappandosi a quella camicia da notte così assurda, stringendone l’orlo fra le dita. Piange, in modo sgraziato e ridicolo, tutto singhiozzi, tremando violentemente. Lei gli posa una mano sulla testa, gli accarezza i capelli.
- Sssh, - dice dolcemente, - Che piangi, Domenico. Non c’è niente da piangere. Ti dico che sto bene.
È la forza con cui ci crede, la disperazione con cui ci si aggrappa, che gli spezza il cuore. Lui continua a piangere, e lei continua ad accarezzargli i capelli, sussurrandogli rassicurazioni senza senso. “Ho bisogno di fare una cosa, e ho bisogno di farla bene”, ma forse mentiva, forse aveva soltanto bisogno di lei.
*
Fa una doccia, e lascia che l’acqua si porti via tutto. Resta immobile sotto il getto tiepido per quasi un’ora, finché non gli si raggrinziscono le dita, finché non gli sembra di essersi scrollato di dosso la pelle vecchia che gli pesava addosso, di aver fatto la muta come un serpente.
Si sente rinato, quando finalmente esce dal bagno. Come nuovo. Si permette di sorridere al suo stesso riflesso dopo essersi sbarbato, ritrovando pezzi di quello che era prima in un’immagine ancora completamente nuova. Ha i capelli troppo lunghi, ha portato con sé solo vestiti di merda, ma Domenico Calcaterra è lì, da qualche parte, nel fondo dei suoi occhi, e ogni tanto si affaccia, gli sorride, sei sopravvissuto a tanto, Mimmo, sei sopravvissuto a tutto, sopravvivrai anche a questo.
Rosy è in camera della vecchia nonna. Domenico si getta addosso un paio di pantaloni e la prima camicia che trova e la raggiunge lì, trovandola ferma davanti all’armadio. Ci sono un po’ di vestiti dentro. Sono tutti nuovi, le etichette col prezzo ancora attaccate. Nessuno di loro è davvero nel suo stile, ma questo Rosy non può saperlo. Li guarda con attenzione e alla fine sceglie un vestito giallo corto, una specie di sottana con le bretelle sottili, stampata a fiorellini ridicolmente piccoli, che le cade addosso come gliel’avessero disegnata sulla pelle. Si è sfilata di dosso la camicia da notte e ha indossato l’abito senza accorgersi che lui la guardava, e quando si volta e lo trova lì sulla soglia della porta fa un saltello indietro, una mano premuta sul petto e gli occhi da cerbiatta spalancati su di lui.
- Domenico, - dice, - Mi hai fatto paura.
Lui le sorride.
- Scusa. – risponde, - Sei bellissima.
Lei ride, distoglie lo sguardo.
- Ma finiscila. – dice, chiudendo l’armadio e restando ferma di fronte allo specchio a figura intera che ne copre un’anta, sistemandosi il vestito addosso. Tira la gonna giù lungo le cosce per coprirle, sistema le spalline più in alto a nascondere le bretelle del reggiseno per quanto possibile. Domenico si sente fremere dentro e le si avvicina, fermandosi proprio dietro di lei.
- Dico sul serio. – bisbiglia. Solleva una mano, lasciandola scivolare lungo il suo braccio, dal polso alla spalla.
- Grazie, allora. – risponde lei. Il suo riflesso guarda negli occhi quello di Domenico, sullo specchio, mentre le dita di Domenico scivolano sotto la spallina e la tirano giù. – Io però volevo uscire a fare una passeggiata. – gli ricorda.
- E io pure. – risponde lui, anche se non è vero. Si china su di lei, le lascia un bacio lieve nel punto in cui la linea del collo si arrotonda e comincia a diventare spalla. Poi scosta il reggiseno, e continua a baciarla. La sente rabbrividire sotto le labbra, ma non saprebbe tradurre il fatto in niente che sarebbe capace di comprendere in questo momento, per cui decide di ignorarlo. – Mi sei mancata, Rosy, - le sussurra addosso, - Mi sei mancata tanto.
Lei solleva una mano, gliela passa fra i capelli. Le sue dita scorrono veloci fra le ciocche adesso pulite, senza più nodi. Le punte gli massaggiano dolcemente la cute, e lui si sente vivo sotto il tocco di quelle dita, vivo e felice e completo per la prima volta in mesi.
- Io però volevo uscire. – ripete lei, la voce appena più cupa. Domenico le sbuffa addosso una mezza risata rassegnata, e si raddrizza, allontanandosi.
- Va bene, - le dice, mentre la osserva risistemarsi il vestito addosso di fronte allo specchio, - Ti porto a Mondello.
*
Entusiasta come una bambina, Rosy si ferma ad esaminare attentamente tutte le bancarelle sulle quali si posa il suo sguardo sul lungomare che si tinge lentamente di rosa mentre il sole comincia la sua lenta discesa verso il mare. Sembra piacerle tutto, ma sembra anche non volere niente in particolare, almeno fino a quando non trova una cavigliera, una semplice catenina d’argento con un ciondolo a forma di farfalla pendente vicino al fermaglio che la tiene chiusa, e chiede a Domenico se può averla. È una cosa così da ragazzina che lui non riesce a trovare un motivo per dirle di no, e la compra. Poi la accompagna in un luogo appena più riparato, per evitare di bloccare il traffico infinito di persone a passeggio a quell’ora, e si china sulle ginocchia per allacciargliela attorno alla caviglia.
- Mi sta bene? – gli chiede lei, piegando un po’ la gamba e voltandosi, per fargli vedere come si sposta il ciondolo nel movimento.
Le sta bene abbastanza da fargli venire voglia di restare lì, in ginocchio su quella terrazza che si affaccia sul mare, e baciarle la gamba dalla caviglia alla coscia fino a sparire con la testa sotto l’orlo leggero di quel suo cortissimo vestitino, anche di fronte a tutti. Non lo dice ad alta voce, però, si limita a sorridere e rispondere di sì mentre si rimette in piedi.
Le stringe una mano e lei non si ritrae. Passeggiano così, come fidanzati, attraversando la strada per fare il giro della piazza. Rosy chiede un gelato, Domenico naturalmente lo compra, Dio, potrebbe chiedere la luna, la galassia, l’universo intero, Domenico troverebbe un modo per conquistarlo per lei. Si siedono a mangiare sui gradini di marmo attorno alla statua della Sirenetta, proprio in mezzo alla piazza. Devono sgomitare per trovare una manciata di centimetri sui quali posarsi. La piazza è gremita di gente che parla e ride, di bambini che corrono e giocano, di neonati che piangono, di venditori ambulanti che declamano ad alta voce i prezzi della loro merce. È tutto così vivo, tutto così presente. La realtà ovattata di Catania è solo un ricordo, l’idea di poter attraversare la città come avvolto in una nuvola sparita. Rosy è seduta sul gradino più in alto rispetto a lui e la pelle tiepida della sua coscia preme contro il suo braccio lasciato scoperto dalla camicia a maniche corte. Se anche la realtà cominciasse e finisse nell’unico centimetro in cui le loro pelli si sfiorano, a Domenico andrebbe bene.
- Ora voglio tornare a casa. – dice Rosy dopo aver mangiato il suo gelato fino all’ultimo morso del cono. Domenico scatta in piedi come avesse sentito un ordine, e poi riprendono a camminare mano nella mano fino al parcheggio in cui hanno lasciato la macchina.
È stata una bella giornata, pensa Domenico rientrando alla villa, accendendo tutte le luci, cominciando a chiedersi cosa preparare per cena. È stata una bella giornata, una di quelle che vorrebbe fossero la traccia da seguire per tutte le altre giornate. Non è un idiota, sa che giornate lievi e perfette come questa non possono ripetersi ogni giorno, ma sì, se ogni giorno tendesse almeno a questo risultato la vita potrebbe cominciare a pesargli meno addosso, e viverla potrebbe cominciare a diventare un piacere piuttosto che un obbligo.
- Vado a cambiarmi. – annuncia Rosy, dirigendosi spedita verso la camera della vecchia nonna, - E poi ho fame.
Domenico sorride annuendo. Magari potrebbe ordinare una pizza.
La guarda allontanarsi, il ciondolo a forma di farfalla che tintinna sbattendo contro la catenella ad ogni passo, e ogni tanto si solleva, come volesse prendere il volo.
*
Licata spunta un giorno, all’improvviso, senza annunciarsi, portando con sé un vassoio di Excelsior e un sorriso sereno.
Non è una giornata particolarmente buona, Rosy si è svegliata col muso lungo, uggiosa, annoiata, gli occhi della donna in trappola. Ogni tanto accade, ogni tanto accade che, anche se non ricorda ancora niente della sua vita passata, la riaffiorino alla mente sensazioni nascoste nel passato, un desiderio di libertà assoluto e senza freni che la porta a guardare alle mura di quella villetta come alle sbarre di una prigione. In quei giorni i suoi occhi sono cupi, può stare per ore in terrazza, anche quando cala il sole e comincia a fare troppo freddo, e se Domenico si azzarda a suggerirle di rientrare lei lo sferza con un’occhiata furiosa, fuoco puro, e gli dice “tu ti devi fare i cazzi tuoi, Domenico, hai capito?”, quando addirittura non prende a parlargli in siciliano stretto, sapendo che lui non la capirà, solo per tirare su un muro impenetrabile fra di loro senza dover fare la minima fatica.
Oggi è una di quelle giornate, una di quelle giornate in cui Rosy si è svegliata sentendosi fuori posto, asfissiata dalle porte chiuse. Ma quando arriva Licata qualcosa cambia, Domenico apre la porta e la vede rientrare in casa fermandosi sulla soglia della porta-finestra, una mano sul vetro, un piede già dentro e l’altro ancora fuori in terrazza, che spia curiosa l’ingresso per cercare di indovinare chi è prima ancora che lui debba dirglielo.
Di Licata, Rosy non ricorda niente. In compenso, le piacciono i biscotti. Sorride apertamente, invitando il questore ad uscire in terrazza, a prendere posto al tavolino rotondo sotto il gazebo per ripararsi dal sole. Gli offre perfino il caffè.
Domenico la guarda, metà confuso e metà divertito, e quando lei rientra, diretta verso la cucina, le offre un sorriso vagamente sarcastico.
- Be’? – le domanda, - Che c’è?
Lei gli risponde senza mascherare l’entusiasmo, con un’onestà che lo sbalordisce.
- Non abbiamo mai ospiti. – dice allegra. Poi gli gira intorno e scompare in cucina. Domenico la osserva sparire oltre la soglia e realizza che è vero. Non hanno mai ospiti, così come fanno davvero poche cose normali. Escono molto meno di quanto dovrebbero, nessuno dei due lavora, sono sempre costretti a rientrare a casa entro un certo orario a meno che Domenico non passi prima almeno mezz’ora al telefono con chi si occupa della loro scorta e dei loro spostamenti per concordare una qualche eccezione al coprifuoco. Sono tutti piccoli brandelli di anormalità che si sono infilati nella loro quotidianità per forza di cose, a proposito dei quali Rosy non protesta forse perché, nelle condizioni in cui è, non li nota coscientemente, ma che in qualche modo passano attraverso la barriera protettiva della sua svagatezza per andare a depositarsi come detriti da qualche parte nel fondo della sua testa, accumulandosi, accumulandosi finché non diventano troppi e a quel punto anche lei è costretta a domandarsi come siano finiti lì.
Dovrei fare di più, pensa mentre esce in terrazza e siede di fronte a Licata, che ha già svolto l’incartamento che proteggeva i biscotti e ne sta sbocconcellando pigramente uno, dovrei fare di più ma non so come.
- E insomma, mi pare che vi siate sistemati bene. – commenta il questore, spostandogli addosso un paio d’occhi colmi di affetto burbero e di una punta di sollievo della quale Domenico non fatica a capire l’origine.
- Facciamo quello che possiamo. – risponde lui, scrollando le spalle, - Lei è…
- Ancora nelle stesse condizioni, vedo. – completa per lui Licata, risparmiandogli di doverlo dire lui ad alta voce. – Ho parlato col dottor Randazzo, - aggiunge, - So che vi tenete settimanalmente in contatto.
- Sì. – annuisce Domenico.
- So anche che il dottore pensa che sarebbe opportuno visitare la Abate almeno una volta al mese, - continua Licata, - E so che lei ha rifiutato. – conclude, guardandolo dritto negli occhi con un accenno di rimprovero che costringe Domenico ad abbassare i suoi.
- Non ho esattamente rifiutato, - si giustifica, - Ho solo detto che sarebbe difficile trovare un modo per organizzare una visita senza spiegarle perché. Si è adattata, questore, a quando stava male non ci pensa più. Non voglio forzarla a ricordare.
Licata non dice niente per qualche secondo. Lo scruta con occhi seri e fissi, le labbra strette piegate in una smorfia dalla traduzione impossibile.
Domenico si sente il suo rimprovero addosso, chiaro come se glielo stesse urlando. Perché sta mentendo? Perché finge di aver rifiutato il suggerimento del dottor Randazzo per Rosy? Non è così, e lui lo sa. Sono le belle giornate che lo trattengono, le giornate diverse da questa, le giornate in cui Rosy si sveglia e sorride, in cui gli chiede di accompagnarla sulla scogliera per fare il bagno, le giornate in cui vuole andare a passeggio sul lungomare, le giornate in cui chiede il gelato, in cui si rilassa su una sedia a sdraio in terrazza e prende il sole non per abbronzarsi ma per riscaldarsi, come una lucertola. Nella loro quotidianità ci sono molte più belle giornate di quante ce ne siano brutte. E Domenico non vuole fare niente per sovvertire quest’equilibrio. E se questo significa rinunciare a quella manciata di possibilità che ancora restano a Rosy di ricordare il suo passato, be’, è un sacrificio che lui è disposto a fare.
Un sacrificio facile perché lui non sacrifica niente.
- Ho fatto il caffè! – trilla Rosy, apparendo in terrazza con un vassoio e tre tazzine piene, tutta contenta del gioco a cui gioca da sola, e che non è un gioco per nessun altro dei presenti.
Licata lascia cadere la conversazione, si volta e le sorride.
- Signora Abate, - dice, - La trovo bene.
Lei si schernisce, ridendo piano. Domenico la guarda, pensa che potrebbe vivere per sentirla ridere così per tutto il resto del suoi giorni. Il dottor Randazzo capirebbe, si giustifica con se stesso. Sta mentendo e lo sa, ma è disposto ad aggrapparsi anche a una menzogna, almeno per un po’.
*
La trova tutta raggomitolata sul divano, avvolta in una coperta di pile talmente grande che lei sembra quasi scomparirci dentro. Più che guardare la televisione, sonnecchia mentre la tv le canta una ninnananna pubblicitaria cacofonica a bassa voce. Ha le labbra dischiuse e i capelli sciolti e arruffati. È fragile come non è mai stata, come non gli era mai sembrata neanche in clinica dal dottor Randazzo, perché anche allora, per quanto confusa fosse, per quanto stesse male, non abbassava mai la guardia, ed i suoi occhi non lasciavano mai il tuo viso quando restavi solo in camera con lei, come se si aspettasse di vederti fare qualche movimento strano da un momento all’altro, e sentisse il bisogno di tenerti sotto stretta sorveglianza.
Domenico non ricorda di averla mai vista dormire così. Rilassata, serena. Non è mai successo mentre erano insieme, o qualunque cosa fosse quella condivisione di spazi e di intenti che li legava un paio d’anni fa. Si siede sul divano accanto a lei, poggiandole una mano sulla spalla e scuotendola leggermente.
- Rosy, - la chiama, - Vai a letto, ti prenderai un raffreddore.
- Sto bene qua. – risponde lei in un mugolio confuso. Schiude gli occhi, però, guardandolo attraverso le ciglia pesanti di sonno. – Perché non ci vai tu a letto, ah, Domenico?
- Volevo stare un po’ con te. – le sorride lui. Lei lo scruta per qualche secondo, come stesse cercando di verificare se sia una bugia o la verità. Alla fine sembra decidere, e schiude le braccia, svolgendosi di dosso la coperta. Gli fa segno di avvicinarsi con il capo, e Domenico lo fa con un certo timore, strisciando sul divano fino a poggiare la testa sulle sue ginocchia. La sua pelle è calda e liscia, e Domenico chiude gli occhi, godendosi la sensazione.
- Ho deciso che io e te ci stavamo sulla minchia. – dice all’improvviso, e Domenico scoppia a ridere, voltandosi a guardarla.
- Che? – domanda, - Perché?
- Non lo so, c’ho questa sensazione. – risponde lei, - Che tu dovevi starmi proprio sulla minchia. Con quella faccia di cane che c’hai ogni tanto.
- Ah, - lui ride ancora, incapace perfino di offendersi, - Grazie.
- No, guarda che dico sul serio, - lei annuisce, guardandolo serissima, nei suoi occhi neanche la più minuscola traccia di insulto. Parla come stesse esponendo fatti oggettivi. È una cosa deliziosa. – Ogni tanto mi guardi con quegli occhi da cane e mi viene voglia di prenderti a sberle. – solleva una mano e gli accarezza uno zigomo, lo sguardo che si ammorbidisce un po’, - Però mi viene pure voglia di baciarti. – dice a mezza voce. Quasi arrossisce.
Domenico sente tutti i muscoli del proprio corpo tendersi in uno spasmo doloroso. La guarda dritta negli occhi, chiedendosi se dovrebbe prendere lui l’iniziativa o se dovrebbe aspettare lei. Potrebbe aspettarla. Ah, la aspetterebbe per sempre. Ma Rosy preme le dita contro la sua mascella con più insistenza, le piega appena, quasi volesse afferrarlo, e Domenico capisce che vuole essere presa. Come due anni fa, nel magazzino di Palla, quando i suoi occhi gridavano prendimi, prendimi, ti sfido.
Si solleva sulle mani, restando seduto e poggiandole una mano sulla nuca per attirarla a sé. La bacia affamato, la bocca aperta, la lingua che cerca la sua, e per un istante lei geme stupita fra le sue labbra, ma poi la sua memoria fisica sembra tornare a suggerirle come comportarsi, e Domenico sente le sue mani piccole chiudersi attorno al tessuto della sua maglietta e strattonarla con urgenza, ordinandogli di togliersela di dosso. Domenico obbedisce, staccandosi da lei a malincuore, e mentre lui lo fa Rosy si solleva sulle ginocchia, si lascia scivolare la coperta di dosso e gli si siede a cavalcioni in grembo, strofinandosi contro la sua erezione già tesa, nascosta dai jeans. Indossa solo un vestitino leggero, e le punte dei suoi capezzoli turgidi si intravedono attraverso il tessuto quasi impalpabile. Domenico le preme una mano contro la schiena e si china, stringendoli fra le labbra, succhiandoli e leccandoli da sopra il vestito. Lei geme e getta indietro la testa, dimenando i fianchi, carica e impaziente.
Non è una cosa dolce, non è una cosa tenera, è la cosa giusta, sono loro come sono sempre stati, affamati ed aggressivi, sempre pronti a strapparsi i vestiti di dosso e morsi e unghiate, come bestie feroci. Domenico assaggia fra i denti il sapore della pelle di Rosy mentre le lascia scivolare una mano sotto il vestito, scostando appena la striscia di tessuto già umido delle mutandine per affondare le dita dentro di lei. La osserva danzare sulle sue dita in preda a una smania senza parole, si solleva e si abbassa come la marea, la sua voce copre lo scrosciare violento delle onde contro la scogliera, e per un istante tutto intorno a lui è Rosy, tutto sa di lei, l’aria riecheggia del suo nome, e poi si rende conto che è lui a pronunciarlo ad alta voce, mentre lei si disfà dei suoi pantaloni con mani febbrili e poi lo cavalca svelta, affondandogli le unghie nelle spalle, i denti nel collo, le ginocchia nei fianchi, mentre lui affonda deciso dentro di lei.
L’orgasmo lo coglie impreparato, arriva improvviso e fulmineo abbastanza da farlo sentire in imbarazzo. La testa gli si affolla di domande ridicole, da adolescente, da maschio idiota, e se le scrolla tutte di dosso perché non gliene frega niente. Stringe le braccia attorno alla sua vita sottilissima, trattenendola contro di sé, trattenendosi dentro di lei, finché non la sente tremare. Un tremito lieve, appena accennato, che però la lascia esausta e senza forze, appoggiata alla sua spalla col collo piegato con l’eleganza di un cigno.
Il profumo della sua pelle è così intenso che Domenico chiude gli occhi ed inspira forte, trattenendo il fiato per conservarne l’eco nelle narici anche dopo che si saranno separati.
Non succede prima di qualche minuto, comunque. Rosy inspira ed espira lentamente, fino a ritrovare il controllo sul proprio respiro, e poi si allontana da lui, guardandolo negli occhi, accarezzandogli il viso con entrambe le mani.
- Domenico, - gli dice, ed esita appena, come se le parole che vuole pronunciare fossero le più difficili di tutta la sua vita. Domenico scopre che è vero quando finalmente riprende a parlare. – Domenico, a me non me ne frega niente. – dice, la voce che trema, - Hai capito, Domenico? – gli stringe forte la testa fra le mani, appoggiando la fronte alla sua e continuando a guardarlo negli occhi. Domenico vede solo una macchia indistinta illuminata a tratti dalle luci colorate e intermittenti del televisore, ma sa che è lei e gli sta bene anche un’immagine confusa, - Non me ne frega niente.
Domenico annuisce, stringendole le braccia attorno ai fianchi. La abbraccia stretta, pensando fortissimo, nemmeno a me, nemmeno a me.
*
I dettagli cominciano a farsi strada nella mente di Rosy come crepe sull’intonaco. Domenico può vederli affiorare nei suoi occhi uno dopo l’altro, e ne ha paura. La loro quotidiana monotonia, una monotonia sulla quale lui si è appoggiato senza riserve da quando si sono trasferiti qui, comincia a franare gradualmente, quasi in sordina. Come l’oceano lentamente erode le montagne, la memoria lentamente erode il muro che Rosy ha eretto attorno ai propri ricordi, per proteggersi da quanto facevano male.
Sono flash brevissimi e intensi che Domenico le vede danzare sul viso casualmente ogni giorno. Una mattina stanno facendo colazione, Rosy inzuppa i suoi biscotti al cioccolato nel caffellatte, appollaiata sulla sedia come una ragazzina, e chiacchierano del più e del meno, quando Domenico fa una battuta cretina e Rosy ride e risponde “Calcaterra…!”, e poi spalanca gli occhi. Lo guarda, lo vede, lo riconosce. “Domenico…”, dice, e poi, seguendo un filo logico silenzioso ma ovvio, “Claudia…”.
Non dice altro, ma Domenico sente cambiare qualcosa, e istintivamente sa che da questo momento in poi sarà tutto diverso.
Ne parla al telefono con Randazzo, il quale lo ascolta in silenzio per dieci minuti buoni e poi sospira profondamente, irritato. “È per questo,” gli dice, “Che volevo visitarla. Si sta rilassando, si sta lasciando andare, e lasciarsi andare vuol dire lasciare andare anche la presa sui ricordi che inconsciamente nascondeva a se stessa. E questo è il risultato.”
Il risultato fa paura.
Rosy diventa più cupa. Settimana dopo settimana, la proporzione fra il numero di belle giornate e il numero di brutte giornate cambia. Il bilancio tende sempre un po’ di più verso le seconde, e Domenico si chiede a che pro sia scappato dalla realtà fino ad adesso, costringendo Rosy a fare lo stesso, se alla fine la realtà l’ha raggiunto comunque. Avrebbe dovuto correre più forte, forse, o forse anche se avesse corso alla velocità della luce non sarebbe comunque servito a niente.
È ironico – tristemente ironico –, pensa con rassegnazione mentre la osserva restare seduta in silenzio a fissare il vuoto come ormai fa sempre più spesso, che tutto questo stia cominciando ad accadere proprio adesso, proprio adesso che si sono ritrovati, proprio adesso che stanno tornando vicini, proprio adesso che lei aveva detto di non provare più alcun interesse per quello che era stata prima.
La vita ha un suo modo speciale di non lasciarti mai in pace. Vale per lui, come per Rosy. Probabilmente anche per chiunque altro.
Sono i nomi a tenerlo aggiornato su quello che sta succedendo nella testa di Rosy. I nomi che ogni tanto le sente mormorare quando è sovrappensiero. Ivan, Vito, Ilaria, Dante. Solo i nomi, perché di quello che sente, delle cose che ricorda, dei piccoli pezzi di se stessa di cui si riappropria un dettaglio dopo l’altro, di tutto questo, con lui, Rosy non parla. Lo tiene a distanza, sospettosa, perché lo sa – ovviamente lo sa – che lui invece ricorda tutto. Che non le ha detto niente. E sta cercando di capire perché, ma le manca ancora un tassello fondamentale, quello senza il quale non potrà mai capire la ragione dietro al suo silenzio.
Fra tutti i nomi che ha pronunciato, manca ancora all’appello quello di Leo.
*
Eppure, una notte, succede. Sono a letto insieme, come ormai accade sempre più spesso. Nessuno dei due sta dormendo. Hanno fatto l’amore un’oretta fa, ed è stato lento e intenso, e Rosy l’ha guardato a lungo, mentre lui si muoveva dentro di lei, sfidandolo a fermarsi, forse, o a confessare la verità. Poi si sono sdraiati l’uno di fianco all’altra, Rosy supina, i capelli sparsi sul cuscino e gli occhi fissi sul soffitto, e Domenico stretto a lei, le braccia attorno alla sua vita sottile, una gamba piegata sulle sue, come a volerla tenere in trappola per impedirle di fuggire.
I loro corpi si sono rilassati lentamente, mentre i loro respiri tornavano regolari e la stanza si riempiva di un silenzio denso e cupo all’interno del quale Domenico poteva sentire l’eco dei battiti del proprio stesso cuore rimbombargli nelle orecchie, così forti da domandarsi se forse non avrebbe dovuto chiedere a lei scusa per il rumore.
Poi Rosy l’ha detto. E Domenico ha scoperto di aspettarselo, di averla osservata tutto il giorno fissare un punto a caso – le sopracciglia aggrottate e lo sguardo perso nell’espressione tipica di chi ha una parola sulla punta della lingua ma non riesce a pronunciarla –, sapendo che alla fine questo momento sarebbe arrivato, e sarebbe stato oggi, perché non avrebbe potuto essere in nessun altro giorno.
Leonardo avrebbe compiuto oggi quattro anni.
- Il bambino. – dice Rosy. La sua voce ha lo stesso suono di un ramo spezzato nel silenzio di un bosco. – Leo.
Domenico le solleva gli occhi addosso, e scopre che sta piangendo, anche se nella sua voce non c’era traccia di lacrime.
- Rosy—
- Tu lo sapevi. – dice lei, - Tu lo sapevi e non mi hai detto niente. Quando io ti ho chiesto se era bravo, il mio bambino, tu mi hai detto che era bravissimo. Mi hai detto che era bravissimo, ma dovevi dirmi che era morto. – la voce le si incrina solo alla fine, e attraverso la crepa scivola un singhiozzo che le si blocca in gola, la costringe a un rantolo, il petto che si alza e si abbassa, tutto il suo corpo teso nello sforzo di continuare a piangere senza un lamento.
- Rosy… - geme lui, stringendole attorno le braccia. Vorrebbe trovare le parole adatte per scusarsi. Vorrebbe che esistessero, parole simili. Ma non esistono, e lui non può inventarle per lei. Decide di non dirle niente, di stringerla e basta mentre continua a piangere tremando senza una parola, e spera che non lo mandi via, e Rosy non lo fa, ma forse è solo perché le manca il fiato.
*
L’indomani mattina, Domenico fatica ad aprire gli occhi, perché gli fa paura l’idea di cosa lo aspetta quando si sarà svegliato. Ha sentito Rosy allontanarsi, un paio d’ore fa, quando si è svegliata – se poi ha mai dormito – ma non ha avuto il coraggio di muoversi e seguirla. Sa che forse avrebbe dovuto, ma l’idea di affrontare il dialogo che per forza di cose avrà luogo quando saranno di nuovo svegli e insieme nello stesso posto lo terrorizza. Non riesce neanche a concepire l’idea, figurarsi fare qualcosa per muoversi attivamente in quella direzione.
Deve alzarsi, però, prima o poi. Lo fa senza voglia, quando l’assenza di Rosy al suo fianco comincia a farsi sentire anche dentro. Si guarda intorno, mentre cammina per la casa, ma gli sta bene non trovarla subito. Sa che dev’essere lì, da qualche parte, può illudersi di stare camminando verso di lei, anche se in realtà sta solo strappando secondi al momento in cui la rivedrà.
Non sa cosa aspettarsi quando, una mezz’ora e un paio di caffè dopo, si convince finalmente ad uscire in terrazza. Sa che è lì che la troverà, e infatti è lì che lei si trova, seduta sulla panchina di cemento, il suo punto preferito della casa, le spalle appoggiate alla parete e le ginocchia al petto. Guarda il mare senza vederlo, guarda il passato nella propria testa nel tentativo di dare un senso ai fatti.
Domenico le si siede accanto, espirando profondamente.
- Vorrei trovare le parole. – le dice. Non le spiega per dirle cosa. In realtà non importa che voglia dirle qualcosa in particolare, o che non ci riesca. In realtà vorrebbe soltanto riuscire a trovare le parole per comunicare con lei in generale, per attirarla fuori da quella solitudine impenetrabile di sguardi fissi e nomi pronunciati a mezza voce. Vorrebbe trovare un ponte stabile sul quale camminare per raggiungerla sull’altra riva del fiume, ma l’acqua è alta e si agita infastidita, e la cordicella tesa fra questa e quella sponda è troppo sottile e sfilacciata perché lui possa giocare a farci l’equilibrista sopra.
- Domenico, tu non devi spiegarmi niente. – dice lei. Si volta a guardarlo, gli occhi vivi, presenti, brillanti. C’è Rosalia, lì dentro, non è più solo il suo guscio, quello che resta di lei riempito di calmanti ed antidepressivi. È lei. Lei com’era tre anni fa. Lei prima ancora di loro. – Io l’ho capito perché non mi hai detto niente. E ti ringrazio per non averlo fatto, e ti perdono per avere deciso di non farlo. Non devi preoccuparti, perché non sono per niente arrabbiata.
- No? – le domanda, guardandola di sottecchi, - E cosa sei, allora?
Lei non risponde subito. Torna a guardare il mare, le labbra che si increspano in un sorriso piccolissimo.
- Sono affamata, sono. – dice, - Ma di una cosa precisa. Voglio il gelato.
Domenico sospira, passandosi una mano sul viso.
- Usciamo, allora. – le dice, - Ti porto in piazza.
- No, di uscire non mi va. – ribatte lei, senza guardalo, - No, voglio restare qui. – Finalmente si volta, sulle labbra ancora quel sorriso evanescente, - Ci vai tu a prendermi il gelato, Domenico? Ci vai, e torni presto?
Ci va, e torna presto.
Mentre rientra in casa, senza lasciarsi stupire dal silenzio al quale è ormai abituato, pensa, forse sarei dovuto restare. Pensa, forse non sarei dovuto uscire. Il perché non lo sa, è un pensiero fugace e brillante come una stella cometa, che gli attraversa il cervello e poi lo abbandona mentre entra in cucina ed apre il congelatore per posarci dentro le coppette di gelato che ha comprato, per tenerle al fresco mentre va ad avvertire Rosy che è tornato.
Lei non è in terrazza.
È lì che ritorna il pensiero.
Sarei dovuto restare, non sarei dovuto uscire.
Sfonda la porta del bagno a calci perché lei ci si è chiusa dentro a chiave. L’acqua nella vasca da bagno è un rosso allo stesso tempo torbido e traslucido. Sul pavimento gocciolano acquerelli di sangue diluito. Rosy, immobile con gli occhi chiusi, respira lenta, ogni secondo sempre più distante.
*
Non riesce a smettere di pensare al gelato ancora in congelatore. Sarà diventato duro come marmo, ormai. Sarà immangiabile.
Gli dispiace, perché Rosy sembrava volerlo davvero. Chiaramente mentiva, ma non sa come dirglielo, quando finalmente gli permetteranno di vederla, che il suo gelato non potrà più mangiarlo, che dovrà andarglielo a ricomprare di nuovo, e che prima dovrà trovare il coraggio di farlo, e che per trovarlo prima dovrà smettere di associare la parola allo scorrere lento del suo sangue annacquato sulle piastrelle del pavimento in bagno.
È seduto su quella sedia da quasi diciotto ore. Gli fa male la schiena, gli fanno male le gambe, gli fanno male le ginocchia. Si sente allo stesso tempo tutto teso e raggrinzito, completamente senza forze. Aspetta che accada qualcosa, perché alla decima richiesta rifiutata di entrare in camera di Rosy ha deciso di arrendersi. Dorme ancora, sta riposando, non è in condizioni di vedere nessuno, i sedativi, è debole, una marea di scuse. Legittime, ma scuse.
Il dottor Randazzo è arrivato due ore fa. Lui l’hanno lasciato passare, naturalmente. Attraversando il corridoio, diretto in camera di Rosy, l’ha appena degnato di uno sguardo. Se gli abbia fatto qualche cenno, Domenico non lo sa, non se n’è accorto. Non è importante, comunque, non adesso.
Solleva lo sguardo solo quando vede un paio di gambe palesemente maschili, fasciate in un paio di pantaloni sobriamente eleganti, fermarsi proprio di fronte a lui. Il dottor Randazzo, dall’alto del suo più che rispettabile metro e ottanta nonostante l’età, lo guarda con la severità di un padre che ha esaurito la pazienza. Domenico si vergogna di se stesso e abbassa nuovamente gli occhi sul pavimento, aspettando il rimprovero.
- Dottor Calcaterra, - comincia lui, - Lei è un imbecille.
Domenico stringe i pugni sulle ginocchia. Brucia, ma se lo merita, per cui tace.
- Lei ha lasciato una donna palesemente non in grado di affrontare la realtà completamente da sola di fronte al processo di recupero della propria memoria. Non contento di questo, sapendola in uno stato mentale di fragilità assoluta, è stato talmente stupido da lasciarla sola in casa senza neanche immaginare le conseguenze di un gesto simile. Ci sono gli estremi per allontanarla immediatamente sia da questo posto che dalla vita della signora Abate, e può stare tranquillo che se solo avessi il minimo dubbio che questa situazione sia una conseguenza della sua incuria, piuttosto che della sua idiozia, farei tutto quanto in mio potere per impedirle di rivedere quella donna anche solo un’altra volta in tutta la sua vita. – si ferma, inspirando ed espirando lentamente, continuando a guardarlo dall’alto.
Domenico non parla, non saprebbe cosa dire, come giustificarsi. Mi allontani, dottor Randazzo, pensa, mi allontani perché non servo a niente, servo solo a peggiorare le cose. Giuro che ho provato ad aiutarla, sono mesi che provo ad aiutarla, anni, ma niente di quello che faccio la aiuta mai per davvero. Ho tenuto suo figlio con me, e l’ho solo costretta a cercare di rapirlo per riprenderselo. Sapeva che l’avrei inseguita, per questo ha provato a scappare, e nel farlo ha perso Leo per sempre. Ho provato ad amarla, ed è impazzita. Ho provato a guarirla, e si è aperta le braccia. Ho paura che se mi muovo ancora la perderò per sempre, e allora tanto vale perderla sapendo che dopo, almeno, starà bene.
- È stabile, adesso. – riprende il dottor Randazzo. La sua voce è più calma, ora, indulgente, quasi. – È cosciente. Ha perso molto sangue, ma la trasfusione non ha avuto complicazioni, e sta recuperando le forze. È ancora troppo debole per nutrirsi da sé, ma se la caverà. Dottor Calcaterra, - c’è un accento di nervosismo nel modo in cui pronuncia il suo nome, e questo cambio repentino costringe Domenico a sollevargli nuovamente lo sguardo addosso, stupito, - Dottor Calcaterra, la signora Abate è incinta.
Gli si ferma intorno il mondo. La voce di Randazzo riecheggia nelle sue orecchie in un rombo che lo confonde. Per un istante gli fa male perfino respirare, e butta fuori un gemito che lo lascia senza forze né voce.
- Mi rendo conto che non è esattamente il momento migliore per darle la notizia, ma non ce ne sarà un altro. È ragionevole pensare che lei non lo sapesse ancora. Onestamente, non so cosa consigliarle. Ma, capisce, dovevo dirglielo il prima possibile.
- Sì… - Domenico annuisce, la voce ridotta ad un rantolo, mentre si alza in piedi, incerto sulle gambe, - Sì, capisco. Grazie. Grazie per… per tutto.
- Non mi ringrazi. – Randazzo torna serio e severo, aggrottando le sopracciglia, - Lei ha perso completamente la mia fiducia, dottor Calcaterra. Non sono sicuro che riuscirà mai a recuperarla. Da questo momento in poi, esigo di vedere la signora Abate due volte a settimana, con o senza il suo consenso. Badi bene che non glielo sto chiedendo.
- No. – Domenico scuote il capo, - No, naturalmente, capisco. Mi dispiace. Naturalmente. Anche tutti i giorni. La prego.
Non sa più neanche cosa sta dicendo, se le parole che pronuncia abbiano un senso, anche il più vago. Il dottor Randazzo sospira, si passa una mano fra i capelli bianchi, lo guarda al di là delle lenti spesse degli occhiali dalla montatura trasparente.
Va via dopo averlo salutato con molto più calore di quanto Domenico non si aspettasse né credesse di meritare. Quando lo vede scomparire dietro l’angolo alla fine del corridoio, Domenico si lascia ricadere sulla sedia, privo di forze. Resta lì a fissare il vuoto finché una delle infermiere non lo raggiunge, toccandogli la spalla per richiamare la sua attenzione.
- Dottor Calcaterra, - gli dice, - Se adesso vuole vederla…
Vuole. Vuole.
La stanza è bianchissima, e le enormi finestre che coprono quasi tutta una parete lasciano passare tanta di quella luce che non rimane neanche un angolo oscuro. Lei è piccolissima e bianca come un lenzuolo su quel letto enorme dall’aspetto scomodo. La flebo attaccata al braccio gocciola silenziosa.
All’inizio lei neanche lo guarda. Ha gli occhi fissi fuori dalla finestra. Chissà cosa vede.
- Ciao, Rosy. – le dice piano. Aspetta di vederla voltarsi e lei lo fa, con un movimento talmente lento da sembrare infinito.
- Hai visto che bel sole che c’è? – dice, la voce un po’ roca.
A Domenico scorre un brivido lungo la schiena, la sensazione di aver già vissuto questo momento è tanto forte che per un attimo si domanda se su quella sedia in corridoio non ci si sia per caso addormentato, e adesso stia solo sognando.
Non le risponde, ha paura di dirle qualsiasi cosa.
- Ma sei un medico? – chiede lei, curiosa.
Lui si sente svuotato, e poi improvvisamente riempito di qualcosa di nero e denso che gli fa venire voglia di piangere.
- No. – risponde, - No. Rosy. Sono Domenico.
Lei annuisce vaga, distoglie lo sguardo, si appoggia meglio contro i cuscini. Ha l’aria stanca.
- Sei un amico mio? – chiede, tornando a guardarlo.
Allora è così, pensa lui, è così quando qualcosa dentro di te si rompe. Ti spegni, cancelli tutte le impostazioni e ti riavvii, e non c’è limite al numero di volte che puoi farlo, lo fai e basta, perché non hai alternative. Da certi dolori non puoi fuggire, puoi solo rimuoverli. Ancora e ancora, tutte le volte che serve.
Lentamente, le si avvicina. Prova a sorriderle. Si stupisce di riuscirci.
- Sono qualcosa di più. – le risponde, appoggiandole una mano sulla pancia.
- Ah. – esala lei, sorridendo appena. I suoi occhi si colorano di un riflesso più caldo. Posa una mano sulla sua, guardandolo con affetto. – Dice il dottore che avremo un bambino. – parla piano, nel silenzio che li avvolge, - Sarà bravissimo, il nostro bambino.
Domenico annuisce, sedendosi sulla sponda del letto.
- Bravissimo. – ripete. – Bravissimo.
Genere: Introspettivo.
Pairing: Rosy/Vito.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Het, Spoiler per i primi episodi della s3.
- Impossibilitato a muoversi e nascosto nella villa di Geraci, Vito si gode il caldo di Palermo. E la sua Regina.
Note: Ogni tanto mi guardo allo specchio e vorrei sputarmi in un occhio. #noteconcise
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YOU SET THE WORLD ON FIRE

Vito il caldo lo conosce, lo conosce bene. A Napoli può farsi esasperante, in certi periodi dell’anno. Ad agosto, ad esempio, quando pure la pelle che tieni sulle ossa ti sembra troppo pesante e vorresti riuscire a strappartela di dosso come una maglietta vecchia, e dai marciapiedi ingombri di monnezza viene su un tanfo insopportabile che ti dà la nausea, ed anche il più piccolo movimento pare un sacrificio enorme, inaccettabile, ecco, quello sì che è caldo. Il caldo che ti si infila nelle narici e nella bocca, che quasi ti fa venir voglia di smettere di respirare per non mandar giù ogni volta bocconi di aria rovente.
Quello sì che è caldo. Quello sì che era caldo, si dice adesso, steso sulla sdraio sistemata praticamente in mezzo al piazzale antistante la villa all’interno del quale, ormai da un paio di mesi, è generosamente ospitato da Geraci e quella matta di Rosy Abate. Mentre la stoffa plastificata della sedia gli si appiccica dolorosamente addosso, costringendolo a penosi schiocchi ogni volta che si solleva per evitare di fondercisi insieme, pensa che se quando stava a Napoli gli avessero netto che esisteva un caldo peggiore di quello, non ci avrebbe creduto. Si sarebbe messo a ridere. Cosa volete che esista di peggio, avrebbe detto, sentite l’afa soffocante, sentite il puzzo nauseabondo? Può esistere davvero qualcosa di più asfissiante dell’agosto napoletano?
Esiste. A Palermo. Ed è solo luglio.
Non c’è puzza di monnezza, in casa di Geraci, ma l’odore dei limoni maturi è tanto forte da stordirlo e nausearlo tanto quanto faceva il tanfo della sporcizia per le strade della sua città natale. Il cielo è giallastro, ricoperto delle nubi pesanti di umidità che il gran caldo del mattino ha risucchiato su dal mare, piazzandole davanti al sole senza per questo creare neanche un centimetro d’ombra. Tutto sembra aver preso il colore del terriccio polveroso che invade i piazzali e i sentieri di quella villa in mezzo ai campi. Immobile sotto quel sole imbruttito dalle nuvole, Vito se ne sente soffocare.
Annoiato, si passa una mano sul petto nudo e si concede una smorfia schifata quando le dita scivolano sulla patina di sudore appiccicoso che gli ricopre la pelle. L’aria della Sicilia è pesante, zuccherina sulla lingua, tanto da sdegnarlo, quasi. Se la sente addosso, vischiosa e umida come un sottile strato di fanghiglia. Rende difficoltosi tutti i suoi movimenti, perfino la sua capacità di pensare lucidamente. Ombre gelatinose si muovono dietro alle sue palpebre, quando le chiude. Le sente pesanti di sonno, ma sa di non potersi addormentare. Non lì, almeno, se non vuole ardere vivo. E neanche da nessun’altra parte, visto che il solo pensiero di andarsi a stendere sul letto con tutto ciò che questo comporterebbe – dover sopportare il peso delle lenzuola addosso, il calore emesso dall’imbottitura del cuscino e del materasso sulla pelle – lo disgusta.
È ormai quasi una settimana che non può scendere in città. Sente la mancanza delle gitarelle in incognito che si concedeva a Mondello, per una piacevole passeggiata in riva al mare, o al Giardino Inglese, per un giro pigro sotto le fronde ombrose degli enormi alberi secolari che ne riempiono le larghe aiuole, quando ancora nessuno sapeva che era arrivato a Palermo, quando ancora il suo nome non era finito su tutte le scrivanie dei commissariati della regione, quando ancora la sua faccia, in quel luogo, non era legata al suo cognome, non era che una fra le tante.
Sospira e fa per cambiare posizione sulla sedia un’altra volta, ben consapevole del fatto che non ne esista una più comoda ma allo stesso tempo ben deciso a continuare a cercarla anche per sempre, quando vede uno spicchio di stoffa scura a fiori entrare nel suo campo visivo. Rosy è finalmente uscita dalla cameretta di suo figlio, e Vito accoglie il fatto come un piacevole diversivo.
- Stavo pensando di andarmi a fare una passeggiata, in serata. – dice, senza rivolgerle un’occhiata diretta ma continuando a fissare il cielo in un punto abbastanza distante dal sole per non sentire gli occhi bruciare, - Magari dalle parti di Capaci. Posticino tranquillo. Tutta spiaggia. Chi vuoi che mi veda?
- No. – dice seccamente lei, e lui si volta a guardarla, di scatto.
Rosy non si siede, ma si appoggia al tavolo nel mezzo del piazzale, a qualche metro da lui, sventolandosi il viso con una mano. Il vestitino corto e scuro scopre quasi del tutto le sue lunghe cosce abbronzate, ed i bottoncini che lo tengono chiuso sul davanti sono tesi fino allo spasmo sul petto, all’altezza del seno duro e gonfio di latte. – È troppo pericoloso.
- Non mi conosce nessuno, là. – insiste lui, aggrottando le sopracciglia, - Non ne posso più di stare seduto qui a non fare un cazzo.
- E ti pare una brillante idea farti vedere in giro, invece? – obietta lei, sferzandolo con un’occhiataccia severa, - Devo ricordarti che la Mares ha la tua faccia in mano? Ci mette niente a metterti in galera e buttare via la chiave, quella. Devi farti furbo, Vito.
- E che me lo insegni tu come ci si fa furbi? – chiede lui, lanciandole un lungo sguardo pesante di fastidio e frustrazione.
- Sì, te lo insegno io. – risponde lei, sicura di sé, - Che pure a Napoli non mi pare che facessi tutta ‘sta gran vita.
- Rosali’, la vita che facevo a Napoli – ringhia Vito, alzandosi in piedi e raggiungendola di fronte al tavolino, al quale lei resta appoggiata senza fare una piega, guardandolo da sotto in su come una bambina impertinente, - non sono cazzi tuoi. Non sono venuto fino a qua per farmi pigliare per fesso. E neanche per non fare un cazzo tutto il giorno. Se voglio stare in prigione, me ne vado in una prigione vera, che almeno fa fresco.
- E vacci. – lo sfida Rosy, scostandosi appena dal tavolo per avanzare di qualche centimetro, a sufficienza da schiacciarsi contro di lui mentre le sue mani rimangono bene ancorate al bordo, - Vattinne. Credevo che fossi un uomo con le palle, - ghigna, una delle sue mani che immediatamente abbandona il tavolo per serrarsi fra le sue cosce, stringendo forte abbastanza da farsi sentire senza fare troppo male, - ma evidentemente mi sbagliavo.
Lui soffia indispettito, ed invece di staccarsela di dosso e mandarla per terra con un manrovescio, come vorrebbe fare, posa la propria mano sulla sua e la invita a stringere di più.
- Che le palle ci sono, lo sai. – le sussurra a pochi centimetri dalle labbra. Il suo respiro è infuocato come l’aria. Il profumo di Rosy, più forte di quello dei limoni. – È che cosa vuoi fartene che ancora non mi è chiaro.
Rosy sorride, un ghigno cattivo che sul suo viso dolce, da bambina, fa più paura di una pistola puntata in mezzo agli occhi. Stringe la presa sul cavallo dei suoi pantaloni, le dita sottili che premono contro la pelle sensibile e tesa, e poi lo lascia andare, allontanandolo con uno strattone deciso. Vito non se l’aspetta, e finisce sbalzato indietro di un paio di passi.
- Il bambino sta piangendo. – dice lei, sistemandosi la gonna perché le copra meglio le cosce. Sta ancora sorridendo. La villa è coperta da una coltre di silenzio così perfetto che si sentirebbe perfino il rumore delle nuvole che si strofinano fra loro, se si muovessero. Leonardo non sta piangendo, Leonardo probabilmente dorme sereno come non ha mai dormito, ma Rosy vuole una scusa per allontanarsi da Vito e vuole che Vito sappia che si tratta solo di una scusa, di una menzogna come un’altra, vuole che la veda mentire in modo che sappia che lei non prova la minima vergogna nel farlo con lui, anche quando la bugia è così palese.
È così che mantiene il controllo su di lui, facendolo impazzire con questi piccoli dettagli. Sa che un giorno non avrà più bisogno di tenerlo così sulla corda, sa che un giorno sarà lui a seguirla ovunque senza un fiato e senza neanche sentire il bisogno di un guinzaglio attaccato al collo, ma per ora è così che lo addestra, è così che lo addomestica, è così che lo doma. E lui, randagio com’è sempre stato, come tutti i randagi prova quasi un sottile piacere nel sentirsi privare della libertà delle strade in cambio di quel po’ di calore che Rosy gli concede.
Si volta, non vuole vederla andare via. La sente sorridere ancora mentre entra in casa, e lui decide di muoversi solo una volta rimasto solo. Torna a stendersi sulla sdraio, inforca gli occhiali da sole e riprende a guardare il cielo immobile. Come lui.