rp: george bellamy

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Triste.
Pairing: Nessuno.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Angst, Language, What If?.
- Matthew Bellamy ha un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionino, ovviamente, ma di certo non può ignorarle. Fra tutte, però, quella che sente più vicina è di sicuro la possibilità di potersi svegliare un giorno e riscoprirsi in tutto e per tutto uguale alla persona che più odia al mondo. Suo padre.
Note: Gh. Chiaramente non so che dire, perché nonostante sia stato un lavoro lungo, faticoso ed anche vagamente doloroso, non mi ha impegnato tanto intellettualmente quanto emotivamente. Ed alla fine, quando si scrive una cosa usando tanto il cuore e pochissimo il cervello, c’è poco da stare a ragionarci su.
Mi ha drenata.
E qualcuno dovrebbe fermarmi, quando mi metto in testa di marchiare nero su bianco cose che farebbero meglio ad essere dimenticate.
Comunque spero vi sia piaciuta, nonostante le ventiquattro pesantissime pagine di emoparanoia ^^
Devo creditare un mare e mezzo di canzoni dei Muse che sono il motivo preciso per cui amo Matt e per il quale ho seriamente paura di essergli per certi versi molto affine. E quando dico paura, intendo proprio paura. Io non voglio davvero essere affine alla mente di un uomo che produce musica per lucine colorate ;_; *depressa*
Comunque: la canzone che apre e chiude la storia è anche quella che le dà il titolo. Si tratta di Escape, tratta dal primo album dei Muse, Showbiz. Pare che dal vivo non l’abbiano proprio mai fatta, anche se non potrei giurarci. L’interpretazione “anti-paterna” me l’ha suggerita Stregatta, ed io mi ci sono appiccicata come una patella sullo scoglio, piangendoci su pure amarissime lacrime. Grazie gioia :* Se non me l’avessi suggerito tu, questa storia non sarebbe mai nata!
And if my wish comes true, you’ll never see me again” è un verso tratto dalla bellissima Host, una delle millemila canzoni anti-Teignmouth che Matty ha scritto mentre era palesemente depresso, e che oltretutto è anche la matrice da cui ho ripreso l’espressione “ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte”. B-side del singolo di Cave.
You’re so happy now… burning a candle on both ends… Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…” sono invece versi tratti dall’altrettanto bellissima Fury, bonus track della versione giapponese di Absolution. Non si capisce perché i giapponesi debbano avere sempre il meglio -_- Comunque secondo me è una canzone che si adatta un casino al padre di Matt o.o Basta conoscere un attimino la storia della sua famiglia (qui ne avete un assaggio storicamente esatto, peraltro, tranne per i nomi dei fratellastri di Matt, che ho allegramente inventato io <3) per rendersene conto XD
Nel corso della narrazione cito anche Falling Down (sempre presa da Showbiz), che è la canzone in cui Matt dice che Teignmouth non l’ha mai fatto neanche “cominciare a cantare”, ed è anche lei un orgoglioso manifesto anti-patria, e Blackout, che è una canzone splendida tratta da Absolution e che mi sembrava si adattasse molto allo stato d’animo di Matt sul finale della storia. Ovviamente non c’è alcuna prova che le canzoni che io gli ho fatto scrivere in queste situazioni siano davvero state scritte proprio in questo modo. Licenza <3
Per essere totalmente sinceri, una cosa da dire su questa storia c’è: inizialmente doveva essere una BellDom o.o Ma non ce l’ho fatta XD Perdonatemi. E poi, secondo me ed anche secondo Nai, è meglio così u__u Prima o poi ne scriverò una è_____é *mente spudoratamente* Voi continuate a seguirmi, non si sa mai <3
PS: When Doves Cry è una canzone meravigliosa di Prince che parla – guarda un po’! – di divorzio, ed è una delle canzoni preferite di Matt.
PPS: Che Matt sia tifoso del Manchester United è una mia gioiosa invenzione è_é È che io amo il Manchester United. Punto <3
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
Alla me stessa di dieci anni fa, perché proprio non se lo meritava.
Alla me stessa di cinque anni fa, perché il tempo, prima o poi, ricomincia sempre a scorrere, lo si voglia o no.
Alla me stessa di oggi, perché la rabbia potrà non essere il migliore dei sentimenti, ma come valvola di sfogo è insuperabile.
E infine, alla me stessa di domani. Perché non dimentichi. E non perdoni.

ESCAPE

You would say anything
And you would try anything
To escape your meaningless
And your insignificance
You’re uncontrollable
And we are unlovable
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again

Matthew Bellamy aveva un sacco di paure cretine. Non che lo ossessionassero, chiaramente, ma c’erano, ed il più delle volte non poteva nemmeno ignorarle. Per dire, aveva una paura assurda di soffocare nel sonno – gli era rimasta attaccata addosso da quando aveva rischiato di finire davvero morto stecchito in quel modo allucinante, durante uno dei tour più folli che ricordasse, in Giappone l’anno precedente – che non riusciva a scacciare in nessun modo. Che nemmeno la prolungata sobrietà – per quanto sobrio potesse dirsi un inglese… sospettava che in realtà lui, come tutti i propri compatrioti, conservasse una quota d’alcool minima nelle vene pure quando non beveva da settimane. Giusto quanto bastava per carburare, ecco – o l’astinenza da qualsiasi tipo di droga erano riuscite a lenire. Tant’è che alla fine aveva pure smesso di privarsene.
Poi, va be’, questo lo sapevano tutti: aveva paura di restare incinto di un piccolo alieno da dover poi crescere ed accudire da solo, come figlio proprio. Ed aveva paura delle guerre, dei viaggi transatlantici, delle grandi città sconosciute, degli squali, degli orsi, di Tom quando si arrabbiava, del cane di Dom, di Chris quando si faceva crescere i baffi fino al mento e di perdersi negli aeroporti.
Soprattutto, però, Matthew aveva una paura che lo preoccupava fin nel profondo. Che sentiva molto più vicina e reale di tutte le altre, e che a volte lo tormentava proprio.
Matthew Bellamy era uguale al proprio padre. Solo fisicamente, almeno da quanto era riuscito a capire fino a quel momento della propria esistenza, ma era più che abbastanza per terrorizzarlo.
Suo padre aveva mollato sua madre – con due figli a carico – quando lui aveva appena compiuto tredici anni. Paul ne aveva tre di più. E sua madre era giovanissima, e di anni ne aveva appena trentaquattro.
Suo padre era l’uomo senza cuore che aveva lasciato tutti loro per rifugiarsi letteralmente nell’emisfero terrestre opposto a quello dove si trovavano, in Australia, per ricominciare una nuova vita con un’altra donna, altri figli e un nuovo lavoro nel quale impegnare tutto se stesso.
Suo padre era anche stato un musicista. Perfino piuttosto famoso, per quanto perennemente squattrinato.
Era un’altra somiglianza che Matthew proprio non poteva ignorare.
La sua più grande paura era questa: svegliarsi un giorno e scoprire di aver annullato tutte le differenze. Di essere diventato proprio lui.
La persona che più odiava in tutto il mondo.
*
- Io continuo a non essere d’accordo. – borbottò mestamente, accucciandosi in una posa molto emotivamente infantile sullo scomodo seggiolino della sala d’aspetto dell’aeroporto.
Dom roteò gli occhi e gli rispose con una botta neanche troppo delicata sulla spalla.
- Piantala di lamentarti, una buona volta. – lo rimproverò, - Non fai altro da quando abbiamo deciso di tornare per le vacanze!
- Non abbiamo deciso di tornare! – precisò lui, sollevando lo sguardo, - Voi avete deciso di farlo, e me ne avete parlato solo a giochi fatti!
- Probabilmente perché sapevamo che avresti reagito come un idiota isterico, non ti pare? – fu la laconica risposta di Dom.
Chris squadrò il batterista con manifesta disapprovazione e poi sedette accanto a Matthew, poggiandogli una consolatoria manona sulla spalla.
- Matt, avevamo davvero bisogno di una vacanza… - cercò di motivare, stringendogli calorosamente la nuca, come in un massaggio.
- Ma io sono d’accordo… - mugolò Matthew, lasciandosi andare contro quella mano dai balsamici poteri, - Però, a questo punto, non capisco per quale motivo non sono potuto andare in Costa Azzurra con Tom! Scommetto che mi sarei divertito di più!
Chris sospirò e gli diede qualche altra amichevole pacca sulla schiena, mentre Dom intrecciava le braccia sul petto e lo fissava astioso.
- Perché anche Tom aveva bisogno di una vacanza. – rispose, - Da te. E poi, Matthew, da quanto diavolo è che non vedi tua madre?! – riprese a rimproverarlo, - Quella poverina finirà col dimenticarsi di aver mai avuto un figlio minore!
Matthew mugugnò un qualcosa di indefinito e tornò ad accucciarsi sul seggiolino, fissandosi le ginocchia.
Nella sua ottica, sarebbe stato molto meglio che sua madre procedesse una buona volta con le “pulizie di primavera”, e si dimenticasse totalmente di lui. D’altronde, Paul era più che sufficiente, come figlio. Era responsabile ed aveva un lavoro solido e si prendeva cura di lei.

Non somiglia affatto a nostro padre.

Per di più, quando a sedici anni diceva di odiare Teignmouth al punto che avrebbe desiderato raderla al suolo – ed ammazzarli tutti, quei bastardi che l’avevano dissanguato a morte – era serio. Era dannatamente serio, perfino quando affermava che non sarebbe mai più tornato a casa se fosse riuscito a realizzare il suo sogno – diventare famoso, cantare e suonare per vivere, farsi ascoltare, una buona volta.

And if my wish comes true, you’ll never see me again.
Se ce la faccio, Dio, col cazzo che mi rivedrete più.
Cristo, ero serio davvero.


Valeva anche per Dom e Chris, allora, ma… be’, probabilmente il loro odio s’era smorzato. Considerevolmente. Forse addirittura fino a spegnersi.
Il punto era che da adolescenti erano stati tutti e tre piuttosto maltrattati dal mondo circostante. Fosse solo per il fatto che proprio non ce l’avevano fatta ad integrarsi con la parte migliore della scuola, fosse perché erano tutti piuttosto poveri – e quindi, anche volendo, altro che integrazione – fosse perché avevano comunque degli interessi che continuavano a sospingerli lontano dalla massa, o fosse, infine, perché ogni volta che mettevano mano ad uno strumento c’era sempre qualcuno pronto a dire loro che non sarebbero mai riusciti a concludere niente nella vita, non l’avevano mai capito. Non era nemmeno importante. Perché tanto il risultato era quello, no?
Le botte dei bulli, il disprezzo degli insegnanti, le prese in giro delle ragazze e la rassegnata frustrazione dei genitori. C’era poco da fare.
Crescendo, però, qualcosa era cambiato.
Di quello che era stato un comune desiderio di fuga, era rimasto molto poco.
Nel 2002, con un album universalmente adorato attualmente in cima alle classifiche di vendita di alternative praticamente in ogni stato del mondo, un tour trionfale che li aveva portati fino in Asia – in Asia, Cristo! – appena concluso ed una considerevole somma di denaro al sicuro in banca, c’era davvero poco, del loro passato, da cui valesse ancora la pena fuggire.
Perciò Chris aveva pensato di vendicarsi a modo proprio – comprando una villa in campagna per Kelly e i bambini. Proprio nei dintorni di Teignmouth – e Dom di far risalire in superficie quella vena di attaccamento mammone per la quale l’avevano sempre sfottuto perfino fra loro.
Il risultato di quella brusca virata emotiva era stato il ritorno a casa.
Era contento per i suoi amici, perché era evidente desiderassero recuperare le proprie radici, ma…

…ma cazzo. Io le mie radici le ho strappate a forza dal terreno. Ora si muovono con me. Le mie radici sono ovunque io vada.
Però il suolo del Devonshire è malato. È putrido. È saturo di ricordi che preferirei cancellare. Di fantasmi che non ho alcuna voglia di incontrare.
Se torno lì mi ammalo e muoio. Lo sento.
Se torno lì… chi mi salva da papà…?


Scosse il capo, ficcando con forza le mani fra i capelli rossissimi e disordinati sulla testa.
A sua madre sarebbe preso un colpo.
Gli avrebbe sicuramente detto che poteva anche essere d’accordo se decideva di mettersi a fare il pittore, ma che le tele da disegno esistono proprio per non dover utilizzare come tali i propri capelli, “perciò vedi di tornare al colore originario, ragazzino, che non ti ho dato quell’adorabile castano biondiccio per non godermelo!”.
Il castano biondiccio non era di sua madre, dannazione anche a lei.
Era di suo padre.
Sua madre aveva i capelli corvini ed era pallida come Biancaneve. Sua madre aveva trasferito i propri geni direttamente a Paul. Paul e lei erano identici.
Anche lui era il perfetto riflesso di qualcuno. Solo che era un qualcuno di cui neanche sopportava la vista.

Mamma, se non mi concio in questa maniera è difficile perfino guardarmi allo specchio, sai…?

Avrebbe dovuto abituarsi. E basta.
- Ehi… - mormorò Dom, scivolando spalla contro spalla su di lui, - Dai, calmati. Non sarai mica solo! – cercò di consolarlo, sorridendo dolcemente.
- Chris va a stare fuori… e tu vivi dall’altro lato della città!
- Teignmouth è un buco talmente minuscolo che se lo cerchi sulla cartina neanche lo vedi! – rise ancora Dom, omaggiandolo di una divertita pacca sulla spalla, - Non sarà difficile trovarmi, se avrai bisogno di me!
- E poi noi andremo in spiaggia praticamente ogni giorno… - aggiunse Chris, annuendo deciso, - Tu stai a due passi dal lido, vero? Potremmo andare insieme, ai bambini farebbe un enorme piacere giocare un po’ con te… devi ancora ad Alfie il più maestoso castello di sabbia di tutti i tempi, non fartelo ricordare ogni estate!
Si lasciò andare ad una risatina che aveva molto più di rassegnato che di effettivamente consolato, ma sperò che i suoi amici se la facessero bastare. Era il massimo che fosse disposto a concedere in quel frangente. Almeno in quel preciso istante.
Una voce metallica dagli altoparlanti li informò che l’imbarco del loro volo stava cominciando.
Il tour s’era concluso da meno di dodici ore. Da Leeds a Londra in volo.
E poi un treno che non sopportava, perché era già vecchio e distrutto quando lui era un bambino, e da allora non era mai cambiato.
Fino a casa.
Anche lei vecchia e distrutta da sempre.
Anche lei, da sempre identica a se stessa.
*
Il treno cigolava fastidiosamente già da una ventina di minuti. Succedeva sempre, ed era una normalità che gli portava alla mente tanti di quei ricordi agrodolci e terribili che a volte doveva necessariamente trattenere il fiato per non esplodere in singhiozzi di nostalgia pura.
Per un motivo che non aveva mai compreso – probabilmente ricercabile nel fatto Teignmouth fosse, in fondo, un florido porto di mare ed anche una produttiva cittadina industriale – dalla stazione passavano decine di treni ogni giorno. Perciò, tornare a casa significava ogni volta attendere che l’unico binario che passava per quei lidi sperduti fosse sgombro o allineato o chissà cos’altro, e l’unico modo per non pensarci era lasciare che il tempo si diluisse da solo nella noia e, se si era fortunati, nel sonno.
Quando erano ragazzini non era così. Quando erano ragazzini, il treno non lo prendevano mai. Però ne osservavano passare a dozzine per tutta la settimana. Dai prati verdissimi che circondavano quella stazione minuscola, si vedevano i binari mischiarsi con la linea dell’orizzonte fino a sparire. Era bellissimo immaginarne il tragitto fino a Londra, e poi magari ancora più in alto, fino al cuore del cielo.
Ma adesso non avevano più alcun bisogno di immaginare niente. C’erano arrivati, nel centro preciso di quel fottuto cielo. E l’avevano spaccato pure in mille pezzi, con la stessa furia grondante rabbia e frustrazione e dannato sollievo con la quale in genere spaccava le proprie chitarre o la batteria di Dom, durante i concerti.
Quel panorama – quella stupida cittadina, quella stazione spoglia da fare pietà, le esistenze grigie di coloro che non erano riusciti a sottrarsi a quella quotidianità fatta di silenzio e anonimato – non era più una cosa per loro.
Teignmouth era squallida. Squallidissima.
Il suo palcoscenico doveva essere un altro. Nel suo palcoscenico, le luci si accavallavano impetuose l’una sull’altra come le onde del mare. Sentiva il battito del basso di Chris fino in gola, come fosse stato il suo stesso cuore. Sentiva le botte delle bacchette di Dom sulla pelle dei tamburi fin dentro le viscere. Il battere simultaneo delle mani di migliaia di persone regolava il ritmo del suo respiro, e le loro voci, amalgamate in un’orgia di cacofoniche assonanze, reggevano i fili dei suoi pensieri.
Nel suo palcoscenico, lui era tutto. Era ognuno di loro ed era tutti loro.
E poteva essere qualsiasi cosa.
Un prete una puttana un padre un figlio un messia. Dio in persona.
- Recuperiamo le valigie! Siamo arrivati!
C’era troppo entusiasmo nella voce di Dom. Non riusciva proprio a capire cosa ci fosse di tanto entusiasmante.
Aveva un pessimo presentimento.
Aveva sempre pessimi presentimenti, quando tornava lì.
Arrivava fino alla porta della sua vecchia casa sempre con un’angosciante massa di pensieri cupi ad ingombrargli la testa. Poi la porta si apriva. E sua madre era sempre un po’ più vecchia. E Paul era sempre un po’ più scocciato. E dentro di lui si faceva strada, sempre più profondamente, un terrore viscido e strisciante che gli ricordava che no, non sarebbe rimasto sempre tutto bello e comodo com’era stato fino a quel momento. Prima o poi, Paul si sarebbe davvero rotto i coglioni di giocare al figlio devoto. Prima o poi, una delle numerose donne che continuavano a susseguirsi nella sua vita avrebbe preteso qualcosa di più di un eterno fidanzato.
A quel punto, davvero, sua madre avrebbe ricordato di avere un altro figlio.
O, forse, l’avrebbe dimenticato sul serio: e sarebbe rimasta sola per sempre.
Non sapeva quale delle due possibilità fosse la peggiore. In ogni caso, lo spaventavano entrambe.
Aveva salutato Dom e Chris in stazione e si era diretto stancamente all’esterno dell’edificio, lasciando cadere lo sguardo intorno a sé come un’ombra distratta, in cerca di un taxi. Ci mise effettivamente un po’ di tempo a ricordarsi che in quel buco di cesso dimenticato dalla civiltà i taxi neanche c’erano. Era inutile perfino che passassero gli anni, Teignmouth restava una fogna. Puzzava pure, di fogna: di pesce marcio e fumi di scarico e dell’aria appestata di qualche migliaio abitanti – chissà se poi era vero? Chissà con quante persone condivideva il respiro in quel momento? Erano poche e riuscivano a mangiarsi tutto l’ossigeno. Tutto.
Teignmouth era un’enorme fossa biologica a cielo aperto.
Ripiegò in favore del vecchio autobus che prendeva sempre. La solita linea.
Quella che l’avrebbe portato direttamente a casa.

Cristo. Mi sono mai mosso davvero, da quando avevo sedici anni?
Mi sento in gabbia. Dio, Dio, Dio, odio questo posto. Lo odio davvero.


Ed odiava davvero ritrovarsi coi propri parenti. Paul faceva almeno un po’ di fatica per star dietro a lui e ad i Muse, ogni tanto lo andava a vedere per qualche concerto nel circondario, e quando si fermava a Londra passava sempre a trovarlo, perciò l’impatto per lui era meno traumatico, ma sua madre, sua madre!, viveva una realtà propria fatta di antiche canzoni in gaelico e tele dipinte a metà destinate a sbiadirsi nell’incuria del tempo. Sua madre ogni volta aveva difficoltà ad abituarsi alla sua faccia, ai suoi vestiti, al suo modo di passare il tempo, ai suoi atteggiamenti, perfino all’idea di lui. Sua madre, a volte, gli dava l’impressione di non conoscerlo affatto.

Mi hai cresciuto tu. Sono così per te.
Sono così perché non hai fatto che ripetermi come fosse lui. Dovevo prendere le contromisure adeguate. Dovevo essere diverso. Dovevo essere un me stesso completamente diverso da mio padre, ma siccome, in realtà, di lui non ho mai avuto un’idea così precisa, dovevo essere un me stesso completamente diverso da tutto il resto del mondo.
Non è facile, mamma.
Essere Qualcuno.
Non è facile nemmeno essere qualcuno senza maiuscola.


Casa lo accolse come al solito. Silenziosa e squallida. Era quasi ora di cena – sarebbe stato perfino giustificato aspettarsi il tintinnare metallico delle pentole contro i fornelli, che avrebbe reso tutto molto classico e molto normale – ma sua madre non sapeva cucinare ed utilizzava gli utensili da cucina giusto il minimo indispensabile per sfamare la propria prole. Avevano quasi sempre mangiato alimenti cotti al microonde o in forno.
Aprì il cancelletto d’ingresso, la cui serratura era rotta da sempre, e s’inerpicò lungo il vialetto sterrato che conduceva alla porta, strascicando faticosamente l’enorme ed anonima valigia nera che aveva riempito alla rinfusa un’ora prima di partire.
Bussò e ad aprirgli fu Paul.
Suo fratello schiuse la porta con una certa violenza, come stesse aspettando qualcuno.
Quel qualcuno non poteva essere lui, perché lui non aveva avvisato.
Paul dischiuse le labbra e modulò qualcosa che avrebbe potuto essere una parola qualsiasi. Non era importante.
Matt sorrise timidamente.
- Se stavi aspettando la tua ragazza attuale, - ironizzò, stringendosi nelle spalle magrissime, - mi dispiace ma non posso aiutarti.
Paul sembrò riscuotersi solo in quel momento. Ridacchiò, scuotendo il capo, e lo avvolse istantaneamente in uno di quegli abbracci così tipici di lui – che era robusto e altissimo e forte – che Matthew avrebbe preferito chiamare “casa” loro, piuttosto che l’ammasso di mattoni in disgregazione in cui ricordava di aver trascorso i pomeriggi più orrendi della propria adolescenza.
- Scricciolo… - borbottò suo fratello, scrollandolo rude un po’ qua e un po’ là, - Non ti aspettavamo.
- Sì, lo so. – mugugnò lui, separandosi a malincuore dal corpo caldo dell’uomo.

Dannazione. Dannazione pure ai ventiquattro anni suonati che non mi permettono di pretendere qualche coccola in più.
Mi sento stupido perfino a pensarle, certe cose.
Coccole.
Eppure ne vorrei un po’. Davvero.


- Non hai scelto un buon momento, sai? – continuò suo fratello, impossessandosi della valigia e facendogli strada in casa, - Cristo, sei magrissimo! Ma ti danno da mangiare?
- Ero così pure l’ultima volta che mi hai visto… - si lamentò lui, stringendosi ancora nelle spalle, - E comunque che vuol dire che non ho scelto un buon momento? È un modo carino per farmi sapere che sono diventato indesiderato in questa famiglia?
Paul lo fissò offeso, dandogli uno scappellotto sulla fronte.
- Bestia che non sei altro. – sbottò, - Sei sempre il benvenuto, lo sai. Solo che in questi ultimi giorni c’è stato… un piccolo imprevisto.
- Insomma, la pianti o no di fare il misterioso? – mugolò lui, lasciandosi andare con un tonfo irritato sul divano del piccolo salottino di casa, mentre Paul abbandonava la valigia in corridoio ed andava a sedersi sulla poltrona di fronte a lui.
- Non sto facendo il misterioso. – rispose Paul, con un sorriso stanco, - E comunque faresti meglio ad alzarti dal letto di papà. Non sono sicuro di che parassiti possano essere arrivati con lui dall’Australia, e preferirei non provarli sulla tua pelle.
- …come fai a dire di non stare facendo il misterioso?! Non capisco un accidenti di ciò che stai dicendo! E comunque…

…che c’entra papà…?

Il suo silenzio improvviso diede a Paul un po’ di tempo per sospirare e stirarsi meglio sulla poltrona rovinata.
- Dai. Sveglia.
- …Paul…
- Mary si è laureata.
Mary Bellamy.
Mary Bellamy era la prima figlia che suo padre aveva avuto con l’altra. L’altra non era sua madre. L’altra era una donna che lui aveva visto pochissime volte in tutta la sua vita. L’altra si chiamava Vanessa ed era tutto ciò che gli interessava sapere di lei – era, anzi, fin troppo.
Mary Bellamy era l’unica figlia femmina di suo padre. Mary Bellamy era una dei figli privilegiati: suo padre stravedeva per lei, proprio in quanto figlia unica. George Bellamy stravedeva anche per Paul: il primogenito è sempre il migliore, agli occhi di un padre. E George Bellamy stravedeva anche per Marty, l’ultimogenito. Anche lui, l’aveva avuto con l’altra. Ed era proprio piccolo piccolo, l’ultima volta che Matt l’aveva visto. Doveva avere sei o sette anni, allora. Adesso, probabilmente, era un allegro adolescente australiano.
In realtà, tutti i figli di George Bellamy avevano degli ottimi motivi per considerarsi dei privilegiati.

Tutti tranne me.
Che non sono proprio niente.
Il terzo. Che razza di posizione è “terzo”? Pure negli sport, chi prende il bronzo non è altro che uno sfigato.
E dire che io sono ricco e famoso e le masse mi adorano e…


- A Yale. – continuò suo fratello, ignorando di proposito il suo disagio, - Proprio oggi c’era la cerimonia di consegna. Insomma, papà voleva essere presente, perciò è venuto a stare qui per un po’, piuttosto che andare in albergo. E mamma è andata con lui.
Matthew deglutì prepotentemente – no, non si sarebbe fatto sconfiggere da quella gola traditrice, che decideva di chiudersi, abbandonandolo proprio adesso che aveva più bisogno d’aria in assoluto – e strinse con forza le mani attorno al tessuto sdrucito dei cuscini del divano, prima di separarsene con uno scatto isterico ed alzarsi in piedi.
- Sì. – annuì incerto, fissando il vuoto davanti a sé, - Ho scelto proprio un brutto momento.
Paul scrollò le spalle.
- Be’, camera tua è libera e pulita, come al solito. Perciò, se sei venuto per stare qui qualche giorno, si può fare.
La verità era che avrebbe preferito di gran lunga prendere e tornarsene a Londra. Come non fosse mai arrivato. Ma il solo pensiero di andarsi a rinchiudere nell’enorme appartamento vuoto che condivideva con Dom, Chris e Tom gli dava i brividi, soprattutto se sommato al fatto che l’afa tipica degli agosti della capitale in genere impediva qualsiasi movimento pure ai lombrichi, figurarsi lui, che era ancora più pigro di un lombrico, quando si metteva in vacanza.
Insomma, piuttosto che tornare indietro e morire di solitudine…

…piuttosto cosa? Preferisco morire qui?
Dio.
Non ho mai voluto morire qui.


- …ok, d’accordo, ho capito. Recupero la valigia e ti riaccompagno in stazione. – biascicò suo fratello, visibilmente deluso, alzandosi stancamente dalla poltrona.
- …no, dai. – lo fermò lui. Quel tono rassegnato gli era bastato, per decidere. – Resto. – cercò di sforzarsi di sorridere sinceramente. Avrebbe dovuto immaginare che non sarebbe stato facile già dall’evidenza che la parola “sforzarsi” implicava una bugia. – È tutto a posto, tranquillo.
Paul si lasciò prendere in giro e lo strinse ruvidamente a sé ancora una volta, prima di cominciare letteralmente a trainare lui e la valigia al piano di sopra, verso la sua vecchia stanza.
Quella camera, in effetti, con gli anni era rimasta del tutto identica. Sua madre ne aveva un rispetto quasi sacrale – probabilmente perché le ricordava di un periodo sbiaditissimo nel tempo, in cui ancora capiva cosa passasse per la testa del proprio secondogenito e poteva perfino azzardare previsioni sulle sue decisioni future senza rischiare di sbagliarsi grossolanamente – e questo la portava a cercare di preservare tutto esattamente com’era rimasto nel giorno in cui Matthew – aveva poco più di sedici anni, allora – aveva sceso le scale trascinandosi dietro l’enorme valigia riempita di tutte le sue cose ed aveva annunciato che lui era pronto, perciò Paul poteva accompagnarlo in stazione.

Il primo treno della mia vita. Sedici anni, e quella valigia era piena più di speranze che di vestiti.
Esattamente il contrario rispetto ad adesso. Il mio bagaglio è pieno di stracci, ma la speranza l’ho perduta da qualche parte fra Londra e questo buco di merda.


Comunque, tornare in quella stanza era un po’ come tuffarsi nella parte migliore della propria adolescenza. Appesi alle pareti c’erano ancora i due poster dei Dream Theater che aveva comprato ad ognuno dei due concerti in cui era andato, il poster dei Metallica che aveva rubato impunemente a Jake al terzo anno delle medie e la sciarpa del Manchester United che s’era fatto comprare da Paul il giorno che, per andare allo stadio, aveva speso tutti i propri soldi e non gli era rimasto nulla neanche per una bandiera da sventolare mentre faceva il tifo.
Erano tutte cose che, da ragazzino, aveva amato con la passione di un devoto. Erano splendidi obiettivi irraggiungibili. Adesso l’autografo che aveva preteso da Heatfield in occasione del primo festival durante il quale s’erano ritrovati a condividere il palco suonava quasi una banalità, dal momento che continuava ad incontrarlo ovunque; avrebbe incontrato i Dream Theater al completo non appena fosse tornato a Londra – Petrucci, a quanto pareva era già lì: con un piede sull’acceleratore e un berrettino sulla testa, tanta era la voglia d’incontrarlo – e le partite del Manchester allo stadio erano diventate la normalità, quando non era in giro per lavoro.
- Sei stanco? – chiese suo fratello, sollevando di peso la valigia sulla scrivania, - Se vuoi puoi riposare un po’. Prima però togli dalla valigia qualsiasi oggetto strano o equivoco possa esserci. Sai che a mamma piace sistemarti la roba nell’armadio. Non voglio scene isteriche come l’anno scorso.
Scosse il capo con aria trasognata, lasciando scorrere le dita sul piumone celeste fresco di bucato che copriva il letto.
- Non ho portato niente di strano… - sussurrò assente, abbassando lo sguardo.
Paul sorrise.
- Starai mica mettendo la testa a posto? – lo prese in giro, - Guarda che non sono d’accordo. Ci tengo a mantenere il mio ruolo di figlio normale, io.
Matthew sorrise e Paul lo salutò brevemente, lasciandolo solo.
Si lasciò trascinare in un sonno leggero ed agitatissimo per le successive due ore circa. Continuò a rigirarsi nel letto in preda ad angosce di ogni tipo che non riuscivano però ad assumere una forma fisica tanto definita da permettergli di individuare il proprio nemico, fino a quando il cervello, esausto, non si arrese alle lusinghe di un sonno più profondo e desolatamente vuoto.
Quando si risvegliò, aveva del tutto perso il senso del tempo. Le tende in camera sua erano sempre state molto pesanti – in quel quartiere le case erano vicinissime, e sua madre era ossessionata dalla possibilità che i vicini si mettessero a spiare attraverso le tende troppo leggere, perciò aveva drappeggiato tutta casa con dei pesanti teli in spesso cotone dalla fibra grossolana, dei colori più impensabili. Le sue erano rosse. Un rosso talmente scuro da ricordare il colore del sangue. Contrastavano in maniera intrigante col chiarore azzurrino dell’intonaco sulle pareti, e col biancore immacolato dei pochi mobili dalle linee semplicissime che arredavano la stanza – il letto, la scrivania, un piccolo armadio ed una cassapanca da sempre sigillata della quale non aveva mai compreso l’utilità.
Quello era stato il suo mondo per una quantità d’anni che, a ripensarci, sembrava brevissima, ma nel momento in cui l’aveva vissuta era stata talmente lunga da dargli l’impressione non si sarebbe mai conclusa. Allora, il suo era un regno rosso e azzurro. Un regno in cui la luce del sole non riusciva a passare neanche al mattino, perché restava imprigionata nei nodi del tessuto della tenda, tingendola di rosso vivo. Ed anche quando riusciva a filtrare, almeno in parte, andava a scontrarsi contro le pareti e diventava solo un pallido riverbero celeste, più simile alla luce lunare che non a quella del giorno.
Aveva sempre adorato i colori di quella stanza. Forse per questo si sentiva tanto al sicuro fra quelle coperte.
Si voltò supino, decidendosi finalmente ad aprire gli occhi per cercare di capire che ore fossero. Quella lieve giravolta gli diede un sottile capogiro. Portò una mano a massaggiare la fronte e si rese conto che, in quel preciso istante, non avrebbe saputo dire neanche quanti anni avesse.
Sua madre lo guardava dolcemente dall’alto, seduta su una sponda del letto, esattamente come quando si costringeva a svegliarlo il sabato mattina verso le dieci e mezza, perché “non puoi mica dormire per sempre, anche se non hai da andare a scuola, piccolo”.
- La spazzatura l’ha portata fuori Paul ieri sera… - borbottò incerto, la voce ancora impastata dal sonno.

Ma che diavolo sto dicendo?
Che c’entra Paul, e che c’entra la spazzatura?
…che anno è? Dove sono?


Sua madre sorrise bonaria, nascondendo le labbra dietro una mano mentre sollevava l’altra in una carezza distratta lungo il profilo ossuto del suo viso.
- Ti vedo un po’ sciupato, Matty…
Lui la fissò con attenzione, mentre si sollevava pigramente a sedere. Nella penombra che invadeva la camera, sua madre non sembrava cambiata, rispetto all’anno precedente. In realtà, però, sapeva che, non appena la luce si fosse accesa, sarebbe stato inevitabile notare una nuova ruga d’espressione agli angoli della bocca o nel mezzo della fronte. Erano normali segni del tempo, ma non riusciva ad accettarli come tali. Gli sembravano solo inutili punizioni per chissà che crimine. I segni del tempo lo infastidivano.
- Sto bene… - si forzò a rispondere, scuotendo brevemente il capo, - Tu?
Marylin si strinse nelle spalle.
- Faccio del mio meglio per mandare avanti la casa. – rispose a bassa voce, - Tuo fratello mi dà una mano come può, ma come vedi l’edificio non fa che invecchiare… come tutto, più o meno.
Matthew si morse un labbro, aggrottando le sopracciglia.
- Questa stanza non cambia mai. – le fece notare, sostenendosi contro il materasso con le mani.
- Questa stanza è tutto quello che mi resta del mio bambino. – rispose lei, accarezzandolo ancora una volta dalla fronte al mento. – Ti ho disfatto la valigia. Ho messo tutto a posto nell’armadio. Hai portato tante cose…
- Sì, perché… - deglutì, - Abbiamo un po’ di tempo libero. Un bel po’. Il tour è finito e non abbiamo esattamente intenzione di infilarci immediatamente in studio, perciò… - si strinse nelle spalle, - pensavamo di restare per qualche settimana, ecco. Siamo qui tutti insieme.
- Oh! – il viso di sua madre si illuminò all’improvviso, mentre sulle sue labbra si apriva un sorriso tenero, - Anche Dom e Chris sono qui! – gioì allegramente.
Matthew non poté che rispondere a quella gioia con un altro sorriso, sistemando il cuscino dietro la schiena ed appoggiandosi contro la parete.
- Mi fa piacere. – concluse sua madre, ravviandogli indietro i capelli senza commentarne il colore, - Comunque dovresti scendere di sotto. – aggiunse poi, cautamente, - La cena è pronta.
Matt si lasciò andare ad un sorriso di scherno che aveva poco di crudele e fin troppo di nostalgico.
- Roast-beef e puré di patate in polvere, come al solito? – chiese ironico, inclinando lievemente il capo.
Sua madre non raccolse la provocazione. Evidentemente, non c’era proprio niente da ridere.
- Ha cucinato tuo padre. – sussurrò lentamente, quasi si sentisse colpevole. – Mi dispiace, Matt, non avevo idea che-
- Fa niente. – la interruppe lui, abbassando lo sguardo, - Immagino di essere comunque io in difetto.
- No. – corresse lei, fissandolo dritto negli occhi e trattenendolo lievemente per il mento, per impedire che lui distogliesse lo sguardo, - Anche se lo fossi in questa occasione, tuo padre ha raccolto talmente tanti torti nei vostri confronti, durante tutta la sua vita, che ne ha da compensare finché campa.
*
Aveva un ricordo molto preciso di suo padre, per due motivi diversi. Il primo era che, comunque, nonostante lui fosse andato via quando Matthew era ancora un bambino, tredici anni di vita non si possono cancellare. In tredici anni di vita hai tutto il tempo per imprimere nella memoria un’immagine più che precisa di tuo padre, anche se non lo vedi così spesso a causa del suo lavoro.
Il secondo motivo era invece di tipo più fisico ed immediato. Quando suo padre era andato via, Matthew l’aveva visto. Paul era andato a scuola, quel giorno, ma lui no. S’era sentito male. Era rimasto rintanato in camera, sotto le coperte, dimenticandosi perfino di avvertire, tant’è che i suoi genitori dovevano essersi convinti che fosse uscito presto, assieme a Paul, quando loro ancora dormivano. Era per quel motivo, probabilmente, che non ponevano freni al baccano che stavano facendo giù al piano di sotto. Si sentiva sua madre strillare attraverso il pavimento, e la voce bassa e grave di suo padre scuoteva l’edificio dalle fondamenta, come un terremoto.
Nonostante si sentisse debole e febbricitante, s’era alzato ed aveva arrancato lungo il corridoio, fino alle scale, e lì s’era fermato, aggrappandosi esausto al corrimano, ed aveva abbassato lo sguardo a spiare cosa stesse accadendo di sotto.
Proprio in quell’istante, suo padre era uscito dalla camera da letto e s’era diretto verso la porta, trascinandosi dietro la valigia. Non avrebbe mai dimenticato le spalle e la schiena sottili scosse da tremiti di rabbia, la mano stretta attorno al manico del bagaglio tanto violentemente da rendere le dita bianche come quelle di un morto ed i capelli, usualmente tenuti a posto da una quantità indecente di gel, scarmigliati e scomposti sul capo.
Non era riuscito a vederlo in faccia.
Ed aveva pure da ringraziare, per questo, perché era sempre stato convinto che, quel giorno, il volto di suo padre dovesse somigliare tragicamente a quello di un demonio.
Non l’avrebbe più dimenticato.
Per questo trovava quantomeno strana la figura che gli stazionava di fronte in cucina, quella sera, e che davvero era quanto di più dissimile al ricordo di suo padre avesse mai visto in tutta la sua esistenza. Quell’uomo tarchiatello, robusto, dalle spalle ampie e forti e dalle braccia muscolose, non assomigliava affatto a suo padre. Non poteva essere lui.
- …alla fine, sei proprio diventato un cantante.
Furono quelle le sue prime parole.
- Proprio quello che temevo.
Matt si morse le labbra a sangue.
- Ciao, papà.
*
Non era arrabbiato.
Gli sarebbe piaciuto poter dire di esserlo ed esserlo davvero, perché almeno sarebbe stato un sentimento chiaro cui aggrapparsi. Qualcosa di netto, di inequivocabile e, soprattutto, di abbastanza giustificato da non dare modo a nessuno di chiedergliene il motivo.
Invece si sentiva solo incredibilmente confuso.
Paul e suo padre parlavano tranquillamente della cerimonia di laurea di Mary, seduti l’uno di fronte all’altro sui due lati opposti del tavolo, e lui invece non riusciva a staccare gli occhi dal viso di sua madre, cupo e spento, che fissava intensamente il proprio piatto di pastasciutta come se la colpa della quale si sentiva responsabile fosse davvero troppo grande per pensare di sostenerla sulle spalle tese.
Il disagio di sua madre strideva fastidiosamente col tono rilassato e colloquiale della fitta conversazione di suo padre e suo fratello. Strideva al punto che, per un secondo, si sentì perfettamente in grado di odiare entrambi con la stessa intensità, perché era evidente Paul stesse tradendo anni ed anni di confessioni reciproche di disagio in favore di una tranquillità solo apparente e priva di sostanza.
Ricordava perfettamente le decine – centinaia – di volte in cui aveva fatto irruzione in camera di suo fratello, stringendo tra le mani qualcosa che era appartenuta a suo padre, che lui non aveva portato con sé e che sua madre non si decideva a gettare via. Non aveva neanche bisogno di parlare: Paul faceva una smorfia, si alzava in piedi – qualunque cosa stesse facendo – e borbottava “che ci fa questa spazzatura ancora qui?”, per poi coinvolgerlo in spericolati giochi pomeridiani in cui veniva scelto e portato a compimento il destino dell’oggetto – giù per lo scarico, sepolto nel letame di vacca delle fattorie appena fuori il circuito urbano, messo al rogo in giardino e così via.
Paul era entusiasta e triste e sollevato quanto lui, quando facevano cose simili.

E adesso gli parli come fosse tutto a posto. Come non avessi nulla da rimproverargli. Come fosse sempre stato un padre modello. Perché lo fai? Come diavolo ci riesci?

- Gli Stati Uniti d’America sono un bel posto, comunque. Penso che ti divertirai.
Sollevò lo sguardo dalla pasta che aveva a malapena toccato, posandolo su suo padre. Lui lo fissava a propria volta, sorridendo incerto.
- …come…? – biascicò, agitato. Non aveva la più pallida idea di quale fosse l’argomento di conversazione.
- Tuo fratello mi stava dicendo – gli spiegò lui, paziente, - che pensate di andare a Los Angeles per registrare il prossimo album.
- Oh, sì… - annuì lentamente. Ricordava di aver detto qualcosa di simile a Paul, nel delirio d’agitazione euforica che l’aveva colto quando Tom aveva ventilato l’idea, qualche settimana prima. – In realtà però stiamo aspettando di avere un po’ di materiale, prima di rimetterci a lavorare seriamente.
- Ma come? – inquisì suo fratello, stupito, - Mi avevi detto di aver scritto un sacco, in tour…
- Sì, ma…

Come dire? Non è niente di particolarmente convincente? Non sono dello stato d’animo adatto per produrre i deliri psichedelici che ho scritto mentre ero in viaggio in tutti i sensi? Sinceramente, al momento, preferirei attaccarmi al repertorio dei Cure come non faccio da quando avevo quindici anni, per lasciarmi morire in un letto di depressione?

- …posso scrivere di meglio. – concluse stringendosi nelle spalle.
Paul abbassò lo sguardo e mandò giù una forchettata di spaghetti, senza indagare oltre. Sua madre non aveva ancora detto niente.
Suo padre non mostrò segno di aver capito alcunché. Né di avere intuito il suo turbamento.
In effetti, non c’era poi molto da intuire.
Finirono di mangiare in perfetto silenzio. Sua madre sparecchiò mentre erano ancora seduti a tavola, e quello fu il segno che indicò a tutti fosse arrivato il momento di alzarsi e ritirarsi nelle proprie stanze. Che poi era esattamente ciò che aveva intenzione di fare Matthew stesso, indipendentemente da quale destino avrebbero scelto gli altri membri di quell’assurda famiglia improvvisata che si ritrovava.
Suo padre rimase in cucina ad aiutare sua madre, e Paul lo seguì in corridoio fino alla rampa di scale.
- Matt… - lo richiamò, mettendogli una mano sulla spalla, - Vuoi che salga su a farti un po’ di compagnia? Magari ti va di uscire?
Ridacchiò fra sé, scuotendo il capo.
- Per andare dove? – chiese ironico, - Cos’è, Teignmouth è improvvisamente diventata il paradiso inglese della movida, nell’anno in cui sono stato via?
Paul aggrottò le sopracciglia, infastidito.
- Be’, no. – borbottò, - Però magari potresti apprezzare le buone intenzioni.
- Ma le apprezzo. – sorrise lui, - Sono solo stanco. Usciremo domani sera.
- …e le buone intenzioni di papà? – chiese suo fratello a bruciapelo, senza guardarlo negli occhi.
Matthew ebbe un sussulto.
- Quali buone intenzioni? – sibilò ansioso.
- Ecco… - Paul si strinse nelle spalle, - Non sapeva che saresti venuto anche tu, ma indubbiamente venire a stare qui per un po’ è stato un passo avanti per cercare di ritornare non dico ad essere una famiglia unita, ma quanto meno a coesistere nello stesso universo senza sentire il profondo desiderio di sbranarci a vicenda…
- Tentativo un po’ tardivo. – rise amaramente lui, - Strano che gli sia venuto in mente proprio adesso, no? Adesso che i Muse stanno cominciando ad avere il successo che meritano, intendo…
- Ma non c’entra niente! – sbottò Paul, spalancando gli occhi, - Ti ho detto che è venuto per la laurea di Mary!
- Certo. – digrignò i denti, - Per quelli smuoverebbe i mari e i monti. Ed anche per te, ovvio. È venuto anche per la tua, di laurea.
- Se ti fossi laureato anche tu-
- L’equivalente della mia laurea avrebbe potuto essere il fottuto Leeds due anni fa! – precisò Matt, stringendo i pugni e smettendo di preoccuparsi per il tono della sua voce. – E invece no, tutto quello che ho ricevuto è stata una telefonata, e vuoi sapere cosa mi disse in quell’occasione? “Goditela finché dura e scopa”! Godermela e scopare, i suoi migliori auguri! Non un complimento, non un parere sulla mia musica, se n’è sempre fottuto alla grande, ed io adesso dovrei apprezzare le sue buone intenzioni?! Col cazzo!
Si voltò e risalì le scale a passo di carica, notando solo con la coda dell’occhio sua madre e suo padre affacciarsi dalla porta della cucina ed affiancarsi a suo fratello per fissarlo allucinati come fosse stato completamente folle.
Ed i folli erano loro, invece.

Fate passare me per pazzo, ma io so esattamente cos’è successo negli ultimi dieci anni. So perfettamente cos’è successo, perché il peso di quello che ho provato me lo porto ancora addosso.
Siete voi gli ipocriti, siete voi gli stronzi, siete voi che non avete capito un cazzo.


Decisamente tornare era stato un errore.
*
Ovviamente non era riuscito a dormire. I pochi ma intensi anni che aveva dedicato alla sperimentazione coatta di qualsiasi tipo di droga uscisse sul mercato – ma ricordati di non parlare mai di cocaina ed eroina, Matthew, va tutto bene fino a quando non si sniffa e non ci si buca – l’avevano convinto, per un certo periodo, di poter esercitare un controllo pressoché assoluto sulle proprie funzioni corporee. Quando prendeva qualcosa, gli bastava pensare intensamente “ho un mucchio di cose da fare, non posso assolutamente dormire!” per tornare in meno di un secondo vispo e sveglio come un grillo. Allo stesso modo, gli bastava pensare “bene, adesso voglio sognare un po’” per cadere in uno stato di sonno profondissimo dal quale, in genere, non riusciva a svegliarlo nessuno – almeno fino a quando non era lui stesso a decidere fosse arrivato il momento.
Aveva cercato di riprendere quel tipo di ritmo. Era dal Giappone non toccasse più alcuna sostanza stupefacente, perciò era ragionevolmente sicuro di non conservarne tracce nel sangue. Ciononostante, aveva davvero bisogno di annullarsi, almeno per il resto di quella notte.
Non c’era riuscito.
Alle due del mattino, sfiancato ed irritato, s’era rassegnato ad una notte insonne ed era uscito dalla stanza, dirigendosi al piano di sotto. L’intera casa era avvolta in una pesantissima cappa di silenzio. Riusciva a sentire il familiare russare di Paul solo se accostava l’orecchio alla porta della sua camera, e l’unico altro suono che, in qualche modo, riusciva a spezzare l’aria quieta dell’appartamento, era il respiro pesante e sommesso di suo padre, dal salotto.
Si diresse cautamente in cucina. Preparò un celere spuntino di mezzanotte – latte e cioccolato. In genere lo aiutava a dormire – e si piazzò davanti al piccolo televisore con antennina incorporata vecchio di millenni, che sua madre non riusciva proprio a buttare via.
Vagò brevemente fra i pochi canali che l’antenna riusciva a captare, prima di rendersi conto che a quell’ora non avrebbe trovato niente di interessante e perciò, a meno che non intendesse farsi beccare da qualcuno mentre fissava con aria incuriosita un porno soft da canale regionale, avrebbe fatto meglio a lasciare perdere.
Sintonizzò l’apparecchio su un canale che l’antenna non riusciva a captare, e rimase fermo a sorseggiare il latte, in ammirata contemplazione delle striscioline nere, grigie e bianche che invadevano confusamente lo schermo, perdendosi nello scratch fastidioso e straniante che veniva fuori dalle casse poste ai lati dell’apparecchio.
- Che stai facendo?
La voce di suo padre risuonò prepotente nell’ambiente isolato della cucina, infastidendolo. Si lasciò andare ad una smorfia e non si voltò a guardarlo, stendendosi più comodamente sulla sedia. Probabilmente era davvero troppo magro: a volte stare seduto sulle cose dure gli faceva dolere spaventosamente le gambe.
- Fisso l’origine dell’universo. – rispose seccamente, senza staccare gli occhi dallo schermo della tv.
Poté sentire sulla schiena l’occhiata perplessa di suo padre. Una sensazione fisica almeno quanto quella delle sue parole, poco più tardi.
- …è solo la televisione. – gli fece notare l’uomo, piuttosto confusamente.
Si lasciò andare ad un sospiro di compatimento.
- Quando non sono sintonizzate su nessuna stazione particolare, le antenne catturano anche una piccola percentuale di radiazione cosmica di fondo.
- …sarebbe?
- L’eco del big-bang. Una traccia di microonde che è tutto ciò che sia rimasto dell’esplosione che ha creato l’universo. È solo una minuscola quantità, ma-
- Minuscola quanto?
- …direi… il cinque per cento. Più o meno.
Suo padre si lasciò andare ad una mezza risatina, trascinando una sedia al suo fianco ed accomodandosi a propria volta di fronte alla televisione.
- Sei davvero cambiato, sai?
Matthew girò lo sguardo su di lui, fissandolo glaciale.
- Ma va’? Ricordi?, avevo tredici anni quando sei andato via.
- Allora non ti interessavi dello spazio… - continuò George, come se neanche l’avesse sentito, - Ti piacevano i cowboy ed i vecchi film con John Wayne…
Matthew sospirò, rotando lo sguardo.
- Ti prego. – sbottò lamentoso, - Quello era Paul. A dieci anni io volevo già fare l’astronauta.
L’uomo abbassò lo sguardo, colpevole.
- È vero… - mormorò, come stesse effettivamente rendendosene conto solo in quel momento, - Ed io ne ero pure felice, perché quantomeno se avessi fatto l’astronauta non saresti diventato un cantante.
Matthew ghignò e sbuffò una risata infastidita, distogliendo lo sguardo.
- E invece, guarda un po’.
George annuì e raccolse le mani in grembo.
- A te, comunque, pare stia andando meglio di come sia andata a me.

Ma tu, dannazione a te, sei andato in tour coi Beatles, cazzo. Fino alla fottuta Australia che è stato l’inizio di tutti i nostri guai.
Non è stata neanche colpa della tua incompetenza, se sei rimasto povero in canna. Avevi tutte le carte in regola per restare negli annali della storia della musica. Avevi fra le mani il primo singolo inglese avesse mai debuttato nelle classifiche americane al primo posto, Dio, sarebbe bastato solo perseverare un po’ e non dividerti fra due famiglie simultanee nelle due parti opposte del globo, e forse…


Scosse il capo.
- Be’, se permetti, questo era scontato!
- Sì. – rise lui, scuotendo il capo, - In effetti hai sempre avuto un talento straordinario. È incredibile la quantità di cose che hai imparato a fare tutto da solo.
Matthew pensò distrattamente che c’erano anche un sacco di cose che avrebbe decisamente preferito gli fossero insegnate, come per tutti i ragazzi normali. Andare in bicicletta, giocare a calcio, radersi. Le prime due non le aveva imparate affatto, tant’è che dalle bici cadeva sempre ed a giocare a calcio era una schiappa. Alla terza aveva dovuto pensare il padre di Dom, che, quando suo figlio aveva cominciato a dire di “voler portare la barba come Matt”, era corso ai ripari, indagando sulle sue intenzioni e scoprendo che lui non è che gradisse particolarmente quell’improvviso fiorire di peli molesti sulla sua faccia, semplicemente non aveva la più pallida idea di come prendere un rasoio in mano senza sfregiarsi, e non poteva certo chiedere aiuto a Paul, che in quel momento stava cercando disperatamente di accedere al Trinity College di Birmingham e quel benedetto rasoio avrebbe decisamente preferito usarlo per sgozzarsi piuttosto che per aiutare il proprio fratellino preadolescente a rendersi quantomeno guardabile.
- Comunque sono contento. – lo sentì aggiungere, quasi trasognato, - Scommetto che non ti sarebbe piaciuto granché ereditare la mia ditta.
Matt gli spostò addosso un’occhiata allucinata.
- …diciamo che non avrei accettato di farmene carico neanche se fossi stata l’ultima persona al mondo che potesse. È più corretto.
George sorrise ancora, più amaramente.
- In effetti è proprio così. Paul ha la sua vita qui, Mary ha altre ambizioni e Marty… - sospirò incerto, - Be’, Marty probabilmente non crescerà mai. Dovresti vederlo, va in giro vantandosi di essere un Bellamy… il fratello del cantante dei Muse… e tutti i suoi amici lo idolatrano…
Avrebbe voluto strillare che quello non era davvero suo fratello, ma sembrò troppo cattivo perfino a lui stesso, perciò si trattenne.
- E quindi che intendi fare?
George scrollò le spalle.
- Lascerò la ditta ad uno dei miei impiegati di fiducia. Ma sono comunque ancora troppo giovane per andare in pensione! – rise poi, stringendosi nelle spalle, - Quando accadrà, probabilmente mi ritirerò da qualche parte ad allevare vombati…
- …voche?
- Vombati. – rise George, divertito, - Enormi roditori carnivori tipici dell’Australia. Scommetto che ti piacerebbero.
Matthew scosse le spalle.
- Non li ho mai sentiti nominare.
Si sollevò dalla sedia e si sporse verso il televisore, spegnendolo dall’enorme pulsante rosso appena sotto lo schermo, e poi si diresse con noncuranza verso il corridoio, richiamando alla mente una memoria bambina di passeggiate notturne su quello stesso percorso, alla ricerca di qualche merendina da rubare in credenza e trangugiare in fretta e furia di fronte a un libro di Poe trafugato in libreria e letto sotto le coperte alla luce di una torcia elettrica.
- Matthew. – lo chiamò atono suo padre.
E istintivamente lui seppe che il momento che aveva sempre voluto evitare, e per il quale era scappato di fronte a qualsiasi possibilità di incontrare suo padre, in tutti quegli anni, era finalmente arrivato.
- Mi dispiace di essere andato via.
Matthew si bloccò sulla porta e strinse i denti.
- Non dirlo nemmeno per scherzo. – sibilò.
- Non sto scherzando… - si giustificò suo padre, a bassa voce.
- Be’, dovresti, cazzo! – ringhiò lui, voltandosi repentinamente, - Non ti è dispiaciuto, vent’anni fa, tenere il piede in due scarpe! Quindi vaffanculo, se speri che mi beva le tue scuse adesso, hai sbagliato persona!
- …gli esseri umani possono anche cambiare, Matt. – sussurrò suo padre, la voce rotta, - E pentirsi.
Matthew grugnì rabbioso e gli tornò davanti, fronteggiandolo a muso duro.
- Certo che possono. Ma aspettarsi un perdono a tutti i costi è da stronzi egoisti. – poi ghignò, allontanandosi di qualche passo. – In fondo, cos’altro avrei dovuto aspettarmi da te? – domandò retorico, prima di ripartire a passo di carica verso camera propria.

E Dio.
Guardami.
Siamo così uguali che mi faccio schifo da solo.
Sei sempre stato piuttosto impietoso ed assoluto tu, eh? Volevi delle cose e te le sei prese. Tutto ciò che desideravi, l’hai avuto.
Ed io, in fondo, sono così diverso?
Volevo la mia vendetta. Pare proprio che me la stia guadagnando.

*
You’re so happy now… burning a candle on both ends…
Your self-loving soothes… and softens the blows you’ve invented…


Dischiuse gli occhi nell’oscurità tipica della propria camera e l’unica cosa che pensò fu che quei versi non erano poi tanto male. Sarebbe probabilmente finita come con Escape, che non aveva ancora mai avuto il coraggio di cantare dal vivo, ma probabilmente sarebbe riuscito a tirarne fuori qualcosa di buono. Magari avrebbe potuto proporla per il nuovo album. Alla faccia di Dom che era convinto che dai periodi di riposo non venisse mai fuori niente di buono.
Suo fratello fece irruzione nella stanza senza bussare, agitato come se lo stessero inseguendo con un cannone carico.
- Matt! – strillò, varcando la soglia e richiudendosi la porta alle spalle con uno scatto secco, - Dio mio! – borbottò quindi, saltando a piè pari sul suo letto e sedendosi ai piedi del materasso a gambe incrociate.
Matthew, vagamente interdetto, lo fissò da sotto le coperte, spalancando gli occhi.
- Paul! – strillò quindi a propria volta, scattando a sedere, - Che diavolo ti sei messo in testa?! Ma sei mai cresciuto?!
- Senti chi parla! – lo rimbrottò suo fratello, afferrandolo per i capelli e strattonandolo rudemente verso di sé, per fissarlo negli occhi, - Che diavolo hai combinato stanotte?!
- …eh? – balbettò lui, incerto, tirandosi lievemente indietro.
- Eh. – sbottò Paul, lasciandolo andare, - Ieri sera ho lasciato papà tranquillo pronto a sprofondare nei propri universi onirici fatti solo di allevamenti di strani animali australiani, e stamattina lo ritrovo sulla soglia di casa con la valigia pronta per andare in albergo, chissà dove, poi, visto che qui notoriamente alberghi non ne esistono… cos’è, stai cercando di farlo scappare di nuovo?
Matthew smise di respirare con un singhiozzo strozzato, ed afferrò violentemente le coperte, inarcando le sopracciglia.
- …cioè. Non volevo insinuare che la prima volta fosse andato via a causa tua. – riparò suo fratello, mettendo le mani avanti, - Via, Matt, sai cosa intendevo.
- Non ho fatto niente! – ansimò lui, ancora turbato dalle sue parole, - Ha fatto tutto da solo!
- Ah-ha! – lo indicò Paul, come avesse appena verbalizzato la formula della quadratura del cerchio, - Allora è successo qualcosa!
Matt si strinse nelle spalle, sentendosi sotto attacco.
- Si è… messo a dire cose… - cercò di spiegarsi.
- Cose? – inquisì Paul, sollevando un sopracciglio curioso.
- Cose! – ribadì lui, palesemente infastidito, - Che gli dispiaceva, che non avrebbe voluto farci del male, cose così!
Suo fratello prese atto, annuendo pensoso.
- Quindi s’è scusato anche con te. Solo che a quanto pare tu non hai ritenuto opportuno reagire da persona assennata come me e mamma, chinando il capo e mettendoci una pietra sopra, e ti sei messo a litigare. – suo fratello lo squadrò con manifesta pietà, - Tipico.
- Piantala. – ringhiò Matt, sentendo montare la rabbia, - Fare le brave pecorelle remissive sarebbe agire da persone assennate?!
- Pecorelle remissive! – rise Paul, spintonandolo poco delicatamente verso il cuscino, - Hai una visione del mondo che s’è fermata all’adolescenza! Matthew, probabilmente non te ne sei accorto, ma nostro padre è invecchiato parecchio, e la vita familiare l’ha anche costretto a maturare considerevolmente…
- È maturato con la famiglia sbagliata. – ritorse lui, acido.
- Ah, sì? – chiese Paul, ghignando ironico e cattivo, - Ed è per questo che noi siamo stati abbandonati ed invece con loro sta da più di quindici anni?
- …questo è un colpo basso. – deglutì Matthew, stringendo la presa attorno al lenzuolo fino a sentire le dita perdere sensibilità, - E tu sei uno stronzo!
- Sto solo cercando – spiegò Paul, incrociando le braccia sul petto, - di costringere questo tuo cervellino bacato a lavorare come un cervello normale. Matthew, ognuno ha la vita che si sceglie. Lui avrebbe potuto restare per tenere fede ad un patto che non sentiva più di condividere, e rendere le nostre vite un inferno, tra litigi, incomprensioni e tradimenti. Non se l’è sentita di fare questa scelta.
- Adesso non farlo passare per un fottuto filantropo. – sibilò lui, - Ha solo inseguito la propria felicità, da egoista qual è!
- Non ho mica detto che il suo obiettivo primario fosse la nostra, di felicità. – precisò Paul, stringendosi nelle spalle, - Ho solo detto che la conseguenza del suo rimanere qui sarebbe stata causare a questa famiglia un disastro emotivo di molto superiore a quello che è stata costretta a subire.
- Senti, parla per il tuo disastro emotivo. – sbottò Matt, furioso, - Perché delle proporzioni del mio, a quanto pare, non hai la più pallida idea.
- Certamente. – cinguettò ironico Paul, in una moina che era una presa in giro pure piuttosto pesante, - Matty è stato quello che ha sofferto più di tutti. Quello che è stato peggio. Quello che ha subito le conseguenze peggiori. Non sai quante volte mamma mi ha ripetuto una cosa del genere, dicendo di andarci piano, con te, di assecondarti, di non farti mancare nulla. – sorrise sarcastico, inclinando il capo, - Sai cosa penso io, invece? Che probabilmente era vero, avevi sofferto più di tutti noi, perché tu e lui eravate così dannatamente identici da sembrare fratelli, a volte. Ma quello che è successo dopo, Matt, l’hai scelto solo tu. Tutta la sofferenza che hai continuato a provare in seguito a quello che è successo, te la sei andata a cercare. Ci sguazzi dentro da dieci anni. Cerchi di sublimarla in canzoni arrabbiate e stanche che non riesci nemmeno a cantare, ma cosa fai per essere felice? Eh? Te lo dico io: un bel niente. – sospirò, scuotendo il capo, - Che poi è anche colpa mia. Ti ho palesemente viziato.
- …hai finito? – si forzò ad interromperlo, la voce rotta e contratta di chi cerca di impedire a tutti i costi ai singhiozzi di trovare la via per fuggire dalle labbra.
Paul sollevò un braccio e gli posò una mano sul collo, accarezzandolo premuroso.
- Matthew, non mi fa piacere dirti queste cose. – ammise, inarcando le sopracciglia, - Ma qualcuno deve pur farlo. Mamma e papà si sentono prevedibilmente troppo in colpa per farlo, ma almeno a me, ti prego, dai un minimo di ascolto. Devi deciderti a venire fuori da questa cosa che ti trascini dietro, o non combinerai mai niente nella tua vita.
- Io sto combinando qualcosa! Lavoro come un mulo da quando avevo sedici fottutissimi anni, ho combinato più io di quanto non riuscirai a combinare tu in tutto ciò che ti resta da vivere!
Paul si scostò da lui, sorridendo tristemente.
- Davvero, ragioni ancora come un ragazzino. Le cose sono come le descrivi tu, oppure non sono affatto. Sono a tuo favore, oppure ti sono contro. Vedi tutto in bianco o in nero, malgrado i colori assurdi dei tuoi capelli.
Matthew abbassò lo sguardo. Era una battuta che, in qualsiasi altro momento, avrebbe trovato divertente.
In quel momento, però, no. Non c’era proprio un bel niente da ridere.
- Scricciolo. Mi fai un favore personale?
Sollevò appena lo sguardo, per fargli capire che lo stava ascoltando.
- Dagli una possibilità. Una sola. Non devi per forza volergli bene. Prova solo a non odiarlo.
Serrò le labbra, perché se non l’avesse fatto sarebbe davvero scoppiato a piangere. E poi scosse il capo.
- Non ci riesco. – biascicò sommessamente, - Non voglio. Lui non l’ha fatto, con noi. Dici che eravamo noi, la famiglia sbagliata, ma lui non ha mai davvero provato a verificarlo. Ha fatto solo ciò che era meglio per se stesso, e a noi non ha mai pensato. Tu riesci ad essere tanto buono da guardare avanti. O tanto adulto, non lo so. Non mi interessa. So solo che per me non è lo stesso. Io non ci riesco. – sollevò il capo, sorridendo tristemente, - Forse hai ragione tu. – ammise infine, sospirando stancamente, - Forse io e lui siamo proprio identici.
*
Era una giornata davvero splendida. Il cielo era terso ed il sole caldissimo. La spiaggia, affollatissima, si stendeva per chilometri di fronte a lui. Una striscia biancheggiante e luminosa, puntellata qua e là dalle macchie colorate dei costumi dei turisti.
Sorrise lievemente, sbottonando la chiassosa camicia hawaiana che indossava sul costume da bagno rosso e bianco, mentre scendeva la pedana che, dal marciapiede, portava alla sabbia caldissima rimestata da centinaia di piedi ogni giorno.
Chris lo individuò istantaneamente e sollevò un braccio, agitandolo in aria per farsi riconoscere. Matthew rispose con un breve saluto, affrettando il passo per raggiungere lui e la sua famiglia, accampati con tanto di ombrellone, sedie a sdraio, tavolino richiudibile e frigoborsa, in un angolino del bagnasciuga abbastanza lontano dalla riva per non essere soggetto agli assalti fragorosi e discontinui delle onde che si abbattevano ora rabbiose ora più quiete sulla costa.
- Cominciavo a credere che non saresti più venuto! – lo rimproverò scherzosamente il bassista, salutandolo con un mezzo abbraccio appiccicoso e sudaticcio che lo riempì di una strana contentezza nostalgica.
- Ho avuto qualche problema a svegliarmi. – si scusò lui, grattandosi nervosamente la nuca. – Kelly. – salutò poi, chinandosi a baciare la moglie di Chris, sdraiata su una sedia ed impegnata nella complicata operazione di visionare le vettovaglie che aveva portato da casa, in cerca di qualcosa di leggero da mangiare come spuntino di mezzogiorno, in attesa del pranzo.
- Matt, ciao. – lo salutò cordialmente lei, ricambiando il bacio, - I bambini impazziranno, appena ti vedranno.
- Ho cercato di prepararli ai tuoi capelli, ma parlare con dei topini di quell’età è del tutto impossibile, ho scoperto. – mugugnò Chris, vagamente agitato, - Vai a capire cosa gli gira per la testa. Alfie comincia pure a capire un po’ di come va il mondo, ma ha solo tre anni, in fondo, non posso mica pretendere la luna. Di Frankie non parlo nemmeno, si esprime per vagiti. Non so se mi capisce, ad ogni modo sono io che non capisco lui!
Matt si lasciò andare ad una risata divertita, lasciandosi andare sulla sabbia accanto a loro, riparandosi sotto l’ombrellone dalla luce bruciante del sole di mezzogiorno.
- Ma dove sono adesso? – chiese curioso, guardandosi intorno.
- Dom li ha portati a prendere un gelato. – rivelò Chris, con un ghigno ironico, - Il che vuol dire che, sintetizzando, Dom è andato a mangiare tre gelati di seguito. Alfie si annoia presto, coi cibi, soprattutto se sfuggono al suo controllo. Ed il gelato sfugge decisamente al suo controllo. Avresti dovuto vederlo ieri, poi magari ti racconto. E Frankie… voglio dire. Non sono neanche davvero sicuro sia un essere umano!
- Chris! – lo rimproverò Kelly, fissandolo come fosse un mostro.
- Senti, non è colpa mia! – borbottò scherzosamente lui, stringendosi nelle spalle, - Quando lo vedrai, capirai. Sembra un pupazzo! È bellissimo, ma…
- Piantala immediatamente, o ti sopprimo. – lo minacciò impietosa sua moglie, mentre Matthew si lasciava andare all’ennesima risata divertita.
Chris sogghignò e si chinò verso di lui.
- Adoro farla imbestialire così. – gli rivelò in un sussurro, - D’altronde, se non la faccio sfogare in questo modo, finirà per cominciare ad odiarmi davvero.
- Cosa stai borbottando lì in gran segreto?! – strepitò ancora la donna, tirandogli un panino avvolto in carta trasparente sulla testa.
- Niente, tesoro. – cinguettò lui, tirandosi dritto, - Commentavo con Matt quanto sia evidente e palese il tuo amore per me. – inventò, guadagnando in cambio un secondo panino, stavolta direttamente sul naso.
- E non ti azzardare a mangiarli! Sono i miei panini con l’insalata di pollo. – sbottò ancora Kelly, chinandosi a recuperarli per rimetterli nella frigoborsa.
Kelly e Chris erano la prova provata che l’amore potesse durare per sempre. Si conoscevano da quando avevano quindici anni. Non erano mai stati con nessun altro a parte loro stessi, e non avevano mai nemmeno sentito il bisogno di verificare se era proprio vero fossero fatti l’uno per l’altra o meno. Evidentemente, era una cosa che sentivano a pelle. E tanto bastava.

Vedi, Paul? Non sono io che vedo tutto bianco o tutto nero.
Il mondo è così.
Poi ci sono gli individui come nostro padre, che lo forzano a scoprire nuove tonalità di grigio. Ma sono loro quelli sbagliati.
La verità è unica. Ed inequivocabile.
Le mezze verità sono solo menzogne.


Il ritorno di Dom e della prole di casa Wolstenholme fu annunciato da uno strepitare euforico di bambini urlacchianti che miagolavano gioia saltellando qua e là come ranocchietti, battendo le mani e i piedini.
- Matt!!! – strillò Alfie, liberandosi dalla stretta della mano di Dom quando furono a qualche metro dall’ombrellone, per fiondarsi direttamente fra le sue braccia, - Aaah! Sei diventato un fungo!!! – commentò poi, indicando emozionato i suoi capelli.
- Un fungo? – biascicò Matthew, spalancando gli occhi, - Ah! Un fungo. Tuo figlio è diabolico!
Alfie rise con Chris, mentre il piccolo Frankie sghignazzava felice lasciandosi passare come un peluche dalle braccia di Dom a quelle della propria madre.
- Mamma, mamma, ho fame! – annunciò il primogenito del bassista, attaccandosi al prendisole della madre, - Tu non andare via, Matt! Dobbiamo fare il castello di sabbia!
Matthew annuì e sorrise, mentre Dom sospirava sfiancato e si abbandonava sulla sabbia al suo fianco, facendosi aria con una mano.
- I bambini sono un impegno troppo grande. – annunciò pomposamente il batterista, - Matthew, se mai dovesse venirmi qualche strana idea, ricordami che non ne voglio.
- Ah-ha. – annuì lui, sollevando sarcastico un sopracciglio, - Pulisciti il gelato alla fragola dal naso, però. Sembri la versione gay estiva di Rudolf.
- …che razza di immagine perversa. – commentò il biondo, sgranando gli occhi, - Ma ti ascolti, quando parli?! Ci sono dei bambini! E tu stai qui ad immaginare sodomie tra Babbo Natale e le sue renne…
- Ma io non ho mai parlato di niente di simile!!! – inorridì Matthew, tirandogli addosso una manciata di sabbia.
- Dom! – protestò a propria volta Chris, accigliandosi, - Alfie ripete le parole! Non è proprio il caso di-
- Che significa sodomia, papà? – indagò il bambino, tenendo evidentemente molto a dar ragione al proprio genitore – genitore, peraltro, che Kelly squadrò malissimo, e che non poté fare altro che sospirare e mugolare una richiesta di perdono indistinta, afflosciandosi sulla sedia a sdraio ed incassando a capo chino i rimbrotti esasperati di una moglie ciecamente convinta del fatto lui fosse davvero un pessimo padre.
- Sparite per un po’. – mugolò il bassista, prendendo entrambi i figli in braccio, - Mi tocca fare un po’ di coccole riparatrici, qui.
Matt e Dom sorrisero brevemente, tirandosi in piedi e scrollandosi svelti la sabbia di dosso, prima di indossare le scarpe e dirigersi nuovamente verso la pensilina in legno che, tramite le scale, li portò prima sul marciapiedi interno al lido e poi in strada.
- Andiamo a prendere un gelato! – esordì Dom, indicando un chioschetto variopinto e piuttosto folcloristico all’angolo in fondo alla strada che costeggiava la spiaggia.
- Ma sarà il millesimo… - lo rimbrottò Matthew, lanciandogli un’occhiata perplessa.
- Nah. – negò il batterista, scuotendo il capo e cominciando a contare sulle dita, - Ho mangiato solo metà di quello di Alfie. Naturalmente, ho dovuto mangiare tutto quello di Frankie. Gli ha appena dato una leccatina e poi ha cominciato a gorgogliare! – descrisse, gesticolando animatamente, - Sembrava un piccione. Glugluglu! E faceva le bollicine. Non ero mica sicuro che fosse normale. Perciò gliel’ho tolto di mano e l’ho mangiato io. Lui pare aver gradito. Chiaramente però dovevo anche mangiare il mio, quindi, alla fine-
- Alla fine, - lo interruppe Matt, sospirando e stringendosi nelle spalle, - meno male che hai uno stomaco di ferro. Altrimenti potevamo andare raccogliendo i tuoi resti per strada, davvero. E non sarebbero stati in una forma piacevole!
Dom fece una smorfia disgustata.
- Dio santo, oggi la tua mente è prodiga di immagini delle quali potremmo fare tutti a meno. – commentò, - C’è qualche problema?
Matt si lasciò andare ad un mezzo sorriso triste, stringendosi nelle spalle.
- Faccio prima a dirti i problemi che non ho.
Dom roteò gli occhi e cominciò a trainarlo con più decisione verso il chioschetto, prendendo posto su uno degli enormi sgabelli che ne fronteggiavano il bancone e sbuffando rumorosamente.
- Quando ti comporti così da ragazzina sei proprio intollerabile! – lo rimproverò, sollevando un braccio, - Cameriere! Due coppette al cioccolato!
- Ehi, aspetta! – cercò di fermarlo lui, agitandogli una mano di fronte al viso mentre “cameriere” lo squadrava con manifesta preoccupazione, visto che, evidentemente, anche lui aveva tenuto il conto dei gelati, - Io volevo un altro gusto!
- Quindi non lo mangi? Oh, be’, allora ho fatto bene a prenderlo di un gusto che piace a me! – concluse spiccio il batterista, stringendosi nelle spalle.
Matthew spalancò la bocca e gli occhi, e lasciò ricadere il braccio sul bancone, prima di rassegnarsi e scuotere il capo.
- Tutto questo non ha senso… - mugugnò, osservando la coppetta al cioccolato che prendeva forma davanti ai suoi occhi e poi si posava proprio di fronte a lui.
- Non siamo venuti qui per discutere del senso del gelato. – precisò Dom, rubandogli la coppa e prendendo a divorare avidamente la propria ordinazione, - Quindi, forza. Dimmi cos’è successo.
Matthew prese un respiro enorme e poi poggiò il viso contro una mano, incastrando il gomito spigoloso in una rientranza del bancone.
- Quando sono tornato a casa, ieri, ho trovato un ospite che non mi aspettavo e che, sinceramente, avrei pure fatto volentieri a meno di rivedere. – cominciò a raccontare, sollevando appena lo sguardo per registrare la curiosità di Dom, prima di proseguire. – Mio padre. – rivelò atono, - Mary, la mia sorellastra, s’è laureata a Yale, e lui è venuto ad assistere alla cerimonia.
- …e tua madre se l’è preso in casa? – inquisì Dom, giocando con il cucchiaino in plastica colorata fra le labbra, - Perdonami se te lo faccio notare, ma la tua famiglia è parecchio strana.
- Non mi dici niente di nuovo. – sospirò lui, stringendosi nelle spalle e lasciando ricadere le mani in grembo, - Fatto sta che lui è lì. E a quanto pare, mentre ero via, non è stato con le mani in mano.
- Spiegati?
- Be’, - borbottò evasivo lui, - sai tutto il repertorio di “mi dispiace avervi fatto soffrire” e “possiamo ancora volerci bene, nonostante tutto”? Ecco. E mia madre e mio fratello sembrano esserci cascati in pieno.
- Come si vede che siete geneticamente collegati! – rise Dom, mescolando il gelato con la palettina, - Ho avuto un lampo di te che parli coi giornalisti della fine del mondo e dell’importanza dei buchi neri mentre loro annuiscono interessati e devoti come se gli stessi sciorinando il Vangelo del nuovo millennio davanti!
Matthew aggrottò le sopracciglia ed abbassò lo sguardo, torturando con le dita il bordo dei boxer.
- …e questo è esattamente il problema, vedo. – commentò Dom quindi, chinandosi su di lui per cercare di intercettare il suo sguardo. – Ho detto qualcosa di sbagliato, anche se non sono ancora riuscito ad afferrare cosa. Risolvi tu, prima che la mia seconda coppetta si sciolga?
Matt si strinse nelle spalle, mordicchiandosi le labbra.
- …il fatto del collegamento genetico… - biascicò ansioso.
- Be’, è comunque tuo padre. – giustificò Dom, atono, - Mi sembra normale.
- Sì, ma – riprese il cantante, sempre più agitato, - non è questo il punto. È che lui a me fa veramente… - abbassò nuovamente lo sguardo, - veramente schifo. Dico sul serio. Mi ha fatto schifo quello che ha fatto vent’anni fa, mi ha fatto schifo quello che ha fatto dieci anni fa, e mi sta facendo schifo quello che sta facendo ora. Tornare indietro strisciando e chiedendo scusa… è disgustoso, Dom. E per di più è solo una farsa, perché comunque appena questo soggiorno terminerà lui tornerà in Australia e-
Dom lo zittì ficcandogli una cucchiaiata di gelato in bocca. Senza avvisarlo e senza smorzare l’impeto della propria decisione in previsione dell’impatto coi suoi denti. Matthew sussultò, mentre i suoi incisivi gelavano istantaneamente, ma il sapore che si diffuse sulla sua lingua era così inaspettatamente e piacevolmente dolce che dimenticò non solo di protestare, ma anche il filo del discorso che stava seguendo.
Sollevò lo sguardo e lo perse in quello chiarissimo di Dom, che lo fissava cupo, con un broncio familiare, uno di quelli con cui amava rimproverarlo tacitamente quando erano ancora due ragazzini e lui faceva o diceva qualcosa di platealmente stupido.
- D’accordo, Matt. – disse il batterista, - Questo l’ho capito. Ma tu che c’entri?
Matthew deglutì e fece per rispondere, ma Dom non gli tolse il cucchiaio di bocca, ed anzi, lo spinse più a fondo, come se volesse evitare a tutti i costi di farlo parlare.
- Tu non sei lui. – continuò infatti, lasciando il cucchiaino dov’era e procedendo all’assalto della seconda coppetta, - E non c’è neanche il rischio che ci diventi. Tu sei una brava persona, Matt.
*
Tu sei una brava persona. Sì. Proprio una brava persona.

Bellamy è sempre così disponibile. Così aperto. Gentile coi fan. Loquace con i giornalisti. Educato con i detrattori. Ha una buona parola per tutti, è proprio bravo, sì. Proprio una brava persona.

Me lo dicono tutti. Ho perso il conto delle volte in cui me l’hanno detto. Che sono gentile, che sono sensibile, che sono intelligente, che ho talento, che sono proprio proprio bravo, accidenti, in quello che sono ed in quello che faccio, proprio bravissimo.
Ha cominciato mio fratello. È stato lui, il primo. Mi ha preso, piazzato di fronte ad un pianoforte ed utilizzato come una marionetta per replicare sui tasti la sigla di Dallas. Io avevo cinque anni. Non capivo un accidenti di cosa stesse succedendo, lui era eccitatissimo e mi stava pure facendo male ai polsi. Sollevai gli occhi, lo fissai, lui mi sorrise e mi disse “Sei bravissimo!”, e da quel fottuto momento io non mi sono mai più staccato dal pianoforte.
Anche mia madre mi diceva sempre che ero bravo. Quando ho cominciato a portare i capelli lunghi, s’è accigliata come non l’avevo mai vista prima. “Sei così un bravo ragazzo”, ripeteva, “non capisco perché dovresti voler andare in giro conciato come un barbone”.
Per quanto riguarda Dom, mi disse che ero bravo ancora prima di sapere come mi chiamavo. Alle medie sembravo già patologicamente asociale. Quando lui mi si avvicinò, stavo seduto in un angolo del cortile e masticavo svogliatamente il panino al tonno che mi aveva preparato mia madre. Lui saltò giù dal muretto che stava disinvoltamente scalando alle mie spalle, piantò le mani sui fianchi, mi guardò sprezzante dall’alto per una quantità infinita di secondi e quando io, terrorizzato, mi azzardai a muovere un muscolo con l’intenzione di fuggire oltreoceano, mi sorrise e mi disse “Mi sembri una brava persona. Diventiamo amici?”.
Chris fu il primo a dirmi che ero talmente bravo che per me avrebbe potuto fare qualsiasi cosa. Non la mise esattamente in questi termini, ma il risultato delle sue decisioni, in fondo, non era che questo. M’invaghii totalmente di lui come musicista quando lo vidi passare dalla chitarra alla batteria nel giro di un anno, al liceo. Sembrava che nulla potesse sconvolgerlo davvero, era solido come una roccia ed a proprio agio di fronte a qualsiasi cosa. A me e Dom serviva un bassista. Lo avvicinai e gli chiesi di suonare con noi. Lui mi guardò un po’ diffidente, ma accettò di sentire almeno di cosa eravamo capaci, perciò costrinsi Dom a rinunciare ad un pomeriggio di – comunque infruttuosa – caccia alle donne per chiuderci nel garage di suo padre e suonare un po’ davanti a lui, e quando finimmo lui sorrise e disse “Però! A suonare il basso non sono proprio granché, ma tu sei veramente bravissimo! Accetto!”. A tutt’oggi, è il parere musicale di cui mi sia più importato in assoluto. Ancora più del giudizio dei fan.

Questa fottuta città. E mio padre. Solo loro due non mi hanno mai detto che sono bravo. Neanche hanno mai mostrato di capirlo. O di crederci.

Non avete mai compreso la mia voce. Non avete mai ascoltato davvero cosa c’era dietro. Non avete mai sfiorato il mio talento.
E come avreste potuto, d’altronde, se non mi avete mai nemmeno lasciato cominciare a cantare? Come avreste potuto, se non vi è mai interessato?

Quand’ero piccolo non facevo che strillare. Fino a sedici anni, fino a che non ho capito che per veicolare un messaggio dovevo anche farmi capire, per me la musica è stata solo uno sfogo. Sul palco io non cantavo, io sputavo i polmoni a furia di strepitare. E non suonavo, picchiavo la chitarra perché era l’unica cosa che potessi davvero tenere fra le mani e stritolare a morte. Lei miagolava la propria sofferenza ed io mi inebriavo della sensazione di potenza e di pienezza che mi dava. La trattenevo tutta dentro di me, fino a gonfiarmene, e quando diventava troppa ricominciavo a urlare e tiravo tutto fuori. C’erano certi concerti al termine dei quali rimanevo senza voce anche per una settimana intera. Erano i periodi migliori: perché la mia gola era esausta e la mia mente pure, e non avevo altro da dire. Avevo spazzato via tutto il veleno.
Poi la rabbia ricominciava a montare. Ed io ricominciavo ad urlare. Urlavo contro qualsiasi cosa. Qualsiasi cosa.
Fortunatamente, poi, è arrivato Dennis Smith. Anche lui mi ha detto che ero bravo. Ci ha presi tutti e tre da parte, ci ha guardati estasiato, come fossimo dei messia, esattamente ciò che l’Inghilterra stava aspettando, ed in effetti poi ci disse proprio questo, “L’Inghilterra sta aspettando solo voi, siete delle gemme grezze perfette, avete solo bisogno di qualcuno che vi renda riconoscibili, perché per essere preziosi, quello lo siete già”.
Probabilmente, se non fosse arrivato lui, io avrei semplicemente continuato ad urlare. Ed a furia di urlare mi sarei fottuto la voce. E l’esistenza.
Ma cazzo. Contrariamente a Teignmouth e contrariamente a mio padre, io sapevo di avere talento. Ringrazio ogni giorno di essere sempre stato circondato da persone che mi hanno impedito di dimenticarlo.

Però adesso sto comunque dimenticando qualcosa. Lo sento, nello stomaco, nelle ossa e sul fondo confuso del mio cervello.
Io ero una persona.
Cazzo.
Io ero una brava persona.
Io lo sono ancora.
Io non ho proprio nulla a che vedere con mio padre.
Io sono onesto.
Ed è vero, cazzo.
Io sono onesto.
Con me stesso e con gli altri.

Io non ti assomiglio, maledetto stronzo.
Io non sono nemmeno tuo figlio.
Io sono figlio di mia madre, di mio fratello, dei miei migliori amici. Sono figlio della villa dei nonni e dei nonni stessi, sono figlio delle notti insonni passate ad ascoltare When Doves Cry e sono figlio di Jimi Hendrix. Sono figlio di Londra, sono figlio di Tom Waits e sono figlio di Tom, della Mushroom, dei funghetti allucinogeni e della mia musica.
Io non sono tuo figlio.
Io non sono il tuo fottuto figlio.
Io non sono te.

*
Suo fratello lo aspettava acquattato sugli scalini antistanti l’ingresso di casa, esattamente come si era aspettato. Sorrise divertito, nell’osservarlo sollevargli addosso uno sguardo terrorizzato ed ansioso, ed alzarsi in piedi per corrergli incontro.
- Peste! – lo rimproverò, avvolgendolo in un abbraccio caldissimo e sollevato, - Mi hai fatto preoccupare a morte. Potevi almeno avvertire che non tornavi per pranzo!
- Dom mi ha imbottito di gelato e ci siamo addormentati in spiaggia… - si giustificò lui, senza neanche provare a sottrarsi alla sua stretta, ed anzi godendosi il più possibile il tepore del suo corpo, nonostante l’arsura umida ed afosa del pomeriggio tipico dell’agosto marittimo.
- Spero almeno che non ti sia scottato come l’ultima volta. – borbottò suo fratello, trascinandolo in casa, - Non ci tengo a ripetere l’esperienza cui mi hai sottoposto tre anni fa. Dio, che schifo, al solo pensiero di passare addosso al tuo corpicino scheletrico tutta quella crema…
- E piantala! – borbottò lui, dandogli una debole quanto inutile manata sulla schiena, - Non mi sono scottato. C’era Chris con l’ombrellone.
- Ricordami di ringraziarlo per aver salvato il mio stomaco dalla nausea! – aggiunse Paul, ricevendo in cambio un maldestro tentativo di calcio allo stinco, degenerato poi in un mezzo autosgambetto con annessa pseudocaduta. – Sei un disastro umano. – commentò suo fratello, ridacchiando della sua goffaggine, - Mamma ti ha lasciato un po’ di pizza in forno. Entriamo e te la scaldo?
Annuì entusiasta e seguì Paul all’interno della casa. Sentì immediatamente l’eco attutita del televisore in camera da letto che annunciava che sua madre si stava sottoponendo alla visione dell’episodio odierno della telenovela che seguiva da ancora prima che loro nascessero, e sorrise ancora. Improvvisamente, tutte quelle piccole e monotone abitudini che l’avevano tanto infastidito, riuscivano soltanto ad intenerirlo.
In cucina, di fronte al televisore sintonizzato sulla radiazione cosmica di fondo, suo padre sgranocchiava oziosamente una mela. Paul ristette un po’ sulla soglia e lo guardò interrogativo, prima di entrare. Matthew gli sorrise rassicurante e gli chiese sottovoce se poteva lasciarli un po’ da soli. Suo fratello non sembrava molto convinto dalla possibilità, ma alla fine sorrise e salì in camera propria, dopo avergli ricordato di mangiare la sua pizza, se non voleva svanire nel nulla o volare via col prossimo soffio di vento.
George non ebbe bisogno di sentire la sua voce, per accorgersi che era entrato. Spense il televisore e scosse sconsolato il capo, incurvando le spalle.
- Stavo cercando di capire… - sussurrò, mentre Matthew si avvicinava al forno ed impostava la temperatura ed il timer per scaldare il proprio pranzo tardivo, - Ma proprio non ci riesco. Non ci sono mai riuscito, vero Matt?
- Temo di no. – rispose sommessamente lui, trascinando una sedia fino al suo fianco e sedendoglisi accanto. – Papà, ci ho pensato su. – annunciò quindi, osservandolo sollevare lo sguardo su di lui. Suo padre non mostrava nemmeno una scintilla di speranza, sul volto spento e sbiadito dagli anni. Probabilmente si aspettava già la sua risposta.

Perché probabilmente è vero. Ci assomigliamo molto.
Ma io sono cresciuto meglio.


- Io non posso perdonarti. – ammise, mantenendosi calmo esteriormente quanto interiormente, - Lo so che per te è dura. In qualche modo riesco a sentire… che per te è davvero pesante vivere con questo carico di rimorso. Però io non posso proprio perdonarti. Anche se ti dicessi che l’ho fatto, mentirei. E non sono bravo a mentire. Faccio casino con le varie versioni delle storie che invento e poi non faccio che contraddirmi da solo. Quindi, credimi, è meglio che ti dica la verità.
George abbassò nuovamente lo sguardo, annuendo tristemente.
- Va bene. – disse a bassa voce, - Lo apprezzo, Matt.
- Però, papà… - continuò lui, sollevando una mano a sfiorargli un braccio, - non devi più sentirti in colpa. Perché io non ti odio. – sorrise, - Odiarti significherebbe ammettere che mi fai ancora male. Ed anche questa sarebbe una menzogna, sai? Perché non mi ferisci più. Puoi stare tranquillo.
Suo padre tornò a guardarlo. I suoi occhi erano colmi di lacrime che lui non aveva intenzione di guardare, e George fu bravissimo e molto gentile a ricacciarle indietro e limitarsi ad annuire, sorridendo e ringraziandolo.

È il primo gesto veramente paterno che ti vedo compiere nei miei riguardi.
Non lo saprai mai, ma te ne sono grato. Solo un po’. Ma te ne sono grato.


Il campanellino del forno gli annunciò che la pizza era pronta. Lui si tirò in piedi e la recuperò, salendo poi di corsa in camera propria cercando di trangugiare l’intera fetta lungo il tragitto dal piano di sotto a quello di sopra.
Una volta al sicuro in quel paradiso rosso e azzurro che, grazie a sua madre, la sua stanza non aveva mai cessato di essere, si sedette alla scrivania ed aprì il cassetto che, quand’era ragazzino, utilizzava per conservare i fogli di carta sui quali finivano appuntati i versi delle canzoni che non voleva assolutamente dimenticare.
Negli anni, il contenuto di quel cassetto era stato evidentemente razziato da Paul. Non sopravvivevano che una matita mezza spuntata ed un paio di foglietti rosa.
Ridacchiò a bassa voce, posò ciò che restava della pizza al proprio fianco e cominciò a scrivere.
*
- Dio mio! – borbottò Dom, sobbalzando al ritmo del treno diretto a Londra, mentre lasciava scorrere lo sguardo sul foglietto scarabocchiato che Matt gli aveva passato, - Avresti dovuto dirmi che eri così depresso! Sarei stato più gentile nei tuoi confronti!
Matt incrociò le braccia sul petto, offeso.
- Ti ho chiesto un parere sul testo, non un’analisi psicologica della mia persona!
- Spiegami come potrei fare a scindere le due cose! – borbottò il batterista in risposta, agitandogli il foglio davanti al viso, - Vuoi un parere? È depressa e deprimente! Ecco il mio parere.
- Questa è bella… - mugugnò Chris, ripassandogli il foglietto che aveva dato a lui, - È triste, ma in qualche modo è anche intrisa di speranza… ce l’ha già un titolo?
Matthew annuì, dedicando la propria attenzione al bassista, evidentemente più ricettivo di Dom.
- Blackout. – rispose, - Piace un sacco anche a me. Però mi sa che dovrò insegnarti a suonare la tastiera, altrimenti non riusciremo mai a farla live…
Chris lo omaggiò di un sorrisetto sarcastico, incrociando le braccia sul petto.
- Dì la verità, stai cercando di trasformarmi in una one-man band, Bells?
Matthew rise con lui, mentre Dom gli strappava di mano l’altro foglio, consegnando il proprio a Chris.
- …be’, - commentò il bassista, scorrendo il testo con lo sguardo, - Dom non ha tutti i torti. È veramente triste. Però è anche bella incazzata. Mi piace.
- Tu salverai la mia anima, Chris. – cinguettò Matthew, battendo le ciglia come una liceale innamorata, - Si intitola Fury. Ti piace il titolo?
- Piantala di fargli le moine! – lo rimproverò Dom, dandogli una manata sulla testa, - È sposato, e comunque sareste disgustosi! Comunque il titolo mi piace, e pure la canzone. Ho detto che è depressa e deprimente, mica che fa cagare.
Matthew si lasciò andare ad un sorriso sollevato.
- Allora appena torniamo a casa proviamo ad inciderle e vedere se possono andare bene per il prossimo album?
I due lo guardarono esterrefatti per qualche secondo, prima di scoppiare a ridere. E la loro era una risata divertita, sollevata e complice. Esattamente ciò di cui Matt aveva bisogno per sentirsi di nuovo bene.
- Ma non avevamo promesso a Tom che questo sarebbe stato un album allegro? – lo prese in giro Dom, stringendosi nelle spalle.
- Avanti, Dom. – ironizzò Chris, agitando in aria un dito supponente, - Lo sai che “allegro” e “Matt” non sono due concetti destinati ad incontrarsi.
Ridacchiò a bassa voce, estraniandosi presto dal coro di motteggi che continuava a sollevarsi dai due, e lasciandosi andare stancamente contro il finestrino del treno, osservando lo spettacolo grandioso delle campagne inglesi che sembravano diventare sempre più belle, sempre più fresche e sempre più pure man mano che ci si allontanava dagli stabilimenti industriali di Teignmouth.
Prima di andare via, due giorni dopo il loro chiarimento, suo padre gli aveva fatto promettere di passare da lui, se fossero riusciti ad arrivare in Australia col prossimo tour. “Devo assolutamente farti vedere i vombati”, gli aveva detto salutandolo. “D’accordo”, aveva risposto lui, “Sono curioso”. Sua madre si era commossa neanche gli avesse appena detto che stava per renderla nonna. Valla a capire.
Si sentiva bene.
Bene davvero.
Magari quella canzone, Fury, sarebbe perfino riuscito a suonarla, dal vivo.

But I’ll still take all the blame
‘cause you and me are both
one and the same
And it’s driving me mad
And it’s driving me mad
I’ll take back all the things that I said
I didn’t realise I was talking to the living dead
But I don’t want you to think that I care
I never would
I never could again