rp: enrico santon

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo.
Pairing: Mario/Davide, Davide/OFC.
Rating: PG-13
AVVISI: Angst, Slash, Het, OC.
- Sono passati dieci anni dal giorno in cui Mario e Davide si sono detti addio senza però mai dirselo per davvero. Ed è proprio approfittando di questa distrazione che Mario decide di rifarsi vivo - nel giorno meno indicato di tutti.
Note: Prima di tutto, un po' di random facts XD
1) Dundrum Castle è davvero un castello dalle parti di Newcastle; è un castello molto antico, risalente al 1100 circa, ed attualmente è in rovina, ma io ho graziosamente immaginato che fra dieci anni possa tranquillamente essere stato rimesso a nuovo ed adibito come luogo fèsciòn in cui le celebrità vanno a sposarsi 8D
2) Christine è mia e mi appartiene e la amo, e lei e Dade avranno mille figli bellissimi insieme. #headcanon
3) Altro #headcanon: Enrico è il testimone di nozze di suo fratello, il quale gioca ancora a calcio al tempo del matrimonio (mentre Mario, naturalmente, s'è bruciato molto prima, da bravo pirla). #headcanonbitschenonsonoentratinellastoriamaiosocomunqueequindilicondivido #amen
Inoltre, la fic ha partecipato alla Notte Bianca #7 su prompt But my heart was colder when you'd gone / And I lost my head but found the one that I love (Whispers In The Dark, Mumford & Sons), e già che c'era risponde anche al prompt #060 ([RPF Calcio] Mario Balotelli/Davide Santon, tra dieci anni.)) del Santa Fest e al prompt #37 (Dolce/Salato) della Maritombola. Sono. Troppo. Brava.
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WISH ME WELL (YOU CAN GO TO HELL)

Christine ride oltre la pesante porta di legno chiusa sulla stanza di cui lei, sua madre e le sue sorelle hanno preso possesso quando sono arrivate al castello, stamattina. Davide, addossato alla porta, ride a propria volta, battendo pigramente il pugno contro il legno.
- Dai! – insiste giocosamente, - Apri!
- Porta sfortuna! Porta sfortuna! - ride lei, tirandogli idealmente addosso un cuscino che, invece di schiantarsi contro la sua faccia, va ad abbattersi con un suono soffice e ovattato contro la porta stessa.
- Vai a prepararti, Davide! - lo rimprovera la sua futura suocera, ma lui ride e finge di non capirla, come fa sempre quando vuole continuare a fare di testa propria. Lui e Christine scherzano su questa storia dell'abito ormai da mesi, da quando la data delle nozze è stata fissata. Lei insiste per fare tutto come da tradizione, ed ogni volta Davide ride e le dice che non ha senso nascondersi per due ore solo perché indossa l'abito bianco, quando, in pratica, convivono ormai da quasi cinque anni. Lei non vuole sentir ragioni, e lui la adora per questo. No, la ama per questo. La ama per questo. La parola amore è ancora terribilmente difficile da pronunciare, ma questo non cambia la realtà dei fatti.
Enrico spunta da dietro un angolo, le sopracciglia aggrottate, il colletto della camicia aperto ed il cravattino slacciato che pende ai lati del collo. Davide lo nota e, prima ancora che lui possa rimproverarlo come sa che farà entro breve, si allontana dalla porta, sollevando entrambe le braccia in un gesto arreso.
- Scusa, scusa, la lascio in pace, d'accordo. - sospira e poi ride, - Comunque sono già pronto, non ho bisogno di nient'altro. Andrò ad intrattenere gli ospiti in giardino, la nonna di Christine ne sarà entusiasta visto che continua a scambiarmi per suo marito morto in guerra e tornato dalla morte per unirsi a lei come le era stato unito in vita.
- No, Dade, aspetta. - lo ferma Enrico, posandogli entrambe le mani sulle spalle e costringendolo ad indietreggiare, - Ti ho cercato dappertutto, è arrivata una... persona, e chiede di te. Gli ho detto che non era il caso, ma insomma... - Enrico sospira come se si sentisse estremamente in colpa e al contempo non riuscisse a capire per quale motivo si senta così, - Vedrai tu stesso. Non è che potevo buttarlo fuori a calci.
Davide si sente scorrere lungo la spina dorsale un brivido freddo che sembra una premonizione di morte. Ad Enrico non chiede niente - d'altronde è evidente che, se suo fratello avesse voluto rivelargli il nome del visitatore, l'avrebbe semplicemente fatto -, si lascia semplicemente condurre lungo i corridoi riverniciati di fresco delle vecchie mura di Dundrum Castle, e quando Enrico lo porta nello stanzino minuscolo all'interno del quale sono state stipate le bomboniere in attesa di distribuirle prima del pranzo, gli basta scorgere la figura alta e massiccia voltata di spalle ed avvolta in una pesante giacca nera per capire tutti i numerosi motivi per cui suo fratello non s'è azzardato a nominarlo finché lui non ha potuto vederlo con i suoi occhi.
Primo perché sarebbe stato pericoloso.
Secondo perché a Davide sarebbe scoppiato il cuore.
Terzo perché probabilmente non gli avrebbe nemmeno creduto.
- Mario.
Pronuncia il suo nome come un incantesimo, come un esorcismo, chiedendosi "scomparirà? Se lo riconosco, se lo chiamo per nome, svanirà nel nulla come certe streghe e certi mostri delle leggende?". Ma Mario non scompare, semmai diventa ancora più reale quando si volta a guardarlo, offrendogli un sorriso sghembo del quale Davide non sa proprio che farsi.
- Vi lascio un po' da soli. - dice Enrico a bassa voce. Davide riesce appena a percepirle, le sue parole. Sente con molta più forza il rumore secco del chiavistello della porta quando, chiudendosi, scatta, isolandoli dal resto del mondo.
- Mi dispiace per l'improvvisata. - dice Mario. La sua voce è profonda, ruvida, Davide se la sente scorrere addosso in carezze lente ed insinuanti e non riesce a impedirsi di indietreggiare sulla difensiva, - Ma non potevo non venire a farti le congratulazioni. Anche se non mi hai invitato.
- Ci sarà stato un motivo. - risponde lui, tagliente, aggrottando le sopracciglia. La sua rabbia scivola addosso al sorriso un po' triste di Mario, e quando se ne accorge Davide la mette da parte, perché è inutile continuare ad odiare così qualcuno che palesemente non prova lo stesso per te.
Non c'è più neanche quello, pensa distrattamente. Non c'è più neanche l'odio.
- Mi dispiace di non essere venuto prima. - riprende Mario, avvicinandosi lentamente, con circospezione.
- Ah, non preoccuparti, - ribatte Davide, - non avrei avuto alcuna voglia di vederti neanche se fossi passato a trovarmi mesi fa.
- E se fossi passato a trovarti anni fa? - chiede Mario, sollevandogli addosso all'improvviso un paio d'occhi scuri sorprendentemente lucidi e presenti a se stessi. Davide ricorda gli occhi di Mario dieci anni fa, e ricorda che non assomigliavano a questi. Erano pozzi neri e confusi, luoghi pericolosi, mortali, come una foresta selvaggia di notte. C'erano cose, cose che si agitavano dentro gli occhi di Mario. Cose che, a sfiorarle appena, potevano afferrarti e non lasciarti più andare, trascinarti a fondo con loro.
"Io sono una punizione divina," ripeteva Mario, citando a memoria, "Se non aveste commesso peccati tanto grandi, Dio non vi avrebbe mandato una punizione come me."
Lo ripeteva spesso, sembrava crederci per davvero. Di sicuro ci credevano i suoi occhi.
Gli occhi di Mario, adesso, raccontano una storia completamente diversa. Davide non è sicuro di voler lasciare che lui gliela racconti, ma di sicuro non è una storia che fa paura. E' una storia triste, di rassegnazione e di scoperta. Una storia di crescita.
Da ragazzino, Davide pensava che questa storia l'avrebbero scritta insieme. Ci ha messo anni a rassegnarsi al pensiero che non sarebbe mai successo. Ci ha messo anni a sovrascrivere il sapore salato delle lacrime con quello dolce delle labbra di Christine. Ci ha messo anni a provare a tornare ad essere in grado di pronunciare la parola amore senza sentirsi soffocato e stordito da un peso enorme nel mezzo del petto, senza lasciare scivolare la mente sopra il terreno accidentato di associazioni emotive che lo gettavano nello sconforto. Ci ha messo anni a cancellare l'influenza assoluta del nome di Mario sui propri pensieri e sulle proprie azioni. E Mario non è cambiato abbastanza da capire che vederlo di nuovo adesso è l'ultima cosa di cui Davide abbia bisogno.
- Perché sei qui? - domanda a bassa voce, lo sguardo fisso sulle punte delle proprie scarpe lucide e nere. Dal corridoio giunge l'incessante chiacchiericcio degli ospiti, le risate tintinnanti delle donne, quelle sgraziate degli uomini, come esplosioni nel buio, quelle allegre e giocose dei bambini, piccoli tacchi che ticchettano senza posa in lunghe rincorse avanti e indietro per gli enormi corridori in marmo bianco del castello.
- Avevo bisogno di vederti. - risponde Mario, - Di sapere come stavi.
Davide stringe i pugni lungo i fianchi.
- Stavo meglio prima. - ammette, sforzandosi in maniera ridicola per tornare a guardarlo. Non dovrebbe volerci tanto, non dovrebbe fare così male, non dovrebbe essere così difficile condividere con lui lo stesso spazio la stessa aria gli stessi fottuti due metri che sembrano restringersi e dilatarsi senza senso col passare dei minuti e dei secondi, ma fa un male del cazzo, è difficile da morire, gli serve molta più forza di quanta non ne possegga al momento e prega solo che Mario non gli si avvicini, perché se lo facesse Davide può già dire l'esatto numero di secondi che impiegherebbe per mandare a fanculo tutto il resto e seguirlo fino in capo al mondo.
- Mi dispiace. - dice invece Mario, indietreggiando discretamente. Davide sente come l'ombra di una corda allentarsi attorno a lui. Gli sembra di essere finalmente libero di muoversi per la prima volta da quando è entrato in quella minuscola stanza. - Lei sembra carina. Sei felice?
Davide deglutisce, si passa una mano fra i capelli scombinandoli e sa che sua madre lo rimprovererà per questo, ed in questo momento vuole soltanto uscire da lì e trovarla in mezzo alla folla e pregarla di rimproverarlo finché ne avrà voglia, mentre lo aiuta a rimettere a posto i capelli col gel.
- Non lo sono mai stato tanto. - dice. Non conclude la frase. Non aggiunge "almeno da quando mi hai lasciato", anche se sa che è così, anche se sa che Mario ne è perfettamente consapevole, anche se sa che non dirlo, che tacere quella parte del loro passato, non fa che rafforzare il loro legame.
E' la forza enorme dei segreti, quella di diventare indistruttibili tanto più a lungo restano celati.
Basterebbe così poco a cancellare tutto. Basterebbe parlare, dirsi le cose chiaramente, basterebbe che Davide dicesse a Mario quanto ha sofferto per lui, basterebbe che Mario confessasse di non essere mai stato felice al suo fianco, di non averlo mai trovato abbastanza per farlo stare bene, e questo chiuderebbe la partita, la chiuderebbe per sempre, perché dopo non ci sarebbe nient'altro da dirsi oltre ad un addio.
Nessuno dei due dice niente. Qualche minuto dopo, Enrico bussa piano alla porta, si schiarisce la voce e chiede "tutto a posto?", e Davide gli risponde di sì, di non preoccuparsi, che arriva subito.
- Fa' in fretta, - dice Enrico, - siamo già in ritardo.
Davide guarda Mario, che sorride.
- E' una parola orribile. - dice, - "Ritardo", intendo. Ti dà un senso come di predestinazione. Come se non potessi mai fare in tempo, indipendentemente da quanto corri.
Davide non è sicuro di avere mai corso per davvero. Verso Mario, o lontano da lui. Forse ha sempre preferito camminare perché aveva paura di quello che avrebbe trovato alla fine del percorso, in un senso o nell'altro. Così, ad un certo punto, ha semplicemente preferito cambiare strada, perché era più facile e meno doloroso così.
Alla fine della sua strada adesso c'è Christine. Fra qualche minuto, vestita di bianco, lo raggiungerà dove lui la starà già aspettando, e poi saranno uniti per sempre.
- Vai. - dice Mario, - Dai. Non sarò fra gli invitati a guardarti male, lo prometto. - aggiunge in una mezza risata.
Davide annuisce, va via senza salutare. Mario non resta per davvero, e dopotutto è meglio così. Fra altri dieci anni, magari non avranno più niente da rinfacciarsi.