Genere: Introspettivo, Romantico.
Pairing: AlphonsexEdward, EnvyxEdward (one-sided).
Rating: R
AVVISI: AU, Incest, Lime, Shounen-ai, Song-fic.
- A Ed piace divertirsi “giocando” col suo fratellino: “Obbligo o verità?”, gli chiede, e sta ad Al scegliere cosa rispondere. Ma la sua scelta non pare mai essere quella giusta: suo fratello riesce sempre a trovare un modo per metterlo in imbarazzo.
Commento dell'autrice: Eeeeh, siete arrivati alla fine di questa cosa assurda? :O Me ne stupisco!
Dunque, ObbligoVerità. No, davvero, è difficile parlarne XD L’ho covata per tantissimo tempo, e come concetto è stata una delle prime storie a nascere quando Maki propose l’ormai famosa sfida del Violator Contest. Non conoscevo la canzone, ma quando lessi il testo la scaricai e fu amore immediato e improvviso *_* E mentre la ascoltavo la trama nasceva da sola e si andava consolidando <3
Poi prima che riuscissi a scriverla – causa impegni e menate varie – è passato più di un mese, ma va be’ XD
Non ero affatto sicura del risultato finale, mentre la scrivevo. Ma sono stata parecchio rassicurata in fase di scrittura e anche col betaggio sia dall’ormai onnipresente Nai che dalla preziosissima Ana, ed è proprio a lei che vorrei dedicare questa storia, perché è stata terribilmente d’aiuto, perché siamo legate da un fangirling appassionato ed adorabile e perché è la mia spacciatrice di trame preferita X3
Vi è piaciuta la scena del succhiotto? XD Ebbene, se non ci fosse stata lei la scena del succhiotto non sarebbe mai venuta fuori! Quindi ringraziatela ù_ù
…ah, e l’EnvyEd. Oddio, scusatemi XD Ma a parte il fatto che era funzionale, s’inserisce alla perfezione nel filone delle dissacrazioni che ho voluto organizzare per questa serie di shot XD Dopo il RoyEd, l’elricest non incest ed uke!Ed, non potevo esimermi dall’organizzare una cosa simile X’D
Nella prima stesura della storia il finale era semplicemente orrido X’D Melenso e totalmente afunzionale (ma esiste ‘sta parola?). L’illuminante parere della Nai e gli sgamatissimi consigli dell’infallibile Caska (che ringrazio per il “che carina <3” che mi ha mandata in brodo di giuggiole per qualcosa come due giorni ç_ç) hanno salvato questa storia dalla banalità incombente, quindi ringraziatele! XD
PS: Per il secondo sottotitolo, il bellerrimo “Teasing To Please” che sembra fatto apposta per ‘sta fanfiction e invece è il titolo di un’adorabile canzone dei Cute Is What We Aim For, si ringrazia gentilmente Ana (ma va’?).
Pairing: AlphonsexEdward, EnvyxEdward (one-sided).
Rating: R
AVVISI: AU, Incest, Lime, Shounen-ai, Song-fic.
- A Ed piace divertirsi “giocando” col suo fratellino: “Obbligo o verità?”, gli chiede, e sta ad Al scegliere cosa rispondere. Ma la sua scelta non pare mai essere quella giusta: suo fratello riesce sempre a trovare un modo per metterlo in imbarazzo.
Commento dell'autrice: Eeeeh, siete arrivati alla fine di questa cosa assurda? :O Me ne stupisco!
Dunque, ObbligoVerità. No, davvero, è difficile parlarne XD L’ho covata per tantissimo tempo, e come concetto è stata una delle prime storie a nascere quando Maki propose l’ormai famosa sfida del Violator Contest. Non conoscevo la canzone, ma quando lessi il testo la scaricai e fu amore immediato e improvviso *_* E mentre la ascoltavo la trama nasceva da sola e si andava consolidando <3
Poi prima che riuscissi a scriverla – causa impegni e menate varie – è passato più di un mese, ma va be’ XD
Non ero affatto sicura del risultato finale, mentre la scrivevo. Ma sono stata parecchio rassicurata in fase di scrittura e anche col betaggio sia dall’ormai onnipresente Nai che dalla preziosissima Ana, ed è proprio a lei che vorrei dedicare questa storia, perché è stata terribilmente d’aiuto, perché siamo legate da un fangirling appassionato ed adorabile e perché è la mia spacciatrice di trame preferita X3
Vi è piaciuta la scena del succhiotto? XD Ebbene, se non ci fosse stata lei la scena del succhiotto non sarebbe mai venuta fuori! Quindi ringraziatela ù_ù
…ah, e l’EnvyEd. Oddio, scusatemi XD Ma a parte il fatto che era funzionale, s’inserisce alla perfezione nel filone delle dissacrazioni che ho voluto organizzare per questa serie di shot XD Dopo il RoyEd, l’elricest non incest ed uke!Ed, non potevo esimermi dall’organizzare una cosa simile X’D
Nella prima stesura della storia il finale era semplicemente orrido X’D Melenso e totalmente afunzionale (ma esiste ‘sta parola?). L’illuminante parere della Nai e gli sgamatissimi consigli dell’infallibile Caska (che ringrazio per il “che carina <3” che mi ha mandata in brodo di giuggiole per qualcosa come due giorni ç_ç) hanno salvato questa storia dalla banalità incombente, quindi ringraziatele! XD
PS: Per il secondo sottotitolo, il bellerrimo “Teasing To Please” che sembra fatto apposta per ‘sta fanfiction e invece è il titolo di un’adorabile canzone dei Cute Is What We Aim For, si ringrazia gentilmente Ana (ma va’?).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
POLICY OF TRUTH
(or ObbligoVerità)
(or Teasing To Please)
Violator #7
Il suo primo ricordo era il giardino della casa campagnola in cui abitavano quando mamma era ancora viva. Era piccolo e curato, e sua madre vi si dedicava con straordinaria passione per giornate intere; soprattutto d’estate, ma anche d’inverno, quando il tempo era brutto e magari pioveva a dirotto, non le era possibile starne lontana per più di un paio di giorni. Quando accadeva, stava ore dietro alla finestra, e poi esplodeva in uno sbuffo angosciato, e allora la si vedeva uscire timorosa dalla porta in legno massiccio, e la si vedeva avanzare fra i roseti e i gelsomini a rischio di annegamento, mentre il suo sguardo schizzava preoccupato da un fiore all’altro, alla ricerca del più bisognoso di cure. E una volta che l’aveva trovato, la si vedeva chinarsi, stringendosi nell’ingombrante impermeabile giallo e reggendosi a malapena con gli stivali di gomma sul terriccio scivoloso. Piantava il gigantesco ombrello a decorazioni floreali multicolori per terra al suo fianco, e sfiorava ogni petalo bagnato con le dita, con tutta la premura del suo essere madre.
Trisha amava credere di essere una madre, prima di essere una donna.
Doveva essere stato terribile, per lei, morire di dispiacere – è così che si chiamano gli infarti, in questi casi, giusto? – dopo aver scoperto che suo marito aveva un’amante. Il dolore che aveva provato doveva averla confusa parecchio. Doveva averle rivelato sibilando “Hai visto? Sei donna anche tu. Sei moglie anche tu. Ma nel tentativo di essere solo una madre perfetta sei risultata inadatta a ricoprire tutte le altre cariche”.
Per certe cose si muore. Davanti a certe verità semplicemente il cuore non regge.
Alphonse ricordava di averla pensata così dal primo momento in cui aveva imparato a ragionare in termini astratti; dal primo momento, cioè, in cui il suo cervello aveva smesso di dedicarsi solo a cibo, nanna e giocattoli, e aveva cominciato a riempire i vuoti con le speculazioni psico-filosofiche.
Trovava eccezionale che la mente potesse fare cose simili. Tenere qualcuno all’oscuro di verità ovvie e importantissime e anche abbastanza banali, fino a quando non fosse stato possibile accettarle senza diventare matto a causa loro. Una cosa fantastica. Poteva essere la panacea per tutti i mali psichici, se controllata.
Era per questo motivo che Alphonse Elric voleva fare lo psichiatra.
Per questo, e per suo fratello Edward.
Se avesse avuto un secondo ricordo – e un’altra cosa che lo mandava letteralmente in estasi era il fatto che fosse così facile riportare alla memoria il primo ricordo della vita, mentre era praticamente impossibile identificare il secondo, il terzo, il quarto e così via. Come se dopo il primo tutti gli altri ricordi assumessero un’importanza cronologica nulla, tale da non meritare nemmeno un vago ordinamento numerico – se avesse avuto, appunto, un secondo ricordo, il protagonista sarebbe sicuramente stato Ed.
Ed impegnato in una qualunque azione inutile e idiota, come scavalcare la staccionata e finire con un braccio rotto, fare le capriole e lussarsi un ginocchio, nuotare nudo nel lago a gennaio e rischiare la morte per assideramento eccetera eccetera.
Non aveva un secondo ricordo ben definito, e quindi tutte queste immagini non erano altro che pezzettini del puzzle che andava a ritrarre suo fratello nel quadro della sua vita, ma se avesse dovuto stabilire quale fosse il ricordo più importante che avesse di Ed, allora non avrebbe avuto dubbi.
Aveva appena compiuto dodici anni ed era a metà della prima media. Suo fratello ne aveva quattordici e frequentava la terza. Mentre lui cercava di capire qualcosa delle proprietà delle frazioni, Ed aveva sollevato il viso dall’eserciziario d’inglese e aveva richiamato la sua attenzione con uno sbuffo annoiato.
- Facciamo un gioco. – gli aveva detto.
In tutta la sua innocenza, e colmo d’entusiasmo per il diversivo, aveva chiuso il quaderno e gli aveva chiesto che gioco volesse fare.
- Le regole sono semplici. Io ti domando “obbligo o verità?”, e se tu mi rispondi obbligo sei costretto a fare quello che ti dico, mentre se rispondi verità devi rispondere sinceramente a qualsiasi domanda io ti faccia.
- Lo conosco questo gioco… - aveva risposto lui con una smorfia, - Lo usano i ragazzi per costringere le ragazze a fare cose imbarazzanti. E viceversa.
- Ma davvero? – aveva sussurrato Ed con un sorriso oscenamente audace sul volto.
Dopodichè si era alzato, aveva preso un po’ di libri sottobraccio e si era diretto verso la porta della camera, per uscirne.
- Non cominciamo? – aveva chiesto lui, fermandolo prima che potesse andarsene.
- No. – aveva risposto suo fratello, senza neanche guardarlo, - Non adesso. Non quando te lo aspetti.
La sua espressione serena e quel dannato sorriso si riflettevano nello specchio accanto alla porta. Ed lo sapeva, e aveva sollevato lo sguardo, incontrando quello di Al senza aver bisogno di voltarsi. Aveva strizzato lievemente gli occhi, come un gattino giocherellone, e poi era scomparso oltre l’uscio con un infantile occhiolino e un ghigno malandrino che Al aveva trovato in parte divertenti e in parte assurdamente preoccupanti.
Già allora, Alphonse sospettava che le motivazioni del comportamento vagamente indisponente e indisciplinato di suo fratello fossero da ricercarsi nella morte di sua madre e nel fatto di dover vivere con un padre che per quella stessa morte riteneva responsabile, oltre che con la sua amante e suo figlio.
Quello che non sapeva, che non sospettava minimamente, era che suo fratello fosse un essere pericoloso. Che non fosse semplice come sembrava.
E soprattutto che quel dannato sorriso andava temuto.
Ma l’aveva imparato presto.
Più per autodifesa che per altro.
You had something to hide
Should have hidden it, shouldn’t you
Now you’re not satisfied
With what you’re being put through
It’s just time to pay the price
For not listening to advice
And deciding in your youth
On the policy of truth
Should have hidden it, shouldn’t you
Now you’re not satisfied
With what you’re being put through
It’s just time to pay the price
For not listening to advice
And deciding in your youth
On the policy of truth
- Obbligo o verità?
Sospirò pesantemente, poggiando la penna sulla scrivania e massaggiandosi le tempie.
- Nii-san, papà e Dante sono qua accanto…
- Chi ti dice che ti chiederei di fare qualcosa che non potrebbero vedere?
- …lo fai sempre, nii-san. L’ultima volta sono stato nudo al balcone per qualcosa come due ore…
Ed scrollò le spalle.
- Puoi sempre rispondere verità.
Alphonse sospirò ancora, facendo ruotare la poltroncina fino a poter guardare suo fratello che, disteso sul letto, teneva ancora l’ultimo numero di Berserk fra le mani.
Se non avesse avuto già motivi a sufficienza per pensare che suo fratello fosse un ragazzo mentalmente disturbato, l’avrebbe dedotto sicuramente dall’ostinazione maniacale con la quale continuava ad amare, seguire e cercare di trovare un senso a Berserk, quando era chiaro come la luce del sole che neanche Miura sapesse più dove volesse andare a parare.
- Obbligo. – rispose, rilassandosi contro lo schienale.
- No, davvero, Al. – protestò Ed, sedendosi di scatto e abbandonando il volumetto aperto sottosopra sul letto, - Sta diventando difficile trovare cose originali da farti fare, dopo tutti questi anni! Non ti ho mai fatto una domanda!
Scrollò le spalle, tornando a guardare il quaderno con gli appunti di filosofia.
- Allora lasciamo perdere il gioco. – propose, - D’altronde, tu ormai lavori e io l’anno prossimo cominciò l’università. Siamo diventati un po’ troppo grandi per continuare, no?
- Al, - sospirò Ed, - tu mi chiami ancora nii-san. Pensi di essere credibile, quando dici di essere cresciuto?
Ridacchiò, fingendo di capire cosa Marx stesse cercando di spiegargli sul ruolo del lavoro nella definizione dell’essere umano.
Sentì suo fratello alzarsi dal letto e raggiungerlo alle spalle, strascicando le pantofole sul pavimento.
- Avanti, - cedette infine Edward, chinandosi su di lui, - fatti leccare l’orecchio.
- Che?! – quasi strillò lui, allontanandosi per quanto possibile, - Avevi detto che non mi avresti fatto fare niente di… pericoloso!
- Non l’ho detto. – rispose tranquillamente Ed, fissandolo negli occhi.
- Ma papà e Dante-
- Nostro padre e Dante in questo momento stanno pensando a tutt’altro, Al.
- …io non voglio.
- Avresti potuto evitarlo. Potevi dire verità.
- Non volevo neanche quello!
- Allora mi auguro che tu abbia scelto il male minore.
Socchiuse gli occhi, facendoli saettare discretamente da destra a sinistra, alla ricerca di una via di fuga, ma intorno a lui non c’era niente del genere. Intorno a lui c’erano solo le braccia di Ed che, saldamente appoggiate ai braccioli della poltroncina, gli facevano da gabbia.
- E va bene. – si arrese, - Ma fa’ in fretta.
Edward sogghignò, scostandogli la lunga coda dal collo.
- Agli ordini. – rispose.
La punta della sua lingua gli sfiorò il lobo e poi scivolò verso l’alto, seguendo la curva del suo orecchio e lasciandosi alle spalle una traccia bagnata bollente che si raffreddava in un secondo, dandogli i brividi.
Riuscì a stento a mugugnare qualcosa su quanto fosse difficile avere un fratello pervertito, mentre le labbra di Ed gli si chiudevano addosso, mordicchiandolo delicatamente.
- Ah… avevi detto solo leccare…
- Mmmh… è vero, l’ho detto… ma volevo aspettare che fossi tu a lamentarti…
- Lo… lo sto facendo…
Con uno sbuffo e un grugnito, Ed si separò da lui e si rimise dritto.
- Sì, l’ho capito.
- Nii-san, perché continui a-
- Tu perché non dici mai verità?
Serrò le labbra, senza sollevare gli occhi dal pavimento.
Dopo pochi secondi, Edward si stancò di aspettare e andò via.
Quando aveva undici anni, e le richieste di suo fratello erano ancora innocenti, voleva sempre l’obbligo perché Edward era grandioso nell’inventare prove che lo costringevano a imprese degne di un eroe e che lui trovava divertentissime da portare a termine, come catturare qualche gatto randagio a mani nude o rotolare caprioleggiando per tutta la casa senza demolire neanche un mobile.
Quando a tredici anni suo fratello gli aveva chiesto un bacio a fior di labbra, però, Al aveva cominciato a chiedersi un sacco di cose. E tutte quelle domande l’avevano portato a scoprire una serie di pensieri scomodi annidati nel suo cervello da chissà quanto tempo e ormai radicati così in profondità da non poter essere strappati via.
Prima di tutto, si era chiesto cos’avrebbe fatto se le richieste di suo fratello avessero continuato ad essere di quel tipo. Se dal bacetto si fosse passati al bacio vero, alle carezze, ad altro – come poi in effetti era successo, accidenti a lui – che cosa avrebbe fatto? Cos’avrebbe detto? Come avrebbe reagito?
…non si era stupito poi molto, quando una vocina minuscola ma pungente gli aveva rivelato che non solo non avrebbe fatto né detto niente, non solo non avrebbe nemmeno pensato alla possibilità di ribellarsi, ma sottostare a quel gioco gli sarebbe perfino piaciuto.
Il che lo portava a farsi almeno un’altra domanda.
Ovvero, cosa diavolo aveva nella testa? E, più precisamente, cosa diavolo provava per suo fratello? Per quale assurdo motivo avrebbe dovuto piacergli il pensiero di poterlo accarezzare o baciare o chissà cos’altro, solo perché era così assurdamente bello e ogni tanto guardandolo pensava di poter morire per un sorriso e…
…e.
Ancora una volta, non s’era meravigliato poi molto, quando s’era risposto che sì, probabilmente era innamorato di suo fratello.
Chissà da quanto.
Una volta, sua madre gli aveva detto che lui ed Edward erano due persone particolari. Guardandoli, si sarebbe dato ad Ed del razionale e a lui del sognatore – sua madre amava definirsi “una fisionomista” – però in realtà sia lui che Ed erano l’esatto opposto di ciò che sembravano.
Alphonse non aveva mai condiviso quella teoria. Un po’ perché i discorsi di Trisha spesso e volentieri sembravano quelli tipici della madre che si sforza di fare apparire i suoi figli meno banali di quanto non siano in realtà, e un po’ perché non vedeva per quale motivo un paio d’occhi un attimino più grandi dovessero fare di lui un sognatore o chissà che altro.
Era sempre stato un ragazzino molto razionale. Sincero, perché sapeva bene che dalla menzogna, a lungo termine, non si ricava niente, e anzi, si perde sempre qualcosa.
Era per questo che, almeno con sé stesso, non aveva mai mentito.
Sì, ecco, amava suo fratello.
Colpevole, vostro onore.
Ma gli occhi di Ed… gli occhi di Ed, mentre le sue labbra passavano di richiesta in richiesta, di bacio in bacio, quegli occhi ardevano di curiosità.
E lui non era uno stupido.
Sapeva già cosa Edward gli avrebbe chiesto, se avesse detto verità, anche solo per una volta.
E se avesse sentito quella domanda, lui non sarebbe stato in grado di mentire.
Assieme al desiderio spasmodico di sentire ancora la bocca e le mani di suo fratello premergli addosso, era questo che lo teneva inchiodato fedelmente all’obbligo.
- Obbligo o verità?
Santo Dio, lasciami in pace.
- Nii-san, ho sonno…
- Non ti puoi tirare indietro.
- Non ho mai firmato un contratto, mi pare! Lasciami in pace, voglio dormire e domattina mi devo svegliare presto.
Edward sospirò e scese dal letto superiore con un salto, appendendosi all’impalcatura metallica e facendola tremare tutta.
- Che vuoi? – gli chiese, tirando su le coperte fino al naso.
Gli occhi di Ed brillarono per un secondo, illuminati dai fari di una macchina di passaggio, e Alphonse vide che nella luce di quelle pupille non c’era traccia di gioco.
Fu la prima e l’ultima volta in cui si chiese quand’è che quello avesse smesso di essere un passatempo, per suo fratello.
Si rispose subito che doveva essere stato lo stesso momento in cui aveva smesso di esserlo per lui.
Anche se era molto probabile che in realtà non lo fosse mai stato – ma questa era una possibilità troppo spaventosa per poter essere presa davvero in considerazione.
- Nii-san…
- Obbligo o verità?
Alphonse sospirò e rispose come al solito.
Edward si morse le labbra e, dopo qualche secondo di meditazione – troppo pochi per non dare l’idea che in realtà ci stesse pensando da molto prima di scendere a terra – gli chiese di fargli un succhiotto.
- …cosa…?
- Un succhiotto. Avanti. Quanti ne avrai fatti nella tua vita? Milioni?
- Neanche mezzo! – replicò, infastidito ed infuriato.
- Sei vergine, piccolo Al? – chiese Ed con un sorriso malizioso.
Arrossì vistosamente, stringendosi nelle spalle.
- Lo sai. – rispose, cercando di tornare in possesso delle sue facoltà fisiche e mentali.
Edward rise, arrampicandoglisi addosso e imprigionandolo fra le coperte e il materasso con i gomiti e le ginocchia.
- Sì, lo so. – disse, con l’aria di chi vuole chiudere il discorso e passare a qualcosa di più interessante, - Adesso, il mio succhiotto. Da bravo.
Alphonse sospirò ancora, sentendosi stranamente a disagio.
- Ricordami per quale motivo non ti obbligo anche io a fare qualcosa, una volta ogni tanto?
- Hai smesso di provarci quando hai capito che non ti stavo a sentire. – spiegò Ed con un risolino, - E comunque, anche se decidessi di giocare, sai che direi verità. Non sono uno stupido.
E sei sicuro che sarebbe la scelta meno pericolosa?
- Adesso basta parlare. – sentenziò cupamente, sbottonando in un gesto rapido e ansioso la camicia del pigiama e porgendogli il collo.
Si sporse in avanti. Accarezzò la sua pelle calda col respiro, reso agitato e spezzato dalla tensione e dall’eccitazione che, come un’onda, lo colpiva a scariche, muovendosi dal basso verso l’alto. E poi lo sfiorò con le labbra. Senza dischiuderle, senza neanche provare ad assaggiarlo.
- Al…! – lo chiamò Ed, fremente d’impazienza, pressandoglisi contro con tutte le forze, fin quasi a schiacciarlo.
- Qui si vedrà… - disse lui, frugando con la punta del naso fra il cotone e la pelle, fino a guadagnare la curva della sua spalla.
- E qui invece va bene, vero? – chiese Ed a voce bassa, sorridendo sensualmente.
Al sorrise di rimando, schiudendo le labbra e richiudendogliele addosso subito dopo.
Edward rabbrividì al tocco della sua lingua e si scosse più decisamente quando lo sentì succhiargli avidamente la pelle, la carne, le ossa, come volesse ingoiarlo per intero.
Il suo bravo fratellino ubbidiente.
Edward era eccitato. Alphonse poteva sentire la sua erezione premere contro la propria, attraverso i veli spessi delle lenzuola e delle coperte e il fastidioso tessuto aderente del pigiama. Ansimava rumorosamente, e la sua espressione concentrata – gli occhi chiusi, le labbra semiaperte e un po’ umide – sembrava a metà fra il piacere e il dolore.
- Ti faccio male? – chiese premuroso, scostandosi lievemente.
Ed rispose con un grugnito contrariato, ricacciandogli la spalla in bocca con forza, rischiando di spaccargli qualche dente.
Al riprese a succhiare, con più violenza rispetto a prima. Sembrava che quello fosse esattamente ciò di cui suo fratello aveva bisogno. Ed essere l’unico in grado di darglielo lo rendeva orgoglioso. E forte.
Poco a poco, Ed cominciò a mugugnare e lamentarsi, ma non lo lasciò fermarsi. Piuttosto, si piegò su di lui, cercando un lembo di pelle sotto la maglia, procedendo a tentoni con la punta del naso, esattamente come aveva fatto lui poco prima.
Alphonse sperò che tutte quelle manovre gli servissero per posare la bocca da qualche parte e attutire i suoni cupi e rabbiosi che gli sfuggivano dalle labbra, e per qualche secondo gli sembrò quasi di avere ragione. Ma poi sentì l’umido tocco della sua lingua addosso, e fu più forte di lui: scattò a sedere, mandando Ed sul pavimento e rischiando di essere la causa del terzo gesso della sua vita.
Ancora troppo sconvolto per parlare, suo fratello lo guardò con occhi resi opachi dall’eccitazione ormai prossima a sfumare, massaggiandosi distrattamente la spalla destra, battuta nella caduta.
- Scusa… - mormorò Al, con lo sguardo che saettava da lui alla porta, mentre il cervello si riempiva della paura di vedere apparire suo padre sull’uscio, attirato dal rumore.
Fortunatamente, la luce in corridoio non si accese, e nessun suono di passi si mosse verso quella stanza.
Dopo qualche secondo, Al si tranquillizzò.
Ed, nel frattempo, s’era risollevato da terra, e stava provvedendo a scalare il letto per tornare a dormire.
- Nii-san. – lo chiamò Al, improvvisamente smanioso di risentire la sua voce, - Davvero, scusa.
- Scusa tu. – ribatté gelido Ed, senza sporgersi a guardarlo, - Farlo a te non rientrava nell’accordo.
Alphonse deglutì, tornando a rilassarsi sul materasso.
- Nii-san, non ce l’hai con me, vero?
- No che non ce l’ho con te. – rispose lui con un sospiro stanco.
Rimase ad osservare le luci delle macchine proiettarsi sulla parete opposta alla finestra per pochi, lunghissimi attimi.
Poi, mordicchiandosi l’interno della guancia, chiese ad Ed se poteva fargli una domanda, e lui rispose di sì.
- Tu non sei vergine, nii-san?
Edward si agitò lievemente sul materasso, facendo cigolare le molle della rete.
- No. – rispose infine, - Non lo sono.
Fu come affondare con esasperante lentezza nella lava. Ogni centimetro del suo corpo era in fiamme, soprattutto le guance, e le lacrime che gli scivolavano addosso scottavano come lingue di fuoco.
Sapeva perfettamente perché stava piangendo.
Ma questo non rendeva il tutto meno folle.
- E con chi è stata la prima volta? – chiese, nascondendo caparbiamente il tremito della voce.
- Envy. – rispose lui con uno sbuffo quasi divertito, - Il primo e l’unico. Ma questo già lo sai, Al.
Ma sentirlo da te è tutta un’altra cosa.
Non credeva fosse possibile passare così repentinamente dal caldo al freddo senza morire per lo shock. Eppure, dopo la lava, gli sembrò di essere immerso nel ghiaccio, e di non poter neanche respirare, e nonostante tutto era ancora abbastanza vivo da poter pensare.
E questa era la cosa peggiore.
Envy.
Lui.
Forse, in fondo, Edward ce l’aveva davvero con lui.
Da chissà quanto tempo.
Things could be so different now
It used to be so civilised
You will always wonder how
It could have been if you’d only lied
It’s too late to change events
It’s time to face the consequence
For delivering the proof
In the policy of truth
It used to be so civilised
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It could have been if you’d only lied
It’s too late to change events
It’s time to face the consequence
For delivering the proof
In the policy of truth
La storia di Envy era tanto tanto simile alle altre storie dei tanti figli unici viziati ed arroganti che riescono in tutto non per meriti personali ma grazie al generoso aiuto dei parenti.
Prima di capire chi era, Alphonse era convinto che persone simili non esistessero davvero. Che fosse un’esagerazione di qualche invidioso, persone che non riuscivano a sopportare che qualcun altro fosse riuscito a fare cose che loro non sarebbero mai stati in grado neanche di pianificare.
Envy non era uno stupido, ma era pigro e insopportabilmente ostinato, malgrado da qualche parte dentro di lui si nascondesse un cervello valido. Non aveva mai faticato in vita sua, neanche un po’, ma aveva tutto. La sua famiglia era disgustosamente ricca, era bello, aveva frequentato scuola e università con ottimi risultati e minimo sforzo – viste anche le sovvenzioni economiche mobilitate dalla famiglia in quel senso – lavorava ai vertici dell’azienda del nonno e nonostante tutto questo aveva avuto più volte la dannatissima faccia tosta di prendere Alphonse da parte e, dopo avergli sorriso in quel modo sottile e sgradevole, così adatto ai suoi lineamenti appuntiti ed affilati, dirgli “Io ti invidio veramente tanto”.
Envy con la sua invidia assurda sarebbe stato il suo terzo ricordo, sempre se ne avesse avuto uno.
L’aveva visto per la prima volta quando aveva nove anni. Sua madre era morta da appena un anno e suo padre si apprestava ad accogliere in casa Dante, la sua amante, come seconda moglie. Envy – non era il suo vero nome, ma era perfetto per lui e quindi tutti, tranne i suoi parenti, lo chiamavano così – aveva tredici anni, ed era l’unico figlio della donna, che l’aveva avuto quando era ancora molto giovane e non era mai stata sposata.
Quel giorno, quando Envy s’era avvicinato, Ed gli si era stretto contro, quasi abbracciandolo, ed aveva guardato l’intruso con tanto odio che Dante aveva sentito il bisogno di proteggerlo poggiandogli una mano sulla spalla e tirandolo indietro.
Quando poi le cose si erano un po’ calmate – e, soprattutto, dopo aver litigato con Hohenheim, Ed era uscito con chissà chi per andare a fare chissà cosa chissà dove – Envy gli si era nuovamente avvicinato, e gli aveva prestato il gameboy. E mentre lui giocava tranquillamente a Pokémon Giallo, gliel’aveva detto. La prima volta di quella che sarebbe diventata una noiosissima lunga serie. “Ti invidio molto”.
E lui ricordava di aver pensato chiaramente “Guarda un po’ questo tipo. Mamma non c’è più e a me ora tocca dividere la stanza con questo sconosciuto, oltre che con il mio nii-san, e lui mi viene a dire che mi invidia”.
E quindi sì, l’aveva odiato fin dal primo giorno, e lo faceva infuriare l’idea che la prima volta di suo fratello fosse stata con un individuo simile.
L’aveva odiato da novenne, di un odio bambino e immaturo motivato dal suo naturale essere insopportabile, e da dodicenne poi aveva capito tante altre cose, e quindi anche il suo odio era cresciuto, nutrito e pasciuto dalle varie motivazioni che Envy si lasciava dietro semplicemente vivendo.
La colpa principale di Envy – adesso poteva ammetterlo senza vergogna – era stata mettere prima gli occhi e poi le mani addosso ad Edward, come fosse stato territorio libero di cui prendere impunemente possesso. Era arrivato e aveva cominciato subito a provarci. A tredici anni sembrava naturalmente predisposto al sorriso lascivo e alla carezza falsamente casuale; a sedici era diventato praticamente un maniaco sessuale.
E alla fine, a diciotto, aveva sconvolto l’universo.
Aveva segnato per sempre la vita di Edward e per riflesso anche la sua.
Al aveva pensato per lungo tempo che Envy avesse in mente qualcosa. Lo aveva sentito parlare con Dante della possibilità di prendere un appartamento in cui andare a vivere da solo, e in quell’occasione lei non s’era opposta.
Poi, una mattina apparentemente uguale a tutte le altre, Edward gli aveva detto che non si sentiva bene e sarebbe rimasto a casa. In un primo momento, Al s’era offerto di restare a casa con lui per tenergli compagnia, ma Envy era apparso all sue spalle come per magia ed aveva detto che lui aveva un giorno di vacanza da scuola per disinfestazione, e perciò sarebbe rimasto lui con Ed. Ovviamente, Alphonse aveva fatto il diavolo a quattro, osteggiandolo in tutti i modi, ma vista l’impossibilità di controbattere con una qualsivoglia risposta sensata alla domanda “Al, ma che problema c’è se resta lui con tuo fratello?”, alla fine gli era toccato capitolare e correre a scuola.
Quando era suonata la campanella per annunciare la fine della giornata s’era quasi rotto il collo cadendo dalle scale, e poi era tornato a casa di corsa, troppo agitato e preoccupato per restare ad aspettare l’autobus. E quando era arrivato aveva sperato che – oddio, davvero, aveva sperato che suo fratello gli saltasse fra le braccia, ringraziandolo per essere stato così veloce a tornare e averlo salvato dalle sporche manacce di quel criminale…
…e invece li aveva trovati tutti e due sul divano, affannati e scomposti come se si fossero appena presi a botte, e s’era sentito un intruso indesiderato.
Per tanto tempo era davvero riuscito a credere che si fossero picchiati per chissà che motivo e basta.
Ora sapeva di essersi semplicemente sbagliato.
Non era che l’ennesimo della lunghissima serie dei suoi errori.
Sarebbe stato molto più facile se quella di Envy per suo fratello fosse stata solo una sciocca attrazione di tipo fisico. Sarebbe stato più facile gestirla e anche renderla innocua probabilmente.
Ma Envy era perdutamente innamorato di suo fratello.
Lo era stato probabilmente dal primo momento in cui l’aveva visto, e dopo quasi dieci anni lo amava ancora come allora, di un amore immotivato, appassionato ed esplicito in maniera indecente.
Un amore affermato e continuamente esibito.
Un’abitudine.
Per tutti tranne che per Al, ovviamente. Anche se era chiaro che ormai aveva cominciato a farci l’abitudine. Più che altro perché s’era arreso al fatto che Envy e suo fratello portavano avanti quella cosiddetta storia da anni.
Per certi versi era perfino inquietante.
Se si fosse andati da uno qualunque degli amici di Ed, e gli si fosse chiesto “Ma Ed sta con qualcuno?”, avrebbe naturalmente risposto “Sì, certo, sta con Envy”. Questo era strano, soprattutto se si pensava che Ed non ricambiava il suo amore e non scopavano neanche tanto spesso, giusto nelle rare occasioni in cui Envy veniva a trovare sua madre. In fondo, quasi neanche si vedevano. Ma questa convinzione era rimasta radicata nelle menti di tutti dal momento in cui, quattro anni prima, Envy aveva chiesto ad Ed di andare a vivere insieme.
Quell’uomo era sempre impegnato a organizzare qualche atto eclatante che l’avrebbe posto al centro del mondo abbastanza a lungo da renderlo indimenticabile, e questo, sommato all’inspiegabile fastidio che provava per il fatto che possedesse tutti quei soldi, impensieriva molto Al.
Probabilmente perché vivere così a stretto contatto con lui per tanto tempo gli aveva insegnato non solo che non c’è niente che non abbia un prezzo, ma soprattutto che non c’era nessun prezzo che Envy non potesse permettersi. Fosse da pagare in soldi o in faccia tosta, Envy avrebbe saldato il conto con puntualità ed efficacia assassina, in ogni luogo e in ogni momento.
Perché suo fratello avrebbe dovuto essere un’eccezione?
Perché non avrebbe potuto avere un prezzo anche lui?
In realtà, però, la cosa che lo preoccupava maggiormente era sapere che Envy aveva sempre avuto il coraggio e la costanza di fare quello che per lui non era stato che un sogno, e che tanto aveva desiderato. S’era dato completamente e con irritante, fedelissima testardaggine, esclusivamente ad Edward. L’aveva sempre fatto, l’avrebbe fatto per sempre. Senza prendersi pause, senza scappare.
Dio sapeva quanto anche lui avrebbe voluto esserne capace.
Ma lui ed Envy non erano la stessa persona. Envy aveva possibilità che lui non avrebbe mai avuto.
Envy non era suo fratello.
- Obbligo o verità?
Sollevò di scatto lo sguardo dal quaderno e lo puntò su suo fratello. Envy, che stava sfogliando distrattamente una rivista, seduto in un angolo della camera, fece la stessa cosa.
In un primo momento, fu tentato di dirgli “Ma ti sei accorto che non siamo soli?”.
Poi si rese conto che sarebbe stato stupido, perché era ovvio che se ne fosse accorto.
Semplicemente, i suoi occhi dorati e scintillanti lo stavano sfidando.
Consapevolmente, sfacciatamente.
Envy sogghignò, tornando a sfogliare la rivista.
Alphonse si morse un labbro.
Cosa diavolo doveva fare?
L’obbligo l’avrebbe portato a cacciarsi in chissà che situazione imbarazzante davanti ad Envy, ma d’altro canto sapeva che se avesse detto verità Edward non si sarebbe fatto alcuno scrupolo a chiedergli esattamente ciò che voleva sapere e che lui non aveva alcuna intenzione di dirgli.
Sospirò, e poggiò il quaderno sulla scrivania.
- Obbligo. – disse, ostentando un coraggio che non possedeva realmente.
Edward ghignò.
E per la prima volta ad Alphonse sembrò di capire per quale motivo il sorriso di suo fratello lo spaventasse tanto: era assolutamente folle e genuinamente cattivo, ecco tutto. Non sapeva se lo fosse sempre stato o se si fosse trasformato nel tempo, ma era così che era in quel momento, e questo bastava per terrorizzarlo, soprattutto perché era sempre lui il destinatario di quel sorriso assurdo.
- Come vuoi. – rispose Ed, scrollando le spalle, - Il tuo obbligo è rimanere a guardare fino alla fine.
Oh.
Merda.
Envy si sollevò dall’angolino in cui s’era seduto ed Alphonse capì tutto.
Rimase immobile, come pietrificato, ad osservarli avvicinarsi, sfiorarsi, guardarsi con occhi complici resi brillanti dal divertimento, dall’eccitazione e della sensazione di essere parte di un diabolico piano creato appositamente per Al, a sua misura, per colpirlo dove avrebbe fatto più male, dove il segno sarebbe rimasto più a lungo e dove il sangue non avrebbe mai smesso di scorrere.
Riuscì a rimanere immobile perfino quando si baciarono, lentamente, ad occhi chiusi, come amanti, come innamorati; restò immobile, anche se sentiva le mani pizzicare per la voglia di scattare, afferrarli e separarli, e anche se i muscoli delle gambe gli dolevano per lo sforzo della contrazione innaturale che li teneva fermi quando avrebbero preferito di gran lunga aiutarlo a saltare in piedi e fuggire da quell’inferno.
Ma poi le mani di Edward si appoggiarono lascive alla chiusura dei pantaloni di Envy, e allora non poté più trattenersi. Scalciò lontano la sedia e si ritrovò in piedi, a guardare la scenetta dall’alto tra i veli di lacrime che teneva a stento bloccate fra le ciglia.
Strinse i pugni, sostenendo lo sguardo impassibile di Ed, e poi si voltò e si diresse velocemente verso la porta.
- Non ti azzardare a uscire! – strillò suo fratello, scattando in piedi a sua volta.
Ma lui neanche lo sentì.
- E adesso che farai?
Lo guardò infastidito, sbuffando e tornando a sedersi per terra, al suo fianco.
- Che intendi?
Envy sogghignò, allungandosi sul pavimento per recuperare la rivista che era rimasta per terra al suo posto.
- È sfuggito al tuo controllo. È la prima volta che rifiuta un obbligo, vero?
- Sì. – confermò, mordicchiandosi un labbro e guardando altrove, - Ma dovrò concederglielo. In effetti era una richiesta antipatica.
L’altro ridacchiò sommessamente, socchiudendo gli occhi e incrociando le braccia.
- Ah, chibi-chan…
- Chi hai chiamato nano insignificante al punto che non si riuscirebbe a vederlo neanche con una lente d’ingrandimento, maniaco pervertito pedofilo sodomita che non sei altro?!
Stavolta Envy scoppiò a ridere apertamente, accavallando le gambe e lasciando andare la rivista sulle ginocchia.
- Tuo fratello ha proprio ragione, sei pazzo.
Edward si voltò a guardarlo con genuina curiosità sul volto. Non un’ombra di offesa nello sguardo.
- Al dice questo di me?
- No, ovviamente. Ma dice che vuole fare lo psichiatra “per aiutarti”, ed è la stessa cosa, no?
- No. – rispose lui con naturalezza, - Non può essere la stessa cosa se non sono le stesse parole.
- Avanti, adesso…
- No, sul serio. Ogni parola ha una sua sfumatura di significato. Dire “mi piaci” e dire “ti trovo carino” sono quasi la stessa cosa, ma non sono la stessa cosa.
- …va bene.
- Questo è quello che ti ha sempre fregato, Envy. Non sei abbastanza attento alle sfumature. Non lo sei mai stato. Fin dall’inizio.
Envy sorrise, rilassandosi contro una gamba del letto e poggiando il capo sul materasso.
- Sì, lo so. – rispose, - Ma, come al solito, sei riuscito a portare la discussione sull’argomento che tu volevi dibattere, e questo dimostra che stare molto attento alle sfumature fa di te un gran codardo.
- Balle.
- La penseresti ancora così se cominciassi a parlare di tuo fratello?
- Certo.
- Ok. Allora parliamone.
Ovviamente, Ed sbuffò e fece per alzarsi, ma Envy lo trattenne per un braccio, ridacchiando divertito.
- Ecco il coniglio che scappa. – commentò acido, - Dove sono finite le tue belle parole?
- Non volevo scappare sul serio. – borbottò Ed, incrociando le braccia sul petto.
- Bene. Allora cominciamo a parlare seriamente, ti va? Dici che dovrai concedere a tuo fratello il perdono per non aver rispettato l’obbligo. Ma andiamo, Ed. Credi davvero che, a questo punto, ad Alphonse possa fregare qualcosa delle tue concessioni?
Ed fece una smorfia infastidita.
- Certo che gli frega.
- Sì, come frega a te dei miei sentimenti.
Il più giovane ridacchiò di gusto, gettando indietro il capo.
- Adesso sei tu che porti il discorso sull’argomento che preferisci. Parli di sentimenti, Envy? I tuoi sentimenti? E quali sarebbero?
- Io ti amo.
- Tu non mi ami. Non ami nessuno. Nemmeno te stesso, per quanto possa sembrare assurdo. Tu vuoi semplicemente tutto, e ti ostini finché non lo ottieni. Non t’interessa neanche cos’è quello che chiedi, tu vuoi e basta. Se io fossi un altro, mi vorresti lo stesso, e mi vorresti anche se fossi un sasso o un tostapane.
- Saresti carino anche se fossi un tostapane, ci scommetto.
Edward rise ancora, sciogliendo la treccia e raccogliendo i capelli in una coda alta dietro la testa.
- Al invece non è così. Al vorrebbe che rimanessi come sono per sempre, perché è così che mi ama. Vorrebbe tenermi sotto controllo per non perdermi mai.
- Allora il suo non è un amore incondizionato.
- Certo che no. E per questo è ancora più prezioso.
- …non ti seguo.
- Se io domani mi svegliassi e decidessi di diventare un’altra persona, chessò, un punk, uno skinhead o un vegetariano, e Al mi amasse comunque, vorrebbe dire che non ha amato veramente la persona che ero prima. E se il suo amore di una volta era così infedele, e valeva così poco, anche il suo nuovo amore sarebbe uguale.
- Perché non puoi essere come tutte le altre persone normali, - sbuffò Envy, - e capire che se continuasse ad amarti anche da skinhead sarebbe perché di te accetta tutto?
- Perché non sarebbe un’altra parte di me. – rispose Ed, come fosse ovvio, - Sarebbe un altro me.
Envy sospirò.
- È la stessa cosa, Edward. Davvero.
Ed sorrise.
- No, non lo è.
- …
- Sfumature, Envy. Sfumature. Ho cercato di spiegarti, ma non mi aspettavo che tu capissi, né tantomeno lo pretendo.
- E allora perché questo spreco di parole? – sbottò lui, infastidito.
Edward si alzò in piedi, sorridendo sereno.
- Dovevo dare ad Al un po’ di tempo per calmarsi. – disse tranquillamente, uscendo dalla stanza.
Now you’re standing there tongue tied
You’d better learn your lesson well
Hide what you have to hide
And tell what you have to tell
You’ll see your problems multiplied
If you continually decide
To faithfully pursue
The policy of truth
You’d better learn your lesson well
Hide what you have to hide
And tell what you have to tell
You’ll see your problems multiplied
If you continually decide
To faithfully pursue
The policy of truth
Improvvisamente smise di tremare, e questo lo stupì moltissimo.
Aveva cominciato nel momento esatto in cui era uscito dalla camera ancora appiccicosa dell’odore fastidioso dell’eccitazione di Edward ed Envy; dal modo in cui tutto il suo corpo aveva preso a scuotersi – a scatti, come stesse singhiozzando, e con la furia del pianto, sebbene non stesse piangendo – aveva immaginato che non si sarebbe più fermato. Aveva perfino cominciato a cercare di venire a patti con la sua nuova condizione. S’era detto “Bene, tremerò per sempre. Adesso devo organizzare la mia vita in modo che questo inconveniente non mi disturbi troppo”, e dopo qualche secondo gli scossoni avevano perfino smesso di essere fastidiosi.
E poi era passata. Il pensiero di quei due, e soprattutto il loro ricordo, quell’immagine fissa, spaventosamente vivida, fisica, aveva smesso di tempestare di calci e pugni il suo stomaco e i suoi polmoni, e l’agitazione era volata via, insieme all’ansia. Così, velocemente com’era arrivata, e con la stessa sciocca semplicità, se n’era andata. E perfino il petto aveva smesso di pulsare e fargli male. Il cuore era tornato al suo posto e aveva smesso di prendere a testate lo sterno nel tentativo di evadere dalla cassa toracica e il sangue aveva ripreso la sua corsa attraverso le arterie e le vene a un ritmo più normale – un ritmo che non gli facesse provare il timore di doversi preparare a fronteggiare un’emorragia interna improvvisa e indesiderata così, da un momento all’altro.
Si era semplicemente seduto sul divano e aveva allungato una mano sul cuscino, alla cieca ricerca del telecomando. Quando l’aveva trovato, aveva acceso il televisore e aveva fatto un po’ di zapping.
La tv satellitare non sembrava avere niente di nuovo da offrirgli, e perciò si fermò su un documentario di History Channel sugli antichi egizi che ricordava di aver già visto – anche se magari non era proprio lo stesso, ma alla fine sapeva che i documentare di quel tipo erano tutti uguali, e quindi non avrebbe fatto alcuna differenza.
Suo fratello l’aveva appena torturato.
E, anche se era un pensiero difficile da accettare, doveva rassegnarsi al fatto che erano più di sei anni che suo fratello non faceva altro che torturarlo.
Magari era il suo hobby, o magari era soltanto una cosa che sentiva il bisogno di fare per stare in pace con sé stesso, o magari ancora neanche se ne rendeva conto, e se avesse anche solo immaginato con quanta fottuta violenza lo stava facendo soffrire, allora forse avrebbe subito smesso.
Ma non c’era modo di entrare nella testa di Edward.
Edward era come un giardino nascosto. Un affascinante dedalo di viuzze sterrate immerse nel profondo verde della natura, tanto fitto da non lasciare spazio neanche al sole. Un posto senza una vera entrata, e così per raggiungere l’interno si dovevano scalare le mura che lo circondavano, alte, ripide e frastagliate di schegge di vetro.
Come ogni giardino misterioso, ammaliava al punto che si sarebbe tentato di tutto per conquistare un’occhiata anche fugace all’interno.
Si sarebbe corso il rischio.
Anche di fronte alla possibilità di una delusione.
Era… era possibile che dentro le mura di Ed, alla fine, ci fossero solo un paio di erbacce e qualche carcassa ormai ridotta in briciole dal tempo.
Era possibile che Edward fosse solo uno specchietto per le allodole. Tanta maliziosa ed affascinante apparenza, e il vuoto cosmico appena oltre il guscio.
Lui non lo sapeva.
Le poche volte in cui gli era sembrato di poter scorgere una fetta del panorama del mondo di suo fratello, aveva visto solo immensi grovigli di cespugli di rovi.
E non aveva avuto modo di capire se stessero lì per proteggere un tesoro preziosissimo o fossero solo lo stravagante arredamento che Ed usava per riempire gli spazi vuoti.
- Sai che prima o poi dovrai pagare pegno per essertene andato prima di aver concluso il tuo obbligo, vero?
Non aveva ancora fatto in tempo a smettere di fantasticare su presunti giardini e tesori da scovare, che Edward piombò sgraziatamente sul divano accanto a lui, incrociando le braccia e accavallando le gambe.
- Nii-san… - sospirò, scrollando il capo con fare rassegnato, - non mi sembra il caso di-
- Ti concedo di giocare con me.
- …in che senso?
- Chiedimelo. Dirigi tu. Reggi le redini. Te le cedo.
Per un attimo, Al si sentì smarrito.
Tutti quegli anni ad adattarsi alla parte del sottomesso, chinando il capo e annuendo di continuo, di fronte a tutto, e ora, all’improvviso, dopo quella che gli era sembrata la fine di tutto, suo fratello gli si sedeva accanto e gli faceva provare non solo la sensazione di essere rientrato in possesso della propria vita, ma anche quella – perfino più inebriante – di poter controllare la sua.
Almeno per una volta.
Una volta sola.
- Obbligo o verità? – chiese, quasi titubante, stropicciando l’angolo di un cuscino fra le dita.
Edward sorrise come se si sentisse l’essere più furbo dell’universo.
- Verità. – rispose seccamente.
E, per un secondo, Al fu tentato di esplodere in un “Mi ami?” che lo avrebbe distrutto in singhiozzi, già lo sapeva.
Mi ami, nii-san? Mi consideri qualcosa più di un giocattolo carino da rigirarsi fra le mani? Mi vuoi bene, almeno un po’?
Ma si trattenne.
Se avesse davvero fatto quella domanda, Edward avrebbe risposto sinceramente, e qualunque fosse stata la sua risposta il discorso si sarebbe fermato lì per sempre.
Lui moriva dalla voglia di sentire un maledetto sì o un altrettanto maledetto no uscire da quelle labbra.
Ma non era disposto a perdere l’unica occasione che aveva per sfoltire il groviglio di rovi e vedere al di là della barriera di spine.
- Raccontami tutto dall’inizio.
Non era la domanda che Edward si aspettava.
- …questo è un obbligo. – protestò, mordendosi nervosamente un labbro.
- Nii-san…
- Riformulala. Sta’ alle regole, Al. O barerò anch’io.
Deglutì e strinse i pugni.
- Qual è la verità, nii-san?
Ed batté un paio di volte le dita sul braccio.
- La verità?
- Sì. Su tutto. Su di te.
Suo fratello sospirò.
- Devo raccontarti la storia della mia vita?
- Se sarà necessario, sì.
- Perché?
Avrebbe voluto ricordargli che non avrebbe dovuto esserci spazio per proteste e richieste, all’interno del gioco, e che lui non s’era mai azzardato a fare tante domande su quello che lui lo obbligava a fare.
Ma stava giocando con Edward. E sapeva quanto lui fosse volubile.
Non poteva indispettirlo, non poteva sfuggire a quell’interrogatorio, perché Edward non avrebbe risposto se prima non avesse visto chiaramente di fronte a cosa si trovava.
Incredibile, riusciva a farsi governare anche quando a reggere le redini era lui.
- Io… ho bisogno di saperlo, nii-san. – spiegò, - Ho bisogno di conoscerti. Altrimenti non riuscirò mai a capire se quello che provo per te è reale o… o se non è semplicemente una bugia che mi racconto per giustificare il fatto che sono attratto da te.
Edward sorrise teneramente, accarezzandogli una guancia e poi lasciando che la mano gli scivolasse addosso fino a fermarsi sul suo petto all’altezza del cuore.
- Se lo senti reale qui, allora lo è.
Anche Alphonse sorrise, prendendo la sua mano fra le proprie e stringendola con calore.
- Mi è bastato, fino ad ora. Credimi, ho giustificato una quantità incredibile di cose, solo ripetendomelo e convincendomene. Ma adesso non mi basta più.
Sbuffando, irritato dalla sua decisione, Ed tirò indietro il braccio e puntò gli occhi da qualche parte alla sua destra, arricciando le labbra e fingendo disinteresse.
- Nii-san… - lo richiamò Al, sporgendosi verso di lui, - Non puoi rifiutarti… è il tuo gioco, sono le tue regole, devi seguirle…
Edward si strinse nelle spalle, aggrottando le sopracciglia. Poi sbuffò, socchiudendo gli occhi.
E finalmente si arrese.
- Dammi un punto d’inizio. Sono quasi ventuno dannatissimi anni, non posso raccontarti tutto da quando sono nato.
- Io… non saprei… - disse lui, un po’ incerto, - Speravo che il punto d’inizio potessi darlo tu. Speravo che sapessi da cosa tutto è cominciato.
- Ma lo sai anche tu da cosa è cominciato tutto, Al. La mamma. Da cos’altro potrebbe essere cominciato? Un giorno mamma c’era ed era felice, e il giorno dopo era all’ospedale in coma. È morta troppo in fretta. E troppo… presto. Io non ero pronto a perderla.
- Nii-san, neanche io lo ero, chi diavolo può essere pronto a perdere sua madre? Questo non mi basta! Ti stai nascondendo dietro qualcosa di banale, io non posso farmi bastare una cosa simile, lo capisci?
- …
- Dovrai essere sincero. Mi dispiace.
Edward lo guardò per qualche secondo, e poi sorrise. Un sorriso vulnerabile.
Era la prima volta che lo vedeva sorridere in quel modo.
Aveva dimenticato… no, non sapeva affatto che i sorrisi di suo fratello potessero essere così dolci.
- Ricordi quando arrivò Envy, Al?
Annuì, ancora stregato da quel sorriso, che non accennava ad andare via.
- Eravamo entrambi così piccoli… tu avevi nove anni. Eri così delizioso… ricordi com’eri delizioso, Al?
Arrossì.
- Sinceramente non avevo idea di essere stato delizioso…
- Oh. Sciocchino. Lo sei sempre stato.
- …
- Sai, fu Envy a insegnarmi il gioco.
- …cosa…?
- Probabilmente neanche si rendeva conto di cosa mi stava facendo. Per lui era solo qualcosa di piacevole e divertente, e d’altronde io non mi ribellavo, quindi non puoi fargliene una colpa.
- Aspetta, nii-san, lui-
- Sì. Sì, Al. Non c’è bisogno di dirlo. Io, almeno, non ho alcuna intenzione di dirlo ad alta voce. È una cosa che io e lui abbiamo promesso molto tempo fa. E oltretutto è una cosa passata.
- Ma è quello che ti ha ridotto così!
Edward ridacchiò sommessamente, ironico.
- E com’è che sono ridotto, Al?
- Tu… nii-san, non venirmi a dire che credi di essere una persona equilibrata, perché non so cosa ti faccio!
- Ma no che non sono una persona equilibrata, Al! Ma non sono neanche un pazzo!
- Be’, o sei una cosa o sei l’altra!
Edward lo guardò, condiscendente, dondolando un po’ avanti e indietro, puntellandosi con le mani sul divano.
- Tu ed Envy avete molte cose in comune, sai?
- Ah, davvero? – borbottò infastidito, tirandosi indietro e rilassandosi contro lo schienale.
- Sì. Siete ugualmente insensibili. – rise, - E ugualmente belli, anche se in due modi diversi.
Alphonse sospirò pesantemente, socchiudendo gli occhi.
- Se devo essere sincero, mi sembra che l’unica cosa che ci accomuni sia tu.
Ed sorrise ancora, avvicinandoglisi.
- Sì, anche questo. Ma tu vuoi sapere tutta la verità, non è vero, Al?
- Sì!
- E allora non cambiare discorso.
- …
Non se n’era neanche accorto.
Ma quando suo fratello glielo fece notare, quasi desiderò prendersi a pugni.
Era vero. Man mano che Edward andava avanti col racconto, a lui sembrava di indietreggiare.
Era…
…spaventato.
Non sapeva neanche da cosa.
Insomma, era quello che aveva aspettato di sentire per anni, era la verità che tanto desiderava, era ciò che l’avrebbe liberato da quella prigione di obblighi dolorosi e verità scomode che lo teneva fermo, come chiuso in una bolla, da tanto di quel tempo che gli sembrava di avere dimenticato come fosse piacevole la sensazione di avere la mente libera da pensieri odiosi.
E quella verità lo terrorizzava.
- Ho sempre provato qualcosa di speciale per te. – confessò Ed a bassa voce, guardandosi le mani, adesso placidamente posate in grembo, - Tu sei il mio primo ricordo, sai Al? La cosa più antica che so. La prima registrazione del mio cervello. La tua voce era… era una melodia, non era una voce normale. Era musica. Il tuo sorriso, il tuo sorriso era il sole.
Edward sospirò e gettò l’aria fuori dai polmoni come se si stesse liberando da un peso.
- Ciò che è successo con Envy mi ha solo spinto a rendere concrete le mie fantasie. Sapevo che il gioco ti avrebbe legato e me come aveva legato me a lui. È per questo che ho cercato di abituarti a farne parte fin da piccolo, e… ho aspettato che tu fossi abbastanza grande per capire cosa stavamo facendo, prima di cominciare a chiederti quello che volevo davvero da te.
Serrò le labbra.
Avrebbe voluto strillare e dirgli di stare zitto.
Non voleva davvero sapere quelle cose.
Non voleva, perché più Ed parlava più gli sembrava di essere lui stesso la causa di tutto quello sconvolgimento.
Suo fratello lo amava.
Lo aveva amato dall’inizio con la stessa ostinazione assassina di Envy.
Per tutto quegli anni, non aveva fatto altro che impazzire e torturarlo… solo perché lo amava.
Lui era la causa. Sua era la colpa.
- Volevo che tu dicessi verità, Al. – mormorò Edward, abbassando lo sguardo fino a nascondere gli occhi con la frangia, - Volevo capire se tutti quegli anni di obblighi erano serviti a qualcosa. Ma tu continuavi a chiedere ordini. Non ti esponevi, non ti mostravi. Io avevo bisogno di strapparti la conferma, volevo sentirti dire che mi amavi. Volevo chiedertelo.
- Nii-san…
- Non te lo sei mai fatto chiedere.
Era stata sua la colpa.
Aveva fatto impazzire suo fratello.
Era stato sincero con sé stesso, ma non lo era stato abbastanza con lui. E questo l’aveva fatto impazzire.
Tutte quelle richieste frustranti non erano che un tentativo di farlo uscire dal guscio, e lui invece aveva continuato a nascondere la testa sotto la sabbia come uno stupido struzzo vigliacco.
Non aveva mai capito niente.
Ed avrebbe voluto salvarlo.
Sollevò un braccio, e gli sfiorò una guancia. Ed lo guardò. Aveva gli occhi asciutti e vuoti, come se stesse parlando solo perché andava fatto, e non perché facendolo avrebbe potuto risolvere qualcosa.
- Chiedimelo adesso, nii-san. – disse lui, fissandolo con decisione e accarezzandogli uno zigomo con due dita.
Edward dischiuse le labbra. Poi sorrise e scosse il capo.
- Chiedimelo adesso. – insisté lui, afferrandogli il mento tra il pollice e l’indice.
Un po’ stupito dalla sua irruenza, Ed cercò di tirarsi indietro, ma lui non lo lasciò fare.
- Chiedimelo. – ripeté, e cercò di sorridere.
Ed Edward rilassò le spalle. Lo guardò teneramente. E glielo chiese.
- Obbligo o verità, Al?
- Verità. Io ti-
- Aspetta.
Si chinò su di lui e lo baciò lievemente sulle labbra.
- Per ogni eventualità. – ridacchiò, tornando e guardarlo negli occhi e sfiorandogli la fronte con la propria. – Mi ami, Al?
E sapeva che quello era il suo turno. Che avrebbe dovuto dire qualcosa. Risolvere. E farlo chiaramente, una volta per tutte.
Ma il sorriso di suo fratello, la sua vicinanza, il suo profumo e la rassegnazione educata delle sue labbra lo inebetirono, come sempre, una volta di più.
Lo abbracciò, nascondendo il viso sul suo collo e sfiorandolo con le labbra.
Edward rise.
- Non c’è bisogno di dirlo. – lo rassicurò, accarezzandogli dolcemente i capelli, - Hai dato una bella risposta, Al.
Una bella risposta.
- Non ho detto niente, nii-san. – puntualizzò, sorridendo lievemente contro la sua pelle.
La mano di Edward scivolò dai capelli al collo e poi alla schiena, calda, aperta, ferma.
Sicura.
- Hai detto abbastanza.
Chiuse gli occhi.
Abbastanza.
Il sorriso di suo fratello, la sua vicinanza, il suo profumo, la rassegnazione educata e felice delle sue labbra…
Abbastanza, sì. Decisamente.