animanga: asako kurumi

Le nuove storie sono in alto.

Genere: Introspettivo, Triste, Drammatico.
Pairing: Nessuno.
Rating: PG-13
AVVISI: What if?.
- Asako Kurumi ha sedici anni ed ha appena lasciato il suo ragazzo. Akito Hayama ha sette anni, ed è da quando è nato che viene lasciato da tutti. Un incontro mai avvenuto, nel manga, ma che mi ha fatto piacere raccontare.
Commento dell'autrice: Dunque, questa storia è un piccolo miracolo XD Non per la sua qualità, assolutamente, quella la lascerò giudicare a chi di dovere. È un miracolo il fatto che sia nata, che io sia riuscita a scriverla XD Ho scritto tanto, su Kodocha. E quando si è presentata la possibilità del concorso, malgrado desiderassi intensamente partecipare, dal momento che è una serie che amo profondamente, mi sono accorta che mi mancavano le cose da dire. Sui rapporti che legano Sana, Akito, Fuka e Naozumi, che sono un po’ il fulcro del manga – naturalmente, essendo lui uno shoujo XD – ho già speso fin troppi fiumi di parole, tra shots varie e AU. Avevo semplicemente detto tutto quello che dovevo dire su di loro. E quindi sono entrata in crisi XD trovandomi piena di voglia di scrivere su Kodocha ma non sapendo di cosa parlare.
Poi, il miracolo :O! Ascolto per puro caso, grazie a un anime music video su Elfen Lied, una splendida quanto triste canzone di Pat Benetar, “Hell is for children” (di cui consiglio la lettura del testo e magari anche l’ascolto *.*), che parla di maltrattamenti ai danni dei bambini. Questa canzone mi ha fatto pensare ad Akito, e lì è scattata una scintilla. Dalla quale poi è nata questa storia ^^
La scelta della protagonista femminile XD Sì, è Asako Kurumi, l’Asako Kurumi che tutti noi conosciamo :) Tengo a precisare che la Obana non ha mai parlato di un incontro simile, me lo sono assolutamente inventato, di sana pianta. D’altronde, però, i tempi coincidono *-* E mi sembrava interessante accostare un personaggio fragile e desideroso di occuparsi di qualcuno come Asako a una vittima delle sue sfortune che, invece, ha un disperato bisogno che qualcuno si occupi di lui, come Akito. Ecco tutto ^^
Nota: Questa fanfiction ha partecipato al ventiduesimo concorso dell'EFP.
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HELL IS FOR CHILDREN


Love and pain become one and the same
In the eyes of a wounded child
Hell is for children – Pat Benetar


Il bambino continuava a fare dondolare le gambe giù dal muretto da molto tempo. Lei lo osservava di sottecchi da almeno mezz’ora, ma aveva come l’impressione che lui fosse lì già da molto prima che lei cominciasse a guardarlo. Forse perché sembrava triste, e quando vedi una persona triste la immagini anche immobile. Immobile nel tempo.
Cercò di concentrarsi sul libro che stava leggendo.
La panchina sulla quale sedeva era ancora gelida, e non capiva come fosse possibile. Il parco intorno a lei era tutto un brusio di bambini e genitori, nonostante il cattivo tempo e il vento freddo. Si sentiva sempre una stupida quando andava a leggere al parco di domenica. Non riusciva mai a seguire una parola, e una volta tornata a casa doveva ricominciare a leggere esattamente da dove s’era interrotta la sera prima.
Le sembrava un po’ di sprecare tempo.
Ma passava già abbastanza ore chiusa in casa, quando non era impegnata con le riprese o con la scuola che ancora saltuariamente frequentava, per non concedersi quella boccata d’aria aperta e libera una volta a settimana.
Sollevò lo sguardo. Il bambino era ancora lì. Le manine si reggevano strettissime ai mattoni, e le gambette continuavano a vagare nel vuoto, sbattendo alternativamente al muro per poi tornare a sbilanciarsi in avanti, inquiete.
- Akito! – chiamò qualcuno da lontano, e il bambino s’illuminò in volto, sollevando lo sguardo, guardandosi intorno alla ricerca di chi l’aveva chiamato.
Ma non chiamavano lui. Chiamavano un altro Akito. Un Akito che stava scivolando allegramente giù da un gonfiabile colorato.
Quando lo capì, il bambino ritornò a guardare il movimento dei suoi piedi, gli occhi spenti e l’espressione vacua.
Quella vista le strinse il cuore.
Si alzò, seguendo un improvviso moto di spirito, ma appena fu in piedi e guardò di nuovo il bambino si sentì una perfetta idiota. Che aveva intenzione di fare? Andare lì e attaccare discorso con un bambino che avrebbe potuto avere sì e no, quanto, dieci anni o forse meno? Sì, e magari farlo scappare via terrorizzato.
Si sedette di nuovo, affondando gli occhi nel libro a una pagina qualsiasi. Poco importava. Tanto non sarebbe riuscita a capire niente comunque.
Il bambino scese con un salto giù dal muretto e si avvicinò a una donna che stava facendo giocare dei bambini nella piscinetta di sabbia.
- Signora, che ore sono? – chiese con una vocetta infreddolita ma salda.
- Le sei e mezzo. – rispose lei cordialmente, - Stai aspettando i tuoi genitori?
Il bambino annuì.
- Ti va di giocare coi miei figli, mentre aspetti? È pericoloso stare lì tutto da solo…
Il bambino scosse il capo.
- Papà vuole che aspetto lì. Grazie, signora.
Salutò la donna con un cenno del capo da bambino educato e tornò ad appollaiarsi sul muretto, stringendosi nel cappottino grigio e calcandosi il berretto sulla testa.
Tra uno sguardo falsamente distratto e l’altro, passò un’ora.
Alle sette e mezza, il gelo s’era fatto così insistente che perfino i più stoici cultori della domenica al parco coi bambini s’erano dileguati, salvando i loro figli da raffreddore certo. E il bambino stava ancora lì. Aveva smesso di provare a guardarsi intorno, aveva smesso di far dondolare le gambe, stava solo immobile, tutto raggomitolato su sé stesso, e non tremava nemmeno.
Chiuse il libro, stavolta fermamente intenzionata a cercare di parlargli o qualcosa di simile, ma il bambino fu più veloce di lei: con uno scatto fu a terra, e cominciò a muoversi a piccoli passi verso l’uscita del parco.
Lei gli corse dietro.
- Ehi, Akito! Akito-kun!
Il bambino si voltò, un po’ disorientato, cercando di individuarla. Quando la vide correre e sbracciarsi verso di lui si fermò, aspettandola.
- Stai andando a casa?
Annuì.
- Tutto da solo?
Annuì ancora.
- Forse è meglio se ti accompagno, non credi? È molto tardi…
Il bambino la guardò, interdetto, per molti secondi.
- Signorina, tu chi sei?
Lei ridacchiò.
- Hai ragione, non mi sono presentata… mi chiamo Asako. Piacere! – disse sorridendo, porgendogli una mano.
Lui la strinse un po’ debolmente, ancora stupito.
- E tu sei Akito-kun, no?
Il bambino annuì ancora, come se quello fosse l’unico modo che conoscesse per dire “sì”.
- Ma tu come lo sai, signorina?
Sorrise, un po’ imbarazzata.
- Prima hanno chiamato “Akito” e tu ti sei voltato… ho fatto due più due.
Akito la guardò fissa. Poi le puntò un dito contro.
- Mi stavi spiando, signorina?
- Eh? Ma no, che dici?! – protestò lei, agitando una mano, - Mi sono distratta un attimo e casualmente ti ho visto…
- E ora mi vuoi accompagnare a casa casualmente, signorina?
- Che bambino impertinente sei! – si lamentò, un po’ offesa, - Sono più grande di te, sai? Dovresti portarmi più rispetto!
Non si può certo dire che fino a quel momento Akito avesse sorriso, ma dopo le sue parole, se possibile, s’incupì ancora di più.
Annuì e ricominciò a camminare, troppo velocemente per non far pensare stesse scappando da lei. Si sentì colpevole. Se gli fosse successo qualcosa probabilmente non avrebbe mai potuto perdonarselo.
- Aspetta, Akito-kun! – disse, correndogli dietro, - Scusami! Sono stata scortese! Tu neanche mi conosci, non posso pretendere rispetto da te. Giusto? – sorrise, piegandosi sulle ginocchia per poterlo osservare in viso più da vicino, - Però vorrei davvero accompagnarti a casa, posso?
Lui la fissò, dubbioso. Non sembrava intenzionato a concederle fiducia.
- Avanti! Guarda che è davvero pericoloso, per strada è già buio…
Il bambino sospirò.
- Va bene, Asako-san. – si limitò a dire, riprendendo il cammino. Lei lo seguì, affiancandoglisi.
- Allora, - cominciò, dimezzando l’ampiezza dei propri passi per non superarlo troppo in fretta, - che ci facevi al parco tutto solo?
- Aspettavo papà.
- Oh… e come mai non è venuto? Ha avuto un contrattempo…?
Il bambino scrollò le spalle.
- Io ho detto che aspettavo. – disse atono, - Non che veniva.
Asako rabbrividì.
- …non capisco…
- E’ che aspettare a casa mi stufa. Quindi lo aspetto al parco. Anche se non viene.
- …ah… capisco… - mormorò, ancora un po’ confusa, osservandolo mentre camminava a passo svelto, fissando dritto davanti a sé, come se nulla potesse importargli veramente.
- E… la tua mamma?
Domanda azzardata. Lo sapeva. Di solito, quando un bambino così piccolo parla prima di suo padre, vuol dire che la mamma non ce l’ha affatto.
- Non c’è più.
Ecco, appunto.
Sapeva che delle scuse sarebbero state inutili.
- E vivi solo col papà?
Il bambino scosse il capo.
- Anche con nee-san.
- Ah, bene! – disse lei, sollevata, - Allora non stai solo tutto il giorno!
Lui scrollò nuovamente le spalle, guardando un punto imprecisato sull’asfalto.
- E senti… la tua nee-san è molto impegnata? Si prende cura di te?
Akito sollevò lo sguardo, rallentando il passo.
- Che vuol dire?
Asako rabbrividì, di nuovo.
- Vuol dire… passa molto tempo con te?
- Non molto. Lei ha la scuola di pomeriggio. E poi esce anche con gli amici suoi. Torna di sera.
Quindi alla fine sì, stava tutto il giorno da solo.
Un bambino di dieci anni. Senza madre. Tutto il giorno.
- E tu non hai amichetti con cui puoi stare?
- Asako-san, guarda che io non ho “amichetti”… quella è una cosa da femmine.
Rise.
- E’ vero, scusa… allora, non ci sono dei bambini con cui giochi?
- A scuola sì. Però poi loro se ne tornano a casa. E pure io.
- Ah, capisco…
Avrebbe voluto chiederglielo. Se non soffrisse la solitudine. Se per caso non fosse triste, o arrabbiato, a volte. Se non si sentisse abbandonato. Come cavolo facesse a vivere tutto da solo, a prepararsi da mangiare, a fare i compiti, tutto.
Lo guardò.
Sembrava così assurdamente stabile, con la postura eretta, le piccole mani strette a pugno per ripararsi dal freddo e quel cappottino che lo stringeva goffamente facendolo sembrare un po’ cicciotto. E poi sembrava così fragile, anche. Con le sopracciglia corrucciate e la piccola bocca serrata e mai sorridente.
E Dio sapeva se lei non aveva bisogno di prendersi cura di qualcuno, da quando non stava più con Rei.
- Akito-kun, ma tu stai bene? – chiese, quasi soprapensiero, stupendosi da sola della stupidità della domanda. Era ovvio che non stesse bene. Era ovvio che peggio di così non avrebbe mai potuto stare.
- Sì. – rispose lui, annuendo tranquillamente, - Sono abituato.
Questo le diede qualcosa di molto simile a un colpo di grazia.
Ok, lei adesso era sola. Ok, non stava più con Rei e la cosa le faceva male.
Ma quel bambino stava solo da sempre ed era… era semplicemente ingiusto, e basta, che altro aggettivo avrebbe potuto usare?
D’improvviso, Akito si fermò di fronte a una casetta apparentemente adorabile e dalle finestre illuminate.
- Asako-san, io sono arrivato…
- Ah… abiti qui, quindi?
- Sì. Grazie. – disse con un piccolo inchino.
Sì, era decisamente educato.
- Va bene, allora ciao. – lo salutò lei, sorridendo, - Aspetto che entri e vado via, ok?
Lui si agitò.
- No, vai. Grazie. – mormorò, guardandosi la punta dei piedi e tormentandosi le mani.
Non era prudente andare via e lasciarlo solo lì, ma era sicuro che quel bambino non avrebbe fatto una mossa se prima lei non se ne fosse andata.
Annuì e gli scompigliò i capelli con una mano. Poi si allontanò, nascondendosi dietro un angolo.
Akito si guardò intorno a lungo, prima di dirigersi finalmente verso la porta di casa sua e suonare il campanello. E rimase in attesa altrettanto a lungo prima che qualcuno andasse ad aprirgli.
- Akito! Sei tu! – gridò una ragazza dai corti capelli castani, ostruendo l’entrata al bambino, - Quante volte devo dirti che puoi anche fare a meno di tornare a casa?
Il bambino rimase in silenzio a subire.
- Che c’è, avevi fame?! Certo, figurarsi! Non ci sei mai quando c’è da aiutarmi con le faccende di casa, ma quando hai fame…!
La ragazza si prese un attimo di pausa, osservando il bimbo con occhi gonfi di rabbia.
- Aspetta qui, - concluse poco dopo, tra i denti, - non ti muovere.
E il bambino aspettò e non si mosse, mentre sua sorella scompariva in casa e poi tornava indietro e gli lanciava addosso qualche monetina. Proprio così, dritta in faccia.
- Tieni, usa questi e vai a mangiare da qualche parte! Non provare a tornare qui finché sono ancora sveglia! Non ti voglio vedere! – concluse urlando e lanciandogli addosso anche le chiavi di casa. Poi chiuse la porta.
Akito rimase immobile, incerto sul da farsi. Poi, lentamente, cominciò a camminare, allontanandosi dalla casa.
Semplicemente, lei non poteva sopportarlo. Aveva sedici anni, va bene, e viveva sola, va bene lo stesso, e probabilmente non avrebbe saputo affatto prendersi cura di un bambino così piccolo, dargli tutto ciò di cui aveva bisogno eccetera eccetera, ma… qualcosa doveva fare. Doveva, assolutamente.
Uscì dal suo nascondiglio e gli si parò di fronte, sorridendo imbarazzata con un’espressione stupida stampata sul volto. Akito la guardò attonito, cercando di capire cosa ci facesse lì dal momento che le aveva detto di andare via.
- Eh… sono tornata indietro perché… mi sono dimenticata di dirti… che volevo invitarti a cena! – inventò, sperando che lui ci cascasse.
Lui la guardò ancora un po’ con quegli occhioni spalancati e le labbra dischiuse in segno di stupore.
Era la prima espressione vera che gli vedeva sul viso da quando l’aveva incontrato. Si sentì felice di esserne la causa.
- Allora? Vuoi venire a casa mia? – chiese, cercando di essere il più rassicurante possibile.
Il bambino chinò lo sguardo sulla piccola mano aperta che reggeva i soldi e le chiavi. Asako fu sicura di vedergli balenare una lacrima fra le ciglia. Poi tornò a guardarla, stringendo la mano e infilandosela in tasca.
- Grazie, Asako-san. – disse, sorridendo così lievemente che quasi lei non se ne accorse, - Voglio venire.
Poi, un po’ impacciato, tirò fuori dalla tasca la mano ormai vuota e gliela porse. Lei la afferrò quasi con urgenza, commossa com’era, e la strinse dolcemente.
Erano entrambe congelate. Ma si sarebbero scaldate nel tragitto fino al suo appartamento.
*

Ok, aveva fatto l’eroina senza macchia e senza paura e aveva salvato il bambino dalla furia della pazza sorella cattiva. Poteva essere fiera di sé stessa.
Il problema principale ora rimaneva: cosa diavolo doveva dargli da mangiare?
Sospirando, lo fece accomodare su una sedia in cucina e si diede alla ricerca frenetica di qualcosa che ricordasse anche vagamente del cibo sano, fra le migliaia di scatolette di carne dall’aria gelatinosa che conservava negli stipetti da… secoli, più o meno.
Trovò solo del marshmallow.
Santo cielo.
Bella idea aveva avuto, di improvvisarsi tutrice senza neanche sapere cosa avesse in casa – o in che condizioni fosse il suo appartamento, dal momento che non aveva neanche passato lo straccio da quando Rei era andato via.
Si sedette accanto ad Akito, poggiando il pacchetto di dolci sul tavolo davanti a lui.
- Serviti pure… - disse con un sospiro, vergognandosi profondamente di sé stessa.
Akito guardò il pacco e le caramelle gommose con non poca insicurezza.
- Asako-san, cosa sono queste cose?
- …eh? – mormorò lei, incredula, - Marshmallow… non li conosci…?
Akito scosse il capo.
- Ma dai… scherzi? Sono buoni! Buonissimi! Assaggiali! – suggerì, con eccessivo entusiasmo, sollevata.
Akito allungò una mano verso il pacchetto e, un po’ titubante, afferrò un marshmallow, infilandoselo in bocca quasi subito. Doveva avere fame.
Poi si commosse.
- E’… dolce… - sussurrò, ancora masticando, guardandola con enorme gratitudine negli occhi.
Lei ridacchiò.
- Sì, in realtà non dovrebbe andare bene per una cena…
- Non fa niente… è dolce…
Continuò a mangiare fino a finire il pacchetto.
Lei lo guardò per tutto il tempo.
Tutto sommato, era divertente averlo in casa. Era come dover badare al fratellino piccolo mentre papà e mamma erano via. Nonostante avesse solo sedici anni, si sentì responsabile del benessere di quel bambino, così come, più tardi, si sentì appagata dal suo lieve sorriso sazio e sereno, una volta che ebbe finito di mangiare e si fu seduto sul divano del salotto a sonnecchiare.
- Se vuoi puoi rimanere qui, stanotte. – gli suggerì, scompigliandogli i capelli, accorgendosi del movimento stanco e pesante delle sue palpebre.
Lui la fissò e le puntò il dito contro come aveva già fatto quella sera al parco.
- Asako-san, non è che sei una pervertita?
- Cosa?! Dove diavolo hai sentito questa parola, Akito-kun?!
Il bambino scrollò le spalle, come fosse un fatto di minima importanza.
- Scusa, ma tu quanti anni hai?
- Sette. – rispose lui seccamente, - Pensavi che ero un bambino piccolo?
- Sei un bambino piccolo. Comunque, non sono una pervertita e non intendo farti niente, se resti. Santo cielo, ma che spiegazioni ti sto dando?! Oh, insomma, fa’ quello che vuoi…
Akito ridacchiò, nascondendo uno sbadiglio.
- Asako-san, ma tu vivi da sola in questa casa?
Annuì.
- Però ho un solo letto, quindi magari ti do il mio e io dormo sul divano…
- Volevo dire, Asako-san, il signore delle foto è tuo marito?
Spalancò gli occhi.
Era vero, non aveva ancora fatto sparire le foto di Rei dai mobili e dalle cornici appese.
Oddio.
In qualche modo, faticando, riuscì a rimediare, tra le pieghe delle sue espressioni passate, un gioviale sorriso di circostanza.
- Akito-kun, io ho solo sedici anni, mi spieghi come potrei essere sposata…?
Il bambino annuì, come se l’impossibilità di sposarsi per un minorenne fosse una cosa del tutto nuova.
- Comunque il “signore” delle foto è solo un ragazzo. Il mio ex-ragazzo, per la precisione.
- …Asako-san, cos’è un ex-ragazzo?
- Come, cos’è un ex-ragazzo?!
- …è… uno che prima era un ragazzo e ora no …? – chiese il bambino, contrapponendo alla sua espressione sconvolta un’altra espressione ugualmente sconvolta.
- Ma no, Akito-kun, non era un ragazzo qualunque, era il mio ragazzo…
- Vuoi dire che eravate fidanzati?
- Eh?! – arrossì, - Adesso non esageriamo! Solo, ci volevamo bene, e siccome, per motivi nostri, vivevamo entrambi soli, ci siamo trasferiti nella stessa casa!
- …
- Sono sfumature, Akito-kun, hanno significati diversi!
Si sentì scema a tentare di spiegare i dettagli delle “sfumature” dei rapporti sentimentali degli adolescenti a un bambino di sette anni, a quell’ora di notte. Era chiaro che lui non ne avrebbe capito niente.
- Be’, - sospirò, stropicciandosi un occhio, - in ogni caso, immagino che se fra noi avesse continuato a funzionare, un giorno l’avrei sposato davvero. Quindi sì, in un certo senso puoi anche dire che fossimo fidanzati.
Il bambino annuì, finalmente soddisfatto dalla spiegazione.
- Adesso a nanna, Akito-kun… domani hai scuola, no?
- Scuola?! Devo andare a scuola anche se resto qua?
- Non sei mica in vacanza! Corri a letto!
Akito abbassò lo sguardo.
- Però, Asako-san… il divano è piccolo per dormirci bene…
- Di che ti preoccupi? Tu vai a letto…
- Dico per te…
Sollevò un sopracciglio e sorrise.
- Akito-kun, non sei un po’ cresciuto per volere ancora dormire coi grandi?
Il bambino arrossì, tornando a guardarla.
- Non è questo! – protestò, agitato, - Dico perché sei stata gentile! Io sono educato!
Rise di gusto, coprendosi la bocca con una mano.
- Sì, è vero… va bene, allora. Dai. Possiamo dormire insieme.
Gli sorrise. Il bambino arrossì lievemente.
Lo prese in braccio per portarlo di sopra, e lui era così leggero e abbandonato che lei sentì il bisogno di stringerlo forte per evitare che scivolasse via.
*

Non sapeva niente di lui, a parte il suo nome e che la sua vita familiare di certo non era fra le più rosee. Quando l’aveva preso in casa s’era preparata ad affrontare di tutto: un bambino difficile, un bambino con gli incubi, un bambino svogliato, un bambino molto triste.
Akito non era nulla di tutto questo. Certo, non era un libro aperto e le loro conversazioni non erano spontanee e naturali, tirargli fuori una parola di bocca spesso era molto più che difficile e tendeva a chiudersi un po’ troppo in sé stesso per avere solo sette anni, ma nel complesso Akito era un bambino gentile, un bambino educato, un bambino collaborativo, un bambino che non si faceva ripetere due volte qualcosa, insomma, un bambino ubbidiente.
E lei non capiva. Non capiva come fosse possibile che un bambino così fosse cresciuto in una famiglia come quella, e poi non capiva come fosse possibile che un padre e una sorella potessero non amare un bambino così, e poi ancora non capiva per quale motivo lui si fidasse tanto di lei, al punto da restare a casa sua non uno, non due, ma ben tre giorni.
E ancora non capiva e si chiedeva come diavolo avrebbe fatto a provvedere a lui. A “tirarlo su”, se la cosa si fosse protratta per le lunghe.
Un bambino per casa. Come una ragazza madre.
Per non parlare poi dei parenti. I suoi e quelli di Akito.
Tre giorni. Tre giorni in bilico, tutto sommato. Sospesi in un’innaturale normalità che imponeva loro, ogni mattina, di alzarsi, fare colazione, sorridere, lavarsi, andare a scuola, al lavoro, tornare a casa, mangiare, fare i compiti, sorridere, fare merenda, sorridere, sorridere, sorridere, guardare tanta televisione, giocare al parco, la sabbia e gli scivoli, sorridere, sorridere, sorridere, tornare a casa di nuovo, e la cena, e la bistecca che dev’essere tagliata sottile, signor macellaio, perché il bambino è piccolo e si stanca a masticare troppo, e poi il dolce dopo cena, il cioccolato piace ad Akito-kun, sorridere, sorridere, sorridere sempre e comunque, ed erano sorrisi veri, nonostante l’incertezza, nonostante un po’ di paura, e la sua solitudine era completamente sparita, come la tristezza, come le foto di Rei, come l’ombra negli occhi di Akito.
Madre e figlio.
Quasi.
E quindi perché non provare? Perché non farlo, un altro passetto in avanti?
Akito-kun era felice, d’altronde. Akito-kun dormiva ancora con lei, e la abbracciava, ed era dolce, caldo e morbido, e così consolante. È così reale. Era una presenza così viva, lì di fianco a lei, che ormai Asako non ricordava più se la prima volta era più lui o lei stessa ad avere voglia – bisogno – di dormire stretto a qualcuno.
Perché non farlo, davvero?
Era quasi pronta a chiederglielo, quasi pronta. Le mancava solo una spinta, una spintarella leggerissima, e gliel’avrebbe chiesto sicuramente, anche se le sembrava assurdo dopo soli tre giorni, e anche se non sapeva come avrebbe fatto a cavarsela, e a mantenere le promesse che gli avrebbe fatto per legarlo a sé, se lui avesse detto sì.
E la spinta poi arrivò, altroché. Uno strattone, un pugno, una carezza stupenda, un piccolo Akito che, sdraiato sul divano, mentre si conciliava il sonno succhiando un bastoncino di cioccolato, con gli occhi semichiusi e un imbambolato quanto piccolo sorriso sul volto, le chiese “Sono in vacanza, mamma?”.
Mamma.
Quasi, quasi, quasi.
- Akito-kun… - lo chiamò, scrollandolo lievemente.
- Mmmh… - mugugnò lui senza muoversi.
- Akito-kun, svegliati dai.
Un po’ stancamente, lui si mosse, mettendosi in ginocchio e stropicciandosi gli occhi, per poi guardarla.
- Sei sveglio?
Annuì.
- Stavi sognando?
Annuì di nuovo.
La voce flebilissima dei suoi movimenti era di una dolcezza unica.
- Cosa sognavi?
Lui scrollò le spalle.
- Non mi ricordo…
- Mi dispiace… - disse lei, - Sorridevi, sai? Doveva essere un bel sogno.
Ancora una volta, il piccolo scrollò le spalle.
- Akito-kun, vuoi restare in vacanza ancora un po’?
Il bambino sembrò rifletterci per un po’, con molta attenzione.
- Che vuol dire? – le chiese, alla fine, incerto.
Lei sospirò.
- Che ne diresti di venire a vivere qui con me… per sempre?
Akito sgranò gli occhi, fissandola come un’aliena.
- Sempre sempre? – chiese, un po’ inebetito, stringendo la presa delle manine sulle ginocchia.
Lei annuì.
- Mi farebbe piacere. – aggiunse poi, allungando una mano ad accarezzargli una guancia, - A te no?
Il bambino tornò a sprofondare nei suoi pensieri, concentrato.
Le labbra strette erano tenere. Le sopracciglia aggrottate erano tenere. I lineamenti del volto tesi di concentrazione e tensione, erano teneri anche loro.
Resta, Akito-kun, resta!
- Asako-san… - disse infine, sospirando tanto profondamente che lei ebbe paura si afflosciasse sul divano, sgonfiandosi e scomparendo, - tu sei troppo buona.
- Eh? Grazie… - rispose lei, con un sorriso imbarazzato.
Ma non è per questo che ti voglio qui.
Resta, resta, resta…

- Però io non posso stare qui sempre.
Eh? Cosa?
- Devo tornare a casa.
- Perché?! – scoppiò, stringendogli una mano, - A casa tua ti trattano male! Non sei stato bene qui con me?
- Sì… però devo tornare da nee-san e da papà…
Si morse il labbro inferiore, cercando di sopire la rabbia e la frustrazione. Senza riuscirci.
- Perché?
Lui si mosse a gattoni verso di lei, e le si accoccolò in grembo.
- Perché loro sono nee-san e papà. Devo tornare da loro.
Non c’era nessun motivo. Nessuno.
- Non capisco… - mormorò, strizzando gli occhi, incapace di trattenere oltre le lacrime.
Il bambino sollevò le braccia, cingendola al collo.
Era lui a consolarla. Sarebbe stato buffo se non fosse stato straziante.
- Sono nee-san e papà. – ripeté Akito in un soffio, - Non capisco nemmeno io bene… però voglio tornare a casa da loro. Li voglio vedere.
Lo strinse a sé, nascondendosi contro di lui.
La consapevolezza di non aver potuto fare niente per alleviare le sofferenze di quel bambino la colpì dritta in faccia, senza pietà. A lui era bastato pochissimo per farle dimenticare Rei. Gli era bastato occuparle la mente con una buona causa e tanta dolcissima ritrosia. Ma lei, lei non era riuscita a cancellare da quegli occhi il ricordo dei suoi parenti in nessun modo.
Debole. E stupida, ad averci sperato, anche.
- Va bene… - annuì, finalmente, scostandosi e sorridendogli rassicurante, le guance ancora rigate di lacrime, - Adesso ti porto a casa.
Lui lanciò uno sguardo spaventato all’orologio appeso al muro dietro di loro, e per un secondo sembrò sul punto di chiederle di restare, almeno per quella notte.
Ma era troppo educato per farlo davvero. E lei aveva troppo bisogno di smettere di vederlo e stringerlo per proporgli una cosa simile.
Lo aiutò a indossare la giacchetta, che era la stessa con la quale era arrivato da lei, e lo accompagnò per mano in strada, metro dopo metro, fino alla porta di casa sua.
Akito le strizzò forte due dita, fissando l’uscio chiuso e le luci spente.
- Asako-san…
- Dimmi.
Cercò di mostrarsi ferma. Akito era spaventato, aveva bisogno di qualcuno che gli confermasse che stava facendo la cosa giusta. Ne aveva bisogno ancor più che di qualcuno che si prendesse cura di lui. Aveva solo la necessità di sentirsi dire “Akito-kun, va bene così, sei un bravo bambino, hai scelto bene”.
E lei glielo disse.
Lui la guardò rapito per qualche secondo, gli occhi offuscati da un velo di lacrime, le guance e il naso rossi per il freddo. Lei sorrise. Gli lasciò la mano. Si allontanò passo dopo passo, mentre lui tirava fuori dalla tasca le chiavi di casa e apriva la porta, continuò ad allontanarsi mentre la sentiva aprirsi e poi richiudersi discretamente, non si voltò neanche una volta, tenne a freno la sua voglia di rapirlo di nuovo e, in silenzio, tornò a casa sua.