Genere: Introspettivo.
Rating: G
AVVISI: Gen.
- 22 Maggio 2010. Per quattro.
Note: L'idea concreta di scrivere questa storia si è sviluppata ieri, quando ho visto i nuovi prompt per la terza settimana del COW-T. L'idea di scrivere una Gen per la Missione 1 mi stuzzicava, ma il prompt Attesa mi lasciava un po' così. Se non che, durante la notte, quasi m'è venuto da ridere, e quando ho realizzato mi sono sentita un po' come se avessi tradito me stessa: io sono interista, e sto lì a domandarmi cosa potrei scrivere su un prompt come quello? XD Improvvisamente, tutto era chiaro e delineato, dovevo solo buttarlo giù. Il 22 maggio per me e per tutti quelli come me è stato un momento così incredibilmente simbolico, e per me è sempre stato stupendo pensare al punto d'incontro che quel giorno è stato per le quattro generazioni di interisti che volevano quella Coppa in modi tutti differenti, ma con uguale intensità. Gli anziani, gli adulti, i ragazzi e i bambini. Era una cosa di una potenza narrativa che non riusciva a lasciarmi indifferente, e sapevo che prima o poi sarei riuscita a scriverla. Sul risultato, però, evito di pronunciarmi XD
Rating: G
AVVISI: Gen.
- 22 Maggio 2010. Per quattro.
Note: L'idea concreta di scrivere questa storia si è sviluppata ieri, quando ho visto i nuovi prompt per la terza settimana del COW-T. L'idea di scrivere una Gen per la Missione 1 mi stuzzicava, ma il prompt Attesa mi lasciava un po' così. Se non che, durante la notte, quasi m'è venuto da ridere, e quando ho realizzato mi sono sentita un po' come se avessi tradito me stessa: io sono interista, e sto lì a domandarmi cosa potrei scrivere su un prompt come quello? XD Improvvisamente, tutto era chiaro e delineato, dovevo solo buttarlo giù. Il 22 maggio per me e per tutti quelli come me è stato un momento così incredibilmente simbolico, e per me è sempre stato stupendo pensare al punto d'incontro che quel giorno è stato per le quattro generazioni di interisti che volevano quella Coppa in modi tutti differenti, ma con uguale intensità. Gli anziani, gli adulti, i ragazzi e i bambini. Era una cosa di una potenza narrativa che non riusciva a lasciarmi indifferente, e sapevo che prima o poi sarei riuscita a scriverla. Sul risultato, però, evito di pronunciarmi XD
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TURNING MIDNIGHT INTO DAYDREAMS
L’ha aspettata. Senza fare grandi drammi, con la placida certezza che prima o poi sarebbe accaduto. Solo il quando era in discussione, e la spada di Damocle di quei quarantacinque anni di attesa. Erano state vissute vite più brevi di quell’enorme lasso di tempo. Ma lei stava bene, era giovane e forte, non aveva mai dubitato della possibilità di riuscire, prima o poi, a vederla, enorme e splendente e con la superficie resa un po’ opaca dal sudore delle mani e dalle impronte dei baci. Ammantata dei suoi colori.
Quarantacinque anni sono tanti, si diceva, ma io ne ho ventidue. Ne ho ventidue e per vedere uno scudetto ne ho aspettati diciotto. Però, dopo quello, quanti ne sono arrivati. È bastato attendere, la sua squadra le ha insegnato a farlo fin da piccolissima. Le ha insegnato il valore della pazienza, il valore della fede – una fede incrollabile, quasi religiosa, radicata nella certezza che prima o poi si sarebbe vinto qualcosa, pur senza poter portare prove certe a riguardo, perché quante squadre ci sono che non hanno mai vinto niente, né l’ombra di niente, e ancora continuano a non-vincere? Ma per loro, oh, per loro sarebbe stato diverso. Non sapeva quando né come, ma lo sarebbe stato – il valore della sofferenza, quello dell’ostinazione.
L’ha aspettata. La aspetta. Quando l’arbitro fischia e apre le danze, lei ci crede.
Lui c’era e ricorda di essere andato a Milano molte volte, da allora. Veri pellegrinaggi, perché ognuno si sceglie il suo Dio ma la religione resta comunque una cosa seria, come la preghiera. La sua Madonna nerazzurra lui l’ha vista in casa decine di volte. Non è sempre stato bello. È sempre stato suo, però, ogni volta che ha messo piede in quello stadio. Non aveva mai creduto di potersi sentire così a casa stando al contempo così lontano da casa.
Mille secoli prima, allo stadio ce l’aveva portato suo padre. La sua prima serata a San Siro. L’urlo della folla, il rumore del pallone così chiaro, come quello di uno schiaffo, sui calci piazzati. Tutte quelle bandiere.
Al Bernabéu va da solo. Suo padre è anziano ed il viaggio non lo reggerebbe.
Ma quando l’arbitro fischia e apre le danze, sa che anche lui ci sta credendo. Lontano da lì, ma sempre con lui.
Quando pensa all’Inter e la trova così antica, radicata così profondamente dentro il suo organismo da non poter ricordare un periodo in cui non c’era, prova la stessa sensazione che prova quando guarda il volto imbiancato dagli anni di sua moglie. Ricorda ancora quando era bellissima ed i suoi lunghi capelli corvini le incorniciavano il viso, rendendola così misteriosa ed elegante., ma non ricorda un periodo della propria vita in cui lei non ci sia stata. Non la ricorda in fasce fra le braccia di sua madre, non la ricorda il primo giorno di scuola col fiocco e la gonna a piede al ginocchio, è come se la sua memoria avesse cancellato tutti i frammenti della sua esistenza che non comprendevano anche lui, per illuderlo di aver sempre vissuto al suo fianco. Eppure sa di averla vista piccola, sa di averla poi persa di vista per anni, sa di averla ritrovata a scuola in un periodo in cui le bambine per lui non rappresentavano la minima fonte di interesse. Sa di aver avuto altre ragazze, prima di lei, ma i loro volti sono scomparsi, persi nella nebbia. È rimasta solo lei.
E con l’Inter è lo stesso. Sa di essere stato piccolo abbastanza da aver vissuto anni in cui di osservare ventidue uomini alla caccia di un pallone non gli interessava minimamente, fossero essi abbigliati in nerazzurro o meno, ma cos’è stato ormai di quei tempi? Cos’è stato di quei giorni? Lui non li ricorda più. E nemmeno li rimpiange.
L’infermiera entra nella sua camera privata ansimando per la fretta, asciugandosi il sudore sulla fronte. “Scusi se ho fatto tardi!” pigola, afferrando il telecomando ed accendendo il televisore appeso alla parete davanti a lui proprio in tempo per il fischio dell’arbitro, che apre le danze. Mentre lei gli sistema i cuscini dietro la schiena, lui guarda fissi i giocatori in campo e sa che è tempo di crederci ancora.
Quella cifra là sopra, quel due a zero così tondo e rassicurante, per lui che ha solo sette anni è la norma. Non ricorda niente dell’Inter che non vinceva. Tutti i suoi ricordi calcistici sono legati a una vittoria di qualche tipo. Le delusioni ci sono state, sì, ma sono sempre state brevi scoppi di dolore presto nascosti dai bagliori delle coppe, delle medaglie, dei riconoscimenti.
Non ha la minima idea di quanto quella coppa con le orecchie possa valere. È una coppa come un’altra. Ma è pur sempre una coppa, e a lui piacciono. Gli piace vedere il campo tingersi dei suoi colori, il pubblico andare in visibilio, gli piacciono le lacrime belle di papà quando si vince qualcosa d’importante, gli piace il modo in cui mamma intreccia le dita con lui e lo stringe forte a sé.
Mancano pochi minuti alla fine. Ci sono molte cose, nella gioia che stringe il cuore ai suoi genitori, che lui non può comprendere. Ma quando l’arbitro fischia e chiude le danze, lui sa di averci creduto sempre. E l’attesa, lunga o breve che fosse, non è stata vana.
… la stretta al cuore. ;_;
def
27/02/2011 19:29
…le lacrime. No, davvero, sto piangendo come una minchia e mi fa così piacere aver letto due fic tue del genere in poche ore <3
nemi
27/02/2011 19:56