Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVISI: Slash.
- Bill ha la febbre. David obbliga Tom a prendersene cura. Ed è solo l'inizio del disastro.
Note: Mi ritrovo quasi alle cinque del mattino a tirare una somma che non sono proprio sicura di voler tirare. Sarà che in matematica non sono mai stata granché competente. Ai tempi delle espressioni, per dire, sbagliavo le addizioni coi segni. Ero molto distratta e finivo per toppare sui dettagli sciocchi – tipo quando moltiplicavo un numero positivo per un numero negativo. Potevo solo pregare di rimanere abbastanza attenta da ricordare che il risultato sarebbe stato a propria volta negativo, o rischiavo il suicidio collettivo di tutte quelle adorabili parentesi graffe, quadre e tonde.
Tant’è. Oggi la mia neechan mi ha fatto notare fosse plausibile pensare l’ultimo aggiornamento di questa fanfiction risalisse almeno ad un anno fa. Non ho più le date dell’EFP, ma qui in community Schweiß è stato pubblicato il 4 settembre 2007. Ciò vuol dire che no, non sono ancora dodici mesi ma poco ci manca. Curioso inciso: chiudevo le note finali, allora, dicendo “Al prossimo capitolo – spero non fra un anno XD”. Voglio dire, non fosse tremendo da parte mia, sarebbe molto lol XD
So che in teoria non dovrei ancora stare qui a tirarmela con le note finali. Avete sopportato abbastanza XD Ma in realtà c’è qualcosa che vorrei dire. Non serve a scusarmi, ma questo capitolo è pronto da molto (moltissimo) tempo. Figuratevi che già prima del raduno a Brescia (nel marzo scorso, quindi) era già bello che finito.
Il mio problema con Wahrheit viene dal fatto sia stata plottata – ed iniziata – quando ero ancora, mentalmente, in periodo Shackle Free. Per certi versi – non so quanto ricordiate quella storia, ma se la rileggete lo noterete anche voi – Fieber e la Shackle Free di Tom. Nel senso che vede la stessa identica cosa, ma dal suo punto di vista. In questo senso, intendo il capitolo centrale di questa trilogia più come un inciso che non come parte integrante della storia. Una sorta di spin-off interno, se volete o_ò perché quest’ultimo capitolo riprende molto più dal primo che non dal secondo. La frase finale di Tom recupera in pieno – volutamente – una frase di Bill detta al riguardo dello stesso argomento proprio in Fieber.
Ma queste sono elucubrazioni spicciole ^^
Io questo capitolo non volevo pubblicarlo. Ho dei problemi prepotenti, col one-sided XD riassumibili nel concetto “mi rattrista a morte”. Aggiungeteci che questa fic è colpevole di molte cose – una delle prime nel fandom, la molla che ha fatto scattare in Meg il desiderio di scrivere Verbrennen, una delle prime twincest che abbia plottato con Ana… - e che quindi ero terrorizzata dall’idea di deludervi tutte con questo finale. Che sì, è così da sempre XD Perché questa storia è sempre stata una one-sided, ecco.
A questo proposito, devo ringraziare Meg. Se ieri sera non mi avesse tirato una paternale coi controfiocchi, rassicurandomi conseguentemente sul fatto che se è così è così e basta, questa conclusione probabilmente non l’avreste vista proprio mai. *si nasconde sotto un chilo di sabbia e ci sprofonda dentro*
È amara. È disillusa.
È tenera, comunque. Perfino romantica. Almeno, nel mio modo di vedere il romanticismo.
Spero solo cha sia valsa la pena dell’attesa. Lo spero tanto <3
Grazie per la pazienza, a presto <3
PS: I versi citati all’interno del capitolo sono tratti dalla prima strofa di Spring Nicht. La traduzione (ad opera di Sar@) è la seguente: “L’abisso della città / inghiotte ogni lacrima che cade / Laggiù non c’è più / quel che ancora ti tiene qui su”.
PPS: Non ho la più pallida idea di dove sia stato girato precisamente il video di Spring Nicht °_° Berlino, ok, ma la location mi è ignota, confesso la mia ignoranza ._. Mi ha sempre comunque dato l’idea di essere un enorme parcheggio multipiano, perciò ho usato quel concetto.
PPPS: Nove mesi, mi fa notare la neechan. Praticamente una gravidanza XD
PPPPS: 11 luglio 2007 <- data di pubblicazione di Schweiß, dice Meg XD E mioddio, dico io XD
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FIEBER, SCHWEIß UND WAHRHEIT
3. WAHRHEIT

L’aereo li agitava, non era una novità. Essere obbligati a prenderlo per spostarsi sulle lunghe distanze, quando l’uso del tour-bus sarebbe stato folle, oltre che impossibile, era una delle (poche, tutto sommato) controindicazioni del successo.
Certo, non era solo la prospettiva di dover affrontare più di due ore di volo da Mosca a Berlino, che agitava tanto Bill. Tom lo sapeva. Per quanto avesse provato a tenersi lontano da lui, nelle ultime settimane, per non deconcentrarlo e rischiare di mandare a monte il tour o chissà che altro avvenimento peggiore, s’era accorto fin troppo presto che quella non era la soluzione migliore.
Bill continuava a guardarlo. E ogni volta i suoi occhi sembravano implorare una risposta.
Si sistemò meglio sul sedile, stringendo la cintura intorno alla vita e assicurandosi con un’occhiata veloce che Bill, seduto accanto a lui, avesse fatto lo stesso.
Non ricordava più se quella risposta davvero non l’avesse, e non l’avesse mai avuta, o se invece fosse lì, nascosta da qualche parte fra un pensiero e l’altro, e semplicemente si rifiutasse di venire fuori.
Coraggio Tom, si disse, hai due ore di viaggio davanti a te, e due possibilità. Dormire o riflettere.
Il pensiero che, riflettendo, probabilmente sarebbe stato in grado di trovare una soluzione a quell’enorme casino, avrebbe dovuto spronarlo in un certo senso.
Appoggiò il capo al sedile e si addormentò in pochissimi minuti.
*
Si riscosse solo quando sentì qualcosa aggrapparsi con forza al suo braccio, e qualcos’altro conficcarglisi dolorosamente nel palmo della mano. In un primo momento, senza nessuna ragione apparente, pensò ad un vampiro, e spalancò gli occhi, terrorizzato.
Ovviamente non era un vampiro.
Era suo fratello, che fissava il vuoto davanti a sé, i lineamenti del volto talmente tesi che Tom pensò che se l’avesse scosso si sarebbe frantumato in mille pezzi.
- Cosa? – chiese, la voce ancora impastata dal sonno, cercando di voltare la mano per stringere quella di suo fratello e tranquillizzarlo un po’.
- Stiamo atterrando. – si limitò ad osservare Bill, senza degnarlo di uno sguardo.
La sua voce era nervosa e acuta, pungente come uno spillo. Gli rigettò addosso in un secondo tutta l’ansia che il sonno sembrava aver spazzato via nelle ore precedenti.
- Andrà tutto bene. – disse blandamente, riscuotendosi dal torpore e mettendosi dritto sul sedile, stringendo forte la mano di Bill, che ricambiò la stretta, un po’ più incerto. Rimasero lì, in silenzio, per un’enormità di tempo. Tom lasciò scivolare lo sguardo intorno, cogliendo in un’occhiata il sonno profondo di David, Georg e Gustav, sparpagliati sui sedili intorno ai loro sull’aereo privato. Meditò di svegliarli tutti con un urlo bestiale random, così, giusto per scuotere l’aria innaturalmente tranquilla del velivolo… ma gli occhi concentrati e annacquati di Bill, fissi sull’oblò o sull’oscurità di fuori, sommati al lento ma costante mordicchiare del suo labbro inferiore lo convinsero a cercare di preservare quella calma il più a lungo possibile.
Altro stress non era decisamente qualcosa che il medico avrebbe consigliato a Bill Kaulitz.
E perciò era il caso che almeno si comportasse da fratello maggiore e lo aiutasse. Per quel poco che poteva.
*
Gli sarebbe piaciuto poter fare una battuta divertente, in quel momento. Se c’era una cosa che adorava davvero, era l’aspetto del volto di Bill quando sapeva che lui stava per fare una battuta divertente. Si illuminava completamente, il suo sorriso era rilassato e felice e carico di un’aspettativa del tutto nuova rispetto a tutti gli altri avvenimenti della loro giornata. Bill confidava nelle sue battute. Era matematicamente certo che sarebbero riuscite a risollevare le sorti anche del momento peggiore, se fosse stato il caso.
Tom se ne accorgeva spesso. Perfino in momenti stupidi, come durante le interviste, quando Bill si annoiava particolarmente perché si ritrovava a rispondere sempre alle stesse domande per l’ennesima volta, o quando non era soddisfatto di una parte del programma al quale stava presenziando. Bastava una stupidaggine a caso e Bill si voltava a guardarlo immediatamente, con una gratitudine che aveva un che di infantile ed un che di incredibilmente maturo.
Era infantile perché i sorrisi di Bill ti davano sempre l’impressione di essere in grado di misurare con certezza impressionante quanto fosse piccolo e tenero. Anche quando dava il meglio di sé per impressionare gli adulti, per dipingersi come una specie di ragazzino dispotico, autosufficiente e pronto a tutto pur di arrivare ovunque desiderasse, in realtà appena Bill si scioglieva in un sorriso tu non potevi fare a meno di scioglierti a tua volta. Perché i sorrisi di Bill erano il ritratto della sua essenza. Erano fugaci. Piccoli. Venati di così tanti sentimenti che era perfino difficile identificarli come sorrisi e basta. Perché erano così tante cose che la definizione canonica non era sufficiente.
Ed era maturo perché dimostrava di capirlo. Di comprenderlo fin nel profondo. Il suo ringraziamento silenzioso diceva “lo so che non sei veramente un cretino. E grazie per questo momento di svago”. Il che stava a dimostrare anche Bill fosse parecchio avanti a lui, quanto a stato di crescita.
…lui ancora vagava nel limbo degli incerti.
Sono i bambini, quelli che non sanno cosa vogliono dalla vita, no?

E tu cosa vuoi, Tom?
Lo vuoi, tuo fratello?


Scosse forte il capo e cercò di tornare alla realtà. Al video. Alla location. A Bill coperto appena da una micromaglietta a maniche corte ed al ghiaccio che si respirava nell’aria di quel megaparcheggio deserto che avevano scelto per girare. Al freddo intenso che sentiva, perché no, giacche non ne aveva volute, nonostante David avesse passato le ultime tre ore ad insistere perché si coprisse.
“Bill è in maglietta, no?”, aveva obiettato.
“Tom, Bill deve girare.”, era stata la razionale e pragmatica risposta di Jost.
“Sì, ma è in maglietta.”, aveva insistito lui, e la conversazione s’era chiusa.
Succedeva spesso così, fra loro. Tom sapeva il suo atteggiamento fosse da cambiare, se voleva continuare ad avere un qualsiasi rapporto col manager. Sembrava fosse sempre Bill quello intransigente, quello che o così o niente, ma in realtà Bill era purtroppo malleabile. Per il semplice fatto che i suoi obiettivi erano tanti e variegati, e si rendeva perfettamente conto di dover sacrificare qualcosa per raggiungerli tutti nel modo migliore.
Per Tom non era così.
Tom, obiettivi, non ne aveva proprio.
Tom suonava perché a suonare si rimorchia bene.
Tom suonava perché a suonare si guadagna anche meglio di come si rimorchi.
Tom, soprattutto, suonava perché sfondare insieme era il sogno di Bill.
Bill era sempre stato, in un modo o nell’altro, il suo unico obiettivo.
Non era un ragazzo pretenzioso.
Però per raggiungere Bill non poteva rinunciare proprio a niente.
Perciò sì, quello intransigente, fra i gemelli Kaulitz, era lui. Era quello stupido, quello divertente, quello frivolo e sì, anche quello intransigente. Quello assoluto.
Bill è in maglietta era una frase conclusiva perché Tom non avrebbe mai accettato di stare al sicuro fra le braccia di un milione di piume d’oca mentre Bill soffriva il freddo e rischiava una polmonite mortale. David lo sapeva. Perciò fine.
In ogni caso, quel video lo metteva di malumore.
A parte i normali drammi che si ritrova a vivere un fratello quando il suo gemello sta appollaiato sul ciglio della terrazza di un palazzo di millemila piani solo per dare soddisfazione a certe scelte registiche di dubbio gusto ed anche di dubbia utilità – per dire: già poteva scommettere che subito dopo l’uscita del video sarebbe stato un tiro al bersaglio da parte di tutti coloro che pensavano i Tokio Hotel facessero musica emo e passassero il loro tempo ad inneggiare al suicidio come forma di risoluzione finale, dimostrando così di non aver ascoltato attentamente mai nemmeno una delle loro canzoni, perché se c’era una cosa che quello spring nicht significava era proprio il contrario delle loro supposizioni.
A parte Bill sul parapetto, comunque, c’erano un mucchio di altre cose che lo rendevano irrequieto.
Prima fra tutte, be’, il fatto che Bill per primo lo fosse. Era banale e scontato e retorico, ma insomma, che lui se lo sentisse dentro – il sangue nelle vene, né più né meno – era una realtà incontrovertibile. Tanto pesante da fare quasi paura.
Tanto pesante e tanto vera che sì, quando si ritrovava a chiedersi lo voglio o no? la risposta, spesso più automatica che ragionata, era certo che lo voglio, è Bill.
Bill, insomma. Come mai avrebbe potuto non volerlo?
Da sempre l’affetto di Bill, l’amore di Bill, erano…
…parte di lui, ecco. Semplicemente un pezzetto di lui.
Aveva già notato – fin dalla Russia, in realtà – quella strana recente propensione di Bill per le altezze. Per il guardare in fondo all’abisso. Fosse l’intercapedine oscura fra il palco e le transenne durante i concerti, fosse la profondità assurda dei propri stessi occhi guardandosi allo specchio, fosse la strada in fondo a quei millemila piani di palazzo berlinese, Bill guardava in basso. Giù.

Der Abgrund der Stadt,
verschlingt jede Träne die fällt.
Da unten ist nichts mehr,
was Dich hier oben noch hällt.


Si ritrovò involontariamente a mordersi un labbro nella speranza inconscia che il dolore scacciasse via quel pensiero. Perché era insostenibile: che Bill preferisse quell’alternativa a restare con lui era del tutto impensabile.
Era perfino folle pensarlo! Bill non era un aspirante suicida! Bill era quello convinto che sempre – dannazione: sempre! – si potesse trovare un motivo per restare! Dannazione, il motivo per non saltare!

Probabilmente era proprio lui che aveva cominciato a non starci più con la testa. Probabilmente il pazzo non era Bill – nonostante l’avesse baciato. Esatto, Tomi, ti ha baciato. Come la mettiamo, adesso, eh? – ma lui. Che stava lì ad immaginare drammoni mentre Bill stava perfettamente, e se solo avesse provato a chiederglielo avrebbe ricevuto in risposta una risata talmente altera e sprezzante che- che- Dio, non si sta molleggiando su quel dannato parapetto, vero? No che non lo sta facendo, vero? Ce li ha i fili sulla schiena, vero?, vero?, eh?, Dio!, vero?

Deglutì.
Guardò David.
Il manager, al suo fianco, osservava la scena con aria perplessa.
- C’è qualcosa che non va… - lo sentì mormorare incerto, prima di alzare la voce, - Bill, ti senti male? Facciamo una pausa?
Bill si riscosse e guardò indietro. Posò gli occhi su di lui solo per un misero, brevissimo secondo. Poi incontrò quelli di David e gli sorrise, rassicurante.
- Ho avuto solo un capogiro. – rispose, stringendosi nelle spalle, - È tutto ok, posso continuare.
Tom strinse le mani attorno al tessuto ruvido e rigido dei jeans, continuando a torturarsi il labbro inferiore con gli incisivi. Poi scattò in avanti, raggiungendo il parapetto in poche, grandi e frettolose falcate. E, quando suo fratello fu alla sua portata, allungò un braccio e lo afferrò, trascinandolo giù fino al pavimento della terrazza.
Bill oscillò un po’, in bilico sui piedi un po’ incerti, e lanciò un mezzo gridolino spaventato, prima di sollevare lo sguardo ed improvvisare una protesta nei suoi confronti. Protesta che non venne mai fuori, perché Tom non gli diede il tempo di formularla. Appena Bill si fu stabilizzato – ed un tecnico fu giunto in suo soccorso, liberandolo da tutta quell’orchestra di funi e cordicelle che lo assicuravano alla terra ferma, nel caso il suo equilibrio avesse deciso di punto in bianco di fargli un bello scherzo – il gemello cominciò sistematicamente a trascinarlo verso la porticina che, dal centro esatto della terrazza, portava alle scale e poi all’ascensore, verso l’uscita.
- Tom, ti sei messo in testa di sabotare il video?! – lo rimbrottò Jost, cercando con poco successo di tenere il suo passo nell’andargli dietro.
Tom scosse il capo.
- Solo cinque minuti di pausa. – scollò più per obbligo morale che per altro. Il manager si decise a smetterla di seguirlo ed allargò le braccia ai lati del collo, esalando un esasperato “Vedete di tornare davvero, poi!”, memore delle migliaia di volte in cui, quando erano un paio di tredicenni appena svezzati, l’avevano piantato in asso in studio di registrazione per un tour improvvisato fra i McDonalds di Amburgo.
Bill non disse niente per tutto il tempo.
Il principale motivo per il quale Tom odiava usare violenza contro suo fratello era che suo fratello spesso rispondeva con altrettanta violenza. Non era un tipino facile, Bill. Non era neanche uno in grado di trattenere la rabbia, quando veniva attaccato. Perciò non era facile maneggiarlo.
In quel caso, però, Bill non si azzardò nemmeno a protestare, altro che reagire. Si lasciò condurre – trascinare – senza un fiato di disapprovazione, e quando Tom si fermò di scatto, dietro una colonna del primo piano desolatamente vuoto dell’edificio, si lasciò praticamente sbattere contro il muro senza neanche un mugolio di dolore. Tutto ciò che fece fu inarcare appena le sopracciglia e prodursi in una smorfia infastidita che aveva tanto di rammaricato quanto poco di risentito.
- Scusa. – si affrettò a dire. Non voleva davvero fargli male. Odiava fare del male a Bill.

Ecco perché tutto questo è così difficile, vero Tom?
Sai già che lo ferirai.


- Bill… - provò a dire, rendendosi conto solo alla fine del suo nome di non avere, in realtà, proprio niente da confessare.
Era un dettaglio davvero deprimente.
Bill lo guardava, muto e incerto, e negli occhi aveva tanta di quella confusione che Tom si sentiva perdercisi dentro soltanto a guardarli distrattamente.
E lui non aveva un accidenti di niente da dire.

Insomma, Tom. Non eri tu quello assoluto e inamovibile?
Allora, che c’è? Lo vuoi tuo fratello o no?


- …Tomi. – sussurrò suo fratello, abbassando lo sguardo e torturandosi le dita, - Io sono una persona forte. – concluse poi.
E Tom inarcò le sopracciglia e dischiuse le labbra.
- Cosa-
- Smettila di trattarmi come se fossi una bambola di cristallo. – continuò suo fratello, talmente lieve da non sembrare neanche reale. – Io sono innamorato di te. – mormorò, tornando a guardarlo, - Lo sono davvero. Ma non sono tanto stupido da negarti il diritto di non ricambiarmi. – sorrise vagamente, scrollando le spalle, - Non sono neanche tanto egoista, anche se so che sembra incredibile che a dirlo sia io. Ma, davvero, non sai quanto mi piacerebbe esserlo. – ridacchiò a bassa voce, e la sua voce tremava. A Tom si strinse il cuore, ma fu l’unico muscolo che riuscì a muovere. – Mi piacerebbe essere quel tipo di innamorato da ricatto morale che è impossibile lasciare o ignorare. Io lo so che è assurdo, quello che provo. Non… - si interruppe, mordendosi un labbro, - …non ce la faccio a trascinarti controvoglia in questa cosa. Vorrei. Ci ho pensato. – sospirò, - Quando ti ho baciato, in parte l’ho fatto per questo. Ho pensato “se lo bacio non potrà mica scappare via come non fosse successo niente. Sarà pure obbligato a dirmi qualcosa”.
Tom sollevò un braccio e lo osservò cercare di recuperare una smorfia meno tesa dal fondo dei ricordi in cui sapeva di aver sorriso sinceramente. Bill rimase come ipnotizzato dal movimento della sua mano, e smise perfino di parlare per seguirne il percorso nell’aria, fino al suo viso, giù per il suo collo ed alla fine attorno alla sua spalla.
- Hai le mani calde… - commentò dolcemente, socchiudendo gli occhi, - Però questo non mi basta, Tomi. Io lo so che come fratello tu mi vuoi molto bene. Quello che non riesco a capire… - articolò confusamente, inclinando un po’ il capo, - è se c’è di più. Se c’è di più devi dirmelo, perché Tom, se tu mi ami, io davvero…
Lo guardò. Ma Tom non disse nulla.

Lo vuoi o no?
Non era una domanda. Era una tortura.


- …io davvero ho bisogno di saperlo. – concluse Bill, deglutendo forzatamente. – Devi solo dire la verità. Non è difficile. Te l’ho detto, io sono forte. Posso… posso farcela.

Se esiti così…

…Tom, lo vuoi o no?
Cos’è che vuoi?
Vuoi che stia bene?
Vuoi che stiate bene entrambi?
Vuoi solo abbracciarlo e basta?
Cos’è che vuoi?
Vuoi lui o no?


Gli si abbatté addosso. Si sentiva esausto come mai prima nella sua intera esistenza.

La verità è che non so che dire.
Ti voglio o no?
Ma come posso rispondere ad una domanda simile?


- Tu… - bisbigliò confusamente, stringendolo forte fra le braccia, - rendi tutto sempre così dannatamente difficile. Bill, io ti voglio bene. Sei mio fratello. Noi… insomma, noi siamo nati così. Fratelli. Insieme.
Bill annuì e sorrise contro la sua pelle, sollevando a propria volta le braccia per allacciarlo alla vita ed aiutarlo a sorreggersi.
- Perché vuoi per forza fare questo passo avanti?
Suo fratello rise. Una risata cristallina, quasi scampanellante. Sicuramente divertita.
- Perché hai tutta questa paura, Tomi? – domandò a propria volta, invece di rispondere, - A volte saltare non è un rischio, sai? È solo una cosa che devi fare. Non sempre sotto c’è il vuoto che ti inghiotte.
- Sì, ma tu – osservò il rasta, nascondendo più in profondità il viso contro la sua spalla, - quando mi hai baciato non sapevi cosa provavo per te. Non sapevi se ti ricambiassi o meno. Non lo sai nemmeno ora! Io non potrei mai fare una cosa del genere, non c’è alcuna sicurezza nel mettere il cuore in mano agli altri in questo modo, io non-
- Ci saresti comunque stato, Tom. – lo interruppe Bill, serenamente. – Io ti conosco molto meglio di quanto non ti conosca tu. Ti osservo da una vita, Tomi. Con l’attenzione di un innamorato, davvero. Io lo so che tu mi avresti sostenuto comunque. Lo so. Ed infatti lo stai facendo.
- …non sai se lo faccio perché ti voglio bene e basta o perché…
- Non ha importanza. – rimarcò Bill, scuotendo il capo. – Non ha nessunissima importanza.
Tom si morse un labbro e rimase immobile contro di lui. Il mondo – qualsiasi centimetro di mondo non fosse la pelle di suo fratello – faceva paura davvero. E dire che si era sempre ritenuto un coraggioso. Uno di quelli che non pensano ai sentimenti perché i sentimenti sono roba da vigliacchi.
Balle.
Prova ad affrontarli, quei dannati sentimenti, e poi si vede se non ci vogliono due palle così o meno.
Suo fratello era molto, molto più coraggioso di lui. E basta.
- Tom. – lo richiamò Bill poco dopo, giocando distrattamente con una delle sue ciocche dorate, - Lo sai che non hai alcun bisogno di dirlo.
Tom deglutì.
- Ti devo una risposta… - cercò di motivarsi, scostandosi da lui e ritrovando la forza di guardarlo in faccia.
- Sì. – sorrise Bill, - Ma me l’hai già data. Io – ridacchiò nervosamente, - non ho bisogno di sentirmi dire qualcosa che so già. E sinceramente… - si inumidì le labbra, lasciando vagare lo sguardo oltre il suo viso, prima di tornare a piantarlo deciso e brillante sui suoi occhi, - non so se sono davvero tanto forte da sentirti dire proprio tutta la verità.

La verità.
Cos’è che vuoi, Tom?
Vuoi Bill?
Bill è un bel ragazzo. Bill ti ama tanto.
Bill è in assoluto la cosa più importante che hai.

Allora?
Lo vuoi o no?


- …penso che David ci stia aspettando. – biascicò a mezza voce, distogliendo lo sguardo.
Suo fratello rise. Si sporse a baciarlo su una guancia con una leggerezza ipnotica. Lieve come una farfalla. Altrettanto nervoso e veloce. Un battito d’ali e puff, già lontano.

Non ti voglio.
Vorrei solo che tu fossi felice.
Vorrei essere la persona in grado di renderti tale. Ma so di non esserlo.
Non ti voglio.
Tu, prima o poi, smetterai di volere me?


Le dita sottili e curate di Bill s’intrecciarono con le sue, simili e tremendamente differenti già al tatto. Stessa forma affusolata ed aggraziata. Sensazioni epidermiche completamente diverse. Ruvidità dove c’è morbidezza. Asperità contro ogni morbida curva. Le loro tipiche compensazioni. La perfetta alchimia che riusciva a renderli la stessa cosa in due corpi distinti.
- Grazie comunque. – disse suo fratello, camminando lentamente verso le scale, per tornare in terrazza, - È bello che tu mi voglia tanto bene.
Forzò un sorriso conciliante.

Sarebbe stato molto più bello se te ne avessi voluto di più.
Forse.


Ma era una possibilità della quale non aveva proprio voglia di discutere il senso.
C’era Bill che aveva ricominciato a parlare di sciocchezze, al suo fianco. Parlava del freddo e della paura e dell’imbracatura che gli faceva male alle spalle. Si lamentava delle scelte registiche e borbottava che sarebbe stato molto meglio girare solo le scene in interno – e poi quel cappottino di pelle era fantastico, appena finito di girare se lo sarebbe tenuto a qualunque costo.

La verità è che a me basta così.
La verità è che a me basti tu.
Se questo vuol dire amarti, d’accordo.
Se questo vuol dire che sei mio fratello, d’accordo.
Per me va bene.
A me basti.
Mi sei sempre bastato.


- Non fare quella faccia!
- …che faccia?
Un dito un po’ timido fra le sopracciglia, a stenderne i contorni corrugati.
- Fammi un sorriso. Non siamo saltati davvero.
Lo accontentò.
Sulla terrazza c’era ancora freddo. E le voci concitate di David, del regista e degli operatori si intrecciavano l’una all’altra in una strana colonna sonora. Un brusio di fondo quasi piacevole, la melodia sulla quale Bill tesseva risatine imbarazzate e scuse di rito, assicurando d’essere pronto per ricominciare a girare.
Sorridendo teneramente, Tom guadagnò mezzo metro di pavimento non ingombro da cavi e valigie dall’ignoto contenuto e s’accucciò per terra, incrociando le gambe e stringendosi nelle spalle per difendersi almeno in parte dal gelo pungente della notte tedesca.
- Si può capire cosa diavolo dovevi dirgli di così urgente? – borbottò acido David, raggiungendolo con un provvidenziale caffè bollente.
Tom prese in mano il bicchierino di plastica e se lo rigirò fra le dita, godendo del tepore che si diffondeva come una macchia sulla sua pelle.
Bill sorseggiava il proprio caffè ed annuiva compitamente di fronte agli ordini del regista.
- È un segreto. – rispose abbassando lo sguardo.
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