Genere: Introspettivo, Romantico, Triste.
Pairing: Bill/Tom.
Rating: R.
AVVISI: Slash.
- Bill ha la febbre. David obbliga Tom a prendersene cura. Ed è solo l'inizio del disastro.
Note: Mi ritrovo quasi alle cinque del mattino a tirare una somma che non sono proprio sicura di voler tirare. Sarà che in matematica non sono mai stata granché competente. Ai tempi delle espressioni, per dire, sbagliavo le addizioni coi segni. Ero molto distratta e finivo per toppare sui dettagli sciocchi – tipo quando moltiplicavo un numero positivo per un numero negativo. Potevo solo pregare di rimanere abbastanza attenta da ricordare che il risultato sarebbe stato a propria volta negativo, o rischiavo il suicidio collettivo di tutte quelle adorabili parentesi graffe, quadre e tonde.
Tant’è. Oggi la mia neechan mi ha fatto notare fosse plausibile pensare l’ultimo aggiornamento di questa fanfiction risalisse almeno ad un anno fa. Non ho più le date dell’EFP, ma qui in community Schweiß è stato pubblicato il 4 settembre 2007. Ciò vuol dire che no, non sono ancora dodici mesi ma poco ci manca. Curioso inciso: chiudevo le note finali, allora, dicendo “Al prossimo capitolo – spero non fra un anno XD”. Voglio dire, non fosse tremendo da parte mia, sarebbe molto lol XD
So che in teoria non dovrei ancora stare qui a tirarmela con le note finali. Avete sopportato abbastanza XD Ma in realtà c’è qualcosa che vorrei dire. Non serve a scusarmi, ma questo capitolo è pronto da molto (moltissimo) tempo. Figuratevi che già prima del raduno a Brescia (nel marzo scorso, quindi) era già bello che finito.
Il mio problema con Wahrheit viene dal fatto sia stata plottata – ed iniziata – quando ero ancora, mentalmente, in periodo Shackle Free. Per certi versi – non so quanto ricordiate quella storia, ma se la rileggete lo noterete anche voi – Fieber e la Shackle Free di Tom. Nel senso che vede la stessa identica cosa, ma dal suo punto di vista. In questo senso, intendo il capitolo centrale di questa trilogia più come un inciso che non come parte integrante della storia. Una sorta di spin-off interno, se volete o_ò perché quest’ultimo capitolo riprende molto più dal primo che non dal secondo. La frase finale di Tom recupera in pieno – volutamente – una frase di Bill detta al riguardo dello stesso argomento proprio in Fieber.
Ma queste sono elucubrazioni spicciole ^^
Io questo capitolo non volevo pubblicarlo. Ho dei problemi prepotenti, col one-sided XD riassumibili nel concetto “mi rattrista a morte”. Aggiungeteci che questa fic è colpevole di molte cose – una delle prime nel fandom, la molla che ha fatto scattare in Meg il desiderio di scrivere Verbrennen, una delle prime twincest che abbia plottato con Ana… - e che quindi ero terrorizzata dall’idea di deludervi tutte con questo finale. Che sì, è così da sempre XD Perché questa storia è sempre stata una one-sided, ecco.
A questo proposito, devo ringraziare Meg. Se ieri sera non mi avesse tirato una paternale coi controfiocchi, rassicurandomi conseguentemente sul fatto che se è così è così e basta, questa conclusione probabilmente non l’avreste vista proprio mai. *si nasconde sotto un chilo di sabbia e ci sprofonda dentro*
È amara. È disillusa.
È tenera, comunque. Perfino romantica. Almeno, nel mio modo di vedere il romanticismo.
Spero solo cha sia valsa la pena dell’attesa. Lo spero tanto <3
Grazie per la pazienza, a presto <3
PS: I versi citati all’interno del capitolo sono tratti dalla prima strofa di Spring Nicht. La traduzione (ad opera di Sar@) è la seguente: “L’abisso della città / inghiotte ogni lacrima che cade / Laggiù non c’è più / quel che ancora ti tiene qui su”.
PPS: Non ho la più pallida idea di dove sia stato girato precisamente il video di Spring Nicht °_° Berlino, ok, ma la location mi è ignota, confesso la mia ignoranza ._. Mi ha sempre comunque dato l’idea di essere un enorme parcheggio multipiano, perciò ho usato quel concetto.
PPPS: Nove mesi, mi fa notare la neechan. Praticamente una gravidanza XD
PPPPS: 11 luglio 2007 <- data di pubblicazione di Schweiß, dice Meg XD E mioddio, dico io XD
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FIEBER, SCHWEIß UND WAHRHEIT
2. SCHWEIß

La prima volta che aveva saputo che c’era qualcosa di più di un semplice rapporto fraterno, fra lui e suo fratello, aveva sei anni. A sei anni non capisci niente. Ma istintivamente sai un sacco di cose. Hai una percezione chiarissima di ciò che ti sta intorno – affetto – e di ciò che puoi ritenere tuo – tutto. È una percezione completamente parziale, egocentrica, probabilmente sbagliata, ma lucida. Chiara. Lineare. Ti aggrappi a ciò che hai intorno, a ciò che è tuo – e le cose coincidono anche se non dovrebbero – e non senti d’aver bisogno d’altro, anche perché non c’è nient’altro che tu possa desiderare.
Tom rientrava perfettamente nella lista.
Ed era la prima voce.
Per quanto si fosse sforzato, mai, nemmeno a sei anni era stato in grado di mettere in quella lista qualcosa che potesse rubare il posto a Tom. Non c’erano riuscite le caramelle gommose quando era piccolo, non c’era riuscita Nena quand’era adolescente e non ci riusciva neanche la musica, adesso che era cresciuto. Infilava Tom nel mucchio solo per comodità – Tom è mio come tutto il resto – ma in realtà era sempre stato un gradino sopra. Un gradino sopra anche a sé stesso.
Quando avevano sei anni, mamma li aveva mandati in campeggio.
Il motivo gli era sempre stato molto chiaro.
Mamma e papà stavano avendo dei problemi, e volevano il loro tempo per risolverli.
Quel viaggio era stato orribile, Bill aveva sempre sospettato che non avrebbe più trovato papà quando fosse tornato a casa, e infatti dopo un paio di settimane s’era messo a frignare ed aveva preteso di lasciare il campeggio – anche se questo significava dover lasciare Tom, cosa che, sospettava, suo fratello non gli avrebbe mai perdonato – per fare un tentativo stupidissimo: cercare di fermare papà prima che andasse via.
Nonostante la tempestività che gli sembrava di aver avuto, papà era già andato via, al suo ritorno. E questo aveva reso il suo viaggio inutile. E aveva reso inutile anche il suo abbandono. E questo, sospettava, non sarebbe mai riuscito a perdonarselo nemmeno lui.
Ma durante quelle settimane di campeggio era successo anche altro. La cosa che l’aveva illuminato. La cosa che gli aveva confessato per la prima volta “Tu e Tom non siete solo fratelli. Siete di più”.
Un giorno qualsiasi, Tom si era perso.
Bill l’aveva visto allontanarsi verso il boschetto poco distante dalla piscina dei bambini – c’era una ringhiera, ma tutti i bimbi conoscevano lo squarcio segreto dal quale si poteva passare, che anche quando veniva chiuso finiva sempre riaperto al massimo un paio di giorni dopo – e non era riuscito a raggiungere abbastanza in fretta il bordo, per tirarsi fuori dall’acqua e seguirlo.
E poi faceva caldo, quel giorno.
E quindi, alla fine, la pigrizia l’aveva convinto che non era il caso di starci troppo a pensare, che Tom sarebbe sicuramente tornato in un’oretta e che non gli sarebbe successo nulla, e lui poteva anche restare lì a crogiolarsi sotto il sole, facendo il morto a galla sul pelo dell’acqua.
Ma Tom non era tornato.
Tom non era tornato fino a sera.
E allora gli animatori del campo, ai quali i bambini erano stati affidati, avevano cominciato a preoccuparsi e l’avevano tempestato di domande.
- Bill, dov’è tuo fratello?
- Non lo so.
- Avanti Bill, lo sappiamo che lo sai. Tu sai sempre dov’è Tom, siete inseparabili!
- No! – aveva detto, scuotendo il capo, - Non lo so davvero! Non dico le bugie!
In realtà Bill mentiva spesso. Ma era bravo a farlo, e nessuno lo scopriva mai, perciò gli animatori avevano dovuto arrendersi all’evidenza e a quel faccino preoccupato e triste, e non avevano indagato oltre.
- Adesso vai nella tua tenda, - gli avevano detto, - e cerca di dormire. Il tuo fratellino tornerà presto.
Bill sapeva perfettamente che Tom sarebbe tornato.
Ma sapeva altrettanto bene che non sarebbe stato merito di tutti quegli adulti, quando sarebbe successo.
Aveva finto di ubbidire, s’era infilato nella tenda, s’era raggomitolato nel sacco a pelo per un po’ – giusto per evitare che qualcuno passasse di lì per controllarlo e non lo trovasse addormentato – poi aveva infilato un giubbotto, afferrato una torcia ed era corso nel bosco.
Solo lui poteva trovare Tom. Solo lui sapeva come fare.
Non era un metodo strano e speciale, non faceva nulla di particolare, non aveva un percorso segreto, solo conosceva i posti. Non i luoghi del bosco. Quelli di suo fratello.
E infatti l’aveva trovato. Appena sveglio, sotto una betulla. Gli si era avvicinato e gli si era seduto accanto, mentre attendeva che si stropicciasse gli occhi, ricordasse dove si trovava e si risvegliasse definitivamente.
- Che ore sono? – gli aveva chiesto Tom, una volta tornato lucido.
- Saranno passate le due… - aveva risposto Bill, dubbioso, - ma non ho l’orologio, non lo so…
- In ogni caso è tardi. – aveva ridacchiato lui. – Ti sei preoccupato?
Bill aveva sorriso.
- Sapevo che ti avrei ritrovato. – aveva detto semplicemente.
- Guarda che non mi ero perso… - aveva sbuffato Tom, indispettito, - Volevo solo restarmene un po’ per i fatti miei…
Bill aveva annuito, sorridendo più apertamente.
- Sapevo che ti avrei trovato lo stesso.
Non era stato un momento sconvolgente.
Era stata soltanto la certezza assoluta di appartenergli. E di possederlo. C’era qualcosa, nel corpo estraneo al proprio che era quello di suo fratello, che gli era legato. Come un prolungamento invisibile che li teneva uniti. Non era una cosa sciocca come il filo rosso del destino che i romantici dicono tenga strette le anime gemelle, no, era un pezzo di carne. Qualcosa di fisico. Qualcosa di loro. Qualcosa che condivideva le stesse cellule, lo stesso sangue, lo stesso DNA, qualcosa che partiva dal corpo di uno e s’incastrava in quello dell’altro, qualcosa che non poteva essere visto, ma poteva essere percepito. E non erano solo loro, a percepirlo. Non era una loro convinzione esclusiva. Era un legame universalmente riconosciuto. Come fossero stati siamesi e avessero avuto un arto in comune.
L’arto in comune era l’amore.
A sei anni Bill non l’aveva capito.
Ma lo sapeva per certo.
*
Quella sensazione di appartenenza non s’era mai spenta. S’era solo modificata. Man mano che passava il tempo era diventata sempre più forte, sempre più definita, sempre più chiara. E con l’arrivo dell’adolescenza s’era… espansa. Ingigantita come una spugna bagnata.
Con l’arrivo dell’adolescenza era esploso qualcosa.
E l’unica cosa che era cambiata era che Bill non aveva più potuto ignorarla.
L’affetto che lo legava a suo fratello non era qualcosa di lieve. Non era qualcosa di tenero. E non era qualcosa di puro. Non c’era assolutamente niente di puro nei pensieri che rivolgeva all’immagine di Tom che aveva nella mente, durante i suoi sogni o ogni volta in cui chiudeva gli occhi.
Sì, certo, anche lui aveva i suoi momenti di dolcezza. Anche lui ogni tanto desiderava solamente essere abbracciato, o sentirsi dire “ti voglio bene”, o essere oggetto di una qualsiasi premura.
…per la maggior parte del tempo no, però.
Per la maggior parte del tempo era tutto un fuoco, per la maggior parte del tempo voleva essere toccato, accarezzato, baciato ovunque, per la maggior parte del tempo non faceva che tremare in preda agli spasmi del desiderio, per la maggior parte del tempo sentiva la pelle bruciare come infiammata, e per la maggior parte del tempo si sentiva ammalato e confuso.
Per la maggior parte del tempo avrebbe voluto stare in un letto e fare l’amore con Tom.
Quella era la cruda verità.
Per quanto potesse essere schifosa e sconveniente, era lì. Davanti a lui. Ogni giorno.
Non si era mai chiesto niente. Non una delle domande che immaginava potessero essere normale amministrazione, in una situazione come la sua. Mi piace perché sono un pervertito e sono attratto da mio fratello? Sono solo gli ormoni? Ci sarà qualcosa che non va nella mia testa? Forse è solo perché mi piace fisicamente e sto combinando un casino? Gli sembravano quesiti inutili. In fondo era sempre lo stesso tipo si sentimento. In più c’era solo il sesso. Era assolutamente convinto del fatto che se fosse stato in grado di provare attrazione sessuale fin da bambino… be’, l’avrebbe provata.
Perché lui era uguale a prima.
Ed era uguale a prima anche Tom.
Ed era tutto così atrocemente naturale, che la presa di coscienza non aveva avuto bisogno di spiegazioni.
Era venuta così. Come sempre arrivano le verità scomode. Sulla testa, come mattoni.
- Bill? Sei ancora fra noi?
Sussultò e spostò lo sguardo su Georg, che lo fissava curioso e un po’ stupito, probabilmente chiedendosi cos’avesse.
- Non è che stai ancora male? – si aggiunse David, spiaccicandogli poco delicatamente una mano sulla fronte per verificare che non avesse la febbre, - Forse sei un po’ caldo…
Bill sorrise, simulando tranquillità.
- Sto benissimo, stavo solo ripassando mentalmente le parole…
Sia il bassista che il manager non poterono fare a meno di inarcare un sopracciglio, dubbiosi.
- Tu che ripassi…? – chiese Georg, mettendo una mano sul fianco, - Cioè, tu? Il signor Non-Dimentico-Mai-Le-Parole? Non hai mai avuto bisogno di-
- Sì, lo so. – lo interruppe, forzando un altro sorriso, - Ma oggi sono inquieto. È la prima volta a Mosca, e fra poco uscirà il primo singolo del nuovo album, e-
- Va bene, va bene. – interloquì David, agitando una mano e sospirando, - Se può farti sentire tranquillo, ripassa. Ma tra cinque minuti sei sul palco, quindi non lo so, tira fuori un sorriso e fai almeno finta di essere felice di trovarti qui!
- Io sono felice di trovarmi qui! – protestò, gettando i fogli dei testi su un tavolino e stringendo i pugni.
David sorrise tranquillamente, scompigliandogli i capelli – cosa che lo mandò su tutte le furie.
- Sorridi, Bill, avanti! Sei un amore quando sorridi! Le fan apprezzeranno!
- Perché ho la vaga impressione che tu non mi stia prendendo sul serio…? – mugugnò deluso, incrociando le braccia sul petto.
- Ma non c’è niente da prendere sul serio nel tuo faccino carino… - ghignò Gustav, spuntando dal nulla dietro di lui e dandogli due lievi bacchettate sulla testa.
Bill ridacchiò e lasciò scivolare lo sguardo lungo tutta la stanza, alla ricerca di quello complice che sempre Tom gli lanciava quando lo prendevano in giro.
Tom lo guardava anche quella volta. Teneva fra le braccia la chitarra con premura, e lo guardava sorridendo.
Ma quando i loro occhi si incrociarono, fu velocissimo e spostarli sul pavimento e interrompere il contatto visivo.
Sì.
Sapeva che sarebbe successo.
Ma aveva fatto male comunque.
Sospirò, perdendo il sorriso e riprendendo in mano i fogli.
Non era il momento di pensare a cose come quelle. E d’altronde prima di baciarlo aveva riflettuto a lungo. Aveva soppesato i pro e i contro, aveva passato giorni interi a chiedersi se fosse la cosa giusta, e alla fine semplicemente aveva concluso che lo era, e s’era buttato, consapevole delle conseguenze. Quindi, che senso aveva pentirsene adesso? Adesso che tutto era chiaro, almeno fra di loro, almeno non doveva più mentire. Almeno Tom sapeva. Che lui sapesse era fondamentale. Non poteva immaginare di continuare a vivere nascondendo un segreto simile proprio a lui.
…forse era stato egoista a caricarlo di un peso simile senza neanche chiedergli il permesso.
Ma anche lui portava un peso che nessuno gli aveva chiesto se volesse davvero portare.
Ci sono cose che succedono e basta, si disse, fissando il palco da dietro le quinte, e sinceramente non mi dispiace.
*
Sopra ogni cosa, c’era il sudore.
A volte aveva di Tom un’impressione sfuggente. Probabilmente era causa dei suoi vestiti. Lui indossava quelle magliette enormi, e quei pantaloni immensi, e Bill spesso lo guardava e si diceva “io so com’è sotto… è così magro… com’è possibile che non si perda, in mezzo a tutto quel tessuto e quello spazio vuoto?”.
Ma il sudore, il sudore…
Osservare il suo corpo bagnato e luccicante sotto le luci del palco era estasiante.
Il sudore riportava tutto a un livello più fisico, gli appiccicava gli abiti addosso, gli attaccava i dread sul collo, sulle guance, scendeva in piccole gocce brillanti lungo il suo naso, sulle sue labbra, scivolava voluttuoso sulla curva dolce del pomo d’Adamo, s’intrufolava birichino nello scollo della maglietta, raccogliendosi fra le clavicole e poi caracollando gioioso nel solco fra i pettorali… e con un po’ d’immaginazione, chiudendo gli occhi, smettendo di pensare al pubblico, alle fan, alla canzone, che tanto era lì, sulla lingua, e veniva fuori da sé, automatica… concentrandosi esclusivamente su quell’unica goccia, Bill poteva vedere tutto. Poteva vedere la goccia farsi strada sotto il cotone, giocare smaliziata fra gli addominali appena accennati, e poi fermarsi lì, di fronte all’elastico dei boxer sempre fuori dai pantaloni a cavallo bassissimo. Fermarsi lì, gettarsi testarda contro il tessuto decorato con qualche fantasia idiota… e infrangersi. Venire risucchiata. Assorbita. Svanire. Scomparire. Annullarsi.
Così come succedeva a lui.
Lui, che testardamente continuava a perdersi nelle solite fantasie e poi si fermava. Perché era facile giocare con l’immagine del petto di suo fratello, ma appena sotto c’era una linea di confine che l’imbarazzo, la decenza e la vergogna gli impedivano di oltrepassare.
Non era libero neanche nella sua mente. Anzi, il suo cervello era il luogo dove poteva osare di meno, perché ogni passo fuori dal limite era spaventoso come una passeggiata nella foresta scura di notte. C’erano… mostri… nei pensieri di Bill… cose… cose che, se fosse sceso anche solo un po’ sotto la linea, non avrebbero esitato a inseguirlo per sempre, fino a quando non l’avrebbero preso e divorato, mettendo a tacere quella smania oscena per sempre.
Non poteva, non poteva, non poteva scendere sotto la linea.
Era lì che doveva restare.
Con la goccia.
Sull’orlo dei boxer.
*
La chitarra di Tom diffuse nell’aria le ultime note distorte di Durch Den Monsun, e lui riaprì gli occhi.
Guardò i propri piedi.
E vide che era sull’orlo di qualcos’altro, oltre che dei boxer di suo fratello.
Prese un respiro profondo.
Saki e altre body-guard delle quali non ricordava il nome lo guardavano dalle transenne, chiedendosi se per caso non avesse intenzione di buttarsi giù dal palco, nello spiazzo vuoto che separava la piattaforma dall’orda di ragazzine gridacchianti.
Lui guardò il pavimento grigiastro e sporco ed ebbe una minuscola vertigine.
Erano solo un paio di metri. Lui era alto quasi un paio di metri. Saltando da quell’altezza, al più si sarebbe storto una caviglia. E solo se fosse atterrato davvero male. E per atterrare davvero male da lì avrebbe dovuto farlo apposta, e sarebbe stato troppo evidente e…
…e dannazione, per quale motivo avrebbe dovuto volerlo fare?
Per quale motivo ci stava addirittura pensando?

Tutti, cercando cercando, potremmo tirare fuori uno o due motivi per desiderare il suicidio.

Be’. L’aveva detto lui. Doveva prendersi le sue responsabilità.
Cercò.
Cercò.
Si voltò appena a guardare Tom.
E il pensiero di non rivederlo più gli sembrò abbastanza per decidere che non ne valeva la pena.

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