Genere: Introspettivo, Drammatico, Romantico, Triste.
Pairing: Bushido/Bill, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort, Incest, Language, Lemon, Rape, Slash, Violence.
- Primo settembre 2009. E' il compleanno di Bill e Tom. Il minore dei gemelli Kaulitz, comunque, si ritroverà a ricevere un regalo inaspettato e decisamente poco piacevole. A raccogliere ciò che resta, però, un aiuto ugualmente insperato. E da qui, come sempre accade, niente sarà più come prima.
Note: WIP.
Pairing: Bushido/Bill, Bill/Tom.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Hurt/Comfort, Incest, Language, Lemon, Rape, Slash, Violence.
- Primo settembre 2009. E' il compleanno di Bill e Tom. Il minore dei gemelli Kaulitz, comunque, si ritroverà a ricevere un regalo inaspettato e decisamente poco piacevole. A raccogliere ciò che resta, però, un aiuto ugualmente insperato. E da qui, come sempre accade, niente sarà più come prima.
Note: WIP.
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CRASH AND BURN
love is the light scaring darkness away
2. I MIGHT NEED YOU
- Ti giuro, Andi, il compleanno più di merda della mia intera esistenza.
Tom si arrotolò attorno ad un cuscino, stringendosi a palla sul divano e poggiando il capo su un bracciolo, ed attese la risposta di Andreas, dall’altro lato della cornetta.
La risposta arrivò dopo un enorme sospiro stremato.
- Tutto ciò è accaduto perché tu sei un deficiente, Tom. – gli fece notare l’amico, incolore. – In primo luogo, Bill non aveva alcun desiderio di andarsene nella fottuta Berlino, per festeggiare il compleanno.
- Lo so… - si lamentò lui, mugolando risentito come si permetteva di fare solo di fronte a chi lo conosceva da anni ed aveva giurato più e più volte non sarebbe andato a sputtanarlo in giro, - È che per il nostro compleanno si fa sempre tanto di quell’ingiustificato casino…
- Oh. – sbottò Andreas, gelido, - Scusaci tanto perché vi vogliamo bene e cerchiamo di dimostrarlo.
- Sai perfettamente che non intendevo niente del genere. – lo riprese lui, offeso.
Ciò che non sai, aggiunse – ma solo nella propria testa – è che le dimostrazioni d’affetto mi piacciono, sì, ma almeno per il compleanno mi piace godermi il regalo tutto da solo.
Si morse le labbra con una certa forza.
A volte faceva davvero fatica a tenerselo dentro. Ad Andreas avrebbe voluto dirlo in centinaia di occasioni diverse, se non altro perché non c’era praticamente niente – niente davvero – che il suo migliore amico non sapesse della sua vita. Sapeva tutto perfino della sua disgustosa prima volta – ed era un argomento che aveva evitato di dibattere perfino con Bill, anche prima di dare il via alla strana relazione che li teneva avvinti ormai da quasi un anno.
Curiosamente, proprio di quella strana relazione non poteva dire nulla ad Andreas.
Andreas che, forse, sarebbe stato l’unico davvero meritevole di saperlo – se non altro per la fedeltà cieca dimostrata nel corso degli anni.
- Davvero, Tom: non hai mai avuto nulla in contrario a festeggiare tutti insieme. E sai quanto a Bill piaccia sentirsi amato e coccolato ed al centro dell’attenzione dell’universo intero. Perché hai insistito tanto per andare da solo con lui a Berlino?
Perché per una volta volevo festeggiare solo con lui.
Per una volta, volevo essere solo io a farlo sentire amato e coccolato.
L’universo intero. Volevo essere io, l’universo intero.
- Per cambiare. – rispose vago, - E poi, scusa, è mio fratello, no? È un mio diritto-
- No, no. – lo interruppe Andreas, - Non cominciare coi tuoi soliti deliri pseudo-twincest. Mi danno i brividi e lo sai. Li accetto perché ti conosco e so che in fondo hai il cuore di un orsetto gommoso, che poi è il motivo per cui tuo fratello stravede per te, ma non costringermi a chiuderti il telefono in faccia, okay?
Be’, se Andreas voleva dargli un motivo per non parlargli del suo piccolo segreto, gliel’aveva servito davvero su un piatto d’argento. Dopo un commento simile, si sarebbe sentito a disagio pure se avesse dovuto dirgli soltanto che a Bill voleva molto bene.
Nel caso di specie, la verità era un tantino più estrema: io a Bill non voglio bene. Io lo amo tanto quanto amo me stesso e forse perfino di più. Lo amo e lo voglio. E, dannazione, me lo sono pure preso.
- Quindi… - riprese dopo un po’ il suo migliore amico, - avete litigato, no?
- Appena messo piede nell’appartamento. – confessò con uno sbuffo depresso, - Sinceramente, speravo che mi avrebbe ricoperto d’improperi sul treno. Almeno, si sarebbe sfogato. Ed invece s’è trattenuto fino a qui, ed appena siamo entrati in casa ha cominciato ad insultarmi.
- Be’, sì. – ridacchiò impietoso Andreas, - Per certi versi ti capisco: compleanno di merda. Per altri, però, capisco anche lui: gemello di merda.
- Tu sei uno stronzo e non ti meriti la mia fiducia. – borbottò irritato, scagliando il cuscino contro il muro neanche avesse avuto per le mani lo stesso Andreas, - Io l’ho fatto con tutte le migliori intenzioni!
- Nessuno l’ha messo in discussione, calmati! – commentò il biondo con un’altra risata tonante, - Dunque, dicevamo, il litigio. E poi?
- E poi ci sono rimasto come un coglione, ovvio. – proseguì lui, rivoltandosi sul divano ed accucciandosi un po’ contro il bracciolo, - Sai com’è Bill, no? Quando s’incazza e decide che non riesce più a tollerare la tua vista…
- …esce e non dice dove va né quando tornerà.
- Già. E se ti azzardi a chiedere-
- Ti schiaffeggia. Sì. Sai che una volta è successo anche a me?
- Guarda: a volte mi meraviglio di come non sia mai successo con la mamma. Bill ogni tanto… perde completamente il senso della misura.
Tom si sforzò d’ignorare la fastidiosa voce che, dal profondo della sua mente, insisteva a ripetere e tu no, Tomi? Tu non perdi il senso della misura, trascinando tuo fratello lontano dai suoi amici, fino a Berlino, solo per poter scopare in santa pace?
La voce della sua coscienza somigliava in maniera impressionante alla voce di Bill. Ed era poi quello il motivo per cui la trovava così odiosa: perché quelle erano cose che Bill non gli avrebbe mai detto.
Lo scatto delle chiavi all’interno della serratura annunciò l’arrivo di suo fratello un attimo prima che facesse la propria comparsa sulla soglia della porta.
- È tornato. – si affrettò ad informare Andreas, - Credo che partiremo con la solita routine di “sei uno stronzo”, “no, lo stronzo sei tu” e poi faremo pace a modo nostro. – e non è necessario tu sappia esattamente come. – Mi faccio sentire io, okay?
- Seh. – rispose lui con aria annoiata, - Fai a Bill gli auguri da parte mia, comunque.
- Sì, be’, grazie tante.
- I tuoi erano impliciti. – ridacchiò il biondo, prima d’interrompere la chiamata.
Tom scosse il capo e poggiò distrattamente il cellulare sul tavolino basso di fianco al divano, prima di piantare con forza le mani contro il cuscino e tirarsi su abbastanza da scorgere la figura di Bill che avanzava lentamente attraverso l’ingresso.
- Ce ne hai messo, di tempo. – si lamentò spiccio, aguzzando lo sguardo per distinguere bene i suoi lineamenti nel buio, - Stavo cominciando a preoccuparmi.
Bill non rispose. Tom lo osservò posare le chiavi sulla consolle di cristallo con un tintinnio il più discreto possibile.
C’era qualcosa che non andava.
I capelli.
Non che Bill avesse optato per la criniera, dovendo uscire da solo, ma… sembravano un po’ troppo – non avrebbe saputo spiegarlo – smorti? per essere davvero i suoi.
Lui si muoveva lentamente.
Non parlava e sembrava che a stento respirasse.
Scorgeva la sagoma di un braccio ondeggiare lungo un fianco.
Il braccio sinistro non c’era.
Improvvisamente agitato, Tom piantò le unghie sullo schienale del divano e scattò in piedi, allungandosi verso la luce. Quando fu accesa, l’agitazione divenne paura. E poi tristezza. Ed infine un misto di qualcosa che non avrebbe saputo definire neanche a scomporne le parti come in un’equazione chimica: ma faceva male da morire. Nel centro del petto e nello stomaco e nella gola e sotto le palpebre ed in qualsiasi altra parte del corpo.
- Dio… - mormorò sconvolto, muovendosi verso di lui il più velocemente possibile, per quanto quella sensazione devastante lo bloccasse fin nel profondo, - Dio, Bill… che cazzo… che ti hanno fatto…?
Suo fratello non rispose al suo sguardo. Strinse con una certa vergogna il braccio fasciato al petto, come volesse nasconderlo sotto la giacca leggera, e socchiuse gli occhi.
Non aveva più i suoi enormi occhiali.
Non aveva più la sua enorme borsa.
Perfino la lucentezza del suo sguardo sembrava scomparsa del tutto.
- Bill, chi è stato? – chiese, sfiorando con riverenza un enorme livido giallastro sullo zigomo destro, - Cristo, dimmi chi è stato, Bill. Amore, dimmi chi è stato.
Si chinò su di lui, passandogli una mano fra i capelli e poggiando la fronte contro la sua, alla ricerca dei suoi occhi.
Bill non parlava. Non lo guardava. Si mordeva un labbro e sembrava da tutt’altra parte, perso in chissà che pensieri.
- Bill… - lo chiamò ancora, posandogli un bacio leggero sulla guancia tumefatta, - Vieni… vieni di là, dai, ci mettiamo del ghiaccio e-
- Non c’è bisogno. – rispose lui, un po’ incerto, rilassandosi a fatica fra le sue braccia, - Sono… sono già stato in ospedale.
- Sì, questo lo vedo… - annuì Tom, sfiorandogli il braccio fasciato, - Cos’è? Distorsione?
- No, contusione. Ma fa troppo male, quando lo muovo, perciò il dottore l’ha immobilizzato.
Tom annuì stancamente, stringendolo a sé. Bill lo lasciò fare e, quando Tom sentì il suo sospiro di sollievo infrangersi contro la propria pelle accaldata, per un secondo il disagio e la paura svanirono e rimase solo il sollievo del tepore della sua pelle.
Sorrise.
- Scusami. È stata colpa mia. – mormorò fra i suoi capelli, spingendosi indietro per raggiungere le sue labbra e sfiorarle appena con le proprie, - Non dovevamo litigare. Non dovevo portarti qui, tanto per cominciare. Non sai quanto mi dispiace.
- Tomi, io devo… - cominciò Bill, mordendosi l’interno di una guancia, - …devo dirti una cosa.
Immaginò volesse raccontargli come si fossero svolti i fatti.
Annuì e strinse la sua mano destra fra le proprie, conducendolo dolcemente fino al divano, dove lo invitò a sedersi, prendendo posto al suo fianco.
- Dimmi tutto. Cos’è successo?
- Non… - deglutì faticosamente Bill, - Non è importante, però c’è una cosa che devi assolutamente sapere.
- Col cazzo non è importante, Bill! Ti hanno picchiato, Cristo, è importante!
Bill abbassò lo sguardo e rilasciò un sospiro di resa.
- Ho incontrato questi tre tizi, al Tresor. Erano… non sembravano così male. All’inizio ho creduto che mi avessero preso per una ragazza, e sai, ho retto il gioco. Volevo… - ridacchiò, - avevo in mente questo scherzo stupidissimo, aspettavo che mi chiedessero come mi chiamavo, sai? Avrei abbassato gli occhiali da sole, fatto la voce scura e risposto “Bill”, e… - scosse il capo, - Che sciocchezza, vero?
Tom si sporse verso di lui e lo strinse a sé, aiutandolo ad accomodarsi contro il suo petto.
- Non essere stupido. – lo rimproverò, - Volevi solo divertirti. Non è stata colpa tua se quegli stronzi ti hanno picchiato. Perché cazzo l’hanno fatto?
Bill deglutì ancora. Tom ne sentì il suono contro il petto, e lo percepì irrigidirsi fra le proprie braccia.
- Non mi hanno chiesto il nome, sai, Tomi? Ora che ci penso… - mugugnò confusamente, - è un’altra prova del fatto che almeno loro dovessero conoscermi.
- …li conoscevi?
- Io no. – si affrettò a precisare lui, agitato, - Cioè, non credo. Loro, però… sapevano del compleanno, Tomi, e… questo è strano, è… strano e basta, intendo, la data del nostro compleanno… credevo che, a parte i nostri amici, parenti e conoscenti, la conoscessero soltanto le fan, e invece…
- Bill, ma… ti hanno pestato e poi fatto gli auguri? Ma che cazzo-
- No. – scosse decisamente il capo lui, - Siamo usciti dal club ed io forse ero un po’ brillo e… un po’ troppo a mio agio. Non ho fatto attenzione, non me ne sono accorto quando siamo finiti in quella cazzo di strada senza lampioni, e…
- Bill…?
- …e sì, mi hanno picchiato. E poi… - nascose il volto fra le mani. Tom non seppe dire se fosse per cancellare le lacrime o per vergogna. – Mi hanno violentato, Tomi. Cristo. Mi hanno violentato.
La suite al Millennium, vista dal divano che avevano spostato in un angolo del salotto, sembrava completamente devastata. Ancora in preda allo stordimento da sonno alcolico, s’era separato da Bill – che aveva risposto mugolando contrariato ed arricciandosi a palla contro un bracciolo – ed aveva sollevato il capo, ricordando distrattamente che, la sera prima, David aveva detto loro che quella suite era vietata ai minori di quattordici anni per evitare potessero causare danni.
Aveva sorriso brevemente, immaginando David dovesse aver dimenticato il proprio stesso avvertimento quando, nel bel mezzo di un delirio da vodka, aveva cominciato a fare l’equilibrista sull’orlo del tavolo circolare in legno che, colmo di bottiglie e bicchieri vuoti e rovesciati, dominava il centro della stanza.
Tom aveva sospirato con soddisfazione, cominciando lentamente a lasciar riaffiorare alla memoria i ricordi della sera prima.
Prima di tutto, erano arrivati Georg e Gustav. Non avevano resistito neanche mezz’ora nelle loro camere. In effetti, quando avevano deciso in quale suite si sarebbe tenuta la festa, la scelta era caduta su quella di Bill senza nemmeno un ripensamento: quella stanza era grandiosa. Oltre alla camera da letto c’era un salotto spaziale, poltrone, divani enormi, la TV satellitare, era semplicemente grandiosa, ecco. Si respirava ricchezza perfino ad annusare la trama del tessuto dei cuscini.
Da quando erano arrivati negli Stati Uniti, erano stati in alberghi piuttosto normali. Niente di stratosferico. Ma per il loro compleanno, aveva detto David, “facciamo le cose in grande: scappiamo dall’uragano Gustav, torniamo ad LA e, se proprio dobbiamo bere aranciata, visto che qui la maggiore età ve la dimenticate almeno fino al duemiladieci, almeno la berremo comodamente sprofondati in divani da quattromila dollari”.
Lui e Bill avevano mugolato pietosamente non poco, sulla questione dell’aranciata, ma David era stato irremovibile. “Vorrete mica aprire la vostra sfolgorante carriera da rockstar internazionali con un arresto?”, li aveva terrorizzati gratuitamente, ghignando in quel modo stronzo che dava loro da pensare: vorrà mica denunciarci lui in prima persona?
Non avevano potuto fare altro che arrendersi, perciò, quando Georg e Gustav avevano invaso la suite ed attaccato la Wii alla TV, loro avevano tirato fuori dal minifrigo Redbull e Coca-Cola, e s’erano dati alla pazza gioia. Andreas era arrivato una buona mezz’ora dopo, accompagnato da Tobi direttamente dall’aeroporto, ed aveva fatto irruzione all’interno della camera strillando che quello era il posto nel quale voleva vivere, procreare e morire, per poi magari essere seppellito sotto la piscina coperta a piano terra. Appena Tom aveva mugolato un ew e Bill l’aveva rimproverato – “non osare parlare di morte il giorno del nostro compleanno, stronzo!” – Andi li aveva zittiti entrambi sventolando sotto i loro nasi i soliti regali perfetti – quell’anno, due magliette coordinate, rosse e bianche, “una s, l’altra con non ricordo quante x” – e la cosa era ulteriormente degenerata quando aveva cominciato a pretendere di giocare a Cooking Mama mentre loro avevano già una partita in corso a Battle of the Bands.
Jost era arrivato a porre un freno a tutto questo entrando in camera senza bussare, portando fra le mani un sacchetto da supermercato completamente ripieno di succo di frutta.
“Ragazzi! Le bibite!”, aveva detto trionfante. S’era guardato intorno con aria furba, prendendo nota del loro disappunto mentre realizzavano che sì, non ci sarebbe stato dell’alcool quella sera, e subito dopo aveva ghignato malefico e posato per terra lo zaino che teneva sulle spalle. “Questi, invece, per correggerle.”, aveva aggiunto aprendo la zip.
Quando era venuta fuori la vodka, Tom aveva pianto di gioia. E chiesto a David se volesse sposarlo.
Il giorno dopo, con la luce del sole a fare breccia fra le tende ed i postumi a bussare con insistenza alle porte della sua coscienza, la cosa sembrava ancora divertente, ma pure un po’ ridicola e imbarazzante.
Anche se la cosa più ridicola e imbarazzante, probabilmente, era stata un’altra.
Ridicola e imbarazzante, ma dolcissima.
Alle cinque di mattina, lui e Bill erano già diciannovenni da un pezzo, completamente ubriachi e pure completamente svegli, però. Avevano osservato tutti i loro compagni di bagordi andare giù uno dopo l’altro come pere cotte – Gustav e Georg spaparanzati sul letto continuavano a tirarsi calci e gomitate alla ricerca di un po’ di spazio, David aveva abbracciato il minifrigo e ronfava profondamente sbavando sulla moquette ed Andreas stava riverso per terra perfettamente immobile, al punto da preoccuparli pure un po’. Ma era la loro festa, il loro grande momento, e non c’era nessun motivo di preoccuparsi di niente: la vodka nelle vene rendeva tutto molto più allegro.
Stiracchiandosi sul divano, Tom aveva indicato il lettore DVD portatile.
“Guardiamo The Notebook?”, aveva chiesto con un mezzo sorriso.
Bill aveva riso di cuore.
“Ma è tardissimo!”.
Tom aveva scrollato le spalle ed afferrato l’apparecchio, accendendolo senza una parola di più ed accomodandosi docilmente fra le sue gambe, la testa contro il suo petto come fosse stato lo schienale di una sedia.
Sui titoli di coda, centoventitre minuti dopo, la prima lacrima di Bill era caduta dall’alto e s’era infranta contro la sua, che aveva già cominciato a rotolare silenziosa lungo la guancia.
“Ehi…”, aveva mugolato guardandolo dal basso e sollevando una mano ad accarezzargli il viso, “Non piangere, su…”.
“Piangevi anche tu.”, era riuscito a singhiozzare Bill.
“Nah, è la tua lacrima che è caduta su di me”, aveva precisato con presunzione. Poi aveva sorriso e s’era rimesso dritto, voltandosi a guardarlo. “Sai che sei bello anche quando piangi?” gli aveva detto, sottovoce e soprapensiero, prima di chinarsi ad asciugare ogni lacrima con le labbra.
“Tomi…”, s’era lamentato Bill, socchiudendo gli occhi, “Sei uno scemo”.
E Tomi era stato così scemo che s’era chinato ancora un po’ e l’aveva baciato.
Non erano andati oltre, ma non erano nemmeno tornati indietro: le loro labbra s’erano come fuse in un’unica bocca; il loro sapore – alcool e succo di frutta – era del tutto identico. L’unica differenza, due piercing diversi e complementari: quando gli scivolava sulle labbra, la pallina di metallo sulla lingua di Bill si incastonava come un diamante nel suo anellino. Tintinnavano e stavano stretti come in un abbraccio.
E loro avevano fatto lo stesso. Per tutta la notte.
Non c’era stato niente da chiarire, e dopo, come aveva riflettuto spesso Tom, era stato un po’ come mettersi con la propria migliore amica: ti sbronzi e la baci, capisci che ti piace, pensi “magari non mi sta solo simpatica, magari è un qualcosa di diverso”, e senza che tu te ne accorga sei già stregato.
Con Bill era simile, ma migliaia di volte più potente, perché il sentimento che Bill provava si rifrangeva nel proprio e tornava indietro amplificato. E così via, sempre più forte, in un’onda continua che li teneva sollevati da terra e in completa balia della luce nei loro occhi.
Non c’era stato niente da chiarire. Niente da spiegare.
Nessuno aveva sospettato niente perché, in effetti, non c’era nulla da sospettare, dal momento che nulla era davvero cambiato. Vivevano già da soli. Avevano già la casa a Berlino. Uscivano già insieme ed erano già inseparabili.
Ciò che era cambiato apparteneva alla notte ed era solo loro: i baci e le carezze e le parole sussurrate piano fra i capelli e sulla pelle. Quelle erano cose private e non c’era bisogno che venissero alla luce. Loro, al buio, erano sempre stati bene.
E dire che non era la prima volta lo vedesse conciato così: gli anni del liceo erano stati per Bill quasi una palestra – o comunque un campionato di lotta libera. Non che mancassero i giorni tranquilli, ma era indubbio che, quando suo fratello finiva coinvolto in una rissa, cadeva a terra, sì, ma non prima di avere staccato qualche testa a morsi. Perciò non era la prima volta che lo vedeva così pesto e sfigurato.
Però erano anni non accadesse in maniera così evidente.
Dal 2005 al 2009, nessuno aveva avuto il coraggio di sfiorare Bill neanche con un dito. Perfino Jost, che pure, alle volte, ne avrebbe avuto tutti i motivi, s’era sempre frenato, preferendo le parole al sonoro ceffone che avrebbe risolto i suoi problemi alla base.
Bill era l’asso. Il capo. L’intoccabile.
Non che avesse sempre ragione o gliela dessero sempre vinta, ma la repressione fisica non rientrava fra i metodi educativi ai quali la Universal intendesse affidarsi per tirarlo su.
Perciò il viso perfetto di Bill era rimasto il viso perfetto di Bill per quattro lunghissimi anni.
E adesso il viso perfetto di Bill non era più il viso perfetto di Bill. Era livido e malconcio. Bill era livido e malconcio. Irrimediabilmente ferito. Stretto fra le sue braccia, immobile e arreso, senza un singhiozzo. Le lacrime le sentiva sulla pelle, ma non udiva niente.
- Tomi, c’è una cosa che devo assolutamente dirti. – sospirò suo fratello, sollevandosi appena e lasciando una scia salata e bagnata lungo tutto il suo collo. Tom non disse niente, si limitò ad annuire e stringerlo con forza fra le braccia. – Mentre lo facevano… Tom, è successa una cosa orrenda, io non so se riuscirò mai a… - lo sentì deglutire incerto.
- Bill. – lo fermò, passandogli due dita sullo zigomo, cercando di non fargli male, - Non devi parlarne per forza. Se non ci riesci, per me è okay. In ogni caso, quello che hai dentro… io lo sento. Lo sai.
Bill esitò lievemente e poi stirò un sorriso perso e vuoto che lo disturbò profondamente.
Ma era un sorriso, in fondo.
Tom annuì e provò a farselo bastare.
Per la verità, quel Monopoli era stata una scelta di comodo. Aveva intenzione di chiedere a Bill di passare un paio di giorni soli a Berlino, in occasione del compleanno, e sapeva già che Bill non l’avrebbe presa bene.
Andreas aveva ragione: a Bill piaceva essere amato. Ed aveva un’idea di amore assoluta e talmente particolare che solo Tom avrebbe potuto capirla. Era talmente assoluta e particolare che Tom avrebbe potuto provarla solo per lui. Non per una ragazza, non per un amico, per nessuno: solo per Bill. Era per questo, forse, che s’erano scelti a vicenda.
Ma Bill voleva l’amore di tutti, a lui non bastava l’amore di Tom. Strapparlo ai propri affetti proprio nel giorno in cui quell’amore veniva fuori amplificato e depurato da qualsiasi screzio che potesse incrinarlo nella quotidianità, era effettivamente crudele.
Ma due gemelli potevano essere simili, non identici. E lui e Bill avevano un modo completamente diverso di vivere la possessività. Bill la pretendeva ma non aveva il coraggio di prendersela con la forza. Tom invece poteva farne a meno, il più delle volte, ma quando ne aveva bisogno la prendeva e basta. La stringeva fra le dita fino a sentirla pulsare in sincrono coi battiti del proprio cuore.
Il polso di Bill pulsava nello stesso identico modo, mentre lo tratteneva furiosamente alla stazione, sul treno e nel taxi fino a casa.
La scatola del Monopoli era chiusa. Sotto plastica e sotto vuoto.
Anche il salotto sembrava sotto plastica e sotto vuoto.
Bill, scosso da un sonno agitato, teso e nervoso, che lo faceva sentire inspiegabilmente a disagio – avrebbe solo dovuto essere preoccupato, no? Triste, al massimo. Ma a disagio? – rimaneva arricciato al suo fianco, sul divano.
Non aveva voluto andare a letto. Tom non se la sentiva di muoverlo.
Non se la sentiva di muoversi.
Per un attimo, pensò di alzarsi e buttare il fottuto Monopoli nel cestino dell’immondizia.
Non se la sentì di fare neanche quello.