Genere: Introspettivo.
Pairing: Davide/Mario.
Rating: R.
AVVERTIMENTI: Slash, Angst.
- "'Ho bisogno di aiuto. Rovino sempre tutto.'"
Note: Duuunque. Prima di tutto, sono molto emozionata, perché raramente mi capita di scrivere le storie come ho scritto questa, praticamente tutta d'un fiato. Sentivo proprio il bisogno di buttarla fuori, e farlo è stato molto piacevole, ma anche molto doloroso. *ride* Avrei forse potuto scavare dentro questi due ancora un po' di più, ma già solo grattando la superficie sono venute fuori tante di quelle problematiche che mentre scrivevo mi sentivo sopraffatta io per prima, quindi Davide e Mario si sono un po' chiusi a riccio mentre cercavo di tirare fuori tutto il resto. Cercate di capirli, non stanno bene.
Il titolo - in genere mi secca spiegare i motivi dei titoli, ma stavolta lo sento necessario XD - è questo perché una volta mentre guardavo una trasmissione sul calcio inglese uno degli opinionisti presenti ha usato questa frase per descrivere Mario. Tradotto, sarebbe pressappoco tipo "saarebbe capace di litigare anche in una casa vuota", e - nel modo più doloroso possibile - l'ho trovata una frase molto azzeccata per descrivere Mario nella sua totalità. Perciò è rimasta.
Dedicata ad Ary, prima di ogni cosa. Perché l'ha voluta con una forza che ha stupito me per prima, ed il suo pensiero è stato ciò che mi ha dato forza sufficiente per concluderla senza spararmi in bocca. XD Grazie. :*
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YOU’D START A FIGHT IN AN EMPTY HOUSE

Il capitano – Mario ha appena il tempo di pensare la parola che subito gli tocca correggersi: Zanetti – è invecchiato tantissimo, tanto da fare impressione, tanto che non sembra nemmeno che a separarli adesso ci sia il vuoto di poco meno di dodici mesi. No, la voragine sembra ben più ampia e profonda, quindici, vent’anni, si direbbe, a cercare di scorgerne il fondo sporgendosi dalla cima del crepaccio. Ogni anno un chilometro, e visto che non è vero che sono passati quindici anni, dall’ultima volta che si sono visti, ogni mese è stato un anno. Ogni mese un anno, ogni anno un chilometro, ogni chilometro una ruga scavata sul contorno dei suoi occhi, all’angolo delle sue labbra, nel piccolo tratto di fronte fra le sue sopracciglia.
Sorride, comunque, Zanetti – Mario ha appena il tempo di pensare il nome che subito gli tocca correggersi: il capitano – e mostra le sue rughe con lo stesso orgoglio con cui mostrerebbe delle cicatrici di vecchie ferite di guerra. Forse perché un po’ lo sono, quelle rughe, cicatrici, ferite di guerra, e lo dimostra il fatto che l’anno scorso non c’erano, o meglio, c’erano ma non così tante e nemmeno così profonde, e invece l’anno che è appena passato sembra avergli calpestato il viso al solo scopo di ricalcarle con più forza che mai.
È stato un anno pesante. Per tutti.
- Come mai sei venuto a prendermi tu? – si azzarda a chiedere dopo dieci minuti di silenzio infantilmente impaurito, lanciando un’occhiata al minuscolo spazio che separa i loro due sedili dentro l’automobile e vedendo in quello spazio per un secondo la voragine che fino a pochi istanti prima aveva soltanto immaginato.
- Davide mi ha chiesto un favore. – risponde lui, stringendosi nelle spalle ed imboccando la strada per il vecchio appartamento che Davide e Mario dividevano prima che entrambi prendessero strade troppo diverse per poter essere conciliate ancora.
- Lui non poteva venire? – domanda curiosamente, inarcando un sopracciglio. Javier, il capitano, quest’uomo di cui Mario ricorda il profumo e la forma e che è invecchiato in così poco tempo così tanto da far paura, si concede una risatina ed una scrollata di spalle.
- Così mi ha detto. – risponde, - Doveva sistemare casa. In fondo, anche lui non è tornato che da un paio di giorni. Io, comunque, sospetto che semplicemente non volesse vederti. Non così presto, almeno.
Lo sguardo di Mario si fa cupo, quasi offeso. La distanza fra lui e Zanetti aumenta, se non altro perché lui si tira indietro di un paio di centimetri, quasi schiacciandosi contro lo sportello.
- Come sarebbe a dire? – ringhia, - È stato lui a chiedermi di venire.
- Davide ha fatto quello che riteneva di dover fare. – risponde Javier con un mezzo sospiro, - O di volere. Ma non puoi certo biasimarlo se l’idea di vederti lo spaventa. È passato molto tempo.
- Solo un anno. – borbotta Mario in risposta, - Non è poi così tanto.
- Be’, vedila così, - ridacchia Zanetti, fermando la macchina davanti al portone del palazzo, - a volte succedono più cose in dodici mesi che in dodici anni. E in fondo non sono le cose che succedono che determinano quanto tempo è passato?
Mario si mordicchia un labbro, abbassando lo sguardo e riflettendo sulle sue parole. Odia la sensazione di avere a che fare con persone più sagge di lui, probabilmente perché per qualche motivo ha sempre identificato la saggezza con l’intelligenza, ed esserne così palesemente sprovvisto – di saggezza, ma forse anche di intelligenza – l’ha sempre messo in una posizione di svantaggio rispetto agli altri. Forse è anche per questo motivo che è andato via dall’Inter. Non si trova bene, con le persone sagge, perché quelle stanno sempre un passo avanti a lui. Tutte. Può essere doloroso, quando non c’è nessuno che si senta in dovere di fermarsi ad aspettarlo.
- Mi dispiace per quello che è successo. – dice a mezza voce, tornando ad alzare gli occhi su di lui. Zanetti, però, non capisce a cosa si stia riferendo, ed inclina lievemente il capo, stupito. – Per lo Scudetto perso, dico. Cioè, vinto dal Milan. Mi è dispiaciuto per voi.
- Ah, davvero? – ride lui, incredulo, - E io che quasi ti vedevo brindare.
- Non ho detto che non sono stato felice della vittoria del Milan. – ribatte Mario in un ringhio basso e incattivito, - Ho solo detto che mi è dispiaciuto per voi.
- Mi riservo il diritto di non credere a nessuna delle due cose. – ritorce Javier, ma il suo sorriso adesso è più dolce, tenero, quasi paterno, e Mario non riesce più a percepirlo come una minaccia, né tantomeno a sentirsene offeso. – Comunque, sei arrivato. – aggiunge, indicando il portone del palazzo con un cenno del capo.
Mario guarda fuori dal finestrino, e per la prima volta da quando è arrivato a Milano riesce a sentire la paura. Risale lungo il suo corpo all’improvviso, piantandoglisi nella carne come usasse artigli per arrampicarsi lungo le sue gambe, i suoi fianchi e il suo petto, per arrivare alla gola e mordere, succhiargli via l’aria come un vampiro e lasciarlo lì, inerte, senza sapere cosa fare.
Riesce a capire perché Davide, improvvisamente, abbia perso tutta la voglia che aveva di vederlo. L’ha appena persa anche lui.
Eppure, è ormai tardi per tornare indietro. Perciò deglutisce, annuisce e poggia due dita sulla maniglia, pronto ad aprire lo sportello per uscire.
- Ci rivedremo? – chiede, voltandosi un’ultima volta verso Zanetti. Lui sorride, allungandosi a stringerlo fra le braccia. La paura e la tensione scivolano via così com’erano arrivate, e il processo inverso è altrettanto doloroso.
- Se vorrai. – risponde, prima di lasciarlo andare.
Mario è certo che vorrà. Sempre che riesca a sopravvivere alle prossime ore.
*
Davide lo lascia entrare dopo un saluto stentato, scansandosi appena. Mario è costretto ad infilarsi nella sottilissima intercapedine fra la porta e lo stipite, portandosi dietro il borsone quasi aderente al fianco, perché Davide non sembra granché incline a concedergli uno spazio maggiore. E se questa è una metafora, non sarà una vacanza piacevole.
- Non mi aspettavo che mi invitassi a passare le vacanze con te, dopo tutto quello che è successo. – dice, posando il borsone sul pavimento all’ingresso e grattandosi la nuca con aria imbarazzata. È a disagio, e come sempre quando si sente in questo modo non riesce a tenere a freno la lingua. Gran bel modo di salutare Davide quello di rivangare in un colpo solo tutto il fango che è franato fra loro da quando lui è andato via.
- Già, nemmeno io. – taglia corto lui, facendogli strada all’interno dell’appartamento come se Mario ne avesse veramente bisogno, come non ne ricordasse a memoria ogni centimetro. Mentre lo accompagna verso la sua vecchia stanza – quella che, quando stavano insieme, avevano presto smesso di usare, perché Davide aveva il letto a una piazza e mezzo in camera sua, e lì si stava decisamente più comodi – si concede il lusso di osservarlo di sottecchi, scrutando il suo profilo, la sua espressione, l’inquietante fissità del suo sguardo. È cresciuto anche lui, forse perfino invecchiato, come il capitano. La barba sulle sue guance adesso è definita e netta, il che vuol dire che è stato lui a volerla lì esattamente com’è. Quando è partito, gli unici momenti in cui si poteva vedere Davide con la barba erano quelli in cui dal letto si trascinava in bagno per radersela, o quando era troppo stanco per provvedere e quindi la lasciava lì a crescere per qualche giorno, ma poi il fastidio che provava portandola era tale che prima passava ore a toccarsela come se questo da solo fosse sufficiente per farla sparire, e poi, stanchezza o no, in bagno ci si trascinava comunque per levarla tutta.
Era carino, Davide. Ci teneva ad avere sempre le guance lisce, per lui. Una volta gli aveva anche confessato il perché, e nel sentirgli dire che così magari poteva sembrare meno uomo di quanto non fosse Mario aveva avuto i brividi, e se li era tenuti addosso per delle ore. Era un periodo complicato, quello, erano ancora due ragazzini, appena adolescenti, andavano a letto da poco, si conoscevano davvero da ancora meno, e Mario non aveva avuto il coraggio di dire a Davide che se avesse voluto una donna se la sarebbe andata a cercare, e l’avrebbe pure trovata, come d’altronde spesso succedeva quando faceva tanto di mettersi in piazza e mostrarsi un po’ in giro.
Ma Davide era ancora piccolo, aveva solo sedici anni. A sedici anni non sai davvero cosa vuoi, forse non sai nemmeno cosa sei. E Mario credeva di sapere così tante cose più di lui. E invece forse non era così.
- Sei pensieroso. – commenta Davide, restando immobile sulla soglia della porta, le braccia incrociate sul petto, - Come mai?
- Sto ricordando un sacco di cose. – risponde lui, lanciando un’occhiata alla camera illuminata dalla luce del sole che filtra dalla finestra spalancata facendo capolino da dietro le tende bianche e leggere. – Un sacco di cose che non ricordavo di aver dimenticato.
Davide si concede un sorriso amaro, scostandosi ancora di qualche centimetro per liberargli il passaggio.
- D’altronde, se avessi potuto ricordare che le avevi dimenticate, avresti ricordato anche di ricordarle. – butta lì in una mezza risata, e Mario gli fa eco con la propria voce, stringendosi nelle spalle.
- Mi sa di discorso senza uscita, questo. – sospira, e poi lo guarda a lungo, incerto. – Davide, senti, sto sognando? – domanda quindi a bassa voce, quasi avesse paura che chiederlo potrebbe spezzare l’incantesimo, svelare che è un sogno davvero, e costringerlo a svegliarsi nel proprio letto, a Manchester, solo nel buio vuoto della sua stanza. – Mi sembra tutto così irreale, ci sono cose fuori posto. Il capitano mi ha accompagnato qui ed era così strano. Mi sembri strano anche tu, adesso.
Davide lo scruta dubbioso, sospirando pesantemente.
- No, non è un sogno. – risponde, scuotendo il capo, - Mi piacerebbe che lo fosse, almeno potremmo svegliarci e forse ci rimarrebbe addosso una qualche sensazione piacevole. E invece niente.
- Ma perché mi hai voluto qui? – insiste Mario, la voce che si fa al contempo più forte e più incerta, incrinandosi appena, - Avremmo potuto continuare a non vederci, e forse dopo un po’ sarebbe passata. Passata davvero, intendo.
- …tu avevi bisogno di aiuto. – dice Davide, e le sue parole suonano come una confessione. Basse, meste, quasi contrite. Sembra che voglia chiedere scusa, ma Mario non ne capisce il motivo. – L’hai anche detto, no? – scrolla le spalle, tornando a guardarlo come se non gliene importasse poi granché, - Hai chiesto aiuto pubblicamente. Era la prima volta che succedeva.
- Ma non l’ho chiesto a te. – gli fa notare Mario. Ha paura di dirlo, anche se sa che è vero, perché non vuole più vedere gli occhi di Davide tingersi di quella sfumatura dispiaciuta. Eppure lo dice lo stesso, perché si sente di nuovo a disagio e non riesce più a controllarsi. Vorrebbe fiondarsi in camera e chiudersi la porta alle spalle, per rimanere solo con se stesso e smetterla di dire stronzate che fanno male a Davide, ma resta lì, pietrificato, e osserva le mani di Davide chiudersi a pugno in uno spasmo improvviso e doloroso, prima di tornare a rilassarsi lungo i suoi fianchi.
- Lo so che non l’hai chiesto a me. – risponde lui con un altro sospiro penoso, - Ma volevo essere io a farlo, comunque.
Mario trattiene il fiato e cerca di reprimere l’istinto di saltargli addosso, anche se non gli è ben chiaro che cosa vorrebbe fargli. Baciarlo, forse, forse picchiarlo. In questo momento, lo infastidisce essere lì, ma se prova ad immaginarsi in un altro luogo non gliene viene in mente nessuno che non lo deprima o che non gli faccia una paura fottuta. Pensa ad uno stadio pieno di gente che lo ama, pensa a casa dei suoi genitori, pensa al suo appartamento a Manchester, pensa a casa del Mancio dove ieri sera è andato a cena, pensa a San Siro e gli esplode il cuore, e tutto sembra così sbagliato se confrontato alla mattonella su cui sta adesso, in mezzo al corridoio di una casa che ha smesso di essere sua molto tempo fa e che invece lui sente ancora come tale senza riuscire ad impedirselo.
Avrebbe preferito che Davide si dimenticasse di lui per sempre. Che Hera fosse sufficiente, che Cesena fosse sufficiente, che i chilometri e il tempo fossero sufficienti a spazzare via dalla sua mente la sua immagine, il suo profumo, il tepore della sua pelle, ma evidentemente non è stato così.
Vorrebbe riuscire a dire qualcosa, una cosa qualsiasi, tutto pur di non rimanere là immobile e silenzioso, così imbarazzato e sbagliato e impaurito da volersi cancellare da solo dalla faccia della terra. Non è che voglia morire, non è che voglia sprofondare, vuole proprio sparire. Senza lasciare nessuna traccia, nemmeno nella memoria. Sarebbe molto più semplice, così. Per tutti.
- Be’, grazie. – riesce a scollare a fatica alla fine, abbassando lo sguardo e stringendo con forza le dita attorno ai manici del borsone. Davide non risponde, si limita a lasciarlo solo. Mario gliene è grato.
*
Durante la notte sogna, o forse ricorda, o forse entrambe le cose. È in vacanza, proprio come adesso, ma un milione d’anni fa. Davide l’ha invitato a passare l’estate a casa sua, cioè dai suoi, a Portomaggiore. Casa sua non è come l’aveva immaginata, è una specie di villetta bifamiliare in cui però abita una famiglia sola, persa in un punto della campagna ferrarese che somiglia poco a una campagna e molto a una grande azienda agricola in consorzio, o qualcosa del genere. Ci sono villette coi giardini, fienili, granai, stalle. Sulla curva dolce dell’orizzonte si intravedono perfino un paio di grosse fattorie, di quelle che a guardarle da lontano sembrano quasi fabbriche.
Ha conosciuto papà Mirco e mamma Renata, e anche loro sono molto diversi da come li aveva immaginati. Chissà, forse perché Davide è così vecchio dentro li aveva immaginati un po’ come dei genitori-nonni. Un po’ come i suoi genitori. Invece sono due tipi alla mano, lo hanno accolto con grandi sorrisi e abbracci strettissimi e profumati, e non hanno fatto domande di nessun tipo, neanche quando Davide ha detto loro che avrebbero dormito insieme, nonostante le stanze in più in cui si poteva sistemare.
Enrico non l’ha conosciuto, è in viaggio coi boyscout e non tornerà prima del mese prossimo, quando Mario sarà già tornato a casa propria da un pezzo, ma la casa è talmente piena di lui – di sue foto, delle medagliette che ha vinto, dei suoi giocattoli sparsi ovunque e mai messi a posto, come se sua madre volesse farglieli trovare esattamente come li ha lasciati, al suo ritorno – che quasi non si riesce a sentirne la mancanza, ed è come se fosse lì anche lui. Davide ha continuamente il suo nome in bocca, non fa che ripetere quanto gli dispiaccia non averlo trovato. Suo fratello, a suo dire, è un’esca formidabile per i pesciolini del fiume. Con una risata vagamente cattiva, dice che gli basta calarlo appena un paio di centimetri sotto la superficie dell’acqua per far sì che tutti i pesci accorrano a mordicchiargli le dita dei piedi. Mario lo guarda, un po’ sconvolto, e Davide ride, e Mario non saprebbe dire se Davide scherzi o meno, e questa cosa lo affascina terribilmente, e altrettanto lo spaventa.
Nel sogno, o nel ricordo, sono le cinque e mezza del mattino. Davide l’ha svegliato un’ora prima, scuotendolo con forza per le spalle ed obbligandolo ad alzarsi in piedi quasi tirandolo su di peso. Quando Mario gli ha chiesto perché, col tono lagnoso di un bimbo che non ha la minima voglia di andare a scuola, Davide ha sorriso e gli ha detto che vuole portarlo a pesca, ma devono muoversi in fretta.
Papà Mirco s’è alzato più o meno alla stessa ora, e quando Mario esce dal bagno, trafelato e con la maglietta infilata al contrario per la fretta, è già pronto. Gli chiede se abbiano intenzione di uscire a sgombri con lui in barca, ma Davide spunta all’improvviso alle sue spalle e declina l’invito. “Lo porto al fiume un paio d’ore, andiamo da soli,” spiega, e suo padre annuisce bonario, salutandolo con un bacio sulla fronte e uscendo in tutta fretta.
Dalla cucina viene fuori un odore buonissimo di torta di mele appena sfornata. Con l’acquolina in bocca, Mario segue quella traccia olfattiva col naso puntato per aria e gli occhi chiusi, ma Davide lo blocca sul posto, ridendo divertito. “Prendo un paio di fette e le mangiamo più tardi,” dice. Mario mugola scontento, ma non protesta.
Un’ora dopo sono già sulla riva del fiume. Davide sembra dormire, e invece è sveglissimo, solo che ha gli occhi chiusi, il capo reclinato all’indietro e le cuffie piantate così in profondità nelle orecchie da non sentire niente. Ogni tanto muove il capo al ritmo della musica che sta ascoltando. È un vecchio successo della Pausini, il volume è così alto che Mario non può fare a meno di ascoltarlo a propria volta, e seguire il testo con la mente, anche se la Pausini non gli piace. In realtà non gli piace quasi nessuna canzone il cui testo contenga parole riconoscibili. La musica lui la usa per non pensare, per perdercisi dentro quando balla in pista stretto ad una ragazza di cui non conoscerà mai il nome, qualsiasi cosa che contenga delle parole invece lo forza a tendere l’orecchio con attenzione, per cercare di carpirne il significato. È stancante quasi quanto stare a sentire la gente quando parla. La gente, per lo più, è incomprensibile. Mario fa una fatica incredibile a stare dietro a chiunque. Davide forse gli piace anche per quello, perché parla poco e quando parla dice cose per lo più semplici. È così piccolo. Così carino.
La luce del sole sembra avvolgerlo in un abbraccio quasi innamorato, la sua pelle brilla come quella di Mario non potrà mai fare ed in questo momento – così perso e sonnacchioso, con la canna da pesca che pende piantata contro la coscia e il cappellino che è perfettamente inutile, perché Davide i raggi del sole li prende dritti sul viso, sorridendo sfacciato mentre assorbe quei baci impalpabili con la stessa leggerezza con cui in genere assorbe quelli di Mario, sempre così diversi, così umidi, caldi, vividi e concreti da dargli i brividi – è così bello che a solo guardarlo a Mario viene voglia di piangere, perché c’è da non crederci a pensare che è suo.
“Ti annoi?” gli chiede Davide all’improvviso, senza nemmeno aprire gli occhi, e la risposta esatta sarebbe “no, perché posso guardarti”.
“Sì,” brontola invece, distogliendo lo sguardo, imbarazzato. “Sì, un po’.”
Davide ride. Il suono della sua risata risuona per tutta la valle, scrosciando come l’acqua del fiume che scorre poco sotto di loro. Posa la canna da pesca per terra e si lascia scivolare lungo il pendio scivoloso della riva, atterrando in acqua con un tonfo rumoroso. Si immerge fino al collo, poi prende un bel respiro e va sott’acqua, restando immobile per qualche secondo prima di riemergere, bagnato fradicio. Il cappellino scorre via assieme alla corrente. Non si è premurato di toglierlo. Averlo perso sembra non interessargli per niente.
“Vieni qui,” dice a bassa voce, stendendo le gambe e muovendo le braccia per nuotare sulla schiena verso il centro del fiume, lontano dalla riva, dove l’acqua è appena più profonda e non è necessario stare piegati sulle ginocchia per rimanere immersi fino al collo.
Mario non riesce nemmeno a staccargli gli occhi di dosso. È così bello.
- Sei così bello.
Apre gli occhi all’improvviso e non sta più sognando, e nemmeno ricordando. È lì, in quel momento, e Davide è seduto sulla sponda del letto, accanto a lui, e non osa toccarlo, ma lo guarda, e il suo sguardo in qualche modo riesce ad essere perfino più fisico del tocco delle sue dita. Mario trattiene il respiro.
- Che ci fai qui? – domanda, la voce arrochita dal sonno.
- Scusa. – risponde Davide, - Non ho saputo resistere. Mi mancavi, e saperti così vicino non mi ha aiutato a tenermi lontano da questa stanza.
Mario scatta a sedere, così impetuosamente che quasi lo colpisce con una testata.
- Vuoi che venga a dormire con te? – chiede precipitosamente, tanto che alla fine si ritrova perfino ad ansimare un po’. Davide scuote il capo.
- È meglio di no. – biascica confuso.
- Solo dormire. – prova Mario, come se questo potesse essere un incentivo per spronarlo a dire sì, - Non ti tocco.
- È questo il problema. – sospira Davide.
- E allora ti tocco! – insiste Mario, allungando una mano verso il suo braccio e stringendogli le dita attorno al polso con una forza inaudita, quasi sentendo le ossa scricchiolare sotto i polpastrelli. – Ti tocco, se vuoi.
- No, Mario. – Davide scuote il capo. C’è qualcosa di arreso e doloroso nei suoi occhi, e Mario non vuole più guardarli. Smette di stringerlo, e volta il capo. – Non è per questo che ti ho chiesto di venire.
Mario vorrebbe mettersi ad urlare e chiedergli perché, allora. Se vuole aiutarlo, non è questo il modo. Se vuole fargli male, ci sono modi meno crudeli. Se vuole ucciderlo, ce ne sono di meno dolorosi. Così non funziona, non funziona per niente. Non riuscirà a rivedere Zanetti, il capitano, Javier, perché non uscirà mai vivo da questa stanza.
- Lasciami solo. – dice in un mugolio straziato. Davide si alza ed abbandona la stanza di corsa, senza mai voltarsi indietro.
*
Il giorno dopo decidono di andare a piedi fino a San Siro. È chiuso e non c’è nessun motivo per cui dovrebbero volerci andare, ma ci vanno. Potrebbero prendere la macchina, ma è Mario a rifiutarsi. In qualche modo, l’idea di andarci a piedi suona alle sue orecchie come intraprendere un pellegrinaggio verso un luogo sacro.
Sacro per chi?, si chiede mentre cammina a sguardo basso, annoiato dalla strada sempre monotona – palazzi tutti uguali a sinistra, un muro ed oltre quello solo il vuoto a destra – non per lui, sicuramente, che fatica a trovare nella propria mente un ricordo positivo che sia uno legato a quel prato, a quegli spalti, a quegli spogliatoi. Eppure sa di aver vissuto anche momenti piacevoli, in quello stadio. Gli ultimi due anni – uno di sofferenza, l’altro di lontananza – sembrano averli cancellati tutti.
Come previsto, trovano il cancello chiuso.
- Neanche visite guidate, oggi? – borbotta Mario, visibilmente scocciato.
- Siamo in pieno luglio. – gli fa notare Davide, flemmatico, mentre studia la ringhiera di metallo che circonda tutta la struttura. – Scavalchiamo. – propone quindi, chiudendo i pugni attorno alle inferriate e cercando un appiglio col piede.
- Ma sei matto? – domanda Mario, spalancando gli occhi su di lui e poi voltandosi intorno, come spaventato dalla possibilità di vedere arrivare qualcuno, - E se ci vedono?
- Ma chi vuoi che ci sia oltre il custode? – minimizza Davide, giungendo in cima alla ringhiera ed appollaiandovisi, lasciando dondolare un po’ le gambe nel vuoto prima di scavalcare e lasciarsi ricadere sull’asfalto dall’altro lato, dritto sulle gambe e con le braccia allargate ai lati del corpo, come un ginnasta che atterra sui materassini dopo aver volteggiato agli anelli o alle parallele. – Dai, muoviti. – lo invita con un sorriso furbo. È più a quello che alla voglia di rivedere San Siro che Mario non sa resistere.
Scavalca a propria volta, anche se il suo atterraggio non riesce ad essere leggiadro come quello di Davide. Lo segue all’interno, ignorando la porta chiusa del museo per inoltrarsi lungo la rampa in salita che porta all’interno dello stadio. Potrebbero infilarsi negli spogliatoi, o nella sala vip, o in qualsiasi altro posto coperto, oppure potrebbero fermarsi sulle tribune, accomodarsi sui seggiolini e godersi il panorama – è incredibile quanto bello e imponente possa essere San Siro anche così silenzioso e vuoto – e invece no. Mario serra con forza le dita attorno alla ringhiera del primo anello, mordendosi un labbro e sporgendosi fin quasi a rischiare di cadere di sotto, mentre con gli occhi accarezza il manto erboso del campo, inspirando a pieni polmoni quel profumo così familiare di erba bagnata e plastica surriscaldata dal sole.
- Voglio scendere di sotto. – sillaba, allontanandosi dalla ringhiera per imboccare la prima porta che conduca nuovamente all’interno dello stadio. Davide lo segue con un sorriso, senza fretta, attraverso i corridoi e verso il tunnel, all’imboccatura del quale Mario esita per qualche secondo, lasciando scivolare una mano sulla parete ruvida in una carezza particolarmente timorosa. – Sai che ha un odore diverso? – domanda a mezza voce, perso nei propri pensieri.
- Cosa? – chiede Davide, ma il sorriso intenerito che gli piega le labbra lascia intendere che sappia già la risposta a quella domanda.
- San Siro, rispetto a tutti gli altri stadi in cui sono stato. – Mario inspira ed espira ancora, gonfiando il petto e cercando di trattenere l’aria il più a lungo possibile, prima di lasciarla andare. – Vado fuori. – annuncia quindi, e Davide si limita ad annuire.
Quando Mario riprende a muoversi, divorando i metri verso il cerchio di centrocampo con una fretta che qualche minuto prima non si sarebbe mai creduta possibile, lui resta indietro. Lo osserva fermarsi nel mezzo del campo, girare su se stesso e lanciare un’occhiata quasi intimorita alla folla di seggiolini vuoti che lo scrutano dagli spalti, e per un secondo ad entrambi pare di sentire lo stadio animarsi come fosse vivo, ed ogni sedia urla e fischia e tifa e San Siro canta con una voce sola un coro che inizialmente sembra incomprensibile, ma a Mario e Davide basta tendere l’orecchio ancora per qualche secondo per identificarlo. E Davide sorride, perché è sicuro che Mario stia ascoltando l’eco delle stesse note che in questo momento stanno riempiendo la sua testa.
- Non è possibile. – lo sente ridere, piegandosi sulle ginocchia ed espirando sfinito, - Ho le allucinazioni.
Solo allora si azzarda ad uscire dal tunnel, raggiungendolo dove si trova ed appoggiandogli una mano sulla spalla.
- Bentornato. – gli sorride. Mario ricambia con un sorriso identico.
- Grazie.
*
Restano lì seduti nell’erba per almeno un paio d’ore. Prendono il sole, Mario ogni tanto si stende, poi torna a sedersi. Sente l’erba sotto le dita e tutto intorno e periodicamente starnutisce.
- È troppo presto per chiederti perché fai le cose che fai? – domanda Davide dopo un’oretta circa di silenzio assoluto, spezzato solo dal cinguettio degli uccellini nascosti in alto sotto le coperture degli spalti. Mario in quel momento è tornato a distendersi, e guarda il cielo azzurro e terso dell’estate farsi enorme sopra di lui.
- Credo di sì. – risponde incerto, - Il fatto è che non ho una risposta a questa domanda, in realtà non ce l’ho mai avuta, quindi non so se adesso è presto. Intendo, - si volta sulla pancia, piantando i gomiti per terra e voltandosi a guardare Davide, - puoi dire che è “presto” per qualcosa quando sai che prima o poi i tempi saranno maturi. Io invece non so se avrò mai la risposta a questa domanda, quindi non so dirti se sia presto. È possibile che non riesca a risponderti mai.
- Perché hai così paura di provare a cercarla, questa risposta? – insiste Davide, mettendosi nella sua stessa posizione per guardarlo negli occhi alla sua stessa altezza. Mario si lascia sfuggire un sorriso triste.
- Perché è più comodo restare nell’incertezza. Quando scopri qualcosa poi non puoi più ignorarla.
- Sì, ma magari scoprire il perché di certi tuoi atteggiamenti ti aiuterebbe a non ripetere certi errori. – considera Davide, poggiando il mento sul palmo della mano aperta, - Oppure vuoi continuare a tirare freccette ai ragazzini delle giovanili e prendere una multa ogni due giorni? Ti sei divertito, a schiantarti contro quell’albero? Vuoi riprovarci e riprovarci ancora finché non ti riesce di crepare?
Il suo tono di voce s’è andato alzando e facendosi più concitato man mano che proseguiva nel suo monologo, e quando si ferma, serrando le labbra come spaventato dalla portata delle proprie stesse parole, il silenzio improvviso che cade sullo stadio è pesante e asfissiante come una colata di cemento.
- L’unico motivo per cui non mi decido a farmi fuori è che so che continuerebbero a parlare di me anche da morto. – dice quindi Mario, atono e vuoto, e Davide spalanca gli occhi, inorridito. – Anzi, - aggiunge ancora in un sospiro, - forse sarebbe pure peggio. Sarebbe molto meglio se potessi sparire senza lasciare traccia. Nessuno parlerebbe più di me, e io potrei riposare in pace.
Mario ha gli occhi bassi, e Davide ci mette un po’ a trovare tutto il coraggio che gli serve per parlare ancora.
- Da quanto tempo pensi cose come queste? – domanda, la voce scossa da un tremito terrorizzato. Mario fa spallucce, guardando altrove.
- Da quando ero ragazzino, più o meno. La gente ha sempre avuto la tendenza a parlare male di me. O forse, - aggiunge in un sorriso mesto, - forse io ho sempre avuto la tendenza a dare a chiunque il pretesto per farlo.
- Perché non me ne hai mai parlato?! – quasi strilla Davide, sporgendosi verso di lui ed allungando una mano per stringergli il mento fra le dita, obbligandolo a voltarsi e guardarlo dritto negli occhi, - Siamo stati insieme, Mario! Siamo stati insieme per quattro anni, e tu non mi hai mai parlato di una cosa simile? Perché?!
- Perché con te ero felice. – risponde lui, senza un attimo di esitazione. I suoi occhi sono scuri come il petrolio ed ugualmente torbidi, ma fieri e lucidi, e il suo sguardo è saldo, così come il tono della sua voce. – Eravamo due ragazzini, quando ci siamo incontrati la prima volta tu avevi sedici anni. Come avrei potuto dirti una cosa del genere?
- D’accordo, ma dopo? – insiste Davide, la voce spezzata da un singhiozzo e gli occhi lucidi di pianto, - Non ho avuto sedici anni per sempre. Avresti avuto tutto il tempo per—
- Ma non capisci?! – Mario si allontana da lui con un gesto stizzito, scattando prima a sedere, poi in ginocchio e quindi in piedi, guardandolo dall’alto con le braccia rigide lungo i fianchi, le mani strette a pugno con tanta forza da schiarirgli le nocche, - Stavamo bene, insieme! Quando ero con te riuscivo a dimenticare tutta la merda che avevo nella testa, la mettevo da parte ed era come non esistesse più! Non avevo il coraggio di dirti niente, perché se l’avessi fatto poi non ci sarebbe più stato modo di nasconderla, sarebbe stata lì sempre, ed io dovevo già sopportare di averci a che fare per troppa parte della mia vita per non conservare i momenti in cui ero con te tenendoli lontani da tutto quello schifo del cazzo!
Davide serra le labbra, incapace di continuare a frenare le lacrime. Vorrebbe dirgli qualcosa, ma Mario non gliene dà il tempo. Gli volta le spalle e corre via, come l’adolescente che è sempre rimasto, e Davide si concede un po’ di tempo da solo, sdraiato sull’erba di San Siro, per continuare a piangere ancora un po’ prima di seguirlo.
*
Quando torna a casa, lo trova seduto sul marciapiede a qualche metro dal cancello. Ha lo sguardo fisso nel vuoto davanti a sé, e non si muove neanche quando lo sente avvicinarsi e sedersi al suo fianco, nella stessa identica posizione. Il marciapiede è basso e costringe le gambe di entrambi – così esageratamente lunghe, come quasi tutte quelle dei ragazzi della loro generazione – a piegarsi quasi all’altezza delle spalle, i gomiti poggiati sulle ginocchia, le mani che pendono inerti, come appese ai polsi.
- Non ho pensato che non avevo le chiavi. – dice Mario, spezzando per primo il silenzio. Davide ride, e lui non può fare a meno di ridere a propria volta. – Sono una persona orribile. – dice quindi con un sospiro, - Lo so che avrei dovuto dirtelo. Forse il vero motivo per cui non l’ho mai fatto è che… da un certo punto di vista credo di meritarmi di sentirmi in questo modo. – aggiunge con una certa difficoltà, gli occhi che viaggiano veloci sul muro dall’altra parte dello stadio. Le scritte che celebrano la tripletta dell’Inter sono ancora visibili, qua e là, ma per la maggior parte sono state coperte da quelle più recenti dei festeggiamenti del Milan per l’annata appena conclusa. Mario osserva tutto questo e lo trova triste. Un’impresa tanto grande può essere davvero cancellata così in fretta da qualcosa di così palesemente meno epico, solo perché più recente?
La metafora è così scontata da apparire ai suoi occhi quasi fosse sottolineata da un evidenziatore: il tempo cancella tutto.
Ma allora perché non è riuscito a cancellare anche loro due?
- Pensi davvero di essere una persona orribile? – chiede Davide dopo qualche minuto di silenzio. Mario si volta a guardarlo e vede che anche i suoi occhi sono incollati al muro di fronte, e brillano di una luce triste e malinconica. – Vuoi sapere perché ti ho fatto tornare qui, pur sapendo che avrebbe fatto ad entrambi più male che bene? – sorride amaramente, abbassando lo sguardo, - Perché avevo bisogno di rimetterti le mani addosso. Di toccarti e di sapere che potevi ancora essere mio, che potevo ancora averti solo con uno sguardo o con una carezza. Avevo bisogno di convincermi che farti cadere fra le mie braccia potesse essere ancora facile come era sempre stato fino a due anni fa. Che avrei potuto guardarti anche solo di sfuggita e poi tu non mi avresti più staccato gli occhi di dosso finché non mi avresti avuto. – solleva di scatto il capo, piantandogli addosso un paio d’occhi che adesso bruciano come il fuoco, lasciando cicatrici invisibili sulla sua pelle già fin troppo martoriata in quel senso. – Non l’ho lasciata io, Hera, è stata lei a lasciare me. Ed io sono passato sopra al benessere di entrambi, il mio e il tuo, solo per rivederti un’altra volta, per sentire i tuoi occhi addosso e leggerci dentro che mi volevi ancora, perché da quando lei mi ha lasciato non riesco a smettere di pensare che non mi vorrà mai più nessun altro. Pensi di essere una persona orribile, Mario? Pensi di meritare di sentirti una merda? Bene, allora, se la pensi così, cos’è che pensi di me? Cosa merito io, ora che sai tutto questo? – la sua voce di spezza sull’ultima sillaba che pronuncia, sciogliendosi in pianto e in singhiozzi concitati che non gli lasciano nemmeno il tempo di riprendere a respirare fra una scossa e l’altra.
- …Dade… - mormora Mario, utilizzando quasi senza accorgersene il soprannome che era stato lui stesso ad affibbiargli anni prima, - Dade, tu non—
- E non ho avuto neanche il coraggio di fare qualcosa. – prosegue Davide, la voce ormai ridotta ad un lamento, mentre si appoggia con la fronte alla sua spalla, strusciando il viso contro il suo braccio nel disperato tentativo di nascondersi ai suoi occhi e forse anche agli occhi del mondo, - Quando finalmente ti ho rivisto non ho avuto neanche il coraggio di prendermi quello che volevo, perché il solo averti così vicino mi fa male in modi che non riesco neanche a spiegarti. – singhiozza ancora, allungando alla cieca le braccia verso di lui, e questo è abbastanza, per Mario, per fargli decidere di stringerselo contro, invitandolo a nascondersi contro il suo petto, che è più ampio del suo braccio, e può offrirgli una protezione maggiore. – Mi manchi da morire. Mi manchi da morire, Mario, anche adesso, mi manca quello che c’era prima. E potrò riavere te, forse, ma quello no, non lo riavrò mai. Ed è così orribile che solo a guardarti mi sento mancare l’aria.
Mario gli accarezza i capelli, abbracciandolo stretto, e si morde un labbro con forza, per potersi convincere che è quello il motivo per cui sta piangendo, e non il fatto che le parole di Davide gli stanno spezzando il cuore.
- Io non… - sillaba, cullandolo appena, - non avevo idea di tutto questo. Non ne sapevo niente.
- Sembra che nessuno di noi due sapesse molte cose, dell’altro. – singhiozza ancora Davide, tirando su col naso. – Ma noi di chi ci siamo innamorati, Ma’? Eh? Tu me lo sai dire?
La sua voce si perde in un sussurro sempre più spaventato e flebile. Mario chiude gli occhi, stringendolo con più forza.
- Non chiedermelo mai più, Dade. – lo implora, la gola stretta in una morsa che gli impedisce perfino di respirare.
Davide annuisce, allacciandolo al collo. Restano lì, incapaci di muoversi per paura di andare in pezzi, per più di mezz’ora.
*
La prima volta che aveva visto Davide era stata come una folgorazione. Si era sentito subito attratto da lui, come fosse una cosa perfettamente normale, e proprio come fosse una cosa perfettamente normale si era comportato, avvicinandoglisi ed assumendo fin da subito atteggiamenti di un certo tipo. Avrebbe dovuto essere più discreto, forse, ma il fatto era che non ci era per niente abituato – alla discrezione, naturalmente, non al sentirsi attratto da qualcuno, quella era ormai una realtà con la quale condivideva giornalmente, da quando era entrato nella pubertà, più o meno – e perciò tutti i suoi primi approcci dovevano averlo terrorizzato parecchio.
Davide era lì da più tempo di lui, ma era più piccolo ed aveva visto molte meno cose. Era, sostanzialmente, molto più impreparato di lui rispetto a certi argomenti, e tutto sembrava metterlo a disagio. Ogni attenzione, ogni premura, perfino quelle più elementari, che niente avevano a che vedere con l’aspetto più intimo della loro relazione – o meglio, quello che Mario avrebbe voluto fosse un aspetto più intimo, mentre fin dall’inizio si limitava ad essere solo uno scambio in cui Mario cercava di portarsi a letto Davide e quest’ultimo nicchiava, stringendosi nelle spalle e cambiando argomento ogni volta che si entrava in un territorio troppo pericoloso per poter essere attraversato senza paura – insomma, tutto sembrava gettarlo nell’imbarazzo più completo, ed era difficile cercare di avere a che fare con lui senza spingere i tasti che sembravano farlo chiudere a riccio istantaneamente, soprattutto perché pareva che di quei tasti il corpo di Davide fosse disseminato. Non c’era modo di avvicinarglisi senza schiacciarli inavvertitamente.
A Mario questo piaceva.
Fin dall’inizio, l’idea di poter esercitare questo tipo di potere su qualcuno l’aveva fatto sentire forte, potente. Bastava così poco per costringere Davide a reagire, e dopo un certo periodo, avendo imparato a conoscerlo meglio, era così divertente provare a prevedere cosa avrebbe fatto se sottoposto ad un determinato tipo di stimolo. Era divertente soprattutto rendersi conto di avere ragione, sentire sulla pelle di conoscerlo al punto da sapere perfettamente fin dove poteva tirare la corda senza che questa si spezzasse. Era un divertimento crudele, forse, ma Mario aveva diciassette anni e non era mai stato un bravo ragazzo. Per di più, non si sentiva neanche innamorato, all’epoca, per cui l’idea di comportarsi in un certo modo non lo disturbava, non si sentiva in colpa, non gli sembrava di ferire una persona cara con quell’atteggiamento. Era solo una cosa che faceva. Neanche una delle peggiori.
Erano stati il tempo e la vicinanza a cambiare tutto, a rendere ogni cosa più intima, più dolce, a costringere un sentimento prima assente a germogliare e poi crescere sempre più robusto e saldo sulle proprie radici. Ed è questo che Mario non comprende, adesso. Se tempo e vicinanza sono stati sufficienti per avvicinarli l’uno all’altro, com’è possibile che invece tempo e distanza non siano stati capaci di fare lo stesso? Il problema, si dice, alzandosi dal marciapiede e portando con sé Davide nel movimento, non può essere il tempo, perché quella è una costante che è rimasta identica. Forse il punto sta nelle distanze, allora. Che hanno un senso quando si accorciano, ma non ce l’hanno quando si allungano.
Il tempo probabilmente non serve a niente, è quello forse il punto della questione. E d’altronde, le scritte che festeggiano la tripletta dell’Inter non sono scomparse. Sono ancora lì. Nascoste, magari, ma persistenti. E in certi punti non hai neanche bisogno di scavare la superficie di quel muretto di cemento per scorgerle al di sotto delle scritte più recenti. E resteranno lì per sempre, anche dopo che quel muro sarà stato ricoperto da altre migliaia di scritte, anche dopo che sarà stato imbiancato, anche dopo che sarà stato abbattuto e sbriciolato, la polvere che ne sarà rimasta porterà dentro di sé ancora tracce della vernice usata per quei murales, e la gioia delle persone che hanno scritto quegli slogan resterà impressa nella polvere di quel cemento per sempre.
Sarà lo stesso, per lui e Davide. Sarà esattamente lo stesso.
Quando rientrano in casa, pochi minuti dopo, Davide lo guarda con gli stessi occhi con cui lo guardava quando aveva sedici anni e stargli vicino lo terrorizzava perché non riusciva mai ad immaginare in che modo l’avrebbe toccato. Mario gli sorride, si siede sul divano e lo invita a sedersi al proprio fianco. Davide è abbastanza dubbioso, ma non si tira indietro. Mario l’aveva previsto, e rendersene conto lo riempie di nostalgia, ma anche di tenerezza.
- Io sento di conoscerti ancora molto bene. – dice, stringendoselo al petto. Davide si sistema sul divano in modo da poter stendere le gambe oltre il bracciolo, appoggiandosi completamente contro di lui.
- Sì? – ribatte, - Io no. Vorrei farti tante di quelle domande, e non ho risposta per nessuna di loro. Ti ricordi com’era un tempo? – chiede, cercando i suoi occhi con uno sguardo spaurito e un po’ infantile, - Non avevo bisogno di chiederti niente.
- In realtà penso che non volessi chiedermi niente, perché ti facevo paura. – corregge Mario con un mezzo sorriso, - Non si può conoscere qualcun altro senza chiedergli nulla.
- Ma io le risposte a quelle domande me le sentivo dentro, era per questo che non avevo bisogno di chiederti nulla. – insiste Davide, aggrottando le sopracciglia, per poi lasciarsi andare ad un sospiro sconfitto. – Ma forse m’illudevo soltanto di conoscerti. Adesso mi sembri quasi un estraneo. Oltre che un pazzo.
- Perché ti sembro un pazzo? – ride Mario, riprendendo ad accarezzargli i capelli esattamente come stava facendo prima, sul marciapiede.
- Perché le cose che fai non hanno senso. – risponde Davide, - Puoi fare cose orribili, dentro o fuori dal campo, e due minuti dopo fare cose stupende, come quello che hai fatto per quel ragazzo vittima di bullismo… - sospira, - Tu forse non ti rendi conto di quanto assurdo sia il tuo comportamento, a volte. Sei uno stronzo o un santo? Scegline uno e basta! – protesta con piglio lamentoso, da bimbo, e Mario se lo stringe contro con più forza, ridendo divertito.
- Io non credo di potere. – ammette sinceramente. – La maggior parte delle cose che faccio, le faccio senza pensare. Scatta qualcosa nel mio cervello che mi spinge a fare certe cose piuttosto che certe altre. È la mia natura.
- È una natura incasinata. – lo rimprovera Davide, senza pietà. Mario ride ancora. – Cosa c’è di così divertente?
- Che è vero. – annuisce Mario, - È una natura incasinata, la mia. Vedi? Forse mi conosci, dopotutto.
Davide solleva una mano, tirandogli uno schiaffetto sulla nuca e poi sistemandosi meglio contro di lui, poggiando il mento sulla linea dolce che dalla base del suo collo parte per arrotondarsi nella curva morbida e definita della spalla. La mano con la quale l’ha schiaffeggiato resta lì, sulla sua nuca. Il gesto si trasforma in una carezza lenta e pigra, quasi le sue dita volessero farsi perdonare per quel colpo violento.
- Ho voglia di baciarti. – gli sussurra sulla pelle. Mario si ricopre di brividi e chiude gli occhi.
- Anch’io. – annuisce, stringendo la presa delle proprie mani sui suoi fianchi magri.
- Ma ho paura di farlo. – continua Davide in un mugolio spezzato, abbassando il viso fino a nascondersi quasi completamente contro il suo collo.
Mario sorride. La stretta diventa una carezza più morbida. Davide potrebbe alzarsi ed allontanarsi da lui in qualunque momento.
- Anch’io. – annuisce ancora, chinando il capo abbastanza da lasciargli un bacio lievissimo e asciutto su una tempia. Davide non si muove, resta lì nascosto. Quando si allontana, lo fa solo per tornare in camera propria.
*
Quando ne esce, Mario è chiuso in camera sua e sta preparando il borsone. Lo accoglie con un sorriso, e Davide gli sorride a propria volta, stringendosi nelle spalle.
- Mi dispiace per prima. – dice. Mario agita una mano davanti al viso, come a scacciare quelle parole, neanche fossero fumo, o insetti fastidiosi.
- Non dire sciocchezze. – aggiunge, riprendendo a sistemare le proprie magliette. È rimasto solo un paio di giorni, ma la tentazione di tirare fuori tutto e rimettere ogni cosa a posto nell’armadio e nei cassetti, quando è arrivato, è stata troppo forte per resisterle, motivo per cui ora si trova costretto a vagare per tutta la camera, aprendo qualsiasi cosa alla ricerca di biancheria ed indumenti che aveva sparso ovunque come se l’idea con la quale era arrivato fosse quella di restare per sempre.
Chissà, forse lo era davvero. Forse da qualche parte dentro di lui lo desiderava anche. Non sa se rendersi conto che non è ancora il momento sia una prova di maturità o solo un’altra di quelle cose che il suo cervello decide di fare sulla base di un capriccio o di uno stato d’animo momentaneo e particolare. Però sa che è giusto. In questo momento, partire è giusto, esattamente come due giorni fa è stato giusto tornare.
- Vai via? – chiede Davide, che ha sempre avuto una passione per sentirsi ribadire l’ovvio in faccia. Specie quando doloroso.
- Sì. – risponde annuendo Mario, - È meglio così.
- Non c’è bisogno che tu me lo dica. – lo rassicura Davide, e quando alza lo sguardo Mario vede che sta sorridendo. – Lo so.
Sorride a propria volta perché per un attimo, un singolo istante che forse s’è valso da solo la pena di questo viaggio e di tutto il dolore che ne è venuto fuori, negli occhi di Davide ha visto brillare il sole di Appiano, degli allenamenti con gli altri ragazzi in Primavera, di Pea e delle sue urla indemoniate da bordocampo durante le partite, della prima convocazione coi grandi, dei gol, delle loro esultanze particolari, delle vacanze nel ferrarese e di quelle nel palermitano, dei fiumi e delle loro acque dolci, del mare e del sale bruciante delle onde nelle ferite aperte camminando a piedi nudi sugli scogli di Capogallo e poi dimenticate il secondo dopo, del duemiladieci, di quella notte a Barcellona, di quell’altra a Madrid, di San Siro alle cinque del mattino, dei riflessi delle luci al neon sulla superficie sporca di baci e sudore e lacrime della coppa dei campioni d’Europa, dei giorni assolati di giugno, luglio e agosto e perfino del luccichio nostalgico e triste delle sue lacrime il giorno che è partito per Manchester. C’è tutto, all’improvviso è tutto lì. Mario deve solo diventare grande abbastanza da meritarselo, e sa che prima o poi ci riuscirà, e quel giorno non avrà più voglia di sparire, no, tutto ciò di cui avrà voglia sarà esserci.
- Adesso vado. – gli dice, passandogli accanto ed abbracciandolo stretto per salutarlo. Davide gli si scioglie fra le dita, inspirando il suo profumo a pieni polmoni e strusciando la punta del naso sulla pelle un po’ ruvida del suo collo.
- Mi devi un bacio. – gli sussurra piano, - Quindi vedi di tornare per saldare il debito.
Mario ride, accarezzandogli gentilmente la schiena.
- Promesso. – annuisce, prima di lasciarlo andare.
*
- Sono contento che tu mi abbia chiamato. – dice il capitano, ingranando la marcia e partendo a velocità sostenuta verso l’aeroporto, e stavolta, nel pensare quella parola, Mario non sente alcun bisogno di correggersi. Forse perché, anche se ora Javier Zanetti non è più per lui quello che indubbiamente, nonostante tutto, era un tempo, in qualche modo anche adesso la sua persona non smette di avere quella valenza, nella sua mente. E perciò non è il suo capitano, e forse non lo sarà mai più, ma senza dubbio alcuno lo è stato, e non ha senso cancellare quella parola dalla propria mente, in relazione a lui, perché il suo valore resterà identico negli anni indipendentemente da tutto il resto. Come la tripletta dell’Inter, come tutto il resto del suo passato, come lui, come Davide. – Mi sarebbe dispiaciuto che partissi senza salutarmi.
Per la verità, inizialmente, sul marciapiedi di fronte al cancello, il profumo di Davide ancora addosso e la sensazione quasi fisica dei suoi occhi a scrutarlo dalla finestra del palazzo, seminascosto dietro le tende in una posizione così vagamente infantile e così profondamente sua da costringerlo a sorridere intenerito, aveva pensato di chiamare un taxi. Di andarsene così, in silenzio. Ma la tacita promessa che lui e il capitano s’erano scambiati nel tragitto dall’aeroporto a casa di Davide l’aveva convinto a chiamare lui, invece. Perché se era un modo per diventare adulto, quello che stava cercando, sicuramente partiva da qualcosa di molto simile al cominciare a tenere fede alle promesse fatte.
- Tornerò. – dice, quando la macchina si ferma davanti a Malpensa, - Presto.
Javier annuisce, sorridendogli bonario.
- Non ho alcun dubbio a riguardo. – lo rassicura, posando una mano sulla sua e stringendo appena. È un gesto tenero, incoraggiante, per nulla invasivo. Mario gliene è grato, e lo dimostra con un sorriso. Poi spalanca lo sportello ed esce, trascinandosi dietro il borsone. La voce di Javier lo raggiunge ancora una volta quando lui è a pochi passi dalle porte scorrevoli oltre le quali la vita dell’aeroporto di svolge frenetica, pronta a risucchiarlo. – Mario! – lo chiama ad alta voce, e quando Mario si volta a guardarlo riesce a vedere solo uno spicchio del suo volto, sotto l’onda sempre perfetta dei capelli castani. – Ti stai facendo proprio un bell’ometto. – commenta, col tono sereno e orgoglioso di un padre. Mario sente gli occhi riempirsi di lacrime, ma decide di non piangere.
- Grazie. – sorride sinceramente, - Di tutto.
Javier lo saluta con un cenno del capo ed un altro sorriso, prima di rimettere in moto. Mario aspetta che sia sparito oltre il traffico del parcheggio, prima di entrare in aeroporto e dirigersi verso il banco del check-in.
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