Genere: Introspettivo.
Pairing: Fabio/Manuela.
Rating: NC-17.
AVVERTIMENTI: Het, Angst, Lemon, OC, Incest.
- Fabio e Manuela hanno vissuto insieme tutta la vita. Contro ogni legge della società e della genetica hanno costruito per se stessi un mondo paradisiaco in cui il loro legame di sangue non era che un dettaglio insignificante, un nodo in più fra tutti quelli che li tenevano uniti. Ma quando la mente di Manuela comincia a dare segni di cedimento, tocca a Fabio provare a tenerla insieme, costruendo legami nuovi, un mondo nuovo, un paradiso diverso per sua sorella, ed anche per se stesso.
Note: Dunque, inizialmente questa storia doveva parlare d'altro XD Per la precisione, doveva essere una specie di songfic su Little Talks, degli Of Monsters And Men. O comunque, se non proprio una songfic, quantomeno una storia che ricalcasse il nocciolo di quella canzone-- solo che, immediatamente, appena ho cominciato a scriverla, ho capito che no. Che stava andando da un'altra parte, ed al solito io l'ho lasciata fare perché è l'unico modo che conosco per scrivere XD
Per l'occasione, la voce narrante me l'ha regalata Fabio, e non so dire quanto è stato divertente, per me, questo piccolo viaggio all'interno del modo di pensare, parlare e vedere il mondo di quest'esserino che, per quanto io possa volergli del bene, è quanto di più lontano esista dalla mia visione della vita e degli eventi XD Mi sono concessa un po' di sano melodramma, un po' di sano dramaqueening, un po' di sana libertà e scioltezza assoluta nel lasciarmi guidare più dall'estetica e dalla musicalità di certe frasi che non dalla necessità di dare al tutto organicità e semplicità narrativa, e devo dire che mi sono divertita un sacco.
Grazie al Def, che mi ha giftato, e che anche questa volta ha fatto centro in pieno, con una copertina che è l'essenza stessa di questa storia, ed alla quale voglio particolarmente bene ♥
Per il resto, chiedo perdono per il papiro di note con cui vi ho sicuramente annoiati e vi ringrazio se vorrete dare una lettura alla mia storiella XD
Titolo rubato ad un verso della splendida Dumb Lovers dei Pearl and the Beard, citazione iniziale rubata alle parole di Fabio himself durante l'intervista pre-X Factor.
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
YOU ARE THE NORTHERNMOST POLE THAT AWAKENS THE COMPASS INSIDE

“Il tuo luogo preferito?”
“Ancora devo toccarlo.”

In questo angolo di spiaggia c’è silenzio ad ogni ora del giorno della notte, per tutta la settimana, in ogni periodo dell’anno. Quando siamo arrivati qui, cinque anni fa, il vecchio Surya ha scelto il posto appositamente per noi. “Non vi mettete sul lato a Nord della montagna, è affollato,” ci ha spiegato in un inglese quasi del tutto indecifrabile, “Venite, seguitemi,” ci ha fatto cenno con la mano, accompagnandoci verso una baia minuscola, al riparo da una parete di palme. Era lui, era il posto giusto, l’ho capito non appena l’ho visto. Nel suono delle onde che si abbattevano vigorose sulla riva che mi risuonava nelle orecchie, nel fruscio appena percettibile del sorriso di Manuela nel posare gli occhi sulla capanna diroccata che sembrava appoggiata sulle dune dalla mano di Dio in persona. Non sono mai stato un fervido credente, ho pregato, qualche volta, mi sono sentito abbandonato per lo più, ma ricordo almeno due momenti nella mia esistenza in cui ho chiaramente pensato che ciò che stavo vedendo era troppo perfetto per esistere senza un progetto divino alle spalle. Una delle due volte, naturalmente, si trattava di Manuela. E quel posto, mentre le stringevo la mano e lei si avvicinava appena, sfiorando la mia spalla con la propria, veniva subito dopo.
Nel silenzio sempre uguale della baia, i piccoli rumori di Manuela sembrano gli unici in tutto il mondo. Ancora steso a letto, con gli occhi chiusi, sento la brezza fresca e umida del mare sulla pelle e la ascolto muoversi per la cucina, di là, con quella sua lentezza pigra, da gatta. Sento il tintinnio delle tazze e dei piattini, l’acqua che scorre, il cigolio sinistro del rubinetto che dovrei decidermi a controllare – se ne sapessi un accidenti di idraulica, ovviamente – lo scricchiolio del legno sotto i suoi piedi nudi. Poi si diffonde nell’aria l’odore penetrante del caffè, ed il mio stomaco reagisce immediatamente, costringendomi ad aprire gli occhi.
Sorrido. Me lo concedo proprio. Pensando che oggi potrebbe essere una buona giornata.
Mi alzo in piedi, mi stiracchio. La luce del sole mi tocca senza pudore. Penso al caldo appiccicaticcio che ci pioverà addosso intorno a mezzogiorno e le mie labbra si piegano in una smorfia contrariata. A questo non voglio pensare, non adesso. Entro in cucina, dico “buongiorno”. Manuela si volta, mi guarda, e non mi riconosce.
Mi do dello stupido.
Dura solo una frazione di secondo, ma so già che lo smarrimento assoluto che le ho letto nello sguardo mi accompagnerà per tutto il resto della giornata. Non sono mai stato fortunato con le previsioni.
*
Il vecchio Surya fa il pescatore, come quasi tutti quelli che hanno una famiglia e dei figli da mantenere qui a Natuna. Nei suoi occhi c’è una saggezza atavica e ancestrale che anticipa di gran lunga la sua stessa nascita, una conoscenza profonda che è la stessa non solo di tutti i suoi avi, ma di chiunque abbia fatto lo stesso mestiere nei secoli prima ancora che lui venisse al mondo. I pescatori, a Natuna e in tutto il mondo, conoscono il mare, ne comprendono il carattere capriccioso e violento, ne leggono le increspature e ne indovinano l’umore.
Manuela assomiglia al mare in tanti aspetti. Nella lentezza regolare e costante con cui montano i suoi stati d’animo, nella furia improvvisa con cui scoppiano le sue emozioni più forti, nella volubilità dei suoi umori, nel modo in cui repentinamente cambiano sotto la più lieve carezza di ogni soffio di vento.
Quando qualcosa nella sua testa ha smesso di funzionare, il vecchio Surya l’ha capito prima di me. Pulivamo il pesce che ci aveva portato per cena – il vecchio Surya ha due figli, due bambini chiassosi e intelligenti, Asmara e Kirana che chiamano gli scogli rotondi e sbiaditi per nome e conoscono tutti i nascondigli segreti dei granchi, ma due volte a settimana riesce sempre a portare qualcosa da mangiare anche per noi, ostinandosi a non voler mai essere pagato, gli occhi che brillano di una gentilezza antica e disinteressata così tipica delle persone anziane con la pelle bruciata dal sole –, e Manuela cantava a bassa voce, seduta sul piccolo molo di legno a qualche metro da noi, le gambe penzoloni, le punte dei piedi a disegnare tagli dritti come graffi sulla superficie dell’acqua. Staccavamo le teste ai pesci lucertola per la zuppa, lui a mani nude, io col coltello che lui stesso, non avendone bisogno, mi aveva prestato. Il vecchio Surya respirava piano, in silenzio, lo sguardo fisso sul pesce, e la voce di Manuela si diffondeva nell’aria suonando come una melodia antica, quasi come fosse un’antica canzone della tradizione locale, invece del motivetto indie-pop che sicuramente era.
All’improvviso, il vecchio Surya le ha sollevato addosso lo sguardo. Mi sono accorto che Manuela aveva smesso di cantare e, temendo che le fosse successo qualcosa, l’ho guardata anch’io. Ma era ancora seduta al suo posto, lo sguardo fisso sull’orizzonte, il corpo adesso immobile, la linea delle braccia, delle spalle e del collo tesa. “Attento,” mi ha detto il vecchio Surya, mentre dopo quella pausa irreale Manuela riprendeva tranquillamente a cantare, “Attento che la perdi.”
Ancora oggi non so davvero se sia stato io a perdere lei, o lei a perdere me.
*
Asmara ha dodici anni, i capelli e gli occhi neri e i polpacci grossi. È in grado di arrampicarsi senza mai neanche scivolare lungo pareti assolutamente lisce, come avesse le ventose appiccicate alle dita. È alto, per la sua età. Non parla quasi mai, e quando lo fa è quasi sempre per correggerti se dici qualcosa di sbagliato. Cattura i granchi a mani nude e le sue dita sono ricoperte di calli tanto spessi che, anche quando uno di loro lo pizzica, lui non lo sente nemmeno.
Kirana ha dieci anni, le mani piccole e i capelli lunghi fino alle caviglie, che porta raccolti in una traccia arrotolata dietro alla testa. Ogni tanto, certe sere, quando sente il mare cantare, li scioglie lungo le spalle e cammina sulla spiaggia, azzurra come la notte nella luce della luna. Si lascia alle spalle solo orme minuscole e il tintinnio delle sue cavigliere fatte di conchiglie. Anche lei non parla spesso, ma sorride tantissimo. Le sue mani spariscono fra quelle di suo fratello quando lui le stringe e la porta a passeggio fra gli scogli, indicandole la strada per non cadere.
Ogni sera, prima di tornare a casa, quando il sole tramonta sul mare, Asmara e Kirana fanno il bagno insieme. Ridono e giocano a rincorrere le onde, fanno la lotta dove l’acqua è più bassa e, pochi minuti prima che il cielo cambi colore, come guidati da un richiamo istintivo, nuotano al largo, veloci come sirene, allontanandosi finché delle loro figure non resta altro che un paio di puntini minuscoli che sembra non si muovano nemmeno.
Asmara e Kirana hanno negli occhi qualcosa che io e Manuela non abbiamo mai avuto. Non mi è mai piaciuto parlare di predestinazione, non mi piace l’idea di un destino già scritto, ma ogni tanto la Natura ti afferra il viso e ti costringe a fissare lo sguardo su particolari così eclatanti che ti viene quasi voglia di arrenderti e accettare il tuo fato con rassegnazione assoluta.
Quando Asmara guarda Kirana, lo fa con una naturalezza, con una serenità talmente perfetta da sembrare irreale. Lei è il suo porto sicuro, le sue braccia sono l’unico posto al mondo in cui lui è tranquillo, soddisfatto di sé, l’unico luogo in tutto l’universo in cui lui si permette di rilassare i lineamenti, di cessare di esistere in quanto individuo. Quando si guardano, Asmara e Kirana non sono due persone. Sono due parti di una cosa più grande, un “io e te” indissolubile che trova le proprie radici nel rombo del loro sangue giovane all’interno delle loro vene.
Io guardo mia sorella come un innamorato. La guardo e brucio dentro, la guardo e perdo il senno, e se mi dimentico chi sono non è perché divento parte di lei, di noi, ma perché la voglio al punto da dimenticarmi non solo di me stesso, ma del mondo, del cosmo, di tutti gli universi.
Io e mia sorella abbiamo smesso di essere fratelli quando io ho cominciato a guardarla e a vedere un desiderio. E siccome non ho ricordi di un periodo precedente, credo che in realtà io e mia sorella fratelli non lo siamo stati davvero mai.
Predestinazione. A volte è più facile pensarla così.
*
Io e Manuela ci siamo trasferiti qui per necessità. Per istinto di conservazione. Sapevamo che saremmo potuti andare in qualsiasi altra città e il nostro problema non si sarebbe mai risolto, che qualsiasi vita avremmo potuto provare a vivere, in un qualsiasi luogo civilizzato, sarebbe stata senza dubbio una vita a metà.
È stata Manu a suggerire Natuna. “Indonesia,” ha detto all’improvviso una sera, raggomitolata come un gatto sulle mie ginocchia, sfogliando una rivista. Io ho spento la televisione, che stavo guardando senza interesse, ed ho abbassato lo sguardo su di lei in una domanda muta. Lei ha sollevato la rivista, gli occhi che brillavano come quelli di una bambina di fronte ad un regalo inatteso, e mi ha mostrato l’immagine patinata di una spiaggia dorata, una scia di sabbia lunga e sottile, accarezzata da un mare azzurro cielo e puntellata di strani scogli rotondi dall’aspetto gommoso. “Sembra bello,” mi ha detto.
“Non abbiamo abbastanza soldi,” le ho detto. Lei ha scrollato le spalle. “E mamma e papà?”, ho chiesto io. lei ha scrollato le spalle un’altra volta. “Sì, ma cosa faremmo una volta lì?”, ho chiesto ancora. Manu non ha avuto bisogno di scrollare di nuovo le spalle.
Ho preso i biglietti il giorno dopo. Nel mese che è trascorso da quel momento alla partenza, non abbiamo parlato a nessuno dei nostri piani. Non ne abbiamo discusso neanche fra noi, non abbiamo dovuto “decidere” se dirlo ai nostri genitori o ai nostri amici o meno. Non parlarne è stata una cosa del tutto naturale. Abbiamo vissuto quell’ultima manciata di giorni a stretto contatto con le persone che amavamo, consapevoli che sarebbero stati gli ultimi. Il fatto che non lo sapessero loro ha permesso a loro di continuare a comportarsi normalmente, ed il fatto di esserne consapevoli noi soltanto ha permesso a noi di assaporare ogni momento profondamente, marchiandolo a fuoco nella nostra memoria.
Quando il momento è arrivato, siamo spariti discretamente, in silenzio, lasciandoci alle spalle solo un biglietto. I nostri genitori sanno dove siamo, sanno che stiamo bene. Sanno anche di non dover venire a cercarci. Abbiamo instaurato un patto sottointeso e silenzioso per il quale ogni tanto noi diamo notizie, e loro in cambio non provano a chiamare, o a venire in visita.
Quel giorno, mentre aspettavamo l’aereo per Bali a Francoforte, ho chiesto a Manuela perché proprio quel posto. Lei mi ha sorriso, ha scosso il capo. “Fabio,” mi ha detto, “Non capisci niente.”
Allora ho provato a indovinare. “È perché lì nessuno ci conosce?” ho chiesto. Manuela ha riso. Non la sentivo ridere in quel modo da mesi.
“È perché lì non siamo niente,” mi ha risposto.
Avrei probabilmente dovuto cominciare a preoccuparmi allora.
*
Manuela profuma così tanto di mare e di sole che a volte, quando la tocco, mi sembra di fare l’amore con la spiaggia. La osservo muoversi sopra e sotto di me, liquida come la marea, tiepida come l’acqua bassa di notte. Assaggio il sale della sua pelle e mi brucia la lingua.
Facciamo l’amore di giorno, perché di giorno posso vederla. Anche tirando le tende, anche chiudendo la porta, la luce soffusa del mattino si posa su di lei e lei brilla del suo riflesso, ed io posso vedere ogni dettaglio del suo corpo, la curva finalmente matura del seno, la linea elegante del collo, l’onda morbida dei suoi capelli sparsi disordinatamente sul cuscino, il brillio umido delle sue labbra dischiuse e, appena oltre, la pennellata rosa della sua lingua contro il bianco perlaceo dei suoi denti. Sfioro con gli occhi e con le mani le sue spalle così piccole e sottili, il pendio morbido dei suoi fianchi, affondo le dita nel calore bagnato del suo corpo. Le mie orecchie si riempiono della sua voce mentre tutto il suo corpo minuto e fragile si inarca e si tende fin quasi a dare l’impressione di volersi spezzare. Ma lei, così morbida, non si spezza mai.
Facciamo l’amore di giorno, perché di giorno posso vederla. Manuela fa l’amore con gli occhi chiusi, perché così non deve vedere me.
Quando viene e torna a guardarmi, io mi sto ancora muovendo dentro di lei. Inseguo la traccia lontana del piacere fra un ansito e l’altro, pensando “ti prego, riconoscimi”. Gli occhi di Manuela, però, sono vuoti. Le gambe dischiuse, resta immobile sotto di me, le braccia abbandonate sul materasso ai lati del corpo, e mi fissa senza paura, senza curiosità, come se fosse perfettamente normale, e io so che in questo momento, nella sua testa, lei non ha idea di dove si trova. Non sa chi sono io, perché siamo qui, probabilmente non ricorda neanche il suo nome. Resta lì, immobile come una statua di cera, e a me si stringe il cuore, e fa male.
L’orgasmo mi colpisce all’improvviso, a questo punto quasi indesiderato. Tremo e vengo dentro di lei, dalle sue labbra sfugge un gemito confuso e nei suoi occhi albeggia nuovamente la consapevolezza della mia identità. Mentre io, stremato, mi abbatto contro di lei, chiudendo gli occhi e nascondendomi contro la curva profumata del suo collo, lei mi stringe le braccia attorno alla testa. “Mi dispiace così tanto,” sussurra piano contro la mia tempia, fra un bacio e l’altro. “Mi dispiace così tanto,” ed io so che non mi chiama per nome perché non le è ancora tornato in mente come mi chiamo.
Sono abbastanza sicuro che quello che sta succedendo a Manuela abbia un nome scientifico. Non ne sono sicuro al cento percento, ma sospetto che sia anche curabile.
Non qui, però. Non a Natuna, probabilmente non in nessun posto che non sia casa nostra.
Qualche settimana fa ho parlato al vecchio Surya di queste amnesie improvvise, mentre ero fuori in barca con lui. Non mi piace granché, pescare, peraltro – ovviamente – non sono affatto bravo, ma ogni tanto mi piace uscire con lui al mattino presto, assaggiare le onde in punta di lingua, anche farmi venire il mal di mare su quella sua barchetta di legno che ondeggia al largo. Mi piace tornare a casa con un paio di pesci che ho aiutato a pescare, anche se so che Surya sarebbe stato perfettamente in grado di prenderli anche da solo.
Quando sale la nausea, e mi stendo sul fondo umido della barca, osservo il profilo un po’ curvo del vecchio Surya che si staglia contro il cielo aranciato dell’alba, e so che, se voglio, posso parlare, che lui, con quella sua espressione preoccupata, sempre seria e sempre uguale, mi ascolta.
“La sto perdendo,” gli ho detto qualche settimana fa, lo sciabordio dell’acqua contro lo scafo e lo stridio dei gabbiani in lontananza unici suoni a riempire l’aria attorno a noi, “Ogni tanto mi guarda e non sa chi sono. Sono amnesie, credo. Durano solo un paio di secondi, nei casi più gravi un minuto o due, poi torna tutto a posto, ma in realtà non è mai a posto. Lei lo sa, lo sente accadere, e io non riesco più a togliermelo dalla testa. Ho paura che un giorno possa dimenticarsi di me per sempre.”
Il vecchio Surya è rimasto in silenzio a lungo, gli occhi fissi sulla superficie del mare, sul movimento incerto del galleggiante. “È la malattia dei naufraghi,” ha detto, “Non sei tu che perdi lei, è lei che perde se stessa.”
“Come faccio ad aiutarla?” gli ho chiesto quindi, scattando a sedere troppo in fretta. Lui si è voltato a guardarmi e mi ha offerto un sorriso triste. E un po’ d’acqua da bere per fermare i capogiri.
“Ti mando un dottore, domani,” mi ha detto quindi. Io ho annuito senza chiedergli altro, e ho passato il resto della giornata a fantasticare. Sciamani, stregoni voodoo, mi chiedevo, “chi altri può mandare uno come il vecchio Surya?”. E invece il giorno dopo, accompagnato da Asmara e Kirana, è venuto Micheal, trentacinque anni, nato a Londra. È scoppiato a ridere di fronte alla mia espressione stupita e ha scherzato dicendomi di non farmi ingannare dalle apparenze, che in realtà dentro la borsa aveva polli morti e pozioni magiche in polvere, ed anche qualche petardo nel caso mi servisse qualche effetto speciale per convincermi.
“Sono il pediatra dei bambini di Surya,” mi ha spiegato, “So che la tua ragazza è fuori età, ma se ha qualcosa che non va sono abbastanza sicuro di poterlo stabilire.”
Kirana l’ha accompagnato in casa, ed io sono rimasto di fuori, seduto su uno scoglio, a prendere a calci le alghe secche dal nervosismo. Asmara mi si è seduto accanto, è rimasto intento a fissare il mare per un po’. “Io so che non è la tua ragazza,” mi ha detto quindi. Non ho neanche pensato di chiedergli di non dirlo a nessuno, sapevo che avrebbe mantenuto il segreto comunque. Mi ha dato una pacca sulla spalla, annuendo comprensivo. “Non preoccuparti,” ha detto incoraggiante, “Andrà tutto bene. Una volta Kirana si è rotta il braccio cadendo da uno scoglio perché io non sono riuscito a prenderla in tempo quando è scivolata. È stata un sacco di tempo col braccio ingessato, e per qualche mese dopo che ha tolto il gesso non è riuscita a muoverlo bene, ma ora, guardandola, non lo diresti mai.”
Mi sono voltato a guardarlo, sospirando. “Manuela però non si è rotta il braccio,” gli ho fatto notare.
Lui ha scosso il capo. “Non ha importanza,” ha risposto con sicurezza, “Le cose rotte, se le curi e aspetti, si aggiustano sempre.”
Le cose forse sì, avrei voluto dirgli, le persone non tanto. Ma Asmara ha dodici anni ed ha il diritto di vivere in un mondo in cui qualsiasi cosa si rompa può essere aggiustata. La vita gli spezzerà di fronte abbastanza cose da insegnargli la verità in ogni caso, prima o poi. Non voglio essere io il primo a cominciare, spezzando per sempre quello in cui crede.
Quando Micheal è uscito e mi ha raggiunto sulla spiaggia, sorrideva rassicurante, come suppongo insegnino a fare a tutti i medici. “Personalmente, non credo sia niente di pericoloso per la sua vita. Vi consiglio una risonanza magnetica, per sicurezza, ma onestamente non mi sembra che ci siano le basi per supporre che ci sia qualcosa che non va fisicamente nel suo cervello.”
Ho trattenuto il fiato, mandando giù un blocco d’ansia. “Però?”
Micheal ha sospirato, stringendosi nelle spalle. “Però non sta bene,” mi ha detto.
Era l’unica cosa che avevo sempre sperato di non dover mai sentire. Per tutta la vita ho vissuto nella certezza assoluta che, di fronte a qualsiasi problema di Manuela, sarei sempre stato in grado di contrapporre una soluzione pratica ed immediata, qualunque fosse la cosa che la faceva stare male.
Improvvisamente, il problema sono io, siamo noi, è questo posto, il posto che abbiamo scelto, la vita che abbiamo voluto.
Ed io non so come affrontarlo.
*
Devo parlarne con Manuela, mi dico senza crederci, passando le dita fra i suoi capelli sottili. Non li taglia da una vita, ormai le arrivano quasi alle gambe. Ogni volta che fa il bagno e poi torna a riva mi sembra di guardare la Venere del Botticelli. Sono i momenti in cui rido e mi do dello stupido, rendendomi conto di essere innamorato perso.
C’è una specie di velo sugli occhi di chi si innamora. Rende tutto più bello di default. Sono convinto di guardare la sabbia, il cielo, il mare, perfino questa baracca, con occhi diversi rispetto agli altri. È non è la mia vita, a rendermi diverso, non è l’esperienza, non è l’intelligenza, non è niente che ho studiato, non è il talento che credevo di avere, o che forse ho scordato di avere. È amare Manuela. Amare Manuela rende ogni cosa una cosa degna di essere guardata, conservata, ricordata. Amare Manuela rende il mondo un posto più bello, nonostante il male che fa. L’amore per Manuela mi definisce come il colore dei miei occhi, come la forza delle mie emozioni, mi definisce come l’abitudine di prendere il caffè amaro con una goccia di latte, come il vizio di mordicchiarmi le unghie, come l’incapacità di dare un senso ai miei capelli quando li lascio crescere troppo, come il piacere che provo quando cammino a piedi nudi sulla sabbia bagnata. È un pezzo di me che mi rende ciò che sono. È quello che mi fa pensare che non esistevo, prima di amare lei. Il me stesso che non amava Manuela io non lo voglio ricordare, non lo voglio conoscere. Esiste solo un me stesso che la ama. Tutti i me stesso che l’hanno preceduto sono morti e sepolti, ed io non li rimpiango.
Devo parlarne con Manuela, mi dico. “Manu,” dico a lei, “Dobbiamo parlare.”
Lei trattiene il fiato per un secondo, poi si libera dalla stretta delle mie braccia e mi dà le spalle, raggomitolandosi a palla sotto il lenzuolo tirato fin sopra la testa. Il mucchietto d’ossa e capelli che è scuote il capo con ostinazione, ed io sorrido e sospiro, sollevandomi sui gomiti e scoprendole il viso. Mi chino a lasciarle un bacio sulla guancia. Lei è arrabbiata perché mi odia, quando mi comporto così. Quando le faccio pesare addosso gli anni che ci separano, quando anche senza chiamarla “sorellina” le faccio capire che, da qualche parte, è ancora così che la vedo.
Si scosta con uno scatto infastidito, i capelli che le piovono sul volto, nascondendo la sua espressione ai miei occhi. “Lasciami in pace,” dice a bassa voce. Si stringe da sola in un abbraccio che, da me, in questo momento non accetterebbe. Fa male come sempre, ma non posso lasciarmi ricattare così.
“Per favore,” sussurro, scostandole i capelli dalla guancia e cercando le sue labbra per un bacio. Lei volta il capo, si fa trovare. Mi allaccia al collo – le sue braccia abbronzate sono morbide e tiepide, odorano di salsedine e mi fanno venire voglia di morderla – e mi bacia lentamente, a lungo, sperando di distrarmi. Sono io a separarmi da lei per primo, ma quando schiudo le labbra per parlare lei sa già cosa voglio dire, e dal momento che non intende ascoltarmi si divincola dal mio abbraccio, scatta a sedere e poi in piedi.
Nuda, furiosa e bellissima, esce dalla camera da letto. La sento armeggiare di là, infilare un costume da bagno e un prendisole e poi uscire di casa sbattendo la porta.
Come faccio a dirle che penso che sarebbe meglio se tornassimo a casa?
Come faccio a convincerla che si tratta della cosa migliore da fare?
Come faccio a convincere me stesso?
*
Quando torna a casa, è già sera. Ha le guance e il naso arrossati e lucidi di sole, e i capelli arricciati dal mare. Gli occhi le scintillano di rabbia, non le è ancora passata. “Sbrigati,” borbotta, trovandomi ancora in bermuda e maglietta, “Siamo già in ritardo.”
Tre sere a settimana, ci esibiamo al bar sulla spiaggia di lady Nancy Whitaker, una donna di più di ottant’anni convinta di far parte di un’antica famiglia decaduta di Londra, osteggiata dai Windsor. Le ho chiesto più volte di raccontarmi la sua storia, ma i dettagli cambiano ogni volta. A grandi linee, comunque, il dettaglio che non cambia mai sarebbe questa relazione che ritiene di avere avuto con Giorgio VI prima che, appunto, diventasse Giorgio VI, relazione che sarebbe stata osteggiata dai di lui genitori, i quali avrebbero fatto di tutto per impedire il matrimonio, fino a distruggere l’intera casata nobiliare dei Whitaker, o qualcosa del genere.
È stato il vecchio Surya a presentarmela, quando gli ho detto che a me e a Manuela serviva un lavoro. “È pazza,” mi ha detto, “Ma buona. Vi darà una mano.”
Lady Nancy, in effetti, è pazza, ma buona. Ci paga quanto può, che non è mai moltissimo, ma è sufficiente per quello che ci serve. Manuela la adora, nei giorni peggiori passa ore intere fra le sue braccia. Lady Nancy, carica di gioielli di plastica ed avvolta in vestiti di seta che le stanno ridicolmente stretti, le accarezza i capelli, sussurrandole parole di zucchero. Si è fatta promettere che, quando ci sposeremo, sarà lei a cucire a mano il vestito da sposa per mia sorella. Non ho avuto cuore di spiegarle che non potrà mai succedere.
Mi infilo velocemente un paio di pantaloni ed una maglietta meno vecchia, lego i capelli dietro la nuca ed aspetto che Manuela riemerga dal bagno. Mi sembra di ascoltare l’acqua che scorre nella doccia per ore. In realtà, non devono passare più di una decina di minuti.
Quando esce dal bagno, Manuela ha i capelli sciolti sulle spalle, mossi e schiariti dal sole. Due ciocche ai lati del capo sono strette in una streccia che le scivola dietro la nuca, ed indossa un vestito nero con la gonna scampanata lunga fino alle ginocchia. È bella, ed io voglio baciarla. I suoi occhi, adesso più sereni, sembrano invitarmi a farlo, ma per qualche motivo non riesco a convincermi. So che dobbiamo parlare, so che adesso non c’è il tempo ma so che dovremo farlo comunque. Non voglio darle l’impressione di aver lasciato perdere. So che vi si aggrapperebbe con tutta la forza che le resta.
Lei è delusa quando, invece di avvicinarmi, le volto le spalle. “Andiamo?” dico senza guardarla. Lei non risponde, mi supera e mi precede di qualche passo oltre la porta, i sandali alti che affondano nella sabbia, rendendo il suo passo svelto un po’ goffo.
Quando arriviamo al locale, lo troviamo pieno di turisti abbronzati e sorridenti, come al solito. Il chiacchiericcio uniforme è quasi assordante. “I miei bambini!” ci saluta lady Nancy. Stringe Manuela in un abbraccio da piovra, stritolandola senza grazia, e lei ride, felice. Abbraccia anche me, con la stessa forza erculea, e quando sembra spremermi il respiro fuori dai polmoni rido felice anch’io. È raro trovare persone così perfettamente in grado di trasmetterti affetto con un abbraccio.
“Bimba, sei bellissima,” dice lady Nancy a Manuela. Poi si allunga a recuperare uno degli hibiscus rossi coi quali è solita decorare il bancone del bar, e glielo appunta dietro un orecchio. Manuela sorride, si guarda nel riflesso di un vassoio. “Adesso sei perfetta,” annuisce compiaciuta lady Nancy.
“Lo era già prima, lady Nancy,” dico io. La donna sorride. Manuela mi guarda appena.
Vorrei essere bravo come lady Nancy a trasmettere affetto coi miei abbracci. Se lo fossi, potrei allungarmi verso Manuela, stringerla a me, accarezzarle il capo, chiedere scusa. Per tutto. E lei capirebbe, e mi perdonerebbe, e mi sorriderebbe, ed io starei meglio. Ma riesco solo a guardarla allontanarsi verso il palco, prendere posto dietro al microfono, scrutare la folla senza vederla.
Mi siedo al piano e comincio a suonare senza passione. Manuela se ne accorge, e i suoi occhi diventano più scuri mentre, anche lei senza passione, comincia a cantare. E quando torniamo a casa, quella notte, è sempre senza passione che facciamo l’amore, cercandoci sotto le nostre stesse pelli, al di là delle espressioni corrucciate, della sua rabbia e della mia tristezza, della nostra comune impotenza. Ci cerchiamo e non ci troviamo, ma continuiamo a toccarci, ed io affondo dentro di lei cercando di raggiungere il posto nascondo in profondità nel suo corpo in cui lei è ancora la mia Manu, e lei affonda le unghie nella mia schiena cercando di strapparmi di dosso la maschera sotto la quale sono ancora il suo Fabio.
Non c’è trasporto, in quello che facciamo, solo dolore. Dopo l’orgasmo, mi stendo su di lei e gioco con le punte dei suoi capelli. L’hibiscus rosso è caduto sul cuscino, e i suoi petali si stanno già raggrinzendo. È quasi del tutto al di fuori della mia visuale, i miei occhi colgono solo una vaga pennellata rossa un po’ sbiadita. Mi mette addosso una tristezza enorme e vorrei spostarlo, ma non voglio muovermi.
“So cosa vorresti da me,” dice Manuela, la voce soffice, cercando le mie dita per intrecciarle con le proprie, “Vorresti che ti stessi a sentire, che facessi la brava e ti dicessi che d’accordo, possiamo anche tornare a casa. Una volta lì, vorresti che andassi da uno psichiatra, e cominciassi una terapia per cercare di capire perché rimuovo le cose.”
La sua voce sfuma nel silenzio, e quando capisco che non aggiungerà altro mi sollevo sui gomiti, scrutando il suo viso mentre lei, ostinata, fissa la parete con occhi più scuri del solito. “Ma tu non vuoi farlo,” concludo per lei. “Perché?”
Manuela si volta a guardarmi lentamente, con quell’espressione che le ridisegna sempre i tratti del viso quando pensa che abbia detto qualcosa di stupido ma non vuole offendermi facendomelo notare direttamente. “Perché voglio dimenticare,” dice quindi, sollevando una mano ed accarezzandomi una guancia, “Quando succede, e mi dimentico chi sei, non dimentico mai quello che provo per te. Mi resta dentro l’amore. Dimentico solo tutto il resto.”
Poso una mano sulla sua, voltandomi appena per lasciarle un bacio sul palmo. “Questo non è possibile,” le dico con un sorriso triste, “Se dimentichi chi sono, non puoi ricordare perché mi ami.”
Lei sbatte le palpebre un paio di volte, nella luce soffusa della lampada le sue ciglia proiettano ombre lunghissime sulle sue guance. “Io ti amo da sempre,” dice, “Ti amo da prima di sapere che eri mio fratello. Ti amo da prima di sapere cos’è un fratello. Ti amo da prima di conoscere il tuo nome, ti amo da prima di imparare il tuo odore. Ti amo perché ci sei, perché sei mio. Per come senti, per la tua voce. Per il modo in cui mi tocchi.” La sua voce si fa più bassa, mentre parla, fino a spegnersi del tutto. La sua testa si solleva appena dal cuscino, le sue labbra incontrano le mie a metà strada. Sulle nostre lingue c’è più amore di quanto non ce ne sia mai stato.
Manuela mi chiede in silenzio di restarle accanto. Di accettarla anche quando prende decisioni che non condivido. Di non cercare di cambiarla, ma di imparare a superare le nostre differenze. Non cercare di aggiustarmi, non sono rotta, dicono i suoi occhi.
Ed io so che in questo c’è qualcosa di sbagliato. So che c’è qualcosa di anormale.
E decido volontariamente di dimenticarmene.
*
Kirana ha coperto gli occhi di suo fratello con una benda, e gli corre intorno strillando “acchiappami! Acchiappami!”. Il vecchio Surya, impegnato con me a sistemare le pietre in un cerchio attorno alla catasta di legno che più tardi diventerà un falò, urla loro di fare i bravi, ma loro non lo ascoltano, e Kirana ride quando, anche senza vederla, Asmara la acchiappa, e la trascina senza pietà verso il mare.
Alle nostre spalle, Manuela ed Indah, la seconda moglie di Surya, preparano la tavola per la cena. Indah non è la mamma di Asmara e Kirana, ma loro la chiamano “mamma” lo stesso, e la amano non come se lo fosse, ma perché lo è. Il vecchio Surya non pensa mai alla prima moglie. Non mi ha raccontato com’è morta neanche quando gliel’ho chiesto esplicitamente. Mi ha detto “certe volte, per andare avanti, devi dimenticare”. Ora lo capisco.
“Sta bene, la tua ragazza,” mi dice, chino sulla legna, intento ad accendere il fuoco, “Sembra più felice. È guarita?”
Non so bene come rispondere a questa domanda, per cui non lo faccio. Guardo Manuela, e il suo sorriso felice mentre chiacchiera del più e del meno con Indah, chiedendole degli spiedini di frutta che ha portato e pregandola di insegnarle a farli a sua volta. Nel vederla così felice, vorrei rispondere di sì, anche se non è vero.
Lei si accorge del modo in cui la fisso e si volta a guardarmi. Prego qualunque Dio in ascolto che mi riconosca. E lei stavolta lo fa.
Decido che questa, in fin dei conti, è stata una giornata buona.
back to poly

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).