Genere: Introspettivo.
Pairing: Nessuno.
Rating: NC-17.
AVVISI: Gen, Angst, Violence, Blood, AU.
- Dopo aver ucciso a mani nude quindici uomini bianchi, Mario è stato catturato e rinchiuso in una buca guardata a vista da due uomini, in attesa del processo e della praticamente certa condanna a morte. Davide, però, ha dei piani diversi, un passato di cui non vuole parlare e un obbiettivo molto chiaro da raggiungere, e quando gli propone di collaborare per riavere in cambio la propria libertà Mario non può fare altro che accettare e seguirlo.
Note: Insomma, questa storia è un po' una reazione, anzi, direi che più che un po' è totalmente una reazione a quanto successo qualche giorno fa XD Il video non lo linko, anche perché, se non avete vissuto sotto un sasso, probabilmente avrete anche voi sentito in quale alta considerazione Paolo Berlusconi, attuale vice-presidente del Milan, tenga "il negretto della famiglia". Insomma, dopo aver sentito quelle parole su Twitter ha preso piede il TT #BaloUnchained e da lì sono partita per scrivere questa storia che più che una storia è una riflessione sul razzismo e sulle differenze e sulla cattiveria e su ciò che si è disposti a sopportare, suppongo XD Oh, insomma, l'ha letta la Tab in anteprima, una roba che ha del miracoloso, e le è pure piaciuta, una roba che ha del quasi mistico barra impossibile, per cui sono contenta XD
La storia partecipa appropriatamente alla prima missione terza settimana del COW-T3, con prompt pelle, e già che c'è filla il prompt #35 (In catene) della 500themes_ita.
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UNCHAINED

Il primo raggio di sole che gli colpisce il viso dopo più di sei mesi di reclusione è talmente forte da ferirgli gli occhi. Mario solleva entrambe le mani per coprirsi, abbassando istintivamente il capo e raggomitolandosi su se stesso. Il calore del sole sulla pelle è una cosa bellissima ed è una cosa dolorosa. Come la libertà.
- Che pena. - dice qualcuno là in alto. Mario cerca di lanciargli un'occhiata, ma sullo sfondo del cielo più azzurro mai visto e dei raggi abbaglianti del sole non riesce a vedere che una sagoma scura. La voce è di ragazzo, ma il tono che usa è quello di un uomo adulto. - Non riesco neanche a capire se sei nero davvero o se sei solo lurido.
Mario sfida il dolore e gli lancia un'occhiata furiosa, le labbra tese sui denti, un ringhio di bestia nel fondo della gola.
- Attento. - dice, - L'ultima volta che qualcuno ha scherzato sul colore della mia pelle, non è finita bene.
Il ragazzo resta in silenzio per un po', come riflettendo sulle sue parole.
- So chi sei. - dice quindi, - Conosco la tua storia. Sono pronto a liberarti. E a pagarti. Profumatamente. In cambio del tuo aiuto.
Mario aggrotta le sopracciglia, lanciandogli un'occhiata dubbiosa. La luce del sole non lo ferisce più, ma il ragazzo continua ad essere solo un'ombra, una macchia nera sull'azzurro uniforme del cielo.
- Chi sei? - domanda, - Cosa vuoi?
Il ragazzo risponde srotolando una corda lungo il fianco della buca, ma non dice una parola. Mario potrebbe ignorarla, ma l'alternativa la conosce già, e se tutte le domande che può porre all'oscurità nella quale ha passato gli ultimi sei mesi hanno già ricevuto abbastanza risposte dal silenzio assordante che l'ha circondato durante la sua permanenza, almeno ha la certezza che, fuori da quella buca, lo aspettano risposte che ancora non conosce, ed è quelle che insegue quando le sue dita coperte di polvere si chiudono attorno alla corda e le sue braccia lo issano fuori da lì un centimetro dopo l'altro.
Uscire da lì, si dice, quando ancora una volta la luce del sole torna ad abbagliarlo, ed il fresco venticello primaverile torna ad accarezzare la sua pelle bagnata di sudore e dell'umidità della terra, è facile.
Facile esattamente come è stato caderci dentro.
*
Il ragazzo è bianco, e sembra più giovane di lui. I ragazzini bianchi lo sembrano spesso. Tuttavia, c'è qualcosa nei suoi occhi, quello stesso dettaglio che Mario aveva già sentito nella sua voce, che in qualche modo lo rende più maturo di quanto il suo aspetto non denunci ad una prima occhiata.
Seduti sul bordo della buca, si guardando a lungo senza parlare. Solo il rumore del vento nelle orecchie, la terra polverosa sulla pelle, il suono lontano di qualche uccello predatore fra le montagne, distanti sulla linea dell'orizzonte.
- Potrebbero arrivare in qualsiasi momento e catturarmi. Rimettermi in quella buca. Ne scaverebbero un'altra apposta per te, e la chiuderebbero con una pietra, come hanno fatto con la mia.
- C'erano solo due persone, a guardia della tua buca. - dice il ragazzo, guardandolo dritto negli occhi senza un briciolo di paura, - Le ho uccise entrambe prima che potessero dare l'allarme.
- Se ne accorgeranno lo stesso. - insiste Mario, - Al tramonto. Ne arriveranno altri due per dare loro il cambio.
- Saremo già ad almeno sei ore di vantaggio, per allora. - risponde con noncuranza il ragazzo.
Mario aggrotta le sopracciglia, stringendo i pugni.
- Cosa ti fa pensare che verrò con te? - domanda, - Potrei fuggire. Ora sono di nuovo libero. Se mi conosci come dici, sai che potrei ucciderti e semplicemente andarmene.
Il ragazzo lo guarda senza cambiare espressione, a lungo. Si passa entrambe le mani sui pantaloni, sospira e poi si sistema il cappello sulla testa, scuotendo il capo.
- Se non vieni con me, non mi servi. Se non mi servi, non ho alcun motivo di tenerti in vita. Se non ho alcun motivo di tenerti in vita, ti ucciderò.
Mario piega le labbra in un ghigno sfrontato.
- Puoi provarci. - dice.
- Ci riuscirei. - insiste il ragazzo, fissandolo con occhi di ghiaccio, - So che conosci la forza della disperazione. - i suoi occhi si tingono di un verde più cupo e brillante, e Mario aggrotta le sopracciglia nel notarlo. - Non mettermi alla prova.
Mario soppesa in silenzio le sue parole, finalmente in grado di riconoscere quel dettaglio che sembrava dargli maturità per ciò che è: quella nota di tristezza profonda di tutti i ragazzini costretti a crescere controvoglia e troppo in fretta. C'è anche nella sua voce, ecco perché ha faticato a riconoscerla subito ed ecco anche perché, ora che invece c'è riuscito, suona così familiare.
- D'accordo. - dice quindi, - Posso d'arti mezz'ora della mia libertà per lasciarti spiegare cosa vuoi da me. Tu cosa mi offri in cambio?
Il ragazzo sorride, ma è un sorriso freddo. Apre l'ampia borsa di pelle che pende dal suo fianco e ne tira fuori una lattina di fagioli. Mario non mangia da quasi due settimane.
- Un pranzo? - chiede ironico il ragazzo.
Mario annuisce.
- Affare fatto.
*
Ne parlano fra un cucchiaio di fagioli e l'altro, seduti sui cadaveri riversi delle due guardie che il ragazzo ha ucciso per liberarlo. Si chiama Davide, e non intende dirgli da dove viene. Non intende raccontargli la sua storia, tutto ciò che vuole è offrirgli un lavoro.
- A cosa ti servo io? - gli domanda Mario, dubbioso, dopo avere ascoltato le sue richieste, - A quanto ho capito sei bravissimo anche da solo a far fuori la gente. - aggiunge con un ghigno, battendo un paio di pacche sulla testa sfondata del cadavere sul quale è seduto.
- Due, tre per volta. - annuisce Davide, - Ma io voglio una strage.
Ci sono degli uomini, dice. In un posto. Mario gli chiede dove si trovi questo posto, chi siano questi uomini, per quale motivo Davide li voglia morti e perché proprio in modo così cruento, ma Davide scuote il capo.
- Non ti dirò niente, finché non accetti. - dice, - E non posso assicurarti che lo farò anche dopo. I dettagli non ti servono.
- E se fossi solo curioso? - chiede Mario con un mezzo sorriso.
- Ti direi di fartela passare. - risponde Davide, gelido, e Mario lascia perdere.
- Va bene. - dice quindi, - Dimmi cosa ti serve esattamente.
Davide mette via la lattina mezza vuota e si pulisce sommariamente le mani sui pantaloni.
- Quanti uomini hai ammazzato quel giorno? Quando ti hanno preso. - gli chiede, invece di rispondere.
- Quindici. - risponde Mario senza battere ciglio.
- Armato di cosa? - domanda ancora Davide. Mario risponde alzando semplicemente le mani e mostrandogliele. - Bene. - annuisce Davide, - E ancora ti chiedi di cosa posso avere bisogno?
Mario stira le labbra in un ghigno divertito.
- Tu sei pazzo. - commenta. - Quanti sono?
- Una ventina di persone. - risponde Davide, - Conosco le loro abitudini. So dove trovarli quando sono tutti assieme.
- Sarebbe molto più facile prenderli uno per uno. - gli fa notare Mario, - Di notte, magari. Col favore delle tenebre. Mentre dormono sereni nei loro letti.
- Sarebbe più facile, è vero. - annuisce Davide, - Ma non sarebbe quello che voglio. Come ti ho detto prima, voglio una strage. E voglio il sangue. Voglio che la loro sia una fine esemplare.
- Cos'è, - chiede Mario, a metà fra l'incuriosito e il divertito, - una dichiarazione politica? Rivoluzionaria, terroristica?
- No. - risponde Davide. Mario resta in attesa di sentirgli aggiungere altro. Se non è l'ideologia a muoverlo, sarà qualcos'altro. Si aspetta di sentirgli confessare cosa, ma la confessione non arriva.
- Non intendi dirmi niente, ho capito bene? - sospira, lasciandosi andare ad un mezzo sorriso divertito.
Davide scuote lentamente il capo.
- Non finché non accetti. - ribadisce, - Probabilmente neanche dopo. - poi sospira, alzandosi in piedi e cominciando a coprire con un po' di terra il piccolo falò che hanno acceso. - Senti, la cosa in realtà è molto semplice. A me serve una certa prestazione. So che tu sei la persona adatta per il lavoro. Non ti infilerò in una casa gremita di bianchi senza un'arma e senza aiuto, sarò con te. La faremo insieme, questa cosa. La farei da solo, se potessi, ma non posso. Non sono un pazzo, non sono un suicida, voglio che questa cosa riesca e voglio uscirne vivo. E se ne uscirò vivo, puoi stare certo che farò il possibile e l'impossibile perché tu ne esca vivo insieme a me. - Si passa una mano fra i capelli, sospirando ancora pesantemente. - La mia moneta di scambio l'hai capita. Io posso portarti via di qui, posso farti partire, posso ridarti la libertà, e posso pagarti. Se la merce ti interessa, seguimi. Se non sei interessato, torna pure nella tua buca, là sotto, o prova a scappare, vediamo quanto lontano arrivi, e se sei più veloce tu dei miei proiettili.
Mario lo osserva muoversi, ascolta il suono della sua voce. Non si muove, ed anche una volta che Davide ha finito di parlare resta in silenzio a lungo, riflettendo sulle sue parole.
Poi si alza in piedi.
- Avrò bisogno di vestiti nuovi. - dice quindi, indicando la casacca e i pantaloni luridi e sdruciti.
Davide sorride.
- C'è una cittadina di poche centinaia di abitanti a due chilometri da qui. Ho portato un cavallo anche per te, è nascosto nel boschetto oltre quella radura. - dice, indicandola con un cenno del capo.
Mario lo segue senza altre domande.
*
Un cappello, una camicia e un paio di pantaloni nuovi dopo, di fronte ad una pinta di birra scura consumata sul portico della locanda per viandanti a qualche chilometro dal villaggio nella quale hanno deciso di pernottare prima di mettersi in viaggio, Davide consegna a Mario la sua pistola.
- Non ne ho bisogno. - dice lui.
- Lo so. - risponde Davide, - E' un regalo. Considerala un anticipo sulla paga, se vuoi.
- Devo detrarla dalla somma finale, quindi? - domanda acido, e Davide sorride.
- Sai anche far di conto. Sono stupito.
- Perché? - insiste Mario, lanciandogli un'occhiataccia, - Perché sono negro?
Davide ride, solleva entrambe le braccia e si volta, appoggiando il boccale mezzo vuoto sulla ringhiera in legno massiccio.
- Mi arrendo, mi arrendo. - concede, senza aggiungere altro. Mario lo osserva appoggiarsi di spalle alla ringhiera, i gomiti ben piantati sul corrimano, e piegare un po' indietro il capo per scrutare il cielo puntellato di stelle.
- Non hai la faccia del bandito. - commenta quindi, osservando i suoi lineamenti eleganti, quasi austeri, nobili. - Hai la faccia del figlio di papà.
Davide si volta a guardarlo, le labbra serrate. Lo studia con occhi attenti, quegli occhi pesanti da adulto nel corpo di ragazzino, e poi sorride.
- Tu che faccia pensi di avere? - gli domanda.
Mario scrolla le spalle.
- La faccia da schiavo.
Gettando indietro il capo, Davide ride. Una risata chiassosa, sguaiata, la risata di uno che ha imparato a ridere troppo tempo fa, la risata di uno che ha smesso e fa fatica a recuperare l'abitudine.
- Ti racconto una storia. - dice quindi, allungandosi a recuperare il boccale per sorseggiare ancora un po' di birra. - Nella città da cui vengo, c'era una vedova. Una bella signora nel fiore degli anni. Il marito l'aveva lasciata sola a gestire la piantagione, e lei non aveva fratelli, né sorelle, né lontani parenti, insomma, nessuno che potesse prendersi cura di lei. Andava avanti con le sue sole forze e non aveva alcuna intenzione di risposarsi. Quando un giorno arrivano una decina di nuovi schiavi alla piantagione, lei li esamina e fra loro c'è Joel.
- Joel. - sorride curioso Mario, invitandolo ad andare avanti.
- Joel. - annuisce Davide, - La bella signora non aveva mai visto niente di più bello. Il ragazzo doveva avere la metà dei suoi anni, ma era alto il doppio di lei, e aveva due spalle sulle quali si sarebbe potuto tranquillamente cavalcare. "Allora," dice il negriero alla bella signora, "Se vanno bene, li porto alle baracche". La bella signora lo guarda e gli dice "questi vanno bene, ma lui lo voglio per me". Così.
Mario spalanca gli occhi, lasciandosi andare ad una risata divertita mentre lo fissa, allibito.
- Stai scherzando.
- E' tutto vero. - scuote il capo Davide, ridendo a propria volta. - Insomma, Joel diventa l'amante della signora. Vive nella casa padronale, con lei. Divide il suo letto che scopino o no, divide i suoi pasti, passa con lei le giornate. Lei scopre che lui è stupido come una capra, ma che sa disegnare. Ogni pomeriggio si siedono in terrazza, lui di fronte alla sua tela e lei sul divanetto poco distante, un tè in una mano e un libro romantico nell'altra, e passano le ore così, in silenzio, felici come mai nella vita avrebbero pensato di poter essere. Sposarsi non possono, ma è come se già lo fossero, in qualche modo, e a nessuno dei due manca la fede al dito. Insomma, è tutto perfetto.
- Ma? - domanda Mario, impaziente di capire dove la storia voglia andare a parare. Davide ride ancora.
- Non c'è nessun ma. - risponde. - Un giorno, succede una roba strana. La bella signora offre a Joel del tè al gelsomino. Joel lo assaggia e gli piace. Come se fosse normale, si volta verso la cameriera lì accanto e le chiede di portarne una tazza anche a lui. Lei si inchina e risponde "sì, padrone", e si affretta ad obbedire. - Davide si volta a guardare Mario e nota che ha aggrottato le sopracciglia, confuso. Il suo sorriso si allarga. - In quel momento, - riprende, - un lampo di intelligenza attraversa gli occhi di Joel. Si volta verso la bella signora e balbetta "hai visto cos'è successo?". Lei lo guarda senza capire. "Ho dato un ordine," spiega lui, "E lei ha obbedito." La bella signora sbatte le lunghe ciglia, e continua a non capire. E allora Joel chiarifica. "Io sono negro," dice. E allora la bella signora capisce. E trova la cosa così divertente che scoppia a ridere, così, senza il minimo pudore, e mentre Joel la guarda senza capire cos'abbia detto di tanto divertente lei si asciuga una lacrima dall'angolo di un occhio e gli fa "tesoro mio, se la tua pelle fosse bianca, non riusciresti ad essere più bianco di quanto sei adesso".
Il racconto si ferma, la voce di Davide sfuma nella notte, gentilmente. Mario sembra assorto, guarda il fondo del suo boccale vuoto, le labbra piegate in una smorfia pensosa. Davide lo guarda e sorride.
- Tu che faccia pensi di avere, dunque? - chiede ancora. Stavolta Mario non risponde subito.
- Non lo so ancora. - dice quindi. Davide annuisce.
- E io che faccia ho? - domanda. Mario si volta a guardarlo.
- La faccia di un pazzo. - risponde. Davide scoppia a ridere un'altra volta.
- Ecco, questo ci si avvicina molto di più. - ammette, allontanandosi dalla ringhiera con uno scatto dei fianchi, e battendogli una mano sulla spalla. - Vieni, dai, andiamo a dormire. Ci aspetta un lungo viaggio, domani mattina.
Mario annuisce, seguendolo all'interno della locanda e al piano di sopra. In camera non ha un bagno, ma c'è una scodella di metallo piena d'acqua, ed il necessario per radersi la barba. Oltre al sapone, alla schiuma, al pennello, al rasoio e ad un asciugamano, c'è anche un piccolo specchio rotondo col manico di legno. Mario lo stringe fra le mani, si stende a letto - non è un esperto di musica, ma la sinfonia delle molle del materasso che cigolano adattandosi al suo peso dev'essere la più bella mai composta da uno strumento costruito dall'uomo - e lo solleva alto sopra il proprio viso, scrutandone attentamente il riflesso.
"Che faccia ho," si domanda, "se non è una faccia da schiavo?"
Cerca di vedere la sua faccia oltre il colore della sua pelle, ma la notte è scura, e fa fatica a distinguere i contorni del proprio stesso viso alla debole luce della candela già mezza consumata. Dopo un po' si spegne del tutto, e lui per allora sta già dormendo.
*
Sono in viaggio da due settimane, quando vengono sorpresi dall'imboscata. Improvvisamente, mentre attraversano un piccolo bosco, vengono circondati da guardie armate, chi a piedi e chi a cavallo, venute fuori da dietro gli alberi a fucili spianati.
- Arrendetevi! - strilla isterico il sergente, il soldato di grado maggiore nel gruppo, la faccia rossa e le mani che tremano per il freddo intenso dell'altopiano in questa stagione. Non nevica ancora, ma nevicherà presto. Davide sperava di poter passare almeno l'inverno senza dover già spargere sangue, e per questo, quando osserva Mario sfiorare discretamente l'impugnatura della pistola, lo ferma con un'occhiata severa.
- Signori, - comincia educatamente, - posso chiedere il motivo di una simile irragionevole richiesta? Parlate con uomini liberi che non hanno commesso alcun crimine.
Il sergente gli lancia un'occhiata stupefatta, le labbra dischiuse.
- Stronzate! - sbotta quindi, - Un negro a cavallo io non l'ho mai visto, e la descrizione corrisponde perfettamente al prigioniero evaso dalla buca qualche giorno fa. Scendete da cavallo, immediatamente.
Davide inarca le sopracciglia, voltandosi a guardare Mario in un gesto quasi teatrale. Mario gli ricambia l'occhiata senza sapere cosa aspettarsi, tutti i suoi nervi si tendono in attesa di un ordine, ma quando questo non arriva, e Davide torna a guardare il sergente, tutto il suo corpo si rilassa.
- Per dirle la verità, sergente, io non saprei riconoscere un negro da un altro neanche se mi ci mettessi d'impegno. Hanno tutti la stessa faccia. Se questo signore è davvero un evaso, io non lo so. - aggiunge con una scrollata di spalle, - L'ho incontrato un paio di giorni fa e, dal momento che viaggiavamo entrambi da soli, gli ho proposto di viaggiare insieme per compagnia e sicurezza. Se davvero lo ritenete colpevole di qualche crimine, disponete della sua libertà come più vi aggrada, io non muoverò un dito. - conclude, facendo indietreggiare il cavallo di un paio di passi e sollevando entrambe le mani.
Il sergente fissa Davide come fosse convinto di doversi aspettare qualcos'altro da lui, Davide lo fissa di rimando come non capisse cos'altro stia aspettandosi di vedere, Mario fissa entrambi con la convinzione di essere stato preso per il culo a dare battaglia alla convinzione che sia tutto un trucco nel fondo dello stomaco.
Alla buon'ora, il sergente si convince. Raddrizza il fucile e lo punta deciso contro Mario.
- Scendi. - dice. Mario lancia un'occhiata a Davide, e Davide sbatte le ciglia senza dire una parola. Mario sospira ed obbedisce, sollevando entrambe le mani in un gesto di resa. - Voltati. - intima il sergente. Mario si volta, le mani protese indietro perché possano ammanettarlo, e lanciando un'occhiata tutta attorno a sé nota di avere una quindicina di fucili puntati contro. Solo ed esclusivamente contro di lui.
E' in quel momento che le testa cominciano a scoppiare. Saltano una dopo l'altra, con un suono come di frutta matura che si schianta per terra spaccandosi in due, e Mario approfitta del momento di confusione per voltarsi, disarmare il sergente ed utilizzare il suo fucile per contribuire alle esplosioni.
In meno di due minuti è tutto finito, e la terra ai loro piedi è macchiata di neve, sangue e cervella spappolate. Ci sono quindici cadaveri immobili, sul sentiero, e di alcuni non è più possibile riconoscere i lineamenti.
Mario si volta ansante a guardare Davide. Non è nemmeno dovuto scendere da cavallo. E' rimasto lì, le redini strette in una sola mano, l'altra serrata attorno al manico della pistola ancora fumante. I suoi occhi sono tornati torbidi e freddi com'erano prima di macchiarsi della finta ingenuità con la quale ha raggirato il sergente, i suoi degni colleghi ed anche lui.
Vorrebbe chiedergli perché l'ha fatto, ma realizza anche da solo che sarebbe perfettamente inutile. Quando Davide gli dice di muoversi, che devono allontanarsi prima che qualcuno li veda, Mario non se lo fa ripetere due volte. Monta in sella e cavalca al suo fianco in silenzio per chilometri.
Al tramonto, si fermano. Sono lontani da qualsiasi centro abitato ma forse, per stavolta, è meglio così. Sarà una nottata rigida, ma perdere tempo non ha senso. Accendono un falò e siedono sul tronco secco di un albero abbattuto dal vento, stringendosi nelle spalle e protendendo le mani verso il fuoco per assorbire un po' di calore.
- Cosa saresti disposto a fare per ottenere quello che vuoi? - chiede alla fine Mario, mentre le fiamme gli danzano negli occhi.
- Qualsiasi cosa. - risponde Davide.
- E quanti uomini saresti disposto a uccidere? - insiste lui.
- Quanti sarà necessario ucciderne. - risponde il ragazzo senza un'incertezza.
Mario si morde l'interno di una guancia.
- Quegli uomini erano innocenti. - dice quindi, - Stavano soltanto eseguendo gli ordini.
- Ti avrebbero imprigionato. - spiega Davide, - Ti avrebbero catturato e riportato indietro alla buca. Ed avrebbero catturato anche me, come complice, quando gli avresti confessato che ero stato io a farti evadere.
- Non l'avrei mai fatto.
- Avrebbero trovato il modo di fartelo fare.
Su di loro cala il silenzio, interrotto solo ogni tanto dal crepitio della legna nel fuoco, e dai lievi nitriti dei cavalli infreddoliti e legati a qualche metro di distanza da loro.
- Che faccia ho adesso? - chiede Davide in un soffio qualche minuto dopo.
Mario osserva i suoi lineamenti fieri, duri, come scolpiti nella roccia. Non risponde.
*
Quando infuria la tormenta, si rinchiudono in una vecchia baita di montagna. E' piena di spifferi e sembra abbandonata da anni, ma spaccare la serratura per entrare è facile, ed è tutto ciò di cui hanno bisogno al momento.
La casa è ancora piena di vecchi mobili polverosi. C'è un divano, ci sono un paio di poltrone, nel cassetto di un mobile ci sono delle coperte che usano per tenere al caldo i cavalli, visto che la stalla, fuori, ha il tetto sfondato. Probabilmente, al piano di sopra ci sono le camere da letto, ma nessuno dei due intende avventurarsi per le scale, specie considerando quanto scricchiola la struttura dell'edificio sotto il lamento del vento e il peso della neve.
- Reggerà? - chiede Mario, sfregando con forza le mani l'una contro l'altra nel tentativo di riscaldarle.
- Non lo so. - risponde Davide, - Speriamo di sì. Ora aiutami ad accendere il fuoco.
Il camino è sporco e non viene palesemente usato da troppo tempo per poter funzionare a pieno regime. Ciononostante, riescono a trovare un paio di tronchi solidi non del tutto marci e qualche rametto più sottile per aiutare il fuoco ad alimentarsi all'inizio, e nel giro di una mezz'ora la temperatura all'interno della stanza si è già fatta più accettabile. Spostano le poltrone più vicino al fuoco e si siedono l'uno di fianco all'altro, dividendo una porzione di piselli in scatola.
Davide è stanco, ma i suoi occhi sembrano volersi rifiutare di chiudersi. Scruta il fuoco con aria imbronciata, quasi delusa, come se non solo potesse leggervi dentro, ma non gli piacesse neanche granché quello che racconta.
- Raccontamela tu, una storia, Mario. - dice ad un certo punto, raggomitolandosi sulla poltrona, le ginocchia al petto, come nel tentativo di mantenere più calore.
- Dev'essere la mia? - domanda Mario, dubbioso. Davide scrolla le spalle.
- Può essere quella che vuoi. - risponde, - Anche finta.
Mario annuisce lentamente, concentrandosi sul fuoco a propria volta.
- Volevano frustarmi. - dice quindi, - Avevo provato a scappare. Non ero arrivato da molto, alla piantagione. Ma non importa, perché il problema non era il carico di lavoro. Non ero stanco, non ero sfruttato oltre i miei limiti, semplicemente non riuscivo a concepire di dover restare lì e lavorare per un mucchio di uomini bianchi viziati, come dovessi ringraziarli per il favore che mi facevano a tenermi in vita.
Davide si sposta appena sulla poltrona. Mario gli lancia un'occhiata e nota che ora lo sta guardando con interesse.
- Mi hanno preso meno di un paio d'ore dopo. Mi hanno trascinato nell'aia in mezzo ai baracconi nei quali noi schiavi vivevamo. Galline che scappavano ovunque, e tutto intorno tutti gli altri negri che guardavano questo negro trascinato per i capelli verso il centro della piazzola. C'era un palo, lì, lo usavano per legarci quando dovevano frustarci. L'avevo già visto accadere e non potevo lasciare che si ripetesse. Non a me. Per cui sono saltato in piedi, ed al primo ho spezzato il collo con la corda che mi legava le mani. Ho stretto così tanto che alla fine anche la corda si è spezzata, e ha fatto lo stesso suono delle sue ossa, una specie di schiocco, come quando frusti il cavallo. Ad uno ho dato una testata, e poi, quando era a terra, mentre altri due cercavano di fermarmi, gli ho spaccato la testa con un calcio. L'osso, sotto, è veramente bianco, sai? - domanda, sollevando gli occhi su Davide. Davide annuisce. - Una volta, uno schiavo s'è rotto un braccio. Stavamo lavorando alla macina, gli è rimasto incastrato il braccio fra le due pietre, non siamo riusciti a fermarci in tempo e crack, si è spaccato di netto. - si interrompe per qualche secondo, il calore del fuoco gli plastifica il sorriso sul viso. – Anche lui aveva le ossa bianche.
Davide sospira, cambia posizione un'altra volta. Mario lo guarda e vede che ha gli occhi chiusi ed ha appoggiato il capo contro il bracciolo della poltrona. Sente il ritmo dei suoi respiri farsi più lento e regolare, e poi si concede un sorriso a metà amaro e a metà divertito.
- La prossima volta che mi chiedi una storia, ti mando a fanculo. - commenta, incassando la testa nelle spalle e calandosi il cappello sugli occhi per dormire. Non lo vede sorridere.
*
Quando arrivano alla città giusta, Mario se ne accorge perché Davide cambia completamente atteggiamento. Gli si accende qualcosa negli occhi, e diventa allo stesso tempo più circospetto e più euforico, quasi esaltato.
- Ci siamo vicini, vero? - gli chiede con un sorriso, interrompendolo all'improvviso mentre divora una coscia di pollo parlando entusiasticamente di una delle cameriere al servizio fra i tavoli. Davide ride divertito, e poi annuisce.
- Riposati, questo pomeriggio. - gli consiglia. Mario inarca un sopracciglio, dubbioso, e Davide chiarifica. - Stanotte non dormiremo.
Mario lo prende in parola, e si ritira in camera a riposare finché non è Davide stesso a svegliarlo, molte ore più tardi. E' nervoso, non riesce a stare fermo, tiene una mano costantemente a riposo sopra la fondina, come volesse essere sicuro di riuscire ad estrarre la pistola il più velocemente possibile in caso di necessità.
- Calmati. - gli dice Mario, stringendo la cintura in vita e calcandosi il cappello in testa, prima di scoccargli un'occhiata penetrante, - Nervi saldi.
- I miei nervi sono saldissimi. - risponde Davide, quasi offeso, aggrottando le sopracciglia.
- Non giocare a fare il bambino con me. - sorride Mario, le mani sui fianchi, - Ti conosco.
Lo sguardo di Davide si fa più serio, mentre sospira.
- Tu non mi conosci affatto.
Mario non può fare a meno di ammettere che ha ragione.
Montano a cavallo all'imbrunire, ed affrontano il viaggio con calma. Nessuno deve notarli, dice Davide, non più di quanto già non si facciano notare un bianco e un negro a cavallo per il solo fatto di essere tali. Il posto verso il quale sono diretti è una piccola capanna sulla proprietà di uno dei proprietari terrieri della zona.
- Aspetta un secondo. - dice Mario, lanciandogli un'occhiata incerta, - Stiamo andando verso una piantagione? Entreremo a cavallo all'interno di una piantagione, così, come se niente fosse, mentre non è ancora neanche sera?
- Non preoccuparti. - sorride Davide, - Conosco il posto. Posso farci entrare senza che nessuno se ne accorga.
Mario rinuncia a cercare di convincerlo circa quanto sia rischiosa la sua idea. D'altronde, da che lo conosce Davide non ha mai avuto un'idea che non fosse anche potenzialmente un suicidio, e Mario ha cominciato a rassegnarsi al fatto di dovergli stare dietro anche in questo, se non altro perché, per quanto rischiose, tutte le loro imprese al momento si sono risolte in loro favore.
Quando intravedono la sagoma elegante della casa padronale all'orizzonte, cambiano bruscamente direzione, dirigendosi alle sue spalle piuttosto che verso la porta principale. Poi, quando Mario comincia a pensare che tutto il geniale piano di Davide si riduca ad entrare dalla porta sul retro, cambiano direzione un'altra volta, allontanandosi di qualche centinaio di metri ancora, finché non incontrano un piccolo corso d'acqua oltre il quale si vedono solo campi di grano a perdita d'occhio.
- Libera il cavallo. - dice Davide, - Da questo momento in poi, non ci servirà più.
- E come faremo a scappare, stanotte? - domanda Mario, aggrottando le sopracciglia.
- Ne ruberemo due dalle stalle. - scrolla le spalle lui. Mario lo osserva smontare da cavallo e lo imita, poi lo osserva schiaffeggiarli entrambi sul dorso per incitarli ad allontanarsi. Aspettano di vederli sparire all'orizzonte, prima di guadare il fiume e perdersi poi fra le spighe alte come uomini.
Mario cerca di non perdere Davide di vista, di stargli dietro anche se lui si muove spedito, quasi senza curarsi di controllare che lui riesca a tenere il passo o meno. E' lì che la consapevolezza lo colpisce: Davide non solo conosce questo posto, ma si muove al suo interno come se gli appartenesse.
Arrivano alla capanna in meno di un'ora, girano intorno al piccolo fabbricato, camminando rasenti alle pareti, e poi si accucciano sul retro, spalle contro la parete, mentre la sera si fa più scura. Sono protetti dall'erba alta e da un mucchio di macchinari per la semina e il raccolto, e tutto intorno non c'è che silenzio.
- Vivevi qui, è vero? - domanda Mario. Davide gioca con un paio di sassi e non risponde. - E' casa tua, questa?
Davide lo guarda in silenzio per qualche secondo.
- Io non ho casa da nessuna parte. - dice poi. Mario lo sente sospirare. - Ti interessa davvero così tanto sapere perché siamo qui, che relazione ho con questo posto, perché lo conosco così bene? Se ti dicessi la verità, cambierebbe qualcosa?
- Forse mi sentirei ancora più spinto ad aiutarti. - butta lì lui, vago. L'espressione di Davide si fa dura come quella di una statua.
- Se è così, vai via. - dice. - Se c'è la possibilità che la tua determinazione si rafforzi, c'è anche la possibilità che si indebolisca. Io non posso correre rischi, Mario. - conclude, tornando a guardarlo, - Sei con me, o te ne vai. Ed è l'ultima volta che te lo dico.
Mario non risponde. Riflette, questo sì, sulla possibilità di andarsene. Non è un pensiero fugace che appena gli sfiora la mente, è una riflessione seria e ponderata sulle opzioni che gli restano.
Resta una riflessione inutile, però, perché nel momento in cui si rende conto di voler restare capisce anche di averlo voluto fin dal primo istante.
Aspettano sera in silenzio, e solo quando la luna è alta nel cielo cominciano a sentire il rumore di zoccoli, il nitrire dei cavalli lanciati al galoppo, il vociare degli uomini che li incitano ed il lieve crepitare delle fiamme delle torce.
- Ci siamo. - dice Davide, alzandosi in piedi. Nel buio, la sua sagoma non si distingue dal resto della parete. Mario gli è subito al fianco, quando entrambi si sollevano appena sulle punte per spiare all'interno della capanna attraverso l'unica finestra che possiede.
Gli uomini hanno lasciato i loro cavalli all'esterno, legati, e stanno parlando fra loro a bassa voce, con aria seria e grave. Indossano lunghe tuniche bianche che coprono interamente i loro corpi, e tengono in mano un altro panno bianco. Molto presto, alcuni di loro cominciano ad indossarlo, rivelando che si tratta in realtà di un cappuccio.
- Sono ridicoli. - commenta Mario, inarcando le sopracciglia come di fronte a dei pagliacci particolarmente tristi.
- L'hai detto. - sorride Davide. - Io ne conto sedici. Confermi? - Mario annuisce. - Che ne dici?
Mario scrolla le spalle.
- Mi sembra che abbiamo delle ottime possibilità. - commenta ironico. Davide si concede una mezza risata silenziosa, e poi annuisce.
Si allontanano dalla finestra, girano attorno alla capanna. Pistole alla mano, sfondano la porta a calci e fanno irruzione sparando all'impazzata. Tre, quattro persone cadono a terra ferite. Nessuno muore, non ancora, almeno. Nel panico e nelle colluttazioni che seguono, Mario perde l'arma che Davide gli ha regalato, ma non quelle per cui Davide l'ha voluto con sé. Quando, abbattuta da un proiettile vagante, l'unica candela che rischiarava la stanza si spegne, per molti minuti tutto quello che si sente sono le urla degli uomini, lo schioccare delle ossa, le esplosioni dei proiettili e il suono ovattato con cui penetrano i vestiti e la pelle, conficcandosi nella carne per lacerarla.
Mario grida come un animale, la sua sagoma scura resta perfettamente riconoscibile anche nel buio. Davide lo segue con gli occhi mentre combatte per la propria vita contro sconosciuti senza volto, senza nome e, ben presto, senza più sangue da versare nelle vene.
I rumori della colluttazione vanno affievolendosi poco a poco, e nel giro di mezz'ora la notte ritorna calma. Si sentono perfino i grilli frinire nell'erba alta attorno la capanna. Il respiro di Mario è pesante, affaticato. L'ultimo uomo, Davide, ormai disarmato, l'ha ucciso ficcandogli una mano giù per la gola. Gli è crollato addosso, scosso dai singhiozzi e dalle convulsioni per la mancanza d'aria, ed è morto così, affondandogli i denti nell'avambraccio, come se il suo corpo stesse cercando di suggerirgli di strapparglielo e ingoiarlo per liberare le vie respiratorie.
Ci mette dieci minuti a liberarsi. Il braccio sanguina e non riesce a muovere bene le dita, ma sa che non è niente di grave, per cui si divincola senza troppe cerimonie, liberandosi del peso del corpo dell'uomo su di sé, e poi si alza in piedi. Fruga all'interno della tasca dei pantaloni per recuperare un fiammifero, cerca a tentoni la candela sul tavolo e la accende, guardandosi intorno.
Mario è appoggiato contro una parete, i suoi vestiti nuovi sono tutti strappati. E' coperto di sangue dalla testa ai piedi. Forse è ferito, ma è in piedi e respira ancora. Davide gli si avvicina, incerto sulle gambe, e dopo essersi appoggiato alla stessa parete colpisce appena la sua spalla con la propria.
- Ehi. - lo chiama, - Stai bene?
Mario annuisce lentamente e poi appoggia la testa indietro, sospirando.
- Sono esausto. - dice.
Davide sorride.
- Anch'io. Sei ferito?
Mario scuote il capo e poi lo guarda.
- Tu sì, però. - dice, accennando alla ferita sul braccio. Davide ride divertito.
- Se ti racconto come me la sono procurata, non ci credi. - lo stuzzica.
Mario sorride, inarcando un sopracciglio.
- Mettimi alla prova.
Davide annuisce.
- Sì, - dice, - ma prima prendiamo due cavalli e filiamocela. Ce la fai a cavalcare?
Ce la fa, sì.
*
Cavalcano senza mai fermarsi per tutta la notte. Nonostante la stanchezza, il dolore per le botte prese e quelle inferte e il peso schiacciante delle vite umane che hanno rubato in quella capanna, l'adrenalina scorre in un rombo impetuoso nelle vene di entrambi, tenendoli svegli e attivi. Incitano i cavalli urlando nella notte, ridono fra loro senza scambiarsi battute, e quando si fermano nei pressi di un lago, all'alba, vorrebbero smettere di ridere, anche solo per riuscire a tirare il fiato, ma non riescono.
Legano i cavalli ad un albero, si strappano i vestiti di dosso e, nonostante l'aria e l'acqua siano gelide, si immergono per una nuotata. L'acqua si tinge di rosso nel punto più vicino alla riva che scelgono per lavarsi, ma quando nuotano verso il centro del lago quella traccia è già scomparsa. Galleggiando sul pelo dell'acqua, guardano il cielo tingersi dei primi colori del mattino e dividono un silenzio pieno e confortante, almeno fino a quando Davide non si decide a mantenere la sua promessa e raccontare come si sia procurato la ferita al braccio.
- Non ci credo neanche se lo vedo. - lo prende in giro Mario, ridendo, dopo aver ascoltato il racconto.
- Ecco, hai visto? - gli fa eco la risata di Davide, - Te l'avevo detto che non ci avresti creduto.
Restano in silenzio ancora qualche minuto, mentre il sole fa capolino dalle montagne all'orizzonte, macchiando il cielo di rosa e arancione.
- Hai indovinato, prima. - dice Davide quindi, a bassa voce, - Quella era casa mia.
Mario annuisce lentamente.
- Chi erano quegli uomini? - domanda.
Davide si stringe nelle spalle.
- Non ne conosco i nomi. - risponde, - Ma so che sono gli uomini che hanno sterminato la mia famiglia. Mio padre era un brav'uomo, trattava gli schiavi con rispetto. Ne aveva promosso qualcuno perché lo consigliasse riguardo il lavoro nei campi. La piantagione, sai, era nell'eredità di mia madre. Mio padre non era che un mercante, non avrebbe mai pensato di diventare un proprietario terriero. - sospira appena, rimettendosi dritto e poi immergendosi, per riemergere qualche secondo dopo. Per allora, Mario lo sta già guardando, anche lui stufo di galleggiare.
- Immagino che questo non lo rendesse particolarmente simpatico ai suoi colleghi. - commenta.
- Per niente. - ride amaramente Davide. - Sono entrati in casa una notte, uccidendo tutta la servitù in silenzio. Gli schiavi, sai, avevano i loro quartieri, distaccati dalla casa padronale. Avevano la loro società, le loro tradizioni, mio padre non voleva interferire con quello. Nessuno ha sentito niente, mentre legavano mio padre e lo costringevano ad assistere allo stupro di mia madre e... - Davide serra le labbra all'improvviso, abbassando lo sguardo, - ...a tutto il resto.
Mario solleva un braccio, posandoglielo sulla spalla e scuotendo il capo.
- Va bene se non vuoi parlarne.
Mario scrolla le spalle, offrendogli un mezzo sorriso incerto.
- Ormai non fa più alcuna differenza, ti pare?
Mario annuisce, e poi segue Davide quando lo vede riprendere a nuotare verso la riva.
- Pensi di tornare alla piantagione, adesso? - gli chiede, mentre si asciugano prima di indossare nuovamente gli abiti sporchi, gli unici che posseggono. - Puoi fingere di essere tornato per caso. Puoi riprenderti ciò che era tuo.
- Nah. - scuote il capo Davide, sorridendo serenamente mentre indossa il cappello, - Sono stato pianto come morto, come tutto il resto della mia famiglia. Sono vivo per distrazione, per una casualità, perché hanno creduto che bastasse quello che mi hanno fatto per uccidermi. Si sbagliavano, ma non del tutto, perché se è vero che sono sopravvissuto è altrettanto vero che vivo non lo sono più da tempo.
Mario lo guarda con attenzione. Gli si avvicina, posandogli entrambe le mani sulle spalle per costringerlo a guardarlo.
- Questo può cambiare, però. - dice.
Davide sorride ed annuisce.
- E' vero, ma non in quel posto. Quella piantagione non significa più nulla, per me. La persona che ero non c'è più. Quella che sono stata nell'ultimo mese, da quando ci siamo conosciuti, be', credo che anche quella sia già morta. - si indica il viso, ridendo. - Che faccia ho, adesso, Mario? - domanda divertito.
Mario ride a propria volta, scuotendo il capo.
- Sai cosa? - dice, - Non me ne frega niente.
Davide annuisce come se Mario avesse detto chissà che grande verità, e per un po', finché non montano nuovamente a cavallo, restano in silenzio.
- Dici che se ne potrebbe fare un mestiere, di questa cosa? - chiede a un certo punto Mario, lanciandogli un'occhiata incuriosita.
- Di cosa? - domanda Davide, - Dell'omicidio?
Mario annuisce, genuinamente interessato, e Davide ride, scrollando le spalle.
- Non lo so, ho sentito dire che più a nord i cacciatori di taglie hanno una certa libertà, in questo senso. - risponde, rendendosi conto di stare effettivamente ponderando l'ipotesi.
Mario annuisce seriamente.
- Che dici, - propone, - andiamo a dare un'occhiata?
Davide ride, passandosi una mano sul viso prima di incitare il cavallo.
- E andiamo a dare un'occhiata.
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