Genere: Introspettivo.
Pairing: MatthewxBrian.
Rating: PG-13.
AVVISI: Boy's Love, Drug.
- Indietro fino al 1998. Fino al ventiquattro ottobre di quell'anno. Ad un concerto alla Brixton Academy che cambierà per sempre la vita di Matthew. Per raccontare la storia quasi vera di un plettro apparso nel posto sbagliato in un momento in cui nessuno se lo sarebbe aspettato.
Commento dell'autrice: Okay, io in realtà volevo scrivere una storia PG che, oltre a parlare del plettro, ovviamente, parlasse di letti. E questo perché la gen!week su Fanfic_Italia richiedeva esattamente una cosa del genere. Io, giuro! XD, sono partita con quelle intenzioni. Però, non ho capito perché, all’improvviso la fic s’è ribellata XD Matthew ha cominciato ad indulgere nell’uso di droghe allucinogene neanche tanto leggere e Brian ha deciso di diventare una zoccola XD Quindi, insomma, mi so no ritrovata con una PG-13 che in realtà si salva dall’R solo perché sul finale Brian ritrova la decenza perduta.
Credit doverosi: la trama di questa storia non è mia ma di Nai XD Che l’ha tirata fuori dal cappello quando le ho detto che io non avevo nulla su cui basare la storia. Cioè, veramente, me l’ha raccontata in due minuti contati. Poi io ho aggiunto il Mollamy, e da lì è nato questo.
Che, sinceramente, mi piace un casino XD *immodestia rulez*
Spero sia così anche per voi <3
PS: Ah, Andy è mio °_° L’ho inventato secoli fa XD Però in realtà Matt ci ha convissuto davvero con uno spacciatore, proprio nel periodo che racconta questa storia. Io ho inventato solo nome e caratterizzazione ^^
Pairing: MatthewxBrian.
Rating: PG-13.
AVVISI: Boy's Love, Drug.
- Indietro fino al 1998. Fino al ventiquattro ottobre di quell'anno. Ad un concerto alla Brixton Academy che cambierà per sempre la vita di Matthew. Per raccontare la storia quasi vera di un plettro apparso nel posto sbagliato in un momento in cui nessuno se lo sarebbe aspettato.
Commento dell'autrice: Okay, io in realtà volevo scrivere una storia PG che, oltre a parlare del plettro, ovviamente, parlasse di letti. E questo perché la gen!week su Fanfic_Italia richiedeva esattamente una cosa del genere. Io, giuro! XD, sono partita con quelle intenzioni. Però, non ho capito perché, all’improvviso la fic s’è ribellata XD Matthew ha cominciato ad indulgere nell’uso di droghe allucinogene neanche tanto leggere e Brian ha deciso di diventare una zoccola XD Quindi, insomma, mi so no ritrovata con una PG-13 che in realtà si salva dall’R solo perché sul finale Brian ritrova la decenza perduta.
Credit doverosi: la trama di questa storia non è mia ma di Nai XD Che l’ha tirata fuori dal cappello quando le ho detto che io non avevo nulla su cui basare la storia. Cioè, veramente, me l’ha raccontata in due minuti contati. Poi io ho aggiunto il Mollamy, e da lì è nato questo.
Che, sinceramente, mi piace un casino XD *immodestia rulez*
Spero sia così anche per voi <3
PS: Ah, Andy è mio °_° L’ho inventato secoli fa XD Però in realtà Matt ci ha convissuto davvero con uno spacciatore, proprio nel periodo che racconta questa storia. Io ho inventato solo nome e caratterizzazione ^^
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THE WIZARD
the almost true story of a necklace pick
A voler trovare la cosa più importante gli fosse accaduta nel corso dell’anno in assoluto più pieno e scombinato della sua intera esistenza – un 1998 che era suonato come una fuga, una rivoluzione ed un ritorno alle origini tutto insieme – probabilmente avrebbe indicato il concerto alla Brixton Academy dei Placebo, in un ventiquattro ottobre da brivido per quanto era freddo e piovoso e deprimente.
Non tanto per l’aria che aveva respirato – quella dell’eccitazione simultanea di migliaia di persone chiuse dentro la forma tondeggiante del teatro – e forse, a dire la verità, neanche per Brian.
Ma perché quella era stata l’occasione in cui aveva deciso – deciso davvero – che quella lì sarebbe stata la sua vita. Su un palco. A sgolarsi. E basta.
Fino a quel momento – fino a quando ancora stava a Teignmouth – la musica era stata un pretesto. Un pretesto per urlare. Un pretesto per esprimersi. Un pretesto per sopraffare gli altri. Un pretesto per farsi amare. Un pretesto per un complimento. Per i baci delle ragazze nel cortile dietro la scuola. Per le carezze distratte della mamma e per l’incoraggiamento silenzioso di Paul. Un pretesto per ripensare a suo padre e sentirsi superiore. Un pretesto per quattro risate in compagnia ed un pretesto per assaggiare in punta di lingua la sensazione fisica dell’intreccio delle note in armonia nell’aria spessa ed umida del garage di casa di Chris.
La musica era il pretesto.
L’obiettivo era la fuga.
In quell’istante – trasferito a Londra da un paio di mesi e con un mondo nuovo in perenne movimento davanti agli occhi – lo era ancora. La musica era ancora il pretesto. Ma visto che non era più tanto chiaro quale fosse l’obiettivo, lui cercava di non pensarci.
Viveva in un trilocale squallidissimo proprio sopra a un sexy shop. Andy, il coinquilino di fortuna che aveva accettato di prenderselo in casa dall’oggi al domani, spacciava roba pesante pure per lui che in genere con le droghe pesanti, a livello ideologico, andava perfino d’accordo. Londra era stupenda, ma enorme e spaventosa. Dom viveva in centro con una zia di famiglia. Chris faceva la spola da Teignmouth alla City ogni giorno, viveva da pendolare perché al solo pensiero di allontanarsi da Kelly stava fisicamente male. Tom, neanche a dirlo, si lamentava già abbastanza della loro presenza quando era costretto a lavorare con loro, figurarsi tirarseli appresso anche in altri momenti.
L’obiettivo non si capiva più quale fosse, ecco.
Perché il risultato, alla fine della giornata, dopo ore sfiancanti in sala di registrazione e pomeriggi buttati nella noia ed in un’insana e immotivata nostalgia di casa, era una casa squallida ed un letto vuoto.
E Matthew Bellamy solo e sperduto fra le lenzuola.
I Placebo gli piacevano perché la loro musica – confusa, insistente, il carillon di una novella morbosa e decadente che attutiva i suoi sensi, disinnescandoli uno per uno – parlava direttamente ad una parte di sé nascosta in profondità dietro la facciata da ragazzino entusiasta che si trascinava stancamente dietro in quei mesi. Era la sua parte più debole: la voce di Brian la spogliava da ogni difesa e la riportava alla luce con una semplicità quasi urtante.
Matthew, arreso alla cantilena sensuale delle sue labbra, lo lasciava fare senza sensi di colpa. Beveva ogni sillaba di quelle poesie sghembe e trascinanti, fino a perdercisi dentro.
I Placebo gli piacevano.
Davvero.
Erano un po’ il suo negativo – perché se c’era qualcosa, una sola cosa, che poteva dire per certo, era che mai nella sua vita avrebbe realizzato musica simile – ma lo completavano. Erano lui in modi tutti misteriosi.
I Placebo gli piacevano.
Qualche volta, alla sera, nel letto, non era neanche tanto solo.
Il ventiquattro ottobre 1998, Matthew non aveva solo Brian e la musica e quasi cinquemila persone, a fargli compagnia. Andy gli aveva dato qualcosa, prima di lasciarlo di fronte all’Academy. “Perfetto per i concerti”, gli aveva detto con un sorriso enigmatico.
Matthew gli aveva chiesto un aiuto. Un incentivo. Un po’ di coraggio.
“Vorrei provare a conoscerlo…”, aveva annunciato con aria affranta.
Parlava di Brian.
Andy l’aveva guardato senza mascherare neanche in parte lo stupore e un vago senso di fastidio.
“Quello?”, gli aveva chiesto incredulo. Poi aveva sospirato e scosso il capo. “Ti servirà ben più di un’iniezione di coraggio, mio caro leone codardo”, l’aveva preso in giro, passandogli una bustina dal contenuto inequivocabile.
Matthew aveva buttato giù con un bicchiere d’acqua ed aveva pensato “Tanto vale”. Aveva sollevato lo sguardo, inumidendosi le labbra. “Come si chiama?”, aveva chiesto, indicando le due pillole colorate rimanenti nel pacchetto.
Andy aveva sorriso tranquillamente.
“Speed”, aveva risposto, divertito. “Significa che devi darti una mossa”. E l’aveva spinto verso la porta.
Uscendo di casa, Matthew s’era ripromesso che no, quella notte nel letto non sarebbe stato solo proprio per niente. L’avrebbe raggiunto a qualsiasi costo. Gli avrebbe parlato a qualsiasi costo. L’avrebbe portato con sé. A qualsiasi costo.
Se io sono il leone codardo, tu devi proprio essere il mago di Oz, Brian.
Perso in mezzo ad una folla incerta fra l’andarsene ed il restare per sempre, vagava confuso dal fronte del palco al centro della sala, cercando di trovare un varco per il backstage. E non sembravano essercene da nessuna parte. Peraltro, le due aree ad accesso ristretto ai lati del palco erano ancora piantonate da quattro individui alti e grossi almeno il doppio di lui. E per quanto Brian potesse essere un obiettivo allettante, morire per il mago di Oz sembrava davvero troppo. Per un leone codardo, superava ogni limite di razionalità.
Era ancora il ventiquattro ottobre, insomma. Il profumo dolciastro di Brian, misto all’aroma acre del suo sudore, si sollevava dall’asciugamano che era riuscito ad afferrare dopo l’encore e galleggiava nell’aria tutta attorno a lui. C’era ancora l’eco vagamente triste della sua voce a rimbombare nel teatro. O forse solo nelle sue orecchie.
Le bodyguard lanciarono un’ultima occhiata all’auditorium ormai semivuoto e poi si allontanarono con discrezione, quasi percepissero la propria stessa presenza come un disturbo.
Era il momento.
Matthew si avvicinò ad una rientranza alla sinistra del palco ed imboccò un corridoio stretto e nerissimo – tutte le luci erano già spente, come se, una volta passati i Placebo, non ci fosse più bisogno di illuminare alcunché – e quasi claustrofobico. Il corridoio si biforcò presto in due corridoietti perfino più angusti. Uno dei due si perdeva nel buio. L’altro, invece, terminava con luci e risate festose. Lo percorse velocemente, affacciandosi pochi secondi dopo su una stanzetta privata che ospitava, oltre ai Placebo, un ristretto numero di fan – probabilmente del fan club ufficiale – ed i tecnici di scena.
Brian rideva serenamente mordicchiandosi l’unghia di un pollice, e tratteneva in bilico fra le dita una sigaretta ed un bicchiere di birra.
Matthew deglutì.
E s’infilò nella mischia.
Tutt’altro.
Brian l’aveva squadrato con aria critica per una quantità indefinita di minuti, restando sulla difensiva – circondato, cioè, da Stefan, Steve ed un ragazzo che il cartellino sulla maglietta battezzava Levi – ed indicandolo di tanto in tanto ai propri compagni di band con sfacciati cenni del capo.
Mortalmente imbarazzato – e totalmente dimentico del fatto che il leone codardo il coraggio ce l’aveva già, doveva solo ripescarlo nella parte più profonda del suo cuore – Matthew era rimasto immobile, attaccato alla parete, le mani strette con forza attorno all’asciugamano e lo sguardo basso e colpevole di chi sa di aver fatto una cazzata ma si sente troppo in difetto pure per cercare di porvi rimedio.
Brian s’era avvicinato con naturalezza pochi minuti dopo. Matthew non aveva avuto bisogno di alzare lo sguardo per capire che si trattava di lui: il profumo non mentiva.
- Mi sa che hai qualcosa di mio. – aveva detto la sua voce un po’ nasale, venata di un’ironia più divertita che realmente infastidita.
Solo allora s’era azzardato a ricambiare quegli occhi.
- …questo? – aveva chiesto, sollevando l’asciugamano con una mano ed indicandolo con l’altra, - Lo rivuoi?
Brian aveva riso ad alta voce, e sembrava pure un po’ compiaciuto.
Era bello da morire.
I capelli pettinati all’indietro erano ancora talmente bagnati che sembrava fosse appena uscito dalla doccia. Il trucco disfatto portava i segni del concerto appena terminato. Soffriva la fatica di quel movimento nello stesso modo in cui avrebbe sofferto quella di un amplesso.
- No, tienilo pure. Te lo sei guadagnato. Ci vuole coraggio ad imbucarsi nel backstage.
Eccolo qui, il leone coraggioso. Il mago di Oz ce l’ha fatta ad accontentarlo.
- Io non volevo disturbare… - aveva preso a parlare come in trance, senza neanche accorgersene, - speravo che potessi farmi un autografo, ecco. I Placebo mi piacciono tantissimo, e tu sei… Dio, fantastico! Tra l’altro sai che anch’io suono la chitarra? Sono ancora un po’ inesperto, nel senso, non è che abbia mai davvero imparato a farlo, però ci provo, ecco, e-
- Mio Dio, ragazzino! - aveva riso ancora Brian, agitandogli comicamente le braccia davanti al viso, - Frena un po’, eh? Te lo faccio, l’autografo. – aveva sorriso conciliante, tendendo le mani verso di lui, - Hai una penna?
Il silenzio imbarazzato e imbarazzante che seguì la sua domanda venne accolto con un risolino un po’ intenerito e un po’ sinceramente divertito da parte dell’intera stanza, che osservava la scena con la stessa curiosità con la quale si sarebbe approcciata ad una rappresentazione teatrale.
Brian rise con tutti gli altri, scuotendo il capo.
- Farai a meno dell’autografo. – commentò, stringendosi nelle spalle.
Matthew non riuscì a trattenere una smorfia delusa, e Brian rise ancora.
- Oddio, se fai così non posso certo lasciarti andare a mani vuote. – aggiunse, cominciando a rovistare freneticamente nelle tasche dei jeans immacolati che indossava. – Ecco! – esultò, quando ebbe trovato ciò che cercava, - Tieni questo. Ti sarà sicuramente più utile di un asciugamano sporco con un nome scarabocchiato sopra.
Fra le dita dalle unghia laccate di nero ormai rovinato, c’era un plettro, nero anch’esso.
Matthew tese la mano e lo afferrò.
Fuori dall’Academy, Andy lo aspettava in macchina. Lo riaccompagnò a casa, si assicurò che raggiungesse sano e salvo l’appartamento al primo piano e poi uscì per il solito giro di consegne notturne del finesettimana.
Matthew piombò sul materasso senza neanche spogliarsi, esausto e disfatto per com’era. In qualche modo, col plettro sul cuscino e la voce di Brian ancora nelle orecchie, il letto sembrava meno vuoto che mai.
Qualcosa ad accomunare il passato ed il presente, però, c’era.
Era lo sguardo di Brian. Brillante dello stesso stupore vagamente divertito di dieci anni prima. Anche se la situazione in sé era completamente differente: alla Brixton Academy s’era intrufolato come un ladro; in quel vecchio pub di periferia, invece, non c’erano segreti: solo la coincidenza di un incontro fortuito che dimostrava chiaramente quanto ironica e stronza potesse essere la vita, quando ci si metteva d’impegno.
Brian e Matthew non si vedevano dal 2004. Da un EMA troppo amaro per ricordarlo con piacere. L’EMA dei sorrisi affettati e dei ringraziamenti al veleno. L’EMA degli abbracci come tenaglie e delle occhiatacce truci nel backstage. Un EMA che nessuno voleva: perché Brian di certo non voleva consegnarlo e Matthew non è che ci tenesse poi così tanto, a riceverlo. Un EMA che comunque era arrivato e non aveva fatto altro che spargere sale su una ferita mai cauterizzata.
Non è bello ridurre a brandelli il più bel ricordo che hai.
Non è bello superare il tuo idolo e costringerlo a premiarti.
Non è bello per lui che viene superato e non è bello per te che perdi tutti i tuoi punti di riferimento.
Quello del 2004 era stato un EMA che non era andato davvero giù a nessuno. Era nell’aria fin dall’uscita di Absolution. Era rimasto sospeso come particelle di gas venefico. S’era intrufolato nei loro polmoni e li aveva avvelenati tutti, tant’è che Brian aveva subito preso a parlar male dei Muse – probabilmente perché già subodorava cosa gli sarebbe toccato fare qualche mese dopo.
Matthew aveva cercato di mettere qualche pezza qua e là, sganciando attestati di stima che facevano ridere i giornalisti – gli stessi che poi raccoglievano la merda quando intervistavano quell’altro – ed irritavano a morte Tom, che proprio non riusciva a capire come si potesse tollerare tanto disonore. Rassicurazioni di facciata: dichiarava candidamente di essere in ottimi rapporti con Brian, mentre lui continuava a ripetere di considerare i Muse come una specie di piaga infetta in seno all’alternative rock inglese.
Praticamente un disastro.
Gli EMA non erano serviti a chiarirsi. La tensione a Roma era stata tanta da impedirgli perfino di scambiare quattro chiacchiere. Tra loro sembrava scorrere elettricità pura. Niente di particolarmente rassicurante. Abbastanza spaventoso, anzi, da costringere Tom a prendere delle contromisure adeguate – placcandolo appena sceso dal palco per portarlo il più lontano possibile dal posto di Molko, anche se l’organizzazione era stata tanto gentile da sistemarli praticamente a due tavoli di distanza l’uno dall’altro.
Da quel giorno in poi, s’erano evitati. Per il Reading nel 2006 avevano scelto due giornate diverse. Perfino quando sembrava inevitabile dovessero proprio incontrarsi – come al Live8, per esempio – erano riusciti a sistemare voli ed orari per non doversi sfiorare neanche casualmente.
Il piano era riuscito talmente bene che, per tutti gli ultimi quattro anni, Matthew aveva saputo qualcosa dei Placebo solo grazie ad MTV ed al sito ufficiale.
Quel quindici luglio, comunque, dei suoi trascorsi da fan non sembrava interessare molto agli occhi glaciali di Brian che lo squadravano ironici dall’altro capo del bancone.
Sollevò una mano distratta, accennando un saluto col mento.
Brian sorrise.
Matthew sospirò e si alzò in piedi, raggiungendolo.
- Be’? – chiese, dimenticando completamente che la prima volta che l’aveva avuto così vicino aveva faticato perfino a respirare, - Che diavolo ci fai in Messico?
Brian si rigirò un po’ il boccale fra le mani, sorridendo enigmatico mentre ponderava la possibilità di rispondere o di lasciarlo lì a marcire nell’imbarazzo di un approccio fallito. Poi si strinse semplicemente nelle spalle e mandò giù un sorso di birra.
- Ho accompagnato Stef. – lo informò, - È qui a fare promozione con gli Hotel Persona.
- Ma guarda. – ghignò sardonico lui, incrociando le braccia sul petto, - Mi era sembrato di capire l’avessi già richiamato all’ordine. La questione dei tempi del tour inconciliabili con quelli di registrazione del nuovo album…?
Brian aggrottò istantaneamente le sopracciglia, posando il boccale sul bancone con un tonfo secco.
- Sono slittati. – rispose brutalmente, senza degnarlo di un’altra occhiata.
Matthew chinò il capo, improvvisamente indisposto dalla sua freddezza.
- …e lui dov’è? – si azzardò a chiedere timoroso.
- In albergo.
- E come mai non sei con lui?
- Perché quando uno sta col proprio ragazzo nella propria camera non ha bisogno di un amico rompipalle a girargli intorno. Ed ora l’interrogatorio è finito o no?
Matthew si morse un labbro e guardò altrove.
- Non sapevo che Stefan stesse con qualcuno.
- Sì, be’, - scrollò le spalle Brian, - lui non mente mai. Quando dice che gli piacciono gli uomini latini, è perché ha già un uomo latino che gli piace per le mani.
Matt ridacchiò a bassa voce, scuotendo il capo.
- Ho un’altra domanda. – sussurrò poi, infilando una mano in tasca.
- Una sola, Bellamy. – rispose Brian con un sospiro, - E se mi chiedi se sto con qualcuno al momento, giuro che ti prendo a pugni.
- Figurati. Che sei impegnato lo so. Non ho creduto alle voci che ti davano in rotta con Helena.
- Che bravo bambino sei. – rise amaramente Brian, mandando giù un altro sorso di birra, - Forse invece avresti dovuto.
- …Brian-
- Questa domanda?
Matt s’inumidì le labbra e tirò fuori dalla tasca il ricordo più importante della sua vita. Sembrava incredibile che fosse racchiuso in un triangolino di plastica nera.
- …l’hai fatto bucare… - commentò Brian, fissando il plettro con un’aria a metà fra lo stupito ed il commosso.
Devi aver bevuto tanto, eh?
Sarai mica anche tu un leone codardo in cerca del suo mago personale?
- Volevo metterlo alla collana, come un ciondolo. – spiegò annuendo e rigirandoselo fra le dita, - Però non sapevo come l’avrebbe presa Gaia, e sinceramente non avevo voglia di stare lì a sottostare all’interrogatorio del secolo per…
- …per?
- …per niente.
Brian annuì, evitando i suoi occhi.
- Giusto. – commentò, quasi compiaciuto. – La domanda qual era?
Matthew sorrise e posò il plettro sul bancone, fra loro.
- Perché? – chiese quindi, cercando e trovando i suoi occhi e perdendocisi contro la propria volontà.
- Perché? Un po’ vaga, come domanda. – lo prese in giro Brian, ghignando cattivo.
- Perché odi i Muse. Perché odi me. Perché hai detto di voler bruciare i nostri CD?
Brian rise e si lasciò andare con la schiena contro la spalliera della sedia, gettando indietro il capo.
- Come sei infantile, Bellamy. – rispose, asciugando una lacrima di ilarità pura dall’angolo di un occhio, - Non ti sei proprio mosso da quando ci siamo incontrati per la prima volta, eh?
Matthew si strinse nelle spalle, abbassando imbarazzato lo sguardo e ritirando il plettro facendolo scivolare sul ripiano in legno.
- Forse. – concesse in un borbottio vagamente offeso.
Brian sorrise con un cenno di tenerezza che lui non poté proprio ignorare.
- Mettilo alla catenina. – disse poi, sporgendosi a sfiorarlo con due dita, - Ho il biglietto per domani all’Arena Monterrey, sai?
Matthew sollevò lo sguardo e lo trovò già in piedi. Spaventato dalla possibilità di poterlo perdere senza – senza cosa? Forse era meglio non pensarci – si alzò a propria volta con uno scatto quasi isterico.
Brian rise. E Matthew rise con lui.
Poi cercò di guardarlo senza arrossire come un deficiente e gli chiese un passaggio in hotel. Sperando che, almeno per quella sera, il suo letto potesse sembrare pieno per un motivo valido.
Il sapore di Brian era identico a come l’aveva sempre immaginato. Salato e prepotente. Da invasione. Un profumo da combattimento. Di quelli che mettono subito in chiaro chi è che comanda.
A lui piaceva. Quel profumo, come la musica dei Placebo, parlava ad una parte nascosta di lui. La parte che nel farsi condurre, nel farsi dominare, nel farsi trascinare in un abisso di sensualità, godeva profondamente. Una parte che tendeva a dimenticare, perché la routine della rockstar non è poi tanto diversa dalla routine delle vacanze passate a pescare sotto casa, ed è una routine che uccide la voglia di provare qualcosa di nuovo. Uccide la voglia di metterti consapevolmente nelle mani di uno sconosciuto dalla voce assassina. Un uomo che un tempo credevi di conoscere e che ti rendi conto di non aver mai conosciuto per niente.
Quando si separarono l’uno dall’altro, avevano il fiatone. La fronte di Brian scottava contro la sua ed il suo respiro s’infrangeva contro le sue labbra in sbuffi ansiosi e sconnessi.
- Okay, basta così. – lo sentì sussurrare, rimettendosi in piedi.
Ancora confuso, rimase disteso sul letto a fissarlo dal basso. Nella stessa posizione di svantaggio nella quale era rimasto per tutto il tempo.
- Tu sei fidanzato, Bellamy. E non è vero che io ed Helena ci siamo lasciati. Non credere mai nel gossip, ti prende in giro.
- Né più né meno di quanto abbia fatto tu fino ad ora. – scoccò infastidito, portando una mano a risistemare per quanto possibile i capelli scarmigliati.
Brian rise sommessamente.
- Esatto. – aggiunse con un pizzico di crudeltà. – Il plettro mettilo davvero, però. – lo avvertì prima di uscire dalla stanza, - Dicevo sul serio, riguardo al biglietto per domani.
Non fa alcuna differenza.
Forse Andy si sbagliava. Non sono il leone codardo: sono lo spaventapasseri senza cervello.
E da questo non mi possono salvare neanche le anfetamine.
Rimase immobile ad osservare il soffitto per un sacco di tempo, finché le palpebre non diventarono troppo pesanti e la testa cominciò a ciondolare pericolosamente da un lato all’altro del materasso. Poi si tirò su, si sistemò fra le coperte e, senza neanche finire di spogliarsi, allargò gambe e braccia e poggiò il capo sul cuscino.
In fondo, per riempire un letto, una persona era più che sufficiente.