Fanfiction a cui è ispirata: The Show Always Must Go On di Stregatta.
Genere: Introspettivo.
Pairing: BrianxMatt.
Rating: NC-17
AVVISI: Angst, Slash, Spin-off.
- E' un tipico pomeriggio invernale inglese. Brian Molko sta buttato sul divano come una pezza vecchia e si annoia. Questo, almeno, fino a quando non riceve una telefonata da un "conoscente"...
Commento dell'autrice: …no, io amo, semplicemente amo quando le storie mi sfuggono così di mano <3 Che poi, no, aspettate: che questa storia sarebbe stata così, per sommi capi (ovvero bastarda e vagamente compiaciuta della propria sfacciata crudeltà XD), l’ho sempre saputo ù.ù Nel senso che proprio è nata seguendo la scia di malessere quasi fisico in cui mi aveva lasciata leggere Show. Con quella storia ho avuto un rapporto complesso, perché l’ho amata ma mi ha messo anche di fronte a un Matthew che ho faticato a maneggiare XD La classica cosa da trattare coi guanti. Io un Matt così non avrei mai pensato di buttarlo giù o.o E invece, manco a dirlo, è una figata T^T Guardatelo, è bellissimo!!! *abbraccia*
Quello che non mi aspettavo, della storia, era che venisse fuori così introspettiva O.O Ne sono nate riflessioni del tutto slegate dal progetto originale (riassumibile in: Matt è stronzo e figo e siccome Brian è altrettanto stronzo e figo devono scopare è______é!!!), che peraltro mi piacciono pure. Per dire, tutto il pezzo in cui Bri riflette sullo sfarzo del palazzo di Matt e sui propri nonni XD Oppure la questione dei letti grandi… sono cose particolari e anche piuttosto inedite. Di quelle che proprio ti piace buttare giù.
Che poi ultimamente mi rendo anche conto che rompo il cazzo, con l’introspezione X’D Ormai scrivo solo robe incapaci di staccarsi dal filo di pensieri del protagonista T.T Sono perduta, dovrei ricominciare a leggere di più, se continuo così finirò col farmi il verso da sola :\ *lo dice perché sa che Nai si infurierà e comincerà a prenderla a parolacce*
Riguardo la narrazione non ho molto da dire. È uno stile che non uso spesso (mi pare di averlo usato solo una o due volte in tutta la mia storia di fanwriter… la prima volta ero pure troppo piccola, mi sa X’D La seconda è stata in Labyrinth – e sinceramente è stato il ricordo di quella a farmi provare questa via adesso XD), e la motivazione che ho tirato fuori al telefono con Nai per giustificarla è stata: è una storia banalissima! Ciò che succede è banalissimo! Loro sono banalissimi! Dicono cose banalissime! Perciò almeno lo stile lo faccio meno noioso, così forse questa fic avrà una sua validità èoé Voi che dite? XD
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THE GREAT PRETENDER

È un tipico pomeriggio invernale inglese. Reso scuro da una fitta cappa di nubi basse color grigio topo e freddo, freddo ghiacciato, di quello che ti prende e ti si infiltra sotto la pelle, fra i muscoli e i tendini, e poi raggiunge le ossa, e ti sembra quasi che le ferisca, sferzandole impietoso mentre cerca di trasformarle in cristallo prima di ridurle in mille pezzi. Il freddo doloroso che porta il vento, quando ti si accanisce contro e cerca ti tagliarti la pelle del volto, screpolandoti le labbra e irritando il naso.
Prima che lui ti chiamasse, era anche un noioso pomeriggio invernale inglese. Gettato sul divano come un panno vecchio, guardavi annoiato la televisione senza che t’importasse realmente di cosa stava cercando di comunicarti, e giocavi distratto tra le pieghe un po’ rovinate di un cuscino, meditando sulla possibilità di cambiare la tappezzeria in tempi brevi o lasciar perdere fin quando non fosse stato impossibile ignorare ancora il problema.
Poi ha squillato il telefono, l’hai sollevato e hai visto lampeggiare sul display un numero sconosciuto che ti ha fatto presagire guai. Hai risposto – se non altro perché sai che la tua manager tende a chiamarti con numeri non propri quando sa che non risponderesti se vedessi il suo, e sai anche che ignorarla una volta può andar bene, ma il menefreghismo prolungato porta solo una quantità enorme di guai.
Non eri preparato.
Non eri affatto preparato alla voce di Matthew Bellamy dall’altro lato dell’apparecchio.
Non hai faticato a riconoscerla, quella voce. Un po’ perché l’hai sentita strillare alla radio di stelle, buchi neri e rivelazioni non più di un’ora fa. Un po’ perché ricordi ancora benissimo – troppo bene – la sensazione spaventosamente fisica di quella voce a lambirti la pelle del collo in caldi sbuffi di fiato vagamente umidi.
- Ciao. – hai salutato, confuso, stringendo il cellulare fra le mani.
Lui ha riso.
- Non ti ricordavi di avermi dato il numero? – ha chiesto con aria da sbruffone.
- Certo che lo ricordavo.
- Allora non credevi che avrei chiamato…
Già. Ma non l’hai detto.
Qualche secondo di silenzio. Non uno di più né uno di meno rispetto al necessario. Non fossi stato così dannatamente incasinato da non sapere quasi più neanche il tuo stesso nome, ti saresti complimentato con lui per la scelta dei tempi.
- Ti va di riprendere la discussione che abbiamo lasciato a metà a casa di Way? – ha proposto lui con noncuranza.
Tu hai sbuffato sonoramente.
Non ricordavi di aver lasciato in sospeso nessuna discussione. L’odore del suo sudore, della sua eccitazione, del suo orgasmo, li riporti alla mente con una facilità impressionante. Con la stessa facilità con la quale ricordi i tuoi. Quindi, che fra voi due non c’è niente di sospeso, lo sai.
A meno che lui non si riferisca a quell’altra strana questione.
Quella dell’approfondire. Magari su un letto.
Anche quella la ricordi.
Ma fai a gara con te stesso per ricacciarla in fondo alla mente da quando l’hai sentita.
- Non vedo a che pro.
Matthew Bellamy ha riso.
E tu ti sei sentito offeso a morte.
Questo lo sai perché la tua pelle s’è tesa tutta in un’unica volta, e hai scoperto i denti in un sorriso sarcastico e infastidito. Lo schermo del televisore, in un brandello di nero fra una pubblicità e l’altra, ti ha rimandato addosso un riflesso spaventoso. Sorridi in modo così orribile solo quando sei veramente offeso.
Non gli hai dato modo di accorgersene.
- Sei interessante. – ti ha detto lui, quasi con curiosità scientifica, - Mi andrebbe di conoscerti meglio.
E allora hai riso tu.
La verità è, in questo momento come quaranta minuti fa, quando reggevi un cellulare fra le dita e fissavi il vuoto con aria sarcastica, che quest’uomo ti stuzzica. Che per anni hai avuto di lui un’idea ben precisa, un’idea colorata di stupidità, sbadataggine, stravaganze e sottomissione. Che poi lui ti si è presentato davanti con prepotenza e hai scoperto che in realtà, dell’idea che avevi di lui, restava ben poco di reale. Quasi niente.
E quindi.
Ora sei davanti al portone di un enorme palazzo a vetri dall’aria sciatta e falsamente elegante. Cerchi il nome sul citofono e pressi il pulsante appena lo trovi, senza esitare neanche un attimo.
È curiosità, solo curiosità, quella che vuoi soddisfare.
Lui apre e sillaba “decimo piano” senza neanche chiederti di identificarti.
È un punto a tuo favore, ti sta aspettando con trepidazione.
Segna un punto anche lui, però: è totalmente a proprio agio.
E anzi, gioca in casa.
Inghilterra-Lussemburgo: due a uno.
Sospiri, immettendoti nell’atrio del palazzo, e mentre ti guardi intorno ti ripeti che i tuoi nonni avevano ragione ad insistere sul fatto che non bisogna mai giudicare un libro dalla copertina. Non li hai mai ascoltati – se l’avessi fatto, non avresti cominciato a truccarti e fare la puttana sui palchi di mezzo mondo, probabilmente – ma ora, lanciando occhiate severe al puro, sfavillante sfarzo che ti circonda, sai che avresti dovuto. Quello che all’esterno sembrava uno di quei palazzi moderni pronti ad esibire un’opulenza megalitica quanto inconsistente, è in realtà un palazzo semplicemente ricco. E basta.
Scrolli le spalle ed entri in ascensore, sforzandoti di non dar troppo peso alla lucidità perfetta dei bottoni dei piani – intonsi come mai toccati – e alla nitidezza della tua immagine riflessa nell’enorme specchio parietale di fronte a te.
Per compensare tutta l’austera perfezione di quanto ti circonda, la corsa dell’ascensore è abbastanza lenta da permetterti di pentirti più o meno un milione di volte dell’aver ceduto a quell’istinto assurdo – e che ora riconosci come suicida – portandoti fino a lì.
Lui ti aspetta sulla soglia di casa, mollemente poggiato contro lo stipite della porta. Sorride come potrebbe sorridere un gatto con un topo fra le mani. Sorride perché è convinto di averti messo in trappola. Tu sai che non è vero, o almeno lo speri, e questo ti aiuta a sorridere a tua volta, piantando una mano su un fianco e chiedendogli se intende farti entrare o lasciarti lì sul pianerottolo a farsi guardare mentre rimane immobile in posa plastica. Provi a metterlo a tacere definitivamente con un’uscita di cattivo gusto – “non sono mica un fotografo io, Bellamy, e se ci tenevi tanto a fare lo splendido ci si poteva vedere fuori, da qualche parte” – ma lui vanifica tutti i tuoi sforzi mettendosi sonoramente a ridere proprio nel bel mezzo della frase. La tua voce si smorza e poi cade nel silenzio, e tu ti senti in imbarazzo.
Era una cosa che non succedeva da moltissimo tempo.
Anzi, erano due cose che non succedevano da moltissimo tempo. Perché oltre all’imbarazzo c’è anche il fatto che ti ha zittito. E questo probabilmente non è mai successo.
Si scosta comunque dalla porta di casa e ti lascia entrare. Tu fai finta di non notare che il suo appartamento è enorme e bellissimo, completamente diverso da come l’avevi immaginato – sì, perché hai anche perso tempo ad immaginarlo, mentre ci arrivavi.
Non è disordinato, non è ipercolorato, non ha un aspetto personale.
È un meraviglioso, freddissimo appartamento da scapolo per scelta. Anche un po’ maniaco della pulizia, a dirla tutta. Oppure semplicemente dotato di stuoli di domestiche. Non riesci a scorgere un granello di polvere da nessuna parte.
- Vivi solo? – chiedi, addirittura stupito, mentre lui ti fa strada in cucina, una cucina moderna, nera e lucida con le rifiniture bianche, gigantesca, e poi ti prega di accomodarti mentre prepara il caffé.
Non risponde alla tua domanda, ti lascia lì a languire nel dubbio, col terrore irrazionale di vedersi spalancare la porta d’ingresso sulla sua ragazza che torna a casa dopo una massacrante giornata di lavoro o chissà che altro. Chiaramente, sai che è impossibile. Non ti avrebbe mai invitato se ci fosse stata quella possibilità. A meno che le sue intenzioni non fossero ancora peggiori di quelle che immagini. E a questo proprio no, non vuoi pensare.
Quando lui si siede davanti a te, allungandoti sul tavolo una tazza colma di caffè annacquato, cerchi di ricordare il nome della sua donna. E ci riesci.
- Credevo vivessi con Gaia. – consideri, fingendo un disinteresse che proprio non ti appartiene.
Lui ride, e tu cominci a odiarlo, il suono di quella risata. È fastidiosa, acuta e sguaiata. Sembra prenderti per cretino. Dovrebbe essere proibito ridere così, è maleducato.
- Non viviamo insieme. – ammette lui, sorseggiando il caffè, - Non l’abbiamo mai fatto. È una delle cose sulle quali sono sempre stato chiaro, con lei.
Ghigni. Ti ha offerto il fianco per una battuta acida. L’ha fatto consapevolmente, e tu sai che non dovresti approfittare ma l’occasione è troppo ghiotta per lasciartela sfuggire.
- I tradimenti sono un’altra questione sulla quale sei sempre stato chiaro? – chiedi tagliente, compiacendoti nel vedergli spuntare una smorfia di fastidio sulle labbra che ti dice che, per quanto se lo aspettasse, vederti affondare nel suo ego con noncuranza l’ha irritato.
- Non sono argomenti che si trattino, con la propria ragazza.
- Non sono argomenti che sussistano, in genere, quando stai con qualcuno.
- Oh-ho. Non ti facevo così puritano.
- Non puritano. Solo assennato.
Le battute lapidarie sono sempre state il tuo forte. Sei bravo coi discorsi lunghi e articolati, ma sei ancora più bravo quando si tratta di zittire qualcuno con tre parole in croce. Ci riesci sempre.
Ecco, è così che deve andare.
Tu zittisci lui, non il contrario.
Bellamy non ride più e non dice una parola. Affonda nella propria tazza e medita, mentre anche tu sorseggi il caffé con aria vittoriosa.
- Con Gaia siamo agli sgoccioli. – mormora, senza sollevare gli occhi, - Anzi, direi che goccioliamo già da un bel po’.
Sei tu a ridere adesso.
- Se la situazione è così disastrosa, perché non la lasci?
Lui scrolla le spalle e poggia la tazza sul tavolo.
- Non ho fatto niente per mettermi con lei, non vedo perché dovrei fare qualcosa per lasciarla.
- Ovvero?
- Ha deciso sempre tutto lei. – sbuffa, vagamente annoiato, - Prima o poi mi lascerà anche.
- Comodo. Così ne esci sempre bene. Tanto, nel frattempo, fai il cazzo che vuoi.
Solleva lo sguardo e ti fissa con interesse. Ha dei begli occhi, chiari e luminosi. Di quelli che potresti scambiare per sinceri e trasparenti. Di quelli che è facile prendere per tali. Li conosci, gli occhi di questo tipo: sono uguali ai tuoi. C’è la stessa sfacciata sincerità superficiale. Che, appena scavi un po’ più a fondo, si disperde come uno sbuffo di fumo. Gli occhi di Bellamy, così come i tuoi, sono fondamentalmente torbidi. Come l’acqua bassa dei fiumi; che, quando affondi la mano e sollevi il fango del letto, si colora di sporco.
- Stai cercando di farmi sentire in colpa? – chiede, vagamente incredulo, sorridendo appena.
- No. – affermi con supponenza, - Ti conosco meglio della tua donna. So che sarebbe inutile.
Bellamy ride di nuovo, ma stavolta non riesci a sentirti offeso come prima.
Anche perché questa risata sai di essertela tirata addosso.
- Non mi conosci affatto. – ti informa Matthew, come non fosse consapevole del fatto che lo sai già.
Tu posi la tazza e ti alzi in piedi.
- Comunque so quello che mi interessa sapere. Cioè che sei proprio la persona di merda che mi aspettavo di trovare. Anzi, probabilmente sei peggio. – ti prendi una pausa, scivolando a lungo addosso alla sua espressione indifferente, macchiata da un sorriso furbo e compiaciuto che davvero stona con ciò che gli stai dicendo. – E io scelgo meglio i miei amanti. – continui impietoso, - Non scopo con chiunque.
Lui non si scompone. Gioca un po’, facendo ruotare la tazza sul piattino.
- Io però non sono chiunque. – dice poi, continuando a guardarti.
E negli occhi riesci a leggerglielo. Occhi così li può interpretare solo uno che li ha uguali. E li usa nello stesso modo.
Il desiderio che ha di te lo puoi leggere chiaramente. Senti che farebbe carte false per averti. E questo ti dà un vantaggio non indifferente, anche se non sai quanto ti sarà tornato utile alla fine di questa giornata.
- Sì che lo sei. – argomenti tranquillo, ricambiando il suo sguardo, - Sei proprio chiunque. Del tutto uguale agli altri stronzetti convinti di poter sputare in faccia al mondo solo perché hanno effettivamente le palle per farlo. Le palle non ti rendono meno ridicolo, Bellamy. E neanche meno banale. Solo più volgare.
Sorridi. Sei soddisfatto del decorso della discussione. Ne stai uscendo vittorioso. Ne stai anche uscendo con la bocca talmente piena di sentenze – banali quasi quanto Bellamy stesso – che quasi avresti voglia di chinarti e vomitarle... ma in ogni caso ne stai uscendo in trionfo.
Inghilterra-Lussemburgo: direi due a tre.
Quello che non hai considerato, è che il fischio finale della partita non è ancora arrivato. Nel silenzio dell’enorme appartamento di Matthew Bellamy, risuonano solo i vostri respiri e il rumore bassissimo dei tuoi passi sul pavimento in marmo misto. Niente che somigli anche solo vagamente al gong di un campanello alla fine di uno scontro.
E dire che dovresti saperlo, che nella vita il gong finale non arriva mai finché muori. Perché non puoi impedire a un’altra persona di aggiungere parole alle tue, e non puoi impedirle di muoversi.
Ed è esattamente quello che Matthew fa. Si alza in piedi e ti raggiunge velocemente, avanzando quasi con rabbia. Senti che ha perso tutta la sua flemma, tutta la sua pazienza, anche tutta la sua sicurezza. Nei suoi occhi ormai c’è solo il desiderio che prova nei tuoi confronti. Il suo sguardo non riflette niente. È una pozza priva di senso. Ti stringe allo stomaco, ti dà il tormento per un’infinita serie di secondi, e poi ti serra la gola nel momento esatto in cui lui solleva le braccia e, piantandotele sulle spalle, ti inchioda al muro con un colpo sicuro e doloroso.
- Non ho bisogno di nessuno che venga in casa mia a dirmi chi sono. – ti informa perentorio, chinandosi sulle tue labbra senza neanche sfiorarle, - So esattamente chi sono. La tua analisi precisa potrà pure essere esatta, ma non tiene conto di un fattore importante.
Stretto alla parete e privo di fiato, ti costringi a parlare per pura forza di volontà.
- Sarebbe?
- Che se non ti ho scopato su quella fottuta terrazza è stato solo perché volevo scoparti su un fottuto letto.
Non sai se sia il suo modo di usare le parole. Non sai se sia la sua voce, bassa e cattiva contro la tua pelle accaldata e sensibile. Non sai se sia la luce criminale di quegli occhi, che t’investe senza riguardo, gettandoti addosso una voglia tale che quasi non riesci a controllarla. Quello che sai, è che ora comprendi alla perfezione il desiderio di Matthew. Te l’ha passato come un virus. Si sta facendo strada dentro di te e dà vita a focolai di malessere bruciante come febbre. Nel petto, nelle ginocchia, nei lombi.
- Se non era chiaro prima, te lo esplicito adesso: non scopo con gli stronzi.
Lui sorride – no, non sorride: tira un ghigno crudele sui denti – e stringe la presa sulle spalle.
- E io non mi faccio scappare qualcosa che voglio. Soprattutto quando ce l’ho fra le mani.
Non sai cosa aggiungeresti per contraddirlo. Non ne hai la minima idea, forse soprattutto perché a contraddirlo non ci pensi più, mentre ti si spinge addosso, affondando con la lingua nella tua bocca e stringendoti con una mano alla nuca per avvicinarti il più possibile. Tra l’altro, contraddirlo non avrebbe senso, dal momento che stai per scoprire di aver mentito – perché stai per scopare con uno stronzo – mentre lui sta per segnare in un colpo tutti i punti che lo porteranno alla vittoria finale. Con uno scarto enorme.
Eppure ti lasci condurre senza ritrarti lungo un corridoio infinito che non guardi perché tieni gli occhi ostinatamente serrati, e ti lasci gettare senza fare storie su un letto morbidissimo e spaventosamente grande, di quei letti che a persone come te fanno paura e che invece appagano persone come lui. Ampi spazi vitali e nessun obbligo di condivisione se non per scelta personale. Tu sulle scelte personali non hai mai contato, perché sai che, quando possono scegliere, trattandosi di te le persone scelgono di allontanarsi. È impensabile, e ti fa rabbia, che con Bellamy questo non succeda. Lui meriterebbe la solitudine molto più di quanto non la meriti tu.
La cosa ancora più urtante è che probabilmente lui è anche, effettivamente, molto più solo di te.
Però a lui piace, mentre tu lo odi.
Il che ti fa pensare che lui abbia sviluppato la propria attitudine con un successo decisamente maggiore del tuo.
Le sue mani si insinuano sotto il tuo maglione e divorano la pelle centimetro su centimetro, pressano talmente a fondo che sembra vogliano scavare fino a raggiungere i nervi e toccare direttamente quelli. Vuole sentirti ansimare, vuole sentirti tremare, vuole sentirti tendersi contro di lui e implorarlo di darti di più. Tu gli concedi tutto tranne le preghiere, sai che il sesso è un gioco e che una volta finito non ne rimane niente. Sai che, dei mugolii ai quali ti stai lasciando andare mentre sfiora con un ginocchio la tua erezione attraverso i jeans, non si ricorderà più nessuno. Sai che lui è troppo intelligente per tirarli fuori come argomento di conversazione quando avrete finito di scopare. Sai anche che, nel caso l’avessi sopravvalutato e lui fosse in realtà più stupido di quanto non pensi, se ne parlasse potresti metterlo al suo posto con un sorriso sarcastico – e quello non faticherebbe a interpretarlo.
È per questo che lo accontenti. È per questo che sussurri il suo nome direttamente nelle sue orecchie, è per questo che ti lasci andare a un concertino di sì e incitazioni che suonano più come incoraggiamenti che come attestazioni di desiderio. Lui stringe fra le mani e fra i denti qualsiasi cosa finisca loro in mezzo, e ringhia come un animale, soffiando sulla tua pelle e lasciandole addosso baci talmente caldi e bagnati da sembrare lava.
Ti affonda dentro senza riguardi, e tu sai che lo scontro è almeno pari. Perché lui ti desidera molto più di quanto tu desideri lui, però per lui quello che state facendo vale molto meno di quanto valga per te.
È un compromesso accettabile.
Ansimi e ringhi anche tu, stringendolo fra le braccia, gettandoti a peso morto sul materasso che comincia a intiepidirsi per il calore dei vostri corpi e lasciando che sia lui a guidare, che sia lui a modellarti secondo il proprio desiderio, che sia lui a spingere, che sia lui a stabilire le posizioni e il ritmo. E quando vieni, lo fai con discrezione, per non dargli soddisfazione. Ti copri gli occhi e mugugni appena, un suono quasi impercettibile. Lui ne è indisposto, vorrebbe farti urlare perché ti vuole al punto da desiderare di lasciarti addosso un segno indelebile, e tutti sanno che non sono i graffi le cose che rimangono del sesso, e non sono neanche i morsi e i succhiotti, ma gli orgasmi. Un orgasmo epocale non te lo dimentichi più finché vivi, e il tuo, dannazione, lo è stato, ma lui non lo saprà mai.
Mentre viene, lui ti azzanna alla giugulare come un predatore. Stringe quasi volesse strapparti la carne di dosso e divorarti. Però non ti abbraccia, e anzi si discosta subito, prima ancora di aspettare di riprendere fiato. Cade sul materasso di schiena, le gambe semidivaricate e la testa sul cuscino, un braccio ancora incastrato dietro la tua schiena, e senti scemare il suo interesse respiro dopo respiro, come fuggisse via dal suo corpo accompagnando ogni particella d’ossigeno.
Se non ha aspettato lui, tanto meno lo farai tu. Ti assicuri solo di essere in grado di reggerti sulle gambe e poi salti in piedi, andando alla ricerca dei tuoi vestiti e indossandoli uno a uno con sicurezza. Lui ti guarda, l’espressione indecifrabile, rimanendo immobile dove si trova.
Quando hai finito di rivestirti, recuperi anche il cappotto e ti fermi un attimo a fissarlo.
- Spero che quello che abbiamo fatto non ti faccia pensare che io abbia cambiato idea sul tuo conto.
Suona come un’estrema e blandissima difesa, ma dovevi dirlo. Devi assicurartene. Sai che non mentirà, non ne avrebbe motivo ed è talmente pieno di sé da non averne neanche bisogno.
- Non mi aspettavo niente del genere. – confessa ridendo.
La risata è sempre la stessa. Non sai davvero come fai a sopportarla. Probabilmente ti aiuta solo la consapevolezza che a minuti sarai fuori di lì e quel gioco assurdo non avrà più modo di ripetersi.
Perché. Non. Si ripeterà.
Non lo farà.
- E cosa ti aspettavi? – chiedi acido, gettandoti la giacca su una spalla.
Lui si rigira fra le lenzuola, abbandonandosi languidamente su un fianco e guardandoti. Sulle labbra, un sorriso pericoloso che ti scarica addosso brividi e paura al punto da farti pensare di essere tornato ammalato proprio come prima.
Che non si ripeterà è ancora una certezza.
Lo è, vero?
- Ne riparleremo quando tornerai.
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