Fandom: Originali
Genere: Introspettivo, Romantico.
Rating: NC-17.
AVVISI: Incest, Angst, Slash, Underage, Age Difference.
- Simone ha diciassette anni ed una relazione segreta con suo fratello maggiore Salvo. Ultimamente, le cose non vanno particolarmente bene, fra loro. Non si vedono da tempo, e Salvo sembra intenzionato a sposare la sua fidanzata, Serena. In occasione delle vacanze di Natale, i due sono costretti ad incontrarsi e, possibilmente, cercare di mettere un punto finale alla loro relazione. Forse.
Note: Scritta per la terza settimana delle mie amate Badwrong Weeks, a tema incest, si tratta della classica storia che io sono partita a scrivere dicendo "dai! Facciamo quattro paginette di porno introspettivo", e poi mi è completamente sfuggita dalle mani diventando un ENORME MOSTRO INFORME. Emoangst, perché quando c'ho per le mani i personaggi adolescenti (che parlano in prima persona, poi!) non ho più freni. E' una tragedia. La mia è una condizione clinica ed io dovrei essere curata, e invece guardatemi, free in the wind, mentre continuo a scrivere queste robe. Me lo lasciano fare, proprio. Mi incoraggiano. E' tremendo.
Comunque! Il titolo è preso ad un verso leggermente modificato di Love will come through dei Travis, mentre la citazione iniziale è presa da You were a kindness dei The Nationals. Allegria.
Già che c'è, la storia partecipa anche alla challenge indetta da 500themes_ita, su prompt #57 (Una strada da seguire).
All publicly recognizable characters, settings, etc. are the property of their respective owners. Original characters and plots are the property of the author. The author is in no way associated with the owners, creators, or producers of any previously copyrighted material. No copyright infringement is intended.
STANDING AT THE CROSSROAD OF HIGHROADS AND LOWROADS

It doesn't work that way,
Wanting not to want you won't make it so.
It doesn't work that way,
Don't leave me here alone.

Salvo mi guarda, dall’altro lato del tavolo, ed è evidente che non vorrebbe essere qui. È evidente che la sola idea lo infastidisce, che potendo prenderebbe il treno e tornerebbe a Roma anche adesso.
- È andato bene il viaggio? – chiede mamma, servendogli una dose illegale di pasta al forno, - Mi dispiace averti costretto a prendere il treno, ma…
- Non preoccuparti, ma’. – le risponde lui, abbozzando un sorriso comprensivo, - Papà mi ha detto che le cose non vanno benissimo, ma non è un problema, il viaggio in treno non mi pesa. Comunque al ritorno in stazione posso andarci anche da solo, non c’è bisogno di accompagnarmi. Risparmiate i soldi per la benzina.
- Eh, ma non pensare già a quando te ne vai, che sei arrivato due ore fa. – mamma ride, servendo anche me. Io non tocco cibo. – Mangia, Simone, che sei tutto pelle e ossa.
Io sollevo di nuovo lo sguardo su Salvo. Lo trovo che fissa ostinatamente il piatto, giocando con la forchetta coi suoi anelletti.
- Non ho fame. – dico tagliente, alzandomi in piedi. Mentre mi allontano verso camera mia, sento mamma sussurrare a Salvo “ma siete ancora litigati? Parlaci con tuo fratello, Salvu’. Avanti, che è Natale”.
Sì, certo. Buone feste.
*
Ho gli auricolari piantati nelle orecchie e Serj Tankian che mi urla nel cervello così forte che è un miracolo che riesca a sentire bussare alla porta. Mi dico “sarà Salvo”, e mi batte il cuore, e mi sento stupido, ma ci credo davvero perché è l’unico in questa casa che bussi alla porta quando vuole entrare invece di farlo direttamente senza chiedere il permesso.
Poi ricordo che mi sono chiuso a chiave.
- Simo, stiamo andando a letto. – dice mia madre a bassa voce, - Se ti viene fame, la pasta è in frigo.
Non rispondo neanche. Mi sento ancora più idiota a pensare di aver sperato che fosse lui.
Ascolto il suo sospiro deluso e i suoi passi stanchi mentre si allontanano lungo il corridoio, e penso che è triste perché mi sono trasformato in quello che lei non avrebbe mai voluto diventassi, in quello che Salvo non è mai stato, un “adolescente difficile”, per usare un termine caduto in disuso prima che io nascessi, uno di quei ragazzini musoni, che stanno sempre chiusi in camera loro, che hanno pochi amici e quei pochi che hanno non li vedono neanche tanto spesso. Uno di quelli che si vestono sempre di nero – cazzo, mamma: come se fosse una colpa non volere indossare niente che sia visibile dallo spazio – e che stanno tutto il tempo con gli auricolari infilati nelle orecchie ad ascoltare musica che lei mai nella vita si sognerebbe neanche di considerare tale. Uno di quelli che se appena appena li sfiori nel modo sbagliato ti abbaiano contro, ti rispondono male, se ne vanno sbattendo la porta. Uno di quelli che li guardi e ti chiedi dove hai sbagliato nella vita.
Be’, mi dispiace, mamma. Dove hai sbagliato non lo so, ma è chiaro che da qualche parte sarà stato, perché il mio cervello funziona da schifo e mi rifiuto di accettare che sia colpa mia. Perché quello che mi è successo negli ultimi quattro anni non è normale, e io non posso pensare che sia colpa mia, se è successo. E non posso pensare che sia colpa di Salvo, perché— perché non posso.
Spengo il lettore mp3 e resto in ascolto finché non sento la porta della camera da letto dei miei chiudersi. Sento il brusio lontano delle loro voci per un po’, i sospiri di mamma, il fruscio delle pagine che papà lentamente volta mentre legge, poi le molle del materasso che cigolano. Il clic attutito delle lampade da comodino che vengono spente.
Il silenzio mi piace, soprattutto quello notturno. C’è una calma profonda, nel buio della notte, anche quando vivi in città ed è puntualmente spezzato dai fari di qualche macchina o dagli schiamazzi di qualche idiota ogni cinque minuti. Ogni suono, ogni luce, sembra non durare che per più di pochi istanti, e quando scompare è come se venisse inghiottita dal buio. Quasi non ne resta traccia.
Sul soffitto di camera mia, la luce dei lampioni della strada, filtrata attraverso le persiane di legno dagli scuri appena accostati, viene proiettata in lunghe strisce oblique che partono con una forma ben definita e poi si sfumano nell’ombra sulla distanza. Sono quadrati, tutti spigoli ed angoli, vicino alla finestra. Poi i loro contorni diventano vaghi, indefiniti. Cominciano a fondersi l’uno con l’altro. Pochi centimetri più in là, diventano buio.
Io e Salvo non facevamo niente di male, fino a qualche anno fa. I nostri contorni erano precisi. Lui era il fratello maggiore, io il fratellino minore. Quando mi abbracciava, non c’era urgenza. Quando ci toccavamo, non c’era desiderio.
Non so cosa si sia risvegliato in me, in lui, in entrambi, così all’improvviso, quando tutto è successo. I nostri contorni si sono sfumati. Gli schiaffi dati per gioco si sono trasformati in carezze, gli abbracci erano richieste, le mani cercavano sotto i vestiti, le dita—
Chiudo gli occhi. Buio.
Mio fratello dorme, o non dorme affatto, due porte più in là.
Non riesco ad impedirmi di andare da lui.
*
Mi concedo di sperare che Salvo si sia chiuso in camera a chiave, perché almeno questo mi darebbe una scusa concreta per tornare in camera mia, rimettermi a letto ed odiarlo e piangere tutta la notte. Sono un sostenitore del potere liberatorio delle lacrime. Certo, non mi metterei mai a piangere in pubblico e non andrei di sicuro a vantarmene coi miei compagni di scuola, ma piangere mi piace, cioè, non è che mi diverta, ma ne capisco l’utilità. Non è vero che non serve a niente. Quando una situazione è senza uscita, e tutto quello che puoi sperare è di riuscire a trovare la forza di sopravviverle un altro giorno, e poi un altro, e un altro ancora, piangere può essere utilissimo. Non risolve niente, ma ti aiuta a svuotarti. Una volta vuoto, puoi essere riempito nuovamente. E così via.
Salvo non si è chiuso in camera a chiave, e quando entro lo trovo seduto sul letto, la camicia sbottonata ma ancora vestito, che guarda verso di me come se mi stesse aspettando— no, perché mi stava aspettando. E vorrei odiarlo. E vorrei piangere. E vorrei dirgli qualcosa di orribile e poi chiudere la porta e tornare in camera mia e dimenticarlo, e finire il liceo, e fare l’università tipo nel posto più lontano da qui che esiste, e trovarmi una ragazza da portare a casa per le feste e sbattergliela in faccia ogni volta, sbattergli in faccia— posso essere felice senza di te, okay?, posso stare bene, posso—
Mi sfugge un gemito doloroso e mi rendo conto che stavo trattenendo il respiro, e lui si alza in piedi, ed è teso, e i suoi occhi mi parlano, e lo voglio così tanto che ho la nausea.
Mi chiudo la porta alle spalle e mi ci appoggio contro perché non so se ho la forza di reggermi in piedi, davvero, non lo so. Salvo espira e sembra rilassarsi. Torna a sedersi, si passa una mano sugli occhi, poi la lascia ricadere mollemente fra le gambe.
- Speravo non venissi. – dice.
- Bugiardo. – rispondo io, - Mi aspettavi.
Lui solleva lo sguardo verso di me.
- Sono vere entrambe le cose. – dice. Tutto questo dolore che gli leggo negli occhi è ingiusto. Lui non ne ha diritto. Non ne ha diritto perché non vede quanto lo voglio? Quanto sto male ogni volta che non mi guarda, che si rifiuta di parlarmi, di toccarmi, di considerarmi? Come si permette di stare male? Solo io posso.
Mi avvicino di qualche passo, sono stupito di riuscirci. Quando il mio corpo si dimostra più forte della mia mente mi sorprendo sempre. È quello che mi fa capire che, quando Salvo mi dice “dobbiamo solo essere forti e non vederci abbastanza a lungo da far scomparire questa cosa”, ha ragione. Solo che mi rifiuto di accettarlo.
- Torna in camera tua, Simo. – mi dice lui, abbassando lo sguardo, - È meglio.
Non me ne frega un cazzo di cosa è meglio.
Gli prendo il viso fra le mani, lo costringo a sollevare gli occhi, a guardarmi. Guardami, cazzo. Dio, ti odio quando non mi guardi.
Lui appoggia una mano sulla mia, deglutisce, cerca di ritrarsi. Non lo vuole veramente, io lo so, lo sento. Mi chino e sfioro le sue labbra con le mie. Non sono io a chiedergli di più, è lui a offrirmelo. Schiude le labbra, sfiora le mie con la lingua. Io lo lascio passare perché nel mio cervello non esistono alternative. Nemmeno le voglio. E quando le sue braccia – le sue braccia, Dio, la forza con cui le stringe – si chiudono attorno alla mia vita, attirandomi più vicino, mi concedo, per qualche attimo, il lusso di non pensare a niente.
Poi il bacio finisce – perché finisce sempre, perché ancora non ho trovato il modo di congelare il tempo, e nel momento in cui accadrà sicuramente lo fermerò per sempre nell’esatto istante in cui le nostre labbra si sfiorano – ed io appoggio la fronte con la sua, e mi sembra di respirare liberamente per la prima volta dopo mesi. Lui mi sorride addosso, le labbra premute contro la mia guancia. È un sorriso così triste. Vorrei non dovere mai aprire gli occhi per vederlo.
- Serena? – gli chiedo a bassa voce.
- Arriva domani pomeriggio. – risponde lui, - Non ha trovato posto sul treno.
Aggrotto le sopracciglia.
- Perché non avete fatto il biglietto insieme? – domando.
Lui scrolla le spalle.
- Non sapevo se voleva venire. – poi silenzio, poi riprende, - Volevo una notte solo per noi.
Ogni volta, cazzo. Ogni volta.
Vorrei che mi spiegasse come pensa sia possibile per me smettere di volerlo se lui per primo non ha alcuna intenzione di smettere di volere me.
*
Mio fratello ha ventotto anni. Sono undici più di quanti ne ho io. C’è stato un periodo della sua vita in cui lui aveva vissuto da solo coi miei più a lungo di quanto avesse conosciuto me. Il solo pensiero, quando mi attraversa per sbaglio il cervello, mi fa incazzare più di quanto, sospetto, sia ragionevole e giustificabile.
Faccio fatica ad immaginarlo senza di me, perché per quanto mi riguarda non esisto senza di lui. Non vado così in là da dire cose stupide, melense e, peraltro, il novanta percento delle volte false come “è lui il mio primo ricordo”. Il mio primo ricordo è il cazzo di coso con le apine che i miei mi hanno appeso sul lettino quando sono nato. C’è rimasto finché non ho avuto un letto vero, cosa che si è verificata in età tragicamente tarda – avrò avuto cinque? Sei anni? – perché prima che papà venisse assunto alle Poste a tempo indeterminato non potevamo permetterci l’affitto di una casa più grande.
Quindi no, Salvo non è il mio primo ricordo. Ma da che ricordo lui c’è sempre stato. Con le mani grandi dalle dita affusolate e le gambe sempre troppo lunghe che gli davano quell’aspetto ridicolo, come se fosse cresciuto troppo in fretta e non avesse avuto il tempo di abituarsi alle forme e alle dimensioni del suo nuovo corpo.
Di lui ricordo cose surreali. Tipo che a quattordici anni si rifiutò di cambiarsi i vestiti e farsi la doccia per una settimana in segno di protesta quando papà aveva scoperto che fumava di nascosto e aveva deciso di metterlo in punizione e togliergli la paghetta, una storia tragica che si concluse solo quando chiamarono da scuola dicendo che la situazione stava cominciando a diventare imbarazzante e gli insegnanti erano costretti a fare lezione con le finestre spalancate nonostante il gelo di gennaio per la puzza insopportabile.
O il modo strano che aveva di mangiare gli spaghetti. Non ha mai imparato ad arrotolarli attorno alla forchetta – è sempre stato maldestro, con le mani; a sedici anni ha cercato di imparare a suonare la chitarra, ma non c’è stato verso; a venticinque ha provato ad imparare a mettermi le mani addosso in maniera meno ruvida e affamata, non c’è mai riuscito, ringrazio ogni giorno per questo – si limitava a raccoglierli, portarli alla bocca e poi risucchiarli cercando di fare meno rumore possibile.
Ricordo il primo succhiotto che mi mostrò. Aveva diciassette anni. Da qualche mese, i miei avevano cominciato a dargli il permesso di rincasare oltre la mezzanotte. Aveva il coprifuoco all’una, ma molte volte non lo rispettava. Capitava spesso che io restassi nel mio lettino, le coperte tirate fin sopra il mento, a fingere di dormire, finché non sentivo mamma e papà smettere di parlare in camera. Dopodiché scivolavo fuori dalla mia stanza e camminavo in punta di piedi lungo il corridoio, muovendomi a tentoni nel buio. Mi sedevo per terra, sul tappeto, la schiena contro la parete, e lo aspettavo. Spesso finivo per addormentarmi prima che lui fosse tornato, e la mattina mi ritrovavo magicamente trasportato di nuovo nel mio lettino. A tavola, durante la colazione, trangugiando i suoi cereali con aria assonnata, Salvo sollevava lo sguardo su di me, mi regalava un sorriso discreto e mi faceva l’occhiolino, e io mi sentivo grande, partecipe di un segreto, ed ero felice.
Quella notte no, però. Fece abbastanza in fretta, forse perché era ubriaco e dovette riaccompagnarlo a casa qualcuno. Nel momento in cui sentii girare la chiave nella toppa, sollevai la testa di scatto. Stavo per addormentarmi, ma quel rumore mi aveva svegliato immediatamente. Lo sentivo canticchiare piano, stonato come una campana. Non vedevo l’ora di vederlo.
Lui quasi inciampò sul tappeto mentre entrava, ma nonostante il buio mi vide subito.
- Piattola! – rise, inginocchiandosi per terra e poi lasciandosi ricadere seduto accanto a me, - Domani hai scuola.
- Volevo aspettare che tornavi. – dissi io, sollevandomi subito in piedi. Ero alto quanto lui seduto. – Era bella la festa? – chiesi emozionato, sperando che mi rivelasse qualche particolare proibito, uno di quei dettagli che ogni tanto buttava lì parlando coi nostri genitori, per prenderli in giro. Quelle cose che facevano arrossire mamma e che facevano dire a papà “Salvo, statti zitto. Tuo fratello.”
- Bella? – rise lui, appoggiando il capo indietro contro la parete, - Fantastica.
- Ti sei divertito, allora?
- Tantissimo.
- Allora mi porti, la prossima volta? – piagnucolai, aggrappandomi alla sua spalla e strattonandolo un po’. Lui rise, voltandosi a guardarmi.
- Sei troppo piccolo, - disse, scuotendo il capo, - Appena cresci.
- Sono grande. – risposi io, facendo il broncio. Lui rise, come sempre divertito dalla mia stupidità infinita, e la sua risata mi offese così tanto che lo strattonai con più forza. La macchia violacea si stagliava sullo sfondo della sua pelle solo lievemente abbronzata come una specie di livido orribile. Era piccolissima, ma sembrava super-dolorosa. – Cos’è questo?! – inorridii, indietreggiando spaventato, - Chi ti ha fatto male?!
Lui mi lanciò un’occhiata confusa e poi si toccò il collo, sorridendo nel momento in cui le sue dita sfiorarono il punto più sensibile e ancora accaldato.
- Nessuno mi ha fatto male, Simo. – si affrettò a rassicurarmi con un sorriso, - Me l’ha fatto una ragazza, questo. Si chiama succhiotto. – aggiunse con malizia.
- Cos’è un succhiotto? – chiesi io, guardandolo con curiosità. Lui sorrise di nuovo nello stesso modo.
- Quando cresci te lo spiego. – disse. Io volevo saperlo subito, ma non insistei.
- Tanto non me ne frega niente. – borbottai offeso, e poi lanciai un’altra occhiata spaventata alla macchia violacea. – Sicuro che non ti fa male? – domandai ancora, a bassa voce.
Il suo sorriso si fece distante, le punte delle dita che sfregavano pigramente contro il marchio.
- Forse un po’. – disse piano.
Gli appoggiai una mano sulla spalla, sporgendomi verso di lui e premendogli addosso un bacio. Lui si ritrasse appena, voltandosi a guardarmi con gli occhi spalancati.
- Così non fa più male. – mi giustificai io, ma fu il modo in cui mi guardò ad imbarazzarmi al punto da abbassare gli occhi e scappare via qualche secondo dopo.
Non so, se dovessi scegliere il momento esatto in cui tutto è cominciato, probabilmente sceglierei quello. Di notte, di nascosto, per caso, col suo sapore sulle mie labbra. È appropriato, malgrado in quel momento l’idea di una relazione vera e propria con lui non mi sfiorasse minimamente, né, credo, sfiorasse lui.
Però sì. Di notte, di nascosto, per caso. Siamo noi.
*
Mi mordo un labbro con forza perché non possiamo fare rumore – santo Dio Simo ti prego non fare rumore, ma mi fa male, Diosanto Simo, no ti prego non fermarti, Simo per favore, non fermarti ti prego, Simo ti prego non fare rumore, memorie di qualche anno fa, le porto incise sul corpo, segni invisibili delle sue dita – non posso assolutamente, camera dei nostri genitori è in fondo al corridoio e il letto già cigola, attirando l’attenzione abbastanza anche senza i nostri gemiti e sospiri.
Mi sento esplodere perché adoro il modo in cui mi tocca. Anche mentre mi scopa così, goffamente, perché c’è troppo poco spazio per muoversi e perché bisogna stare attenti ad ogni rumore sospetto, e silenziosamente, perché non possiamo parlare, non può dirmi le cose che di solito mi dice e che— Dio, spero che domani mamma e papà non gli chiedano di andare con loro a fare la spesa per il pranzo di Natale, perché ho bisogno di stare da solo con lui un paio d’ore prima che quella arrivi e—
Vengo con uno sbuffo che non riesco a contenere, stringendogli le gambe attorno ai fianchi. Lo sento muoversi dentro di me ancora per qualche secondo, poi grugnisce e viene anche lui, svuotandosi dentro al preservativo. Mi si schiaccia addosso subito dopo, sento il suo respiro caldo sulla pelle. È piacevole, perché fa freddo. Ma devo ammettere che, in genere, anche quando fa caldo fatico a spingerlo lontano da me in queste situazioni.
- Sei appiccicoso come le ragazze. – mi prende sempre in giro lui.
- Com’è Serena? – ritorco sempre io. Questo in genere basta a zittirlo.
Serena è la sua ragazza – adesso fidanzata – da due anni e mezzo. Io e lui stiamo “insieme” (o qualsiasi cosa sia quest’imitazione di “insieme” che ci trasciniamo dietro) da tre anni, il che, immagino, la dice lunga sulla natura del nostro rapporto, e anche del loro.
La cosa con Salvo ovviamente è cominciata molto prima che lui si azzardasse a toccarmi. Io glielo leggevo in faccia. Ricordo perfettamente l’estate dei miei tredici anni, le vacanze al villino degli zii di mamma a Trabia, i pomeriggi estenuanti a bordopiscina, i suoi occhi sempre addosso. Mi sentivo bene, quando mi guardava. Sapevo che mi voleva. Avevo solo una vaga cognizione di cosa questo significasse, delle cose che implicava, ma era una consapevolezza che mi sentivo dentro.
Quando Salvo ha ceduto – va detto, dopo un’ostinata insistenza da parte mia durata ben più di qualche mese, quasi scientifica nella sua crudeltà, specie considerato che, nel frattempo, avevo avuto modo di imparare a memoria le sue reazioni alla mia presenza, al mio modo di muovermi, di guardarlo, di parlargli, e sapevo sempre esattamente cosa dire o fare per scatenare in lui le reazioni più violente – è stato dopo quasi due anni di silenziosa consapevolezza che, prima o poi, saremmo comunque finiti a letto insieme. Una cosa che avevamo accettato entrambi come inevitabile, una cosa che io avevo voluto con disperazione quasi infantile per così tanto tempo da dimenticarne l’origine, una cosa dalla quale lui aveva provato a fuggire tanto a lungo da dimenticare perché.
Quando è successo, non c’è stato bisogno di parlarne. Non c’era niente da dire.
- Io non sono normale. – ha soltanto bisbigliato lui, stringendomi i fianchi fra le mani.
- Ed io come sono? – ho chiesto io a bassa voce, premendomi ansioso contro di lui.
Lui ha risposto in un soffio.
- Bellissimo.
È abbastanza degradante e ridicolo da dire, e di certo quando penso a quando sarò vecchio e starò per morire non vorrei che il giorno più felice della mia vita sia stato quello in cui mio fratello mi ha detto che ero bellissimo prima di scoparmi in fretta e furia nel capanno degli attrezzi in fondo al giardino del villino degli zii, col cuore in tumulto per il sesso e per la paura e l’odore di noi che sembrava non dovesse andarsene via neanche dopo diecimila docce, ma insomma. Fino ad oggi è un momento che niente è stato in grado di superare, per cui.
Nel suo letto non stiamo comodi, è troppo piccolo per due persone. Quando arriverà Serena, loro prenderanno il lettone in camera dei miei, mamma si trasferirà a dormire qui e papà andrà a stare sul divano. Ho perso il conto delle volte in cui Salvo ha detto loro che non importava, lui e Serena potevano andare a dormire da amici, potevano prendere una stanza in qualche bed & breakfast, potevano portare i sacchi a pelo e dormire sul pavimento, potevano trovare una qualche soluzione alternativa. Non è mai servito a niente, a mamma e a papà piace l’idea di Salvo e Serena insieme in camera loro, come ogni brava coppietta. È un fatto mentale.
Quando Salvo ha detto a mamma e papà di aver chiesto a Serena di sposarlo, mamma è scoppiata a piangere, e papà si è tenuto insieme solo per miracolo, ma, mi hanno raccontato, aveva gli occhi lucidi. È stato il momento in cui mi sono reso conto che, per anni, i nostri genitori si erano rassegnati all’idea che loro figlio maggiore non si sarebbe mai sposato. Perché dal liceo in poi non aveva più avuto fidanzatine, neanche occasionali, e non sembrava interessato in quel senso a nessuna delle sue amiche, e loro non riuscivano proprio a capire perché un ragazzo bello, sveglio e intelligente come Salvo non riuscisse a trovare nessuno con cui stare.
Salvo ha scelto Serena perché Serena non lo conosceva. Salvo si è negato a me per anni, poi mi ha avuto e poi ha realizzato che non avevamo futuro, e quando l’ha realizzato ha ricominciato a scappare. Prima a Roma, per l’università. Poi da Serena, per cercare di piantare radici il più profondamente possibile in un posto che fosse lontano da me abbastanza da concedere ad entrambi un’altra possibilità.
Io non ho mai avuto una ragazza. Ho pochi amici, tutti maschi. Non saprei dire se sono gay o meno perché non ho mai baciato nessuno che non fosse mio fratello. Comunque le ragazze non mi piacciono. I ragazzi, in generale, nemmeno. Se dovessi sintetizzare, direi che non ho una vera e propria passione per le persone. Non le capisco, per lo più, e non m’interessa nemmeno.
Ma Salvo è diverso. Io lo voglio. Voglio lui. Non ho mai voluto nient’altro, e lui si aspetta da me che lo lasci andare. Pensa che prima o poi lo farò, è profondamente convinto che prima o poi realizzerò che il mio futuro non è con lui, che devo uscire, trovarmi una fidanzata eccetera eccetera. Cose che in genere mi viene voglia di fare solo quando sono incazzato nero e ce l’ho con lui e voglio fargliela pagare per qualche motivo. Non esattamente i presupposti migliori per cominciare un rapporto con qualcuno, evidentemente, ma lui non se ne rende conto, perché la sua storia con Serena è cominciata proprio con queste basi qui. Per lui è perfettamente normale. Nel casino che regna sovrano nella sua testa dalla prima volta che mi ha toccato sotto ai vestiti, è probabilmente la cosa più normale che ha fatto negli ultimi, boh, cinque anni. Trovarsi una ragazza. Chiederle di sposarlo. Pianificare una vita insieme. Sognare una famiglia.
Ogni tanto vorrei dirgli che ne ha già una. Ha già me. Sono suo fratello, sono già la sua famiglia. Non ha bisogno di cercarsene un’altra.
Però capisco che suonerebbe ridicolo, sarebbe imbarazzante, perché lui invece lo vuole. Ed io non sarò il fratellino piagnucoloso che gli si attacca alla gamba e lo implora di restare.
È il motivo per cui, quando papà e mamma sono saliti a Roma per andare a trovarlo, qualche mese fa, io mi sono rifiutato di andare. Sentendoci al telefono qualche settimana prima che lui chiedesse loro di vedersi, mi aveva anticipato che in quell’occasione avrebbe detto loro del fidanzamento con Serena, l’avrebbe “annunciato ufficialmente”, per dirla con parole sue. Ha chiesto anche a me di esserci. Intendeva che voleva che io lo sentissi direttamente dalle sue labbra, mentre mi guardava dritto negli occhi, possibilmente in qualche ristorante, di fronte a un buon piatto di carbonara “alla romana”, o di fronte a una bella pizza, mentre stringeva la mano della sua fidanzata intrecciando le dita con le sue sopra un’anonima tovaglia di raso bianco.
Non gli ho dato questa soddisfazione, mi sono rifiutato di partire coi miei, e lui non me l’ha perdonata. Voleva essere il suo modo per porre fine a questa relazione incasinata una volta per tutte, ma io non gliel’ho lasciato fare, e ora lui è ancora qui con me, incapace di togliermi le mani di dosso, ed è palese che pensa che è tutta colpa mia, perché non ho lasciato che lui mi lasciasse senza dirmelo di fronte a tutti.
È colpa mia, è vero. Ma se lui spera che me ne penta, è fuori strada.
*
Tanto tempo fa, io e Salvo parlavamo di tutto. Lui era l’unica persona della quale sentissi di potermi fidare completamente, nei suoi occhi c’era la certezza assoluta che avrebbe continuato ad amarmi indipendentemente da qualsiasi cosa io potessi dirgli. Quando sei innamorato di qualcuno hai sempre questo timore surreale di dire o fare qualcosa che farà perdere a quel qualcuno la stima di te sulla quale l’affetto che ti porta si basa. Questo perché in teoria l’essere umano non è fatto per innamorarsi in questo modo dei suoi familiari, quindi non può esserci il sangue alla base di un rapporto romantico, dev’esserci affetto, stima, fiducia, rispetto.
Tutte cose che si possono perdere, che possono sbiadire col tempo.
Il sangue è un’altra cosa. Io e Salvo potremmo smettere di vederci, le nostre strade potrebbero separarsi per sempre, lui potrebbe sposare la sua fidanzata del cazzo e trasferirsi ad Honolulu o che so io. Potremmo smettere di amarci, smettere di volerci. Io potrei smettere di desiderare le sue mani su di me, le sue labbra che mordono le mie, potrei smettere di volere il brivido che mi procura il suo cazzo fra le cosce. E lui potrebbe allo stesso modo smettere di volere me. Ma non potremmo smettere di essere fratelli.
A duecento miliardi di chilometri di distanza, su due pianeti diversi, in due universi differenti, con un buco nero, galassie intere, soli che esplodono, miriadi di stelle a separarci, lui sarebbe sempre mio fratello, e io sarei sempre suo fratello, e il nostro sangue sarebbe sempre lo stesso.
È un pensiero confortante, da un lato. Straziante dall’altro. Perché se fra noi finisse – Dio, sono stupido: quando finirà – io vorrei che finisse tutto. Vorrei poterlo pensare morto. Vorrei potermi illudere che lui non sia mai esistito.
Ma ogni volta che sentirò il rombo del sangue nelle mie vene, saprò che lui c’è. Da qualche parte. E ci apparteniamo ancora. Anche se non lo vogliamo più.
Tanto tempo fa, io e Salvo ci amavamo come un fratello ama un altro fratello, e parlavamo di tutto, qualsiasi cosa, dai miei incubi al suo odio surreale per i broccoli in pastella, dalla sua paura per il futuro ai miei problemi a raccogliere abbastanza gemme per sbloccare le Dragon Shores a Spyro the Dragon.
Ora riusciamo a stento a comunicare per monosillabi sulle questioni basilari e pratiche della nostra esistenza. Ci vuoi il caffè nel latte? Ti serve il bagno? Lascio la luce accesa in cucina? Che guardi in tv? Posso baciarti? Domande che, in risposta, ottengono un misero sì o no, quando non direttamente grugniti, scrollate di spalle o lunghi, immobili silenzi.
Dopo aver scopato qualcosa come tipo cento volte in una notte – esagero, sicuramente; ma è stata una lunga notte – mi rassegno a tornare in camera mia. Il giorno dopo, mamma e papà chiedono a Salvo di accompagnarli a fare la spesa, poi lui li riporta a casa, li aiuta a mettere a posto la roba, prende le chiavi della macchina e va in aeroporto, dove Serena arriverà fra quarantacinque minuti, bionda e riccia e bella e piena di regali di Natale, con le guance un po’ arrossate per il freddo intenso, anche se la prima cosa che dirà mettendo piede a Palermo sarà “oh, ma si sta bene qui, non come a casa”.
“Casa”, per Serena, è Milano, città da cui ha preso anche l’accento più insopportabile del mondo. Per fortuna, Salvo ha conservato il proprio, nonostante ormai viva a Roma da anni. Lei vive lì da molto meno tempo di lui, e il suo accento cede già un po’ alle vocali aperte e strascicate del romanesco, ma si rafforza ogni volta che torna a Milano in visita.
Io Serena l’ho vista una volta sola, su Skype. Era tardi, io e Salvo stavamo parlando di cose a caso, era una di quelle conversazioni che lui definisce “normali”, robe agghiaccianti in cui mi chiedeva cose di cui non mi fregava niente tipo “come va a scuola?” e “hai visto qualche bel film di recente?”, conversazioni dal mio punto di vista assolutamente surreali che lui però concludeva sempre commentando “è bello riuscire ancora a parlare di cose normali!”, sorridendo contento come un idiota. A un certo punto mi fa “dai, chiuso, Serena vuole dormire”. “È lì?” chiedo io, “Accanto a te? Apri la webcam.”
Lui ha fatto mille storie, ma non è ancora successo che riuscisse a dirmi un no che non fosse poi destinato a trasformarsi in sì dopo la giusta dose di insistenza. Alla fine le ha chiesto se le andasse bene vedermi, lei ha risposto di sì, abbiamo acceso le webcam e ci siamo visti.
Speravo che fosse orrenda, e mi sono dovuto arrendere al fatto che invece è bellissima, e l’ho odiata per questo. Per questo, per il suo posto nel letto accanto a mio fratello senza doversene sentire in colpa. Per il fatto che l’avrebbe sposato, sarebbe stata la madre dei suoi figli. Cose che io non avrei mai desiderato per me stesso, con Salvo o con chiunque altro. Ero geloso solo perché lei poteva averle, ed io, se mai le avessi volute, no. Anche se sapevo che probabilmente non le avrei volute mai.
Serena è venuta qui in visita qualche volta, ma fortunatamente sempre durante le vacanze. È più facile, quando non devo andare a scuola, buttare giù una qualsiasi scusa a mamma e papà, dire che mi manca quello zio o quella zia, chiedere se posso andare a passare le vacanze con loro. Le prime volte hanno fatto un po’ di storie, ma è naturale che, quando io non ci sono, col letto in camera mia libero, tutti i vari spostamenti ai quali si sottopongono per proteggere la sacralità del letto coniugale per Salvo e Serena diventano tremila volte più facili, e una volta constatato questo è stato molto più facile convincerli.
Questa è la prima volta che Serena rinuncia a passare il Natale coi suoi per passarlo con noi.
- Finalmente. – ha detto mamma, annuendo soddisfatta, - Presto sarete sposati, avrete dei nipotini. Non provate neanche a non portarli qui ogni Natale!
Valle a spiegare che anche Serena ha dei genitori, che saranno a loro volta nonni. “Cosa li porti i bambini così piccoli a morire di freddo al Nord? E poi qui il Natale è più bello.” Mia madre ha sempre una spiegazione semplice per tutto. Se ti azzardi a dirle cose tipo “ma qui non c’è la neve, per esempio”, ti risponde con obiezioni pratiche, della serie “la neve è solo una complicazione, rende le strade scivolose, devi mettere le catene alle ruote della macchina, ti bagna tutti i vestiti, io ho vissuto qui per cinquantacinque anni e non ho mai sentito la mancanza di un bianco Natale”.
Nella sua mente, la possibilità che tu possa non essere d’accordo non esiste. Magari a te la neve piace. E lei “be’, sì, è bella, ma non è pratica”, e per lei è risolta lì. Io, se avessi un figlio, vorrei che passasse un Natale con la neve. Vorrei che facesse il pupazzo di neve in giardino e vorrei che mi prendesse a palle di neve la mattina del venticinque. E visto che parliamo di fantasie che non si realizzeranno mai e probabilmente non vorrei nemmeno vedere realizzarsi, vorrei che fosse mio e di Salvo in un posto lontanissimo da qui. Un posto dove non ci conosce nessuno, dove non c’è altra famiglia che noi. Un posto con la neve a Natale.
*
Abbiamo sistemato i regali di Serena sotto l’albero assieme ai nostri. L’immagine era carina, e mamma ha fatto un sacco di foto. Poi ha pianto, commossa, mentre pensava che nessuno la stesse guardando. Io la guardavo, e ho fatto una smorfia schifata. Salvo guardava me e se n’è accorto, e mi ha fissato severamente, con aria di rimprovero, per qualche istante, prima di rinunciare dopo aver capito che la mia espressione non sarebbe di certo cambiata solo perché lui non l’approvava.
La cena della Vigilia è divertente e tranquilla, almeno, immagino lo sia per gli altri, mentre io passo il mio tempo ad odiare sistematicamente qualsiasi cosa, dal cibo al dolcevita bianco dall’aspetto morbidissimo di Serena, dalla voce chiocciante di mamma alle decorazioni di pungitopo in plastica sparse sulla tavola imbandita, dai tentativi maldestri di papà di intavolare una conversazione su argomenti economici e politici con Salvo al sapore dolciastro e sventato della Coca Cola con troppo ghiaccio nella caraffa.
Non c’è niente che funzioni, stasera. Salvo non mi guarda e lo sento lontano chilometri. Se penso che solo stanotte era stretto a me, dentro di me, e mi baciava affamato sussurrandomi scuse e promesse – Dio, lo odio, lo fa sempre; quando scopa spegne il cervello e comincia a dire cose. Piccolo, mi dispiace, pulce, mi dispiace così tanto, tesoro, lo sai che ti amo, Dio, mi fai impazzire, amore mio, te lo giuro, non ti toccherò mai più con un dito, perdonami, ti amo, scusami, posso toccarti ancora? – e invece adesso è lì che evita i miei occhi e sorride a Serena e le stringe una mano e la prende in giro per il suo accento e ride quando lei gli tira uno scappellotto giocoso ed è lontano una vita intera da me. Una vita intera.
Ad un certo punto comincio semplicemente a sperare che la tortura finisca il prima possibile. Entrambi i miei genitori notano il mio silenzio, mio padre mi chiede se sto male e mia madre, che invece sa perfettamente che sono solo incazzato – come sempre, d’altronde, temo che mamma abbia dimenticato com’è la mia faccia quando sorrido, da tanto è che non mi vede farlo –, mi chiede semplicemente di mangiare qualcosa, che sono troppo magro, come al solito.
Salvo non dice nulla, perché mi conosce troppo bene, e Serena neanche, perché non mi conosce affatto.
Poi il miracolo avviene, il cibo in qualche modo finisce, si fanno le undici e mezza. Gli altri anni, in genere, aspettavamo sempre la mezzanotte per brindare, aprivamo i regali e solo dopo andavamo a letto. Quest’anno, invece, mamma è presa bene dal gran numero di regali sotto l’albero e non vuole fare brutta figura con Serena, perciò ripesca dalle profondità della propria memoria tradizioni ormai cadute in disuso da un ventennio e stabilisce che è ora di andare a letto, che domani mattina si sveglierà di buon’ora, preparerà i biscotti fatti in casa e poi apriremo i regali tutti insieme. Seduti sul tappeto intorno all’albero con ancora addosso i pigiami, scommetto che già pregusta la scena e, se solo ci pensa, le salgono le lacrime agli occhi un’altra volta.
Vado a letto, sentendomi liberato da un peso ma triste come non sono mai stato, pensando che stanotte la casa sarà invivibile. Non ho voglia di restare chiuso in camera mia, ma non potrò andare in salotto perché sul divano ci sarà papà a dormire. Potrei nascondermi in bagno – Dio, cosa sarà domani mattina quest’appartamento? Un solo bagno per cinque persone – ma è troppo piccolo, e poi, onestamente, che depressione.
Quando sento la casa scivolare nel silenzio, stabilisco di fuggire in cucina. È il posto più caldo della casa, dopotutto. E poi non ho mangiato quasi niente, durante la cena, e adesso ho fame. Mi brontola lo stomaco, per cui, prima di svegliare tutti, sgattaiolo via lungo il corridoio, mi infilo in cucina e mi chiudo la porta alle spalle. In frigorifero c’è un’abbondante porzione di tiramisù avanzato, e quando la vedo lo stomaco brontola più forte. La tiro fuori, chiudo il frigorifero, recupero un cucchiaio da minestra e mi seggo per terra, la schiena appoggiata contro lo sportello del forno, e lo mangio direttamente dal vassoio, proprio come mangiavo la Nutella dal barattolo di nascosto col cucchiaino quando ero più piccolo.
Non ho ancora finito, ma mi sento già quasi pieno, quando la porta della cucina si apre. I piedi nudi che vedo spuntare da sotto il tavolo, le gambe lunghe e magre scoperte, sono quelle di Salvo. Lo osservo chiudere la porta con un sospiro e poi avvicinarsi a me. Mi guarda severamente dall’alto per un paio di secondi, ed io aggrotto le sopracciglia, infastidito.
- Non ti fa bene mangiare a quest’ora. – dice. Io scrollo le spalle.
- Avevo fame. – rispondo.
Lui sospira ancora, si passa una mano fra i capelli tutti arruffati e poi si siede per terra accanto a me, appoggiando la testa indietro e fissando il soffitto con aria persa per qualche secondo, prima di parlare ancora.
- So di averti rovinato la vita—
- Diosanto, ma non puoi smetterla per cinque minuti della tua esistenza di fare il santo martire? – sbotto spazientito, alzandomi in piedi e posando il vassoio sul tavolo, - Ma poi perché devi dire queste stronzate? Non ti sopporto.
Salvo inspira ed espira rumorosamente, senza muoversi, eccezion fatta per il capo che si solleva appena, seguendo il mio movimento.
- Non sai nemmeno cosa stavo per dire. – mi fa notare.
- Non ho bisogno di sentirtelo dire, - scrollo le spalle io, - Tanto è sempre la stessa merda. Che ti dispiace, che sai che è tutta colpa tua, che non avresti mai dovuto toccarmi, che vorresti che esistesse un modo per cancellarlo dalla mia memoria e fingere che non sia mai accaduto niente fra noi. Odio sentirtelo dire, non hai mai capito un cazzo di me ed ogni volta che me lo ripeti è sempre più evidente. – trattengo il respiro, mordendomi un labbro. – Se mi conoscessi— se solo mi volessi un po’ di bene, sapresti che queste sono le ultime cose che vorrei mai sentire da te.
I suoi occhi mi guardano freddamente per qualche istante. Nel buio della notte sono senza colore, senza luce, quasi senza espressione. Di nuovo, lo sento così lontano da me che quasi anche il legame del sangue non conta più niente. Questo sconosciuto potrebbe essere chiunque. Di certo non è mio fratello.
- Le dico proprio perché ti conosco, invece. – insiste lui, - E perché ti amo. E vorrei solo che tu fossi felice.
- E con te non posso esserlo. – concludo con un ghigno amaro, guardando altrove.
- Esatto. – annuisce lui, alzandosi finalmente in piedi e cercando nuovamente i miei occhi coi suoi. Glieli concedo riluttante, sento sottopelle che siamo già cominciando a lasciarci, che qualsiasi cosa sia esistita fra noi negli ultimi tre anni sta già cominciando a finire, ma non voglio lasciarla andare. Sospetto che, in questo istante, ancora non voglia nemmeno lui. – Non lo capisci? – mi chiede, la voce soffice, una mano che mi sfiora una guancia, - Dimmi tu che futuro potremmo mai avere, io e te.
- Lo vedi che non capisci? – sospiro, abbassando lo sguardo, - Non me ne frega niente.
Per la prima volta nella mia vita, spero che vada via senza baciarmi. C’è la tua donna di là, penso, nel cazzo di lettone. Va’ da lei. Ma sento la presa delle sue dita farsi più solida attorno al mio mento, e so che mi bacerà ancora, e nel momento in cui lo capisco, lo voglio. Sollevo il viso, aspetto che accada.
È amaro e triste, nonostante il tiramisù, ma siamo noi – di notte, di nascosto – ed è sempre bellissimo.
*
Per Natale, Serena mi ha regalato il DVD di Celebration Day. Non so bene come prendere questa cosa. Da un lato è improbabile che Serena possa avere intuito tutta da sola che mi piacciono i Led Zeppelin, ed il pensiero che sia stato Salvo a suggerirle di prendermelo per farmi piacere è tenero. Dall’altro, il pensiero che lui gliel’abbia suggerito in un estremo tentativo di farmela risultare simpatica è profondamente irritante.
Mentre mi rigiro fra le mani il DVD ancora avvolto nella plastica, osservandolo con aria devota, mio malgrado già pregustando l’esatto istante in cui questa casa sarà finalmente tornata alla sua usuale routine e io potrò prendere possesso del divano in salotto e piazzarmi di fronte alla tv a guardare e riguarda questo concerto in adorazione mistica per le successive ventiquattro ore, Serena mi sorride e mi dice che i Led Zeppelin sono anche il suo gruppo preferito. Non so se sia sincera o meno, però penso di sfuggita che mi urta il pensiero che se non fosse la ragazza – la fidanzata – di mio fratello, probabilmente la troverei perfino sopportabile, come persona.
Salvo, invece, boh. Salvo è un po’, boh, un casino. Quand’era ragazzo era molto più simpatico, molto più libero, credo, o forse sono io che ne ho ricordi molto vaghi perché allora ero solo un bambino, perché è in quegli anni che è nato il germoglio di quella che poi sarebbe diventata la nostra comune ossessione, e quando le storie d’amore cominciano a farsi pesanti uno tende sempre, credo, a ricordare il momento in cui sono nate con molta tenerezza. E ti dici “lui era una persona diversa, quando mi sono innamorato”.
Credo che quello che è successo fra noi abbia cambiato mio fratello più di quanto entrambi non credessimo possibile. Credo che abbia cambiato anche me, ma me ne accorgo meno, perché l’ho visto dall’interno e non sarei in grado di fare un paragone. Mentre ricordo perfettamente che salvo a diciassette, diciotto, diciannove anni, era un ragazzo allegro, che sorrideva un casino, che stava le ore in camera sua a cantare ad alta voce vecchie canzoni degli U2 anche se era stonato come una campana. Era un ragazzo che usciva la sera e tornava tardi ma si svegliava presto al mattino, uno che andava a scuola, poi non entrava ed andava alle manifestazioni coi suoi amici, uno figo, a suo modo, uno che indossava i pantaloni larghi e le magliette oversize e i jeans strappati sulle ginocchia, che mamma gli urlava per il corridoio “mettiti una cintura, ti cadono i pantaloni, ti si vedono le mutande!” e lui le urlava “devono stare così, mamma, e non rompere!”, e quando io gli dicevo che volevo vestirmi uguale a lui, lui si metteva lì e, ridendo, mi tirava giù i jeans sui fianchi paffuti da bambino, e quando il cavallo mi arrivava alle ginocchia, e lui diceva “ecco fatto!”, anche se non potevo più muovermi senza inciampare, io ero felice.
Ecco— ero felice, e lo era anche lui. Poi mio fratello col tempo è cambiato, ed io credo che sia stata l’infelicità a cambiarlo.
Adesso, mio fratello è un uomo nervoso. È un uomo che sorride ancora, ma che ha occhi scuri sempre preoccupati – o almeno, li ha sempre quando vede me. È un uomo che non può più stare nella stessa stanza con suo fratello senza mettergli le mani addosso, e senza sentirsi poi in colpa per averlo fatto. È un uomo che si è laureato in scienze politiche senza neanche volerlo, afferrando la prima facoltà che gli fosse capitata sottomano a Roma pur di trasferirsi lontano da qui. È un uomo che finalmente sei mesi fa è stato assunto nella pubblica amministrazione – un “impiegato del comune”, per qualsiasi palermitano anziano come mio padre il massimo grado di posto fisso esistente al mondo, avreste dovuto vedere la sua faccia, le sue virili lacrime d’amore paterno quando Salvo gliel’ha detto, non si sarebbe commosso a quel modo neanche se gli fosse arrivata la notizia dell’imminente arrivo di un nipote insperato per anni – dopo anni e anni di lavori saltuari a tempo determinato, e che la prima cosa che ha pensato di fare nel momento in cui si è trovato uno stipendio puntualmente in arrivo ogni mese sul suo conto in banca è stata sposarsi con una ragazza che ancora va all’università e che l’ha avuto solo a metà – perché l’altra metà è stata mia, sarà sempre mia – per un paio d’anni e uno sputo di mesi.
È la stessa persona, quest’uomo triste e ansioso, quest’uomo spaventato dalla sua stessa ombra, quest’uomo debole e fragile e incapace di amarmi e incapace anche di lasciarmi andare, è la stessa persona di cui mi sono innamorato quando ero un ragazzino ancora più stupido di quanto sono adesso, e guardando in alto, verso di lui, vedevo la persona più bella che avessi mai conosciuto nella mia intera vita?
È una consapevolezza improvvisa e spaventosa che mi colpisce in modo violento mentre sto seduto su questo stupido tappeto, avvolto nel mio stupido pigiama invernale coi fiocchi di neve – non dormo mai col pigiama, neanche quando fa così freddo, ma mamma ha insistito perché indossassimo tutti “i pigiami buoni”, anche se alla fine Serena si è presentata indossando una vecchia maglietta sgualcita dei Ramones e un paio di pantaloni larghi rosa a righe, e ridendo divertita, osservandoci tutti eleganti come fossimo stati invitati ad un pigiama party a Buckingham Palace, ci ha fatto notare che avremmo dovuto avvertirla che sarebbe stata una mattina di gala, avrebbe portato il pigiama in lana merinos coi pizzi sugli orli; mamma si è sentita molto in imbarazzo, io mi sono concesso il primo sorriso (sarcastico, ma pur sempre un sorriso) in giorni – e mi rigiro fra le mani questo stupido DVD mentre la stupida ragazza del mio stupido fratello mangia i biscotti e beve latte bianco dal bicchiere e fa i complimenti a mamma e la ringrazia calorosamente quando, scartato il suo pacco, si ritrova fra le mani un paio di orecchini orrendi di cui spero non pensi ciò che dice, e che spero non indosserà mai.
Mi colpisce all’improvviso e, nel momento in cui lo so, non posso più far finta di non saperlo. Se Salvo e Serena fossero due sconosciuti, se li incontrassi oggi, a mente libera, senza sapere minimamente chi sono, probabilmente troverei Serena deliziosa, e Salvo insopportabile. Probabilmente uscirei con lei, e non vorrei mai più incontrare lui per tutto il resto della mia vita.
Se Salvo non fosse mio fratello, probabilmente non sarei innamorato di lui.
Non so bene cosa farmene, di questa cosa che adesso so ma che avrei preferito non sapere. Suppongo dica qualcosa di tremendo e spaventoso su di me, su di noi. Non lo so con certezza perché non ho metri di paragone, non sono mai stato innamorato di nessun altro.
Non lo so. Resto seduto, col mio regalo fra le mani, mi guardo attorno e mi sembra di vedere tutto con occhi diversi. È surreale, straniante, un po’ spaventoso.
Salvo sta seduto sul divano, Serena è seduta per terra, fra le sue gambe, e lui le appoggia le mani sulle spalle, ridendo allegro. È molto più bello quando sta con lei, rispetto a quando sta con me. I lineamenti del suo volto sono più rilassati e, be’, sorride più sinceramente. Le loro interazioni hanno un che di lieve, non c’è passione bruciante, o almeno, io non la vedo, ma forse per lui è meglio così. Forse funziona, per lui. Funziona meglio in questo modo.
- Va bene, ora apri questo, Simo. – mi dice mamma, porgendomi una busta di plastica azzurra. Dentro c’è un pacchetto avvolto in carta dorata con una stampa di rubicondi e sorridenti Babbi Natale. Nella calligrafia allungata di Salvo c’è scritto il mio nome in un angolo.
Tiro fuori il pacco dalla busta e lo osservo con attenzione, rigirandomelo fra le mani. È leggero. Lo scuoto, e mio fratello ride.
- Attento che si rompe. – mi avverte.
Faccio una smorfia e lo apro, dentro c’è una cornice spessa, in plexiglass, col retro laminato in argento. Dentro c’è una nostra foto, è piuttosto recente. Siamo al mare insieme, sarà stato un paio d’anni fa, all’incirca l’ultima volta che sono stato al mare con qualcuno. Ho la faccia imbronciata e lui mi sta scompigliando i capelli, e ride come un cretino. Inarco un sopracciglio, lanciandogli un’occhiataccia.
- Tutto qui? – borbotto, ma non lo penso veramente, e sto già spostando mentalmente libri e fumetti dalle mensole in camera mia per trovarle uno spazio.
Lui mi sorride enigmatico. Mi aspetto che dica “buon Natale”, ma non lo fa, e la cosa mi lascia una certa sensazione di incompiutezza che mi si allarga dentro come una macchia.
*
Più tardi, papà sta approfittando del letto libero per farsi un riposino e stendere la schiena su un materasso vero invece che sui cuscini del divano, e mamma è tutta presa a mostrare a Serena il baule del corredo, questo residuato dell’anteguerra pieno di coperte e lenzuola e tovaglie ed asciugamani tutti pizzi e merletti che passeranno a lei nel momento in cui si sposerà, così che anche lei possa non usarli mai come mai li ha usati mia madre in tutta la sua vita, e poi passarli a sua figlia o a sua nuora quando sarà il momento, così che anche loro possano continuare a non usarli per tutto il resto della loro esistenza.
Salvo e Serena ripartono insieme col notturno delle nove e dieci. Stasera ceneremo presto, e poi mamma e papà insisteranno per portarli in stazione in macchina, e ci riusciranno nonostante le proteste di Salvo, così come sono riusciti a pagare i suoi biglietti nonostante il suo iniziale, risoluto rifiuto. Alla fine, Salvo cederà, perché odia insistere ed odia litigare – esattamente i due motivi per cui finisce per cedere sempre anche con me –, ed io, che non li accompagnerò in stazione con i miei, lo saluterò sulla porta con un mezzo abbraccio veloce e un distratto bacio sulla guancia, con la sensazione di non poterlo rivedere mai più che mi apre voragini nello stomaco, come ogni volta. Poi so che ci rivedremo, ma sul momento non importa, ogni saluto sembra l’ultimo, ed ogni saluto mi devasta.
Ma adesso quel momento è ancora lontano, adesso sono le tre ed abbiamo appena finito di pranzare, e mentre papà dorme e mamma istruisce Serena sul sacro mistero del corredo nuziale – qualcosa di cui, apparentemente, Serena non aveva mai sentito parlare prima – io e Salvo stiamo seduti sul divano, e giochiamo alla Play.
- Non hai aperto la foto, vero? – mi domanda lui, come al solito battendomi senza speranza a Tekken 6.
Mi volto a guardarlo mentre Jin va giù con un grido, e inarco un sopracciglio.
- Perché avrei dovuto? – domando. Lui non risponde. Sorride, ed io mollo il joystick e corro in camera mia.
Ho sistemato la foto sul mio comodino, provvisoriamente. Non la terrò lì perché sarebbe ridicolo, troppo melenso perfino per l’adolescente in fondo ridicolmente romantico che sono. Più tardi, quando Salvo sarà andato via ed io dovrò cominciare a trovare un modo per riempire i vuoti della sua assenza, mi metterò a sistemare la mensola bassa sopra la mia scrivania, e sarà lì che la sposterò.
Ma per ora è lì, sul mio comodino, e sembra la foto di due fratelli qualunque. Due fratelli qualunque. Una frase che non mi dà pace.
Ruoto i pioli che tengono chiusa la cornice e il retro laminato in argento scivola via docilmente. Mentre i miei occhi si posano su una fotografia delle stesse dimensioni dell’altra, ma nascosta sul retro, sento la porta chiudersi alle mie spalle, e mi metto a piangere.
Non ricordo quando sia stata scattata questa fotografia. Non ricordo neanche dove fossimo, e non ci sono indizi, nella foto, che possano servire ad aiutarmi, perché è un primissimo piano di noi due. Siamo solo io e lui, da qualche parte nello spazio e nel tempo, che ci baciamo.
Io dovevo essere felice, perché sulle mie labbra, premute con forza contro quelle di Salvo, aleggia un piccolo sorriso. E la foto deve averla scattata uno di noi due, alla cieca, forse dal cellulare, perché la qualità non è proprio il massimo e l’inquadratura è un po’ storta. Credo di non aver mai visto niente di più imbarazzante, ridicolo, zuccheroso e bello tutto insieme.
- Quando parliamo, combino sempre un casino, perché tu non mi lasci mai finire, ed io non sono capace di spiegarmi. – dice Salvo, lo sento avvicinarsi lentamente, quasi con circospezione, - Quindi, stavolta non interrompermi, per favore.
Resta in silenzio ed aspetta che io mi sia voltato a guardarlo e, con queste lacrime ridicole che ancora mi rotolano senza freni giù per le guance, abbia annuito velocemente.
Lui annuisce a propria volta e poi inspira profondamente, come si preparasse a trattenere il respiro in vista di un’apnea prolungata.
- Okay, io ti amo alla follia, - dice quindi, annuendo a se stesso ed anche a me, - Se solo ti sei permesso di pensare che non fosse così mezza volta da quando è cominciato tutto, sei uno stronzo e ti detesto, e non ti perdonerò mai. – scuoto il capo con vigore, velocemente, più e più volte. Mi finiscono i capelli negli occhi, che ora bruciano più di prima, e finisco per piangere più forte. Lui sorride indulgente e mi accarezza una guancia bagnata. – Però non importa. – dice quindi, - Perché sai anche tu che per quanto amore possa esserci fra noi, non potremo mai avere un futuro insieme. E credimi quando ti dico che mi si spezza il cuore ogni volta che ci penso. – aggiunge, la voce che s’incrina appena, anche se il suo sorriso resta incrollabilmente sereno e sicuro. – Ma è così. E Simo, io non riuscirei a vivere col pensiero di averti rovinato la vita per questo. Non voglio che resti solo. Non voglio restare solo nemmeno io. – sospira, passandosi una mano fra i capelli e guardando altrove. – Non sono innamorato di Serena, ma le voglio bene. Io e lei ci capiamo, andiamo d’accordo, siamo simili in molte cose e credo che potremmo avere una vita serena, insieme. Lei non è te, ma io non voglio che sia te. Non voglio avere con nessun altro quello che ho con te, Simo, lo capisci questo? – mi chiede, tornando a guardarmi. Io annuisco in fretta. – Bene. – annuisce anche lui, e poi sospira ancora, e guarda la foto che stringo convulsamente fra le mani. Il suo sorriso si addolcisce, mentre sfiora le mie dita con le sue. – Non la sgualcire. – sussurra, ed io allento subito la presa. – Quello che sto cercando di dirti, Simo— Io non voglio cancellarti dalla mia esistenza, e non voglio neanche smettere di vederti, e non posso giurarti che la prossima volta che ti vedrò ti starò sicuramente alla larga, perché— perché non posso farlo. Non so se ne ho la forza, in questo momento non so neanche se lo voglio davvero. Sto provando a seguire una strada, credo che sia quella giusta, ma chi lo sa se è vero? Io no di certo. Ma io e te, - la sua mano si posa sopra la mia, sopra la foto di noi due insieme, - Questa è una cosa che resterà dentro di noi per sempre, e se dovremo farcela bastare ce la faremo bastare. Va bene?
Mi sfugge dalle labbra un lamento affaticato perché giuro, giuro, ho cercato di trattenere i singhiozzi fino ad adesso, ma ora basta. Stringo la foto al petto e poi mi appoggio a lui, chiudendo gli occhi e piangendo rumorosamente. Lui ride piano, passandomi le dita fra i capelli e sussurrandomi rassicurazioni stupide a casaccio all’orecchio mentre mi dondola piano, destra e sinistra, destra e sinistra, “come facevo quand’eri piccolo, lo sai che piangevi un casino quand’eri piccolo? Proprio come stai piangendo adesso, piattola che non sei altro”, e faccio un casino tale che dopo qualche istante papà apre la porta e si affaccia per dare un’occhiata, gli occhi ancora pesanti di sonno.
- Che fu? – domanda, sbattendo le ciglia, evidentemente confuso.
- Niente, pa’, - Salvo sorride, agitando una mano per dirgli di andarsene, - Ci stavamo salutando e le cose ci sono sfuggite di mano. – spiega con una mezza risata, mentre io continuo a singhiozzare come un perfetto imbecille, incapace di fermarmi.
Papà si fa bastare la spiegazione, e se ne torna a letto. Salvo aspetta che io mi sia calmato, poi mi solleva il mento con due dita e mi bacia piano.
- Quando vado via, non venire a salutarmi sulla porta. – mi dice, - Facciamo che ci salutiamo adesso.
Capisco cosa intende ed annuisco, chiudendo gli occhi e sollevandomi un po’ per baciarlo come davanti agli altri non potrei mai fare.
*
Salvo e Serena sono andati via venti minuti fa. Io non li ho visti farlo, sono rimasto in camera mia a fingere di dormire per tutto il tempo, e Salvo mi ha dato una mano dicendo che dopo aver pianto ero così stanco che mi sono addormentato di botto, come quando ero piccolo. Li ho ascoltati parlare, attraverso le pareti di cartapesta dell’appartamento, e mamma ha riso di cuore, nel sentirglielo dire. “Voi due non ci potete stare troppo a lungo litigati,” ha sentenziato con voce esperta, “Vi volete troppo bene.”
Ora che sono rimasto solo in casa, posso permettermi di accendere la luce e vagolare un po’ in giro per la mia stanza. La mensola sopra la scrivania è ingombra di roba – action figure a basso costo, fumetti, il vecchio coniglio azzurro di peluche con cui dormivo quand’ero piccolo. Non voglio togliere niente di questa roba da qui, però non posso mica lasciare quella foto sul comodino. Sarebbe ridicolo. È troppo melenso.
Lancio un’occhiata alla mensola carica, poi ne lancio un’altra alla foto, sospiro. In fin dei conti, il comodino è vuoto. Non c’è niente, a parte la lampada e il terzo volume di ASoIaF che palesemente non riuscirò mai a finire. Forse la foto può rimanere lì. Solo per un po’, temporaneamente, finché non le trovo un altro posto, un posto migliore. Per ora può restare lì, credo. Ma sì. Non ci sta neanche male.
back to poly

Vuoi commentare? »





ALLOWED TAGS
^bold text^bold text
_italic text_italic text
%struck text%struck text



Nota: Devi visualizzare l'anteprima del tuo commento prima di poterlo inviare. Note: You have to preview your comment (Anteprima) before sending it (Invia).